Copertina
Autore Susan Sontag
Titolo Nello stesso tempo
SottotitoloSaggi di letteratura e politica
EdizioneMondadori, Milano, 2008, Saggi , pag. 200, cop.ril.sov., dim. 15x22,5x2,5 cm , Isbn 978-88-04-57428-6
OriginaleAt the Same Time [2008]
CuratorePaolo Dilonardo, Anne Jump
PrefazioneDavid Rieff
TraduttorePaolo Dilonardo
LettoreRenato di Stefano, 2008
Classe critica letteraria , critica d'arte , politica , fotografia
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Indice


VII Prefazione
    di Paolo Dilonardo e Anne Jump

 XI Introduzione
    di David Rieff

  3 Ipotesi sulla bellezza
 12 1926... Pasternak, Cvetaeva, Rilke
 18 Amando Dostoevskij
 32 Un doppio destino: su Artemisia di Anna Banti
 48 Il caso Victor Serge
 74 Da un Paese lontano: su Sotto il ghiacciaio di Halldór Laxness
 85 11.9.01
 88 Qualche settimana dopo
 96 Un anno dopo
101 Fotografia: una breve summa
104 Davanti alla tortura degli altri
117 La coscienza delle parole
126 Tradurre letteratura
147 Su coraggio e resistenza
157 La letteratura è libertà
173 Nello stesso tempo: il romanziere e la riflessione morale

191 Nota bibliografica
195 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 85

11.9.01



A un'americana, e newyorkese, come me, triste e sgomenta, l'America non è mai apparsa così lontana dal riconoscere la realtà come quando si è trovata di fronte alla mostruosa dose di realtà di martedì scorso. La sconnessione tra quel che è successo e i possibili modi di comprenderlo, da un lato, e le sciocchezze ipocrite, le falsità belle e buone che, dall'altro, vengono spacciate in America da quasi tutti i politici (un'eccezione: il sindaco Giuliani) e i commentatori televisivi (un'eccezione: Peter Jennings) è allarmante, deprimente. Sembra che le voci autorizzate a seguire un evento di tale portata si siano coalizzate in una campagna mirata a infantilizzare il pubblico. Dov'è chi riconosce che non si è trattato di un «vile» attacco alla «civiltà», o alla «libertà», o all'«umanità», o al «mondo libero», ma di un attacco all'autoproclamata superpotenza del mondo, sferrato in conseguenza di specifiche azioni e alleanze americane? Quanti americani sanno che l'America continua ancora a bombardare l'Iraq? E se la parola «vile» va proprio usata, forse sarebbe più pertinente riferirla a chi uccide dall'alto del cielo, al di fuori del raggio di possibili reazioni, piuttosto che a chi è pronto a morire per uccidere gli altri. Quanto al coraggio (una virtù moralmente neutra), qualunque cosa si possa dire di coloro che hanno perpetrato la carneficina di martedì, non erano vili.

I leader americani sono decisi a convincerci che tutto è ok. L'America non ha paura. «Loro» saranno stanati e puniti (chiunque siano questi «loro»). Abbiamo un presidente robot, pronto ad assicurarci che l'America resta ancora a testa alta. E, a quanto pare, le varie e numerose personalità pubbliche che si sono opposte con forza alle politiche estere adottate da questa amministrazione si sentono libere soltanto di dirsi unite nel sostenere il presidente Bush. I commentatori ci informano che i centri di gestione del dolore sono attivi. Naturalmente, non ci vengono mostrate le terribili immagini di ciò che è accaduto a chi lavorava nel World Trade Center e al Pentagono. Potrebbero demoralizzarci. Si è dovuto attendere fino a giovedì perché i nostri amministratori (ancora una volta, con l'eccezione del sindaco Giuliani) avessero il coraggio di offrire una stima del numero di vite perdute.

Ci è stato detto che tutto è, o sarà, ok, anche se si è trattato di un giorno la cui infamia resterà viva e adesso l'America è in guerra. Non ,è vero che tutto è ok. E non si è trattato di una Pearl Harbor. È necessario riflettere a fondo, e forse lo si sta facendo a Washington e altrove, sulla colossale inefficienza del sistema di intelligence e controintelligence americano, sulle opzioni possibili alla politica estera americana, soprattutto in Medio Oriente, e su ciò che costituisce un efficace programma di difesa militare. Ma chi ricopre cariche pubbliche, chi vi aspira, chi le ha già ricoperte - con la spontanea complicità dei principali mezzi di comunicazione - ha stabilito che non si può chiedere al pubblico di sopportare troppo il peso della realtà. Le ovvietà autocelebratorie e unanimemente applaudite dei congressi di partito sovietici ci sembravano spregevoli. L'unanimità dell'untuosa retorica di cancellazione della realtà che quasi tutti i politici e i commentatori americani hanno profuso in questi ultimi giorni sembra, be', indegna di una democrazia matura.

I nostri leader ci hanno fatto capire che considerano il proprio compito pubblico un compito di manipolazione: di costruzione della fiducia e gestione del dolore. La politica, la politica di una democrazia - che comporta il disaccordo, che promuove la sincerità - è stata sostituita dalla psicoterapia. Certo, piangiamo tutti insieme. Ma cerchiamo di non essere stupidi tutti insieme. Qualche brandello di consapevolezza storica potrebbe aiutarci a capire cosa è appena successo, e cosa può ancora succedere. «Il nostro paese è forte», ci viene ripetuto continuamente. Io, per parte mia, non la trovo un'affermazione del tutto consolatoria. Chi dubita del fatto che l'America è forte? Ma l'America ha il dovere di non essere soltanto questo.

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Pagina 96

Un anno dopo



Dall'attacco dello scorso 11 settembre, ha detto l'amministrazione Bush al popolo americano, l'America è in guerra. Ma la natura di questa guerra è alquanto singolare. Tenuto conto delle caratteristiche del nemico, sembra una guerra di cui è impossibile prevedere una fine. Che guerra è una guerra del genere?

Esistono dei precedenti. Infinite sono considerate, infatti, le guerre recentemente dichiarate a nemici come il cancro, la povertà e la droga.

Come tutti sanno, cancro, povertà e droga esisteranno sempre. Esisteranno sempre terroristi spregevoli, terroristi responsabili di omicidi di massa, come quelli colpevoli dell'attentato dello scorso 11 settembre, e ci sarà sempre chi lotta per la libertà e che, pur essendo definito in un primo tempo terrorista (così vennero considerati la Resistenza francese dal governo di Vichy, e l'ANC e Nelson Mandela dal governo segregazionista del Sudafrica), riceve in seguito una diversa etichetta dalla storia.

Naturalmente sappiamo che, quando un presidente dichiara guerra al cancro, alla povertà o alla droga, quella «guerra» è una metafora. Nessuno crede che questa guerra - la guerra che l'America ha dichiarato al terrorismo - sia una metafora. Ma così è, e si tratta di una metafora dalle fortissime implicazioni. La guerra è stata decretata, non realmente dichiarata, perché si è ritenuto che la minaccia fosse evidente di per sé.

Le guerre vere non sono metafore. E le guerre vere hanno un inizio e una fine. Anche l'orrendo e ingestibile conflitto tra Israele e Palestina un giorno finirà. Ma la guerra decretata dall'amministrazione Bush non avrà mai fine. E ciò prova che non si tratta di una guerra, quanto, piuttosto, di un mandato senza limiti temporali che consente all'America di fare un più largo uso della propria forza.

Nel dichiarare guerra al cancro, alla povertà o alla droga, un governo chiede la mobilitazione di nuove forze per affrontare un problema. Ma, come tutti sanno, ciò significa che non s'impegnerà poi troppo per risolverlo. Dichiarare guerra al terrorismo - e cioè a una rete di nemici multinazionale e perlopiù clandestina - significa per un governo poter fare quel che vuole. Ovunque vorrà intervenire, sarà libero di farlo. Non tollererà alcun limite alla sua potenza.

La diffidenza degli americani a impelagarsi in alleanze internazionali risale molto indietro nel tempo. Ma, assumendo una posizione radicale, l'attuale amministrazione considera tutti i trattati internazionali come potenzialmente sfavorevoli agli interessi degli Stati Uniti - dal momento che sottoscrivendo un qualsiasi trattato (che regoli questioni relative all'ambiente, o alla conduzione della guerra e al trattamento dei prigionieri, o all'istituzione di un tribunale internazionale) gli Stati Uniti si impegnerebbero a rispettare convenzioni a cui un giorno si potrebbe fare appello per limitare la libertà del governo americano di fare ciò che ritiene sia nell'interesse della nazione. Ma un trattato è proprio questo. È un limite al diritto dei firmatari a esercitare una completa libertà di azione sulle questioni che esso regola. Fino a oggi nessuno Stato-nazione rispettabile aveva mai dichiarato di vedere in ciò un motivo valido per rifiutarsi di firmare un trattato.

Descrivere la nuova politica estera americana come una serie di azioni intraprese in tempo di guerra è, ovviamente, un mezzo molto efficace per disincentivare un diffuso dibattito su quanto sta realmente accadendo. La riluttanza a dibattere e a discutere si era già manifestata nei giorni immediatamente successivi agli attentati dell'11 settembre scorso. Chi, in quei giorni, si oppose alla retorica da jihad utilizzata dal governo americano (bene contro male, civiltà contro barbarie) fu accusato di giustificare gli attentati, o quanto meno la legittimità delle rimostranze a essi sottese.

All'insegna dello slogan «Uniti resistiamo», l'invito alla riflessione venne equiparato al dissenso, e il dissenso alla mancanza di patriottismo. L'indignazione ha fatto comodo ai responsabili della politica estera dell'amministrazione Bush. Difatti, il rifiuto di un reale dibattito da parte dei principali esponenti di entrambi i partiti continua a essere evidente anche in questi giorni che precedono le cerimonie commemorative dell'anniversario degli attentati, considerate un momento essenziale per poter continuare ad affermare la coesione degli americani contro il nemico.

Il paragone tra l'11 settembre 2001 e il 7 dicembre 1941 si è sempre dato per scontato. Ancora una volta, l'America è stata oggetto di un letale attacco a sorpresa in cui il numero dei civili che hanno perso la vita è maggiore di quello dei soldati e dei marinai morti a Pearl Harbor. Dubito, tuttavia, che il 7 dicembre 1942 si avvertisse la necessità di grandi cerimonie commemorative nazionali per tenere alto il morale e unire il Paese. Quella era una guerra vera, e a un anno dall'attacco era ancora in pieno corso.

Questa invece è una guerra fantasma, una guerra che l'amministrazione Bush può gestire a suo piacimento, e che perciò ha bisogno di un anniversario. Tale anniversario risponde a una serie di scopi. Sarà un giorno di cordoglio. Sarà un'affermazione di solidarietà nazionale. Ma di una cosa possiamo stare certi. Non sarà un giorno di riflessione nazionale. La riflessione, e stato detto, potrebbe mettere a repentaglio la nostra «lucidità morale». È necessario essere semplici, chiari, uniti. Di conseguenza, non ci saranno parole. O, meglio, ci saranno parole prese in prestito, come quelle del discorso di Gettysburg (già fatto proprio da entrambi i partiti politici), parole di un'epoca remota in cui la grande retorica era ancora possibile. I grandi discorsi di Lincoln, tuttavia, non erano fatti solo di parole ispiratrici. Erano coraggiose dichiarazioni dei nuovi traguardi che la nazione si dava al tempo di una guerra reale e terribile. Il secondo discorso inaugurale osava annunciare la necessaria riconciliazione tra Nord e Sud che doveva seguire alla vittoria del Nord nella Guerra Civile. Il discorso di Gettysburg, evocando i più nobili ideali su cui si fonda l'America, sanciva l'assoluta priorità dell'impegno a porre fine alla schiavitù. Ma quando sono citati e riciclati per le cerimonie commemorative dell'11 settembre, i grandi discorsi di Lincoln vengono, in modo davvero post-moderno, completamente svuotati di significato. Ormai rappresentano soltanto gesti di nobiltà, di magnanimità. Le ragioni della loro grandezza sono del tutto irrilevanti.

Il sospetto nutrito contro il pensiero e le parole rientra a pieno nella grande tradizione dell'anti-intellettualismo americano. E serve bene agli scopi dell'attuale amministrazione. Nascondendosi dietro la fandonia che l'attacco dello scorso 11 settembre è stato troppo orribile, devastante, doloroso e tragico per delle parole, che le parole non potrebbero in alcun modo rendere giustizia al dolore e all'indignazione, i nostri leader hanno trovato una scusa perfetta per ammantarsi di parole prese in prestito e svuotate di ogni contenuto. Dire qualcosa potrebbe suscitare controversie. Si potrebbe incappare in una dichiarazione di qualche genere, e perciò sollecitare una replica. Meglio non dire nulla.

Naturalmente, ci saranno immagini. Moltissime immagini. Così come le vecchie parole, anche le immagini di un anno fa saranno riciclate. Un'immagine, come tutti sanno, vale mille parole. Rivivremo l'evento. Ci saranno interviste ai sopravvissuti e ai familiari di chi è morto durante gli attentati. Gli amministratori municipali leggeranno ad alta voce i nomi di coloro che sono morti nelle Torri Gemelle - una versione orale del più ammirato monumento commemorativo degli Stati Uniti, lo schermo interattivo di pietra nera, progettato da Maya Lin per Washington, su cui sono incisi (perché li si possa leggere, perché li si possa toccare) i nomi di tutti gli americani morti in Vietnam. Si ricorrerà ad altri trucchi di magia linguistica, come la decisione da poco annunciata di ribattezzare Newark Liberty Airport l'aeroporto del New Jersey da cui decollò il volo United 93.

Voglio essere ancora più chiara. Non intendo mettere in dubbio l'esistenza di un nemico malvagio e ripugnante che osteggia gran parte delle cose a cui io tengo, come la democrazia, il pluralismo, il laicismo, l'assoluta uguaglianza tra i sessi, gli uomini senza barba, il ballo (di ogni genere), gli abiti succinti e, insomma, il divertimento. Neppure per un attimo metto in dubbio il dovere che ha il governo americano, come ogni altro governo, di proteggere la vita dei suoi cittadini. Quel che discuto è la pseudo-dichiarazione di una pseudo-guerra. Non c'è alcun bisogno di chiamare «guerra» queste azioni necessarie. Non ci sono guerre infinite. Ma ci sono dichiarazioni attraverso cui si estende il potere di uno Stato che crede di non poter essere messo in discussione.

L'America ha ogni diritto di dare la caccia ai responsabili degli attentati dell'11 settembre scorso e ai loro complici. Ma questa determinazione non è necessariamente una guerra. Un impegno militare all'estero, limitato e mirato, non implica il trovarsi in «tempo di guerra in patria». Per fermare i nemici dell'America ci sono modi molto più efficaci, modi che, per i diritti costituzionali e gli accordi internazionali volti a tutelare l'interesse pubblico, sono molto meno dannosi del continuo appellarsi all'idea pericolosa e lobotomizzante di una guerra infinita.

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Pagina 101

Fotografia: una breve summa



1. La fotografia è, innanzitutto, un modo di vedere. Non l'atto di farlo.

2. È il modo ineluttabilmente «moderno» di vedere, che privilegia progetti di scoperta e di innovazione.

3. Tale modo di vedere, che ha ormai una lunga storia, incide profondamente su ciò che siamo abituati a notare e a cercare nelle fotografie.

4. Il modo di vedere moderno consiste nel vedere per frammenti. Abbiamo l'impressione che la realtà sia sostanzialmente illimitata, e la possibilità di conoscenza infinita. Ne consegue che tutte le limitazioni, tutti i principi unificatori debbano essere ingannevoli, demagogici; nel migliore dei casi, provvisori e, a lungo andare, quasi sempre falsi. Vedere la realtà alla luce di determinati principi unificatori ha l'innegabile vantaggio di dare forma alla nostra esperienza. Ma allo stesso tempo -cosìci insegna il modo di vedere moderno - nega l'infinita varietà e la complessità del reale. E di conseguenza reprime la nostra energia, e il nostro diritto a ricostruire ciò che desideriamo ricostruire: la nostra società, le nostre identità. Liberatorio, ci viene detto, è osservare quanto più è possibile.

5. In una società moderna, le immagini prodotte dalle macchine fotografiche forniscono la principale via d'accesso a realtà di cui non abbiamo esperienza diretta. Si presuppone che ognuno di noi riceva e registri un numero illimitato di immagini di ciò che non vive in prima persona. L'apparecchio fotografico definisce per noi quel che accettiamo di considerare «reale» e sposta continuamente in avanti il confine del reale. Si ammirano in particolare quei fotografi che rivelano verità nascoste su se stessi o su quei conflitti sociali poco seguiti dai mezzi d'informazione che hanno luogo in società vicine o lontane da dove vive chi li osserva.

6. Nel modo moderno di conoscere, devono esserci immagini perché qualcosa diventi «reale». Le fotografie identificano gli eventi. Conferiscono importanza a un evento e lo rendono memorabile. Perché possa divenire oggetto di un largo interesse, una guerra, un'atrocità, un'epidemia, o una cosiddetta calamità naturale deve arrivare alla gente attraverso i vari sistemi (dalla televisione a internet ai giornali e alle riviste) che diffondono immagini fotografiche tra milioni di persone.

7. Nel modo moderno di vedere, la realtà è innanzitutto apparenza, e in continuo mutamento. Le fotografie registrano l'apparenza. La registrazione fotografica è registrazione del mutamento, della distruzione del passato. Essendo moderni (e se abbiamo l'abitudine di guardare fotografie siamo, per definizione, moderni), capiamo che ogni identità è una costruzione. L'unica realtà irrefutabile - e il migliore indizio per comprendere un'identità - è il modo in cui appariamo.

8. Una fotografia è un frammento, un barlume. Accumuliamo barlumi, frammenti. Ciascuno di noi immagazzina nella propria mente centinaia di immagini fotografiche che può ricordare all'istante. Tutte le fotografie aspirano a diventare memorabili, vale a dire, indimenticabili.

9. Nell'ottica della modernità, il numero dei dettagli è infinito. Le fotografie sono dettagli. Pertanto, assomigliano alla vita. Essere moderni significa vivere affascinati dalla indomita autonomia del dettaglio.

10. Conoscere significa, innanzitutto, riconoscere. Il riconoscimento è la forma di conoscenza che oggi viene identificata con l'arte. Le fotografie delle terribili crudeltà e ingiustizie che affliggono la maggior parte della popolazione mondiale sembrano dire - a noi che siamo privilegiati e relativamente al sicuro - che dovremmo indignarci e desiderare che si faccia qualcosa per mettere fine a tali orrori. Ma ci sono anche fotografie che sembrano reclamare un'attenzione di tipo diverso. Nel caso di questo corpus di opere che continua ad arricchirsi, la fotografia non è una forma di invito alla mobilitazione sociale o morale, il cui fine è quello di indurci a partecipare e ad agire, ma è un'avventura dello sguardo. Osserviamo, prendiamo nota, riconosciamo. È un modo più distaccato di guardare. È il modo di guardare a cui diamo il nome di arte.

11. L'opera di alcuni dei migliori fotografi socialmente impegnati viene spesso criticata se appare troppo simile all'arte. E la fotografia considerata come arte può attirare critiche analoghe: ottunde la nostra capacità di partecipazione. Mostrandoci eventi, situazioni e conflitti che potremmo deplorare, ci chiede di mantenere un certo distacco. Può mostrarci qualcosa di davvero orripilante, ma solo per metterci alla prova e stabilire cosa riusciamo a guardare, cosa dobbiamo accettare. O, più semplicemente, ci invita - e ciò vale per gran parte della più ammirata fotografia contemporanea - a contemplare la banalità. A contemplarla e ad apprezzarla, facendo ricorso a quell'abitudine all'ironia ormai così sviluppata e consolidata dalle surrealistiche giustapposizioni di fotografie che caratterizzano le mostre e i libri più sofisticati.

12. La fotografia - forma suprema di viaggio, di turismo - è il principale mezzo moderno per ampliare il mondo. In quanto forma d'arte, la fotografia tende ad ampliare il mondo specializzandosi in soggetti ritenuti provocatori, trasgressivi. La fotografia può dirci: esiste anche questo. E quello. E quell'altro. (E tutto è «umano».) Ma che fare di ciò che in tal modo conosciamo, se davvero si tratta di conoscenza, dell'identità, dell'anormalità, di mondi ostracizzati o clandestini?

13. Chiamatela conoscenza, chiamatelo riconoscimento - di una cosa possiamo stare certi rispetto a questo modo così moderno di fare qualsiasi esperienza: il vedere, e l'accumulazione dei frammenti di ciò che vediamo, non potrà mai avere fine.

14. Non esiste una fotografia definitiva.

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Pagina 112

L'idea che le scuse o le professioni di «disgusto» fatte dal presidente e dal segretario alla Difesa siano una risposta sufficiente è un'offesa al nostro senso storico e morale. La tortura dei prigionieri non è un'aberrazione. È la diretta conseguenza dell'ideologia che prevede uno scontro mondiale in cui si è con noi o contro di noi, un'ideologia attraverso la quale l'amministrazione Bush ha cercato di cambiare, e cambiare radicalmente, la posizione internazionale degli Stati Uniti e di ristrutturare numerose istituzioni interne. L'amministrazione Bush ha imposto al Paese di votarsi a un'idea pseudoreligiosa di guerra, di guerra infinita, poiché la «guerra al terrorismo» non è altro che questo. Ciò che è accaduto nel nuovo impero carcerario internazionale, gestito dalle forze militari statunitensi, va persino oltre le famigerate procedure adottate dai francesi nell'Isola del Diavolo o dai sovietici attraverso il sistema del Gulag. Nel caso della colonia penale francese, infatti, erano previsti processi e sentenze, mentre in quello dell'impero penitenziario russo si veniva quanto meno accusati di qualcosa e condannati a un determinato numero di anni. La guerra infinita serve a giustificare carcerazioni infinite. Coloro che, al di là di ogni legge, vengono incarcerati nell'impero penale americano sono considerati «detenuti», poiché la parola «prigionieri», da poco divenuta obsoleta, potrebbe suggerire che godono dei diritti garantiti dalle leggi internazionali e da quelle di ogni paese civile. Questa «guerra globale contro il terrore», in cui per decisione del Pentagono sono state riunite sia la giustificabile invasione dell'Afghanistan che la folle, e invincibile, guerra in Iraq, porta inevitabilmente alla demonizzazione e alla disumanizzazione di tutti coloro che il governo dichiara possibili terroristi: una decisione mai messa in discussione e, di solito, presa in segreto.

Poiché contro la maggior parte dei detenuti nelle prigioni in Iraq e in Afghanistan non ci sono accuse - il Comitato internazionale della Croce rossa riferisce che un numero compreso tra il settanta e il novanta per cento dei prigionieri sembra non aver commesso altro crimine che quello di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, quando sono stati catturati in una retata di «sospetti» - la giustificazione principale per trattenerli è la necessità di «interrogarli». Interrogarli su cosa? Su qualunque cosa. Qualsiasi cosa il detenuto possa sapere. Se l'interrogatorio giustifica la detenzione indefinita, diventano inevitabili la coercizione fisica, l'umiliazione e la tortura. Ed è forse il caso di ricordare che non ci troviamo in una di quelle rarissime situazioni esplosive, indicate talvolta come caso limite per giustificare la tortura di prigionieri che abbiano informazioni relative a un attacco imminente. In questo caso si tratta di una raccolta di informazioni generiche o non specifiche, autorizzata dalle forze armate e dagli amministratori civili americani, che possa servire a conoscere meglio un impero malvagio di cui gli americani non sanno praticamente nulla, effettuata in Paesi rispetto ai quali sono estremamente ignoranti. In linea di principio, qualunque informazione potrebbe essere utile. Un interrogatorio che non producesse alcuna informazione (qualunque cosa possa costituire informazione) sarebbe considerato un fallimento. Un'ulteriore giustificazione per preparare i prigionieri a parlare. Ammorbidire i prigionieri, stressarli un po' - sono questi gli eufemismi solitamente utilizzati per le pratiche bestiali che imperversano nelle prigioni americane in cui sono detenuti i sospetti terroristi. Ma, a quanto pare, non pochi prigionieri vengono stressati un po' troppo e, sfortunatamente, muoiono.

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Pagina 117

La coscienza delle parole
Discorso di accettazione del Premio Gerusalemme



Ci preoccupiamo delle parole, noi scrittori. Le parole significano. Le parole indicano. Sono frecce. Frecce conficcate nella ruvida pelle della realtà. E più sono astratte e imponenti, più finiscono per assomigliare a stanze o a gallerie. Possono espandersi o franare. Possono riempirsi di cattivi odori. Spesso ci fanno ripensare ad altre stanze, in cui ci piacerebbe vivere o ci sembra di vivere già. Possono diventare spazi inabitabili perché perdiamo l'arte o la saggezza necessaria per viverci. E alla fine quelle cubature di intenzioni mentali che non sappiamo più abitare verranno abbandonate, sprangate, chiuse per sempre.

Che cosa intendiamo, per esempio, con la parola «pace»? Intendiamo forse assenza di conflitto? Oblio? Perdono? O forse una grande stanchezza, un esaurimento, il prosciugarsi di ogni rancore?

A me pare che per la maggior parte della gente pace significhi vittoria. La vittoria del proprio schieramento. Per loro vuol dire questo, mentre per gli altri significa sconfitta.

Se prende piede l'idea che la pace, per quanto in teoria desiderabile, comporti un'inaccettabile rinuncia a rivendicazioni legittime, il corso d'azione più plausibile sarà quello della guerra, anche se praticata in forma non totale. I richiami alla pace saranno considerati, se non fraudolenti, sicuramente prematuri. E la pace diverrà uno spazio che non si sa più abitare. In cui bisogna reinsediarsi. Da ricolonizzare...

E cosa intendiamo con la parola «onore»?

Considerato come un impegnativo codice di condotta personale, l'onore sembra appartenere a tempi lontani. Ma l'abitudine di conferire onorificenze - di lusingare noi stessi e gli altri - prosegue ininterrotta.

Conferire un'onorificenza significa affermare principi che si ritengono condivisi. Accettarla vuol dire credere, seppure per un momento, di averla meritata. (Si dovrebbe tutt'al più dire, per pudore, di non sentirsene indegni.) Rifiutare l'offerta di un'onorificenza sembra sgarbato, asociale, arrogante.

L'onore di un premio cresce - così come la capacità di conferirlo - in virtù delle persone che si è scelto di onorare negli anni precedenti.

Proviamo a considerare, sotto questa luce, il Premio Gerusalemme, un premio dal nome così impegnativo, che, nella sua storia relativamente breve, è stato assegnato ad alcuni dei migliori scrittori della seconda metà del XX secolo. Benché si tratti con ogni evidenza di un premio letterario, non si chiama Premio Gerusalemme per la Letteratura ma Premio Gerusalemme per la Libertà dell'Individuo nella Società.

È vero che tutti gli scrittori a cui è stato assegnato hanno difeso la libertà dell'individuo nella società? È questo ciò che hanno - che abbiamo, devo dire adesso - in comune?

Credo di no.

Tali scrittori rappresentano un ampio spettro del pensiero politico. Ma non si tratta soltanto di questo. Alcuni di loro non hanno mai sfiorato le Grandi Parole: libertà, individuo, societa...

Quello che conta, però, è ciò che uno scrittore è, non ciò che dice.

Gli scrittori - vale a dire i membri della comunità della letteratura - sono emblemi della persistenza (e della necessità) di una visione individuale.

Preferisco parlare di visione individuale piuttosto che di visione dell'individuo.

Mentre la parola «individualità» diventa sempre più sinonimo di egoismo, l'incessante propaganda che oggi si fa in difesa dell'«individuo» mi sembra, infatti, profondamente sospetta. Le società capitalistiche hanno ogni interesse nell'esaltare un'individualità e una libertà, che finiscono per significare poco più che il diritto alla continua esaltazione di se stessi, e alla libertà di fare acquisti, comprare, usare, consumare e rendere obsoleto.

Non credo che la coltivazione del proprio io abbia un valore intrinseco. E credo che non ci sia cultura (e uso il termine in senso normativo) senza un principio di altruismo, di considerazione per gli altri. Credo invece che ci sia un valore intrinseco nell'allargamento della nostra capacità di comprendere quel che può essere una vita umana. Se c'è stato un progetto in cui la letteratura mi ha impegnata, prima da lettrice e poi da scrittrice, si è trattato del progetto di allargamento delle mie simpatie verso altri esseri, altri campi, altri sogni, altre parole, altri territori di interesse.

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Pagina 147

Su coraggio e resistenza
Discorso pronunciato in occasione
del Premio Oscar Romero



Permettetemi di evocare non uno, ma due eroi, solo due tra milioni di eroi. Due vittime, tra decine di milioni di vittime.

Il primo: Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, assassinato con indosso i paramenti sacri, mentre celebrava la messa nella cattedrale il 24 marzo 1980 - ventitré anni fa - perché era diventato «un acceso sostenitore di una giusta pace e si era apertamente opposto alle forze della violenza e dell'oppressione». (Cito dalla descrizione del Premio Oscar Romero che viene oggi assegnato a Ishai Menuchin.)

La seconda: Rachel Corrie, una studentessa ventitreenne di Olympia, nello Stato di Washington, assassinata con indosso il giubbotto arancione fosforescente che gli «scudi umani» portano allo scopo di rendersi visibili e, possibilmente, mettersi al riparo, mentre cercava di fermare una delle tante demolizioni di abitazioni civili effettuate quasi ogni giorno dalle forze israeliane a Rafah, una cittadina nel Sud della striscia di Gaza (dove Gaza confina con l'Egitto), il 16 marzo 2003 - due settimane fa. In piedi, di fronte alla casa di un medico palestinese destinata a essere demolita, Rachel Corrie, parte di un gruppo di otto giovani inglesi e americani che facevano da scudi umani a Rafah, ha agitato le braccia e urlato attraverso un megafono al conducente del bulldozer corazzato D-9 che si avvicinava, poi si è lasciata cadere in ginocchio sbarrando la strada al gigantesco bulldozer... che non ha rallentato.

Due figure emblematiche del sacrificio, uccise dalle forze della violenza e dell'oppressione a cui rispondevano con una opposizione, dettata dai loro principi, che era non violenta, ma rischiosa.


Cominciamo dal rischio. Il rischio di essere puniti. Il rischio di essere isolati. Il rischio di essere feriti o uccisi. Il rischio di essere scherniti.

In un senso o nell'altro, siamo tutti coscritti. Per tutti noi è difficile rompere le file; esporsi alla disapprovazione, al biasimo, alla violenza di una maggioranza offesa che ha una idea di lealtà diversa dalla nostra. Ci rifugiamo dietro parole-vessillo, come giustizia, pace, riconciliazione, che ci arruolano in comunità nuove, benché più piccole e relativamente impotenti, fatte di gente che la pensa come noi. Parole-vessillo che ci mobilitano a manifestare, a protestare, a compiere pubblici atti di disubbidienza civile - non a sfilare in parata o a scendere in battaglia.

Non andare al passo con la propria tribù; fare un passo al di fuori della propria tribù per entrare in un mondo mentalmente più grande ma numericamente più piccolo: a meno che la marginalità o la dissidenza non siano posizioni abituali o gratificanti, si tratta di un processo complesso, difficile.

È difficile sfidare lo spirito della tribù: lo spirito che valuta la vita di chi appartiene alla tribù più di quella di chiunque altro. Sarà sempre impopolare - sarà sempre considerato anti-patriottico - dire che la vita dei membri dell'altra tribù è preziosa quanto la nostra.

È più facile mostrarsi leali verso le persone che conosciamo, che vediamo, a cui siamo aggregati, con cui formiamo - come a volte accade - una comunità fondata sulla paura.

Non sottovalutiamo la forza di ciò a cui ci opponiamo. Non sottovalutiamo le ritorsioni che possono abbattersi su chi dissente dalle brutalità e dalle repressioni avallate dalle paure della maggioranza.

Siamo carne. Possiamo essere trafitti da una baionetta, dilaniati da un kamikaze. Possiamo essere schiacciati da un bulldozer, freddati in una cattedrale.

La paura unisce. E la paura divide. Il coraggio ispira le comunità: il coraggio di un esempio - perché il coraggio è contagioso come la paura. Ma il coraggio, un certo tipo di coraggio, può anche isolare chi ne dà prova.

È questo l'eterno destino dei principi morali: benché tutti professino di averli, è facile che vengano sacrificati quando diventano scomodi. In genere un principio morale ci pone in contrasto con una condotta normalmente accettata. E tale contrasto comporta delle conseguenze, a volte spiacevoli, nel caso in cui una comunità si vendica su chi ne ha sfidato le contraddizioni - su chi auspica che la società si attenga davvero ai principi che sostiene di difendere.

L'idea che una società debba realmente incarnare i principi che professa è un'idea utopica, nel senso che i principi morali contraddicono il modo in cui le cose vanno - e sempre andranno. Il modo in cui le cose vanno - e sempre andranno - non è del tutto negativo, né del tutto positivo, bensì inadeguato, contraddittorio, mediocre. I principi ci invitano ad affrontare il groviglio di contraddizioni dei nostri meccanismi morali. I principi ci invitano a correggerci; a non tollerare il rilassamento morale, il compromesso, la vigliaccheria, la tendenza a distogliere lo sguardo da ciò che ci turba, quando un intimo rovello ci dice che ciò che stiamo facendo non è giusto, e che non pensandoci staremmo molto meglio.

«Sto facendo del mio meglio» esclama chi non sa cosa vuol dire avere dei principi. Il meglio date le circostanze, naturalmente.


Mettiamo che il principio sia: è sbagliato opprimere e umiliare un popolo intero. Deprivarlo sistematicamente di alloggi e cibo; distruggerne le abitazioni, i mezzi di sopravvivenza, negargli il diritto allo studio e alle cure mediche, e la possibilità di riunirsi.

È sbagliato comportarsi così, nonostante le provocazioni. E le provocazioni ci sono. Non lo si dovrebbe negare.


Al centro della nostra vita morale e della nostra immaginazione morale ci sono i grandi modelli di resistenza: le grandi storie di chi ha detto no. No, non ubbidirò.

Quali modelli, quali storie? Un mormone può opporsi al divieto della poligamia. Un militante antiabortista può opporsi alla legge che ha legalizzato l'aborto. Anche loro faranno appello ai dettami della religione (o della fede) e della moralità contro gli editti della società civile. L'appello all'esistenza di una legge superiore che ci autorizza a sfidare le leggi dello Stato può essere utilizzato per giustificare trasgressioni criminali oltre che le più nobili lotte in nome della giustizia.

Il coraggio non ha valore morale di per sé, perché il coraggio non è, in sé, una virtù morale. Feroci malfattori, assassini e terroristi possono essere coraggiosi. Per qualificare il coraggio come una virtù abbiamo bisogno di un aggettivo: parliamo di «coraggio morale» - perché esiste anche un coraggio amorale.

Neppure l'opposizione ha valore in sé e per sé. È il contenuto dell'opposizione a determinarne il pregio, la necessità morale.

Ad esempio: l'opposizione a una guerra criminale. Ad esempio: l'opposizione all'occupazione e all'annessione della terra appartenente a un altro popolo.

Lo ribadisco, non c'è niente di intrinsecamente superiore nel mero opporsi. Ogni nostra rivendicazione della validità dell'opposizione si basa sulla veridicità della rivendicazione che chi si oppone agisce in nome della giustizia. E la giustizia della causa non dipende, e non è accresciuta, dalla virtù di chi la sostiene. Dipende dalla veridicità della descrizione di uno stato di cose che è, davvero, ingiusto e non necessario.


Ecco una descrizione a mio parere veritiera di uno stato di cose che solo dopo molti anni di incertezza, ignoranza e angoscia riesco ad ammettere.

Un Paese ferito e impaurito, Israele, sta attraversando la più grave crisi della sua turbolenta storia, provocata da una politica volta a incrementare e a rafforzare costantemente gli insediamenti nei territori conquistati in seguito alla vittoria nel conflitto arabo-israeliano del 1967. La decisione dei successivi governi israeliani di mantenere il controllo sulla West Bank e su Gaza, negando in tal modo ai vicini palestinesi la possibilità di avere un proprio Stato, è una catastrofe - morale, umana e politica - per entrambi i popoli. I palestinesi hanno bisogno di uno Stato sovrano. Israele ha bisogno di uno Stato sovrano palestinese. Noi che all'estero desideriamo che Israele continui a vivere non possiamo, non dovremmo, desiderare che sopravviva a qualunque costo, o in qualunque modo. Abbiamo un particolare debito di gratitudine nei confronti dei coraggiosi testimoni ebrei, giornalisti, architetti, poeti, romanzieri, professori - tra gli altri - che hanno descritto, documentato, protestato e militato contro le sofferenze dei palestinesi che subiscono le condizioni sempre più crudeli dell'occupazione militare israeliana e dell'annessione da parte dei coloni.

La nostra più grande ammirazione va ai coraggiosi soldati israeliani, qui rappresentati da Ishai Menuchin, che rifiutano di servire al di là dei confini del 1967. Questi soldati sanno che tutti gli insediamenti saranno alla fine evacuati. Questi soldati, che sono ebrei, prendono sul serio il principio avanzato nel 1945-46 durante il processo di Norimberga, secondo il quale un soldato non è obbligato a obbedire a ordini ingiusti, a ordini che contravvengono alle leggi di guerra - anzi, ha l'obbligo di disobbedire.

I soldati israeliani che rifiutano di servire nei Territori Occupati non si oppongono a un ordine specifico. Rifiutano di entrare in un luogo in cui degli ordini illegittimi saranno sicuramente dati - vale a dire, in cui è più che probabile che riceveranno l'ordine di compiere azioni che continueranno a opprimere e a umiliare dei civili palestinesi. Le case demolite, i frutteti sradicati, i banchi di un mercato di un villaggio schiacciati da un bulldozer, un centro culturale saccheggiato; e ormai, quasi ogni giorno, i civili di ogni età colpiti e uccisi: è incontestabile la crescente crudeltà dell'occupazione israeliana del ventidue per cento del territorio dell'ex Palestina britannica su cui sarà istituito uno Stato palestinese. Questi soldati sono convinti, come lo sono io, che dovrebbe esserci un ritiro incondizionato dai Territori Occupati. Hanno dichiarato collettivamente che non continueranno a combattere al di là dei confini del 1967 «al fine di dominare, espellere, affamare e umiliare un intero popolo».

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Gli americani, dunque, si considerano i difensori della civiltà e i salvatori dell'Europa, e si chiedono perché mai gli europei non lo capiscano, mentre gli europei vedono nell'America uno stato guerrafondaio e privo di scrupoli. Una descrizione, quest'ultima, a cui gli americani prontamente rispondono considerando l'Europa un nemico che, come sostiene una retorica sempre più diffusa negli Stati Uniti, fingerebbe di essere pacifista, soltanto per contribuire all'indebolimento della potenza americana. In particolare, si pensa che la Francia stia tramando per conquistare una posizione di parità, se non di superiorità, rispetto all'America, nella gestione della politica internazionale - «Operazione America Deve Fallire» è il nome inventato da un editorialista del «New York Times» per descrivere il tentativo di conquista del predominio da parte della Francia - e non comprenda invece che una sconfitta americana in Iraq incoraggerebbe (nelle parole dello stesso editorialista) «i gruppi radicali islamici, da Baghdad alle periferie musulmane di Parigi» a portare avanti la loro jihad contro la tolleranza e la democrazia.

È difficile non concepire il mondo in termini di polarizzazioni («loro» e «noi»), termini che in passato hanno rafforzato la tendenza isolazionista della politica estera americana, così come oggi rafforzano quella imperialista. Gli americani si sono abituati a considerare il mondo in termini di contrapposizioni tra nemici. I nemici sono altrove, così come la lotta si combatte quasi sempre «laggiù», ora che il fondamentalismo islamico rappresenta la minaccia subdola e implacabile che ha sostituito il comunismo russo e cinese. E la parola «terrorista» è più duttile di «comunista». Può accomunare un maggior numero di lotte e interessi diversi. Ciò probabilmente significa che la guerra sarà infinita, perché esisterà sempre qualche forma di terrorismo (così come esisteranno sempre povertà e cancro); vale a dire, conflitti asimmetrici in cui la parte più debole utilizza una forma di violenza che di solito prende di mira i civili. La retorica politica americana, che non coincide necessariamente con l'opinione pubblica del Paese, è pronta a sostenere questa infausta prospettiva, poiché la lotta contro il male non ha mai fine.

Una delle caratteristiche distintive degli Stati Uniti, un Paese profondamente conservatore in forme che gli europei fanno fatica a comprendere, è quella di aver elaborato una variante del pensiero conservatore che celebra il nuovo piuttosto che il vecchio. E ciò significa che gli stessi fenomeni che fanno sembrare gli Stati Uniti un Paese profondamente conservatore - ad esempio la straordinaria forza del consenso, della passività e del conformismo dell'opinione pubblica (come Tocqueville notò già nel 1831) e dei media - lo rendono anche radicale, o rivoluzionario, in modi che agli europei risultano altrettanto difficili da comprendere.

Ciò che spiega in parte tali contraddizioni è, senza dubbio, la scissione tra retorica ufficiale e realtà vissute. Gli americani inneggiano costantemente alla «tradizione»; le litanie sul valore della famiglia sono al centro di ogni discorso politico. E tuttavia la cultura americana tende a corrodere in profondità la vita familiare e, a dire il vero, qualunque tradizione, fatta eccezione per quelle ridefinite come «identità» e dunque capaci di armonizzarsi con modelli più ampi, quali l'alterità, la cooperazione, o la disponibilità all'innovazione.

Forse l'origine più importante del nuovo (e non così nuovo) radicalismo americano è quella che un tempo veniva considerata una fonte di valori conservatori, e cioè, la religione. Numerosi commentatori hanno rilevato che la maggiore differenza tra gli Stati Uniti e gran parte dei Paesi europei (sia vecchi che nuovi, secondo la distinzione oggi proposta dagli Stati Uniti) sta forse nel ruolo centrale che la religione ha nella società americana e nel linguaggio pubblico della nazione. Ma si tratta di una religione all'americana, vale a dire, di un'idea di religione più che di una religione vera e propria.

È vero che quando un giornalista ispirato chiese a George Bush, durante la campagna per le elezioni presidenziali del 2000, quale fosse il suo «filosofo preferito», la gradita risposta - una risposta che avrebbe reso ridicolo qualunque candidato a un'alta carica politica di un partito di centro in qualsiasi Paese europeo - fu «Gesù Cristo». Ma, ovviamente, Bush non intendeva dire, e non si pensò intendesse farlo, che, se fosse stato eletto, la sua amministrazione si sarebbe realmente sentita in dovere di attenersi ai precetti o ai progetti sociali propugnati da Gesù.

Gli Stati Uniti sono una società genericamente religiosa, in cui non è poi così importante quale religione si professi, purché se ne abbia una. Una religione dominante, o una teocrazia, che fosse solo cristiana (o di una specifica denominazione cristiana) sarebbe impossibile. La religione in America deve essere questione di scelta. Questa idea moderna di religione, relativamente priva di contenuto e costruita sui parametri delle scelte consumistiche, è alla base del conformismo, della convinzione d'essere nel giusto, e del moralismo americano (che con una certa condiscendenza gli europei confondono spesso con il puritanesimo). Quali che siano, tutte le fedi storiche che le varie istituzioni religiose americane pretendono di rappresentare predicano qualcosa di simile: il miglioramento della condotta individuale, il valore del successo, la cooperazione all'interno delle comunità, la tolleranza per le scelte altrui. (Tutte virtù che favoriscono e facilitano il funzionamento della società capitalistica dei consumi.) Il fatto stesso di professare una religione assicura la rispettabilità, favorisce l'ordine, e offre garanzie di virtuosità alla missione di guida del mondo che gli Stati Uniti si sono assunti.

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Nell'era moderna, l'invito a un ritorno al realismo nelle arti va di pari passo con il rafforzamento del realismo cinico nel discorso politico.

Il crimine maggiore, oggi, nelle arti e nella cultura in generale, per non parlare, poi, della politica, sta nel mostrarsi promotori di parametri di giudizio più elevati, o esigenti, una posizione che sia la destra che la sinistra attaccano definendola ingenua o (nuovo stendardo dei filistei) «elitaria».

I proclami sulla morte del romanzo - o, nella variante più recente, sulla morte della letteratura - sono da quasi un secolo una caratteristica ricorrente del dibattito sulla letteratura. Ma di recente hanno acquisito una nuova virulenza e persuasività teorica.

Sin da quando i programmi di elaborazione di testi sono diventati strumenti comunemente usati dalla maggior parte degli scrittori - me compresa - c'è stato chi ha profetizzato un nuovo e mirabile futuro per la narrativa.

L'ipotesi sarebbe la seguente.

Il romanzo, così come lo conosciamo, è giunto alla fine. Non c'è, tuttavia, ragione di rammaricarsene. Qualcosa di meglio (e di più democratico) lo sostituirà: l'iper-romanzo, scritto nello spazio non lineare o non sequenziale reso possibile dal computer.

Questo nuovo modello di narrativa si propone di liberare il lettore da due capisaldi del romanzo tradizionale: la narrazione lineare e l'autore. Il lettore, crudelmente obbligato a leggere una parola dopo l'altra per giungere alla fine di una frase, un paragrafo dopo l'altro per giungere alla fine di una scena, gioirà nell'apprendere che, grazie all'avvento del computer, ora potrà godere, come qualcuno ha scritto, di una «vera libertà»: la «libertà dalla tirannia del rigo». Un iper-romanzo «non ha inizio; è reversibile, vi si accede da più entrate, nessuna delle quali può essere dichiarata d'autorità la principale». Piuttosto che seguire una storia lineare imposta da un autore, il lettore può ora navigare liberamente attraverso «un'estensione infinita di parole».

Credo che la maggior parte dei lettori, se non proprio tutti, sarà sorpresa di scoprire che la narrazione strutturata - a partire dallo schema più basilare di inizio-centro-fine, caratteristico dei racconti tradizionali, fino alle costruzioni narrative più elaborate, non cronologiche e polifoniche - è in realtà una forma di oppressione e non una fonte di piacere.

La maggior parte dei lettori di narrativa è, infatti, interessata proprio alla storia - nelle fiabe e nei thriller, così come nelle narrazioni complesse di Cervantes e Dostoevskij e Jane Austen e Proust e Italo Calvino. La storia - l'idea che gli eventi si susseguano secondo un preciso ordine causale - rappresenta sia il modo in cui vediamo il mondo sia quello che più in esso ci interessa. Chi non ha altro motivo per leggere, leggerà per la trama.

A detta dei paladini dell'iper-narrativa, tuttavia, ci sentiamo imprigionati dalla trama e ci spazientiamo per le sue limitazioni. Insofferenti, aspiriamo a essere liberati dalla secolare tirannia dell'autore, che impone il modo in cui la storia si svolge, e desideriamo essere lettori veramente attivi, in grado di scegliere in qualsiasi momento della lettura tra varie alternative di sviluppo o conclusione della storia riorganizzando i blocchi del testo. Quando poi si sostiene, come a volte accade, che l'iper-narrativa imiti la vita reale, con la sua miriade di opportunità e di esiti sorprendenti, suppongo che l'intenzione sia quella di propagandarla come una sorta di estremo realismo.

A ciò obietterei che, se è vero che pretendiamo di dare una forma e un senso alla nostra vita, non pretendiamo certo di scrivere i romanzi degli altri. Una delle risorse di cui disponiamo per cercare di dare senso alla nostra vita, per compiere delle scelte, e proporci e accettare parametri di giudizio, è la nostra esperienza di singole voci autorevoli, diverse dalla nostra, appartenenti a quel grande corpus di opere che educano il cuore e i sentimenti e ci insegnano a stare al mondo, che incarnano e difendono le glorie della lingua (e cioè, espandono lo strumento fondamentale della consapevolezza): e vale a dire, la letteratura.

È invece vero che l'iper-testo - o dovrei forse dire l'ideologia dell'iper-testo? - è ultrademocratico e perciò in totale sintonia con gli appelli demagogici per una democrazia culturale che si accompagnano (distraendo la nostra attenzione) allo stringersi della morsa del capitalismo plutocratico.

Se mai dovesse realizzarsi, la così poco allettante proposta di un romanzo futuro che non abbia una storia, o che abbia una storia ideata dal lettore (o meglio, dai lettori), produrrebbe inevitabilmente non tanto la pluriannunciata morte dell'autore quanto l'estinzione del lettore - di tutti i futuri lettori di ciò che si definisce «letteratura». È facile comprendere come tale proposta sia un'invenzione della critica letteraria accademica, ormai sopraffatta da una pletora di idee che esprimono la più accanita ostilità al progetto stesso della letteratura.

Ma dietro tale idea si nasconde ben altro.

I proclami che annunciano la fine del libro, e del romanzo in particolare, non si possono semplicemente ascrivere ai danni compiuti dall'ideologia ormai dominante nei dipartimenti di letteratura di molte importanti università degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, e dell'Europa occidentale. (Non so quanto ciò sia vero in Sudafrica.) La forza reale che sta dietro all'opposizione al libro, alla letteratura, viene, secondo me, dall'egemonia del modello narrativo proposto dalla televisione.


Un romanzo non è una serie di proposte, né un elenco, né una raccolta di ordini del giorno, né un itinerario (aperto, modificabile). È il viaggio stesso - intrapreso, vissuto, e concluso.

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