Copertina
Autore Paolo Sorcinelli
Titolo Avventure del corpo
SottotitoloCulture e pratiche dell'intimità quotidiana
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2006, Testi e pretesti , pag. 230, ill., cop.fle., dim. 102x170x14 mm , Isbn 978-88-424-9890-2
LettoreFlo Bertelli, 2006
Classe storia sociale , erotica , medicina , salute
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Indice


VII Introduzione

  1 Compagni di vita

 11 Gli scarti del corpo

 20 Chi si lava e chi no

 35 Il bidet, il violino, le mutande

 45 Ner pozzo de la gola e dde la fregna

 56 Donne che mozzicano e uomini-diavolo

 73 Discorsi libertini

 84 Sesso salutare

 93 A forma di membro maschile

105 Con le proprie mani

116 Orgasmi e paure

134 Purché il piacere non fosse eccessivo

146 Violenze e tradimenti, debolezze e strategie

165 Sui letti coniugali

177 Gli inganni del corpo


 

 

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Pagina VII

Introduzione


Può sembrare paradossale, ma la storia è fatta così: le cose più semplici e abitudinarie, quelle di tutti e di tutti i giorni, sono le più sconosciute. Non è un caso che il corpo – a detta di Jacques Le Goff – sia «una delle grandi lacune della storia, una grave dimenticanza dello storico». Si potrebbe anche dire che del corpo gli storici si sono occupati soltanto in alcune direzioni, soprattutto per sottolineare i suoi aspetti negativi collegati alla tradizione cristiana o ai riflessi provocati da elementi materiali ed esogeni, quali la fame o le epidemie.

Dunque, con le sue rinunce, le sue mortificazioni, o anche per le sue piaghe, le sue deformità e le sue cancrene. Il concetto è stato messo in evidenza da Jean-Claude Schmitt, che però non si è limitato a indagare la repressione del corpo da parte della Chiesa dal V secolo in poi, ma ne ha messo in luce anche i percorsi antagonisti e alternativi. Basti pensare alla contrapposizione concettuale e comportamentale insita nel binomio quaresima-carnevale, la prima con le sue mortificazioni, il secondo con i suoi eccessi trasgressivi, per capire le problematiche esistenziali che si sono agitate sul e attorno al corpo. E non soltanto nel Medioevo in senso stretto, ma per tutto quel «lungo Medioevo» che Le Goff protrae per alcuni aspetti fino alle soglie della Rivoluzione francese e alla rivoluzione industriale. O, per altri versi, fin quando è rimasta in piedi l'identificazione del peccato con la donna. A ben vedere anche la storia delle streghe e del carnevale è stata una storia senza il corpo. Senz'altro è stata una storia culturale, dell'immaginario e di rapporti sociali, finanche una storia in cui sono rientrate alcune parti del corpo, ma non una storia di tutto il corpo.

Sulla scia di un'accezione cristiana che attuava un distinguo fra parti nobili e parti triviali, sono mancati infatti gli studi sul corpo-immondo e sul corpo-fonte-di-piacere e suscitatore di desideri. In una parola su quelle parti del corpo più strettamente collegate alle funzioni organiche, alla sessualità e all'erotismo. Dunque considerate "parti triviali" e per secoli definite con una terminologia prudente e velata – pudenda – o con perifrasi moralistiche: parti vergognose. Il corpo in questo senso è stato un involucro da celare alla vista e da nascondere con accuratezza. Oppure ha rivestito un ruolo scontato nella ripetitività di gesti e di funzioni, considerati, per la loro quotidianità, naturali e meccanici.

In questo senso, quella del corpo è stata una sorta di storia sotterranea, in cui i pruriti provocati dai parassiti nelle zone pilifere, le evacuazioni fisiologiche genitali e anali, le sollecitazioni erotiche non hanno prodotto molti discorsi né tanto meno memorie collettive. Insomma, pochi nella loro vita si sono premurati di scandire queste vicissitudini. Chi l'ha fatto ha lasciato scritti ambigui e spesso contraddittori fra di loro. Dominati da riserbo e pudore, oppure animati da intenti provocatori o compiaciuti, o all'interno di una severa riflessione moralistica, o con l'asettico distacco del pensatore filosofico e dell'indagatore scientifico.

Per quasi diciotto secoli le ragioni cristiane hanno lasciato attecchire un rifiuto del corpo in nome e per conto dei valori dell'anima. Molte donne e molti uomini si sono adattati, altri hanno fatto finta di adattarsi, altri ancora hanno cercato di aggirare il ginepraio di ammonizioni e di condanne morali, ma tutti sul corpo hanno edificato una parte importantissima della loro vita. Se poi sono riusciti a godere poco e a soffrire molto, è un altro discorso e rientra «nelle stupefacenti convergenze e nelle irriducibili divergenze» di cui è piena la storia di ogni tempo.

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Pagina 12

La privacy era qualcosa di sconosciuto, tanto che il personale di servizio presenziava ai bagni delle signore e aveva modo di imbattersi nelle erezioni mattutine dei loro datori di lavoro. Spesso genitori e figli trovavano posto nello stesso giaciglio, suscitando le ire dei parroci, ma senza risultati apprezzabili. Una prostituta, per esempio, avrà in seguito modo di ricordare che a tredici anni i suoi sonni erano agitati e interrotti dalle «azioni» dei suoi «compagni di letto» che spesso e volentieri «si agitavano vigorosamente» fra «lunghi sospiri» e inconfondibili sussurri suggeriti dalla «passione».» Con case anguste e spazi interni sommariamente separati fra loro, gli sguardi indiscreti e curiosi erano inevitabili e numerose sono le testimonianze figurative di questo genere. C'è chi viene sorpreso dalla moglie mentre sta accarezzando la servente nel locale multiuso a pianoterra, come in un dipinto di David Teniers del 1650 circa (Figura 6), chi è spiato da una finestrella mentre è sedotto da un'intraprendente e formosa signorina, chi si masturba alla visione furtiva di una coppia intenta a giochi sessuali e chi osserva un intervento con il clistere.

La stessa cosa succede per le incombenze fisiologiche. Basterebbe far mente locale all'incisione dell'uomo che urina all'aperto a opera di un Rembrandt (vedi pagina seguente) attento osservatore del naturalismo erotico del corpo umano. O alle testimonianze figurative che ritraggono scene di bisogni corporali spiate attraverso fessure, finestre o porte malmesse. Come nel caso di Louis-Léopold Boilly che ha lasciato una realistica raffigurazione in cui un anziano signore sorprende compiaciuto dal pertugio di uno steccato due signorine accovacciate in un cortile per esigenze fisiologiche (Figura 9). Con altrettanto realismo alcune incisioni del XVI e del XVII secolo raffigurano delle signore alle prese con il vaso da notte, fra cui vale la pena di ricordare, per la sua vena satirica, la scena di un cavalier servente che regge il vaso in cui una signora depone il suo liquido. In un dipinto attribuito a Ranieri Del Pace, il vaso da notte è collocato sopra una seggetta con spalliera, consentendo una posizione più comoda, anche perché si possono appoggiare i piedi su una piccola pedana di legno.

Ma molto diffusa era anche la soluzione di ritirarsi in campagna, nei cortili, oppure in un luogo della casa – a pianoterra – che fungeva da ricovero per gli animali domestici, depositando i propri resti tutt'al più in una buca scavata nel terreno. In queste circostanze i sistemi di pulizia erano molto sommari, come lasciano presagire due proverbi molto immediati, uno veneziano e l'altro calabrese: «Chi se forbe 'l cul co l'erba, spiana 'l pelo e ghe lassa la merda»; «Cu l'erba moia s'astuia lu culu».

Anche se la cosa urta la nostra sensibilità, tutto questo avveniva con assoluta naturalezza, così come naturale era convivere con i cattivi odori quando si evacuava in ambienti interni, nella seggetta o nell'orinale. Casanova – entrando nella camera di una sua corteggiata – rimane «completamente rivoltato» da «una certa esalazione la cui causa era recente». Eppure le materie escrementizie di uomini e di animali non erano soltanto ammorbanti residui del corpo, ma avevano anche un grosso valore economico, poiché da esse dipendeva la maggiore o minore produttività della terra. Così nell'immaginario collettivo gli escrementi e l'urina erano per il corpo sostanze ambivalenti, da una parte richiamavano la materia che si corrompe per la morte, dall'altra erano simboli della fertilità della vita. «Benedette e umiliate» erano associate alla nascita e al parto, ma nello stesso tempo anche all'agonia e alla morte. Al pari di quello che succedeva nel XVI secolo, all'epoca di Rabelais, anche alla fine dell'Ottocento gli escrementi continuavano a essere in qualche modo «legati alla fecondità» della terra.

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Pagina 32

Ma sono discorsi che non riguardano larghi strati di popolazione, perché ancora nell'Ottocento a questo proposito coesistono due scuole di pensiero: quella pro e quella contro l'igiene delle parti intime. Quest'ultima è ancora largamente diffusa, sulla scia di quella concezione che dal Medioevo alle soglie della contemporaneità modellerà i parametri dell'igiene femminile sulla condotta sessuale delle stesse donne: se sporche saranno considerate virtuose e oneste, se pulite e curate saranno tacciate di scarsa moralità. Paradossalmente se da un lato il diffondersi dell'igiene risponde a una mutata sensibilità verso il corpo, dall'altro rafforza anche una facile dietrologia dai contenuti moralistici e decisamente antifemminili. In effetti se una parte della scienza medica si interroga sul «difetto di cure» e sulla «poca pulizia» che è causa di un accumulo di «cellule epiteliali staccate e umettate dal liquido che traspira la mucosa genitale» e di «polveri provenienti dall'esterno» «tra le grandi e le piccole labbra e specialmente sotto il prepuzio clitorideo», dall'altro sono ancora forti le remore di carattere religioso e anche quelle ginecologiche, motivate rispettivamente dalla paura del peccato di «dilettazione venerea» e dalla credenza che l'uso dell'acqua sulle parti genitali possa provocare sterilità.

Il ruolo giocato dall'angosciante diffusione della tisi sarà un ulteriore elemento a favore della necessità di un'accurata igiene personale e domestica. Una conferma la si può avere nel trend del consumo di sapone e dalla maggiore frequenza nel ricambio delle vesti, reso possibile dal minor costo della lavorazione del cotone a seguito della rivoluzione industriale. Le statistiche a disposizione mostrano che, almeno nel caso dell'Inghilterra, il consumo di sapone passò da 24 a 48 milioni di libbre nel corso del Settecento per aumentare poi da 5 a 9 libbre pro capite nella prima metà del secolo successivo, quando anche il consumo di cotone ebbe un incremento del 400%. Non è neppure un caso che nell'ultimo scorcio del Settecento l'architettura privata si avvii a ricercare una specializzazione degli ambienti, con stanze che non sono più intercomunicanti fra di loro, ma raggiungibili soltanto attraverso il corridoio, un'innovazione che di fatto separa gli spazi e crea un'intimità fino ad allora impensabile. È certo comunque che nello stesso periodo l'aristocrazia e la borghesia tendono a scoprire «la sottigliezza dei messaggi corporei che ormai conferiscono, agli scambi affettivi, una delicatezza inedita». È il primo segnale di una nuova sensibilità verso i corpi e le loro emanazioni che il secolo seguente porterà all'esasperazione, stigmatizzando «il fetore delle classi lavoratrici» e i suoi «odori importuni». Ma è anche il segno di un mutato atteggiamento verso le cosiddette malattie «da colpa»: prima la lebbra, poi la peste, quindi la sifilide erano state infatti interpretate come un castigo divino conseguente alla lussuria degli uomini e delle donne.

Ora invece il pensiero medico chiama in causa altri fattori. In primo piano non è più il verdetto divino, ma le condizioni di vita e del corpo. Nella seconda parte del Settecento, la sifilide provoca una reazione culturale ed emotiva che, in nome di un «razionalismo non cristiano» cerca di relegare in secondo piano il concetto della malattia che si abbatte «sul genere umano per mettere un freno alla sua dissolutezza e alla sua smisurata concupiscenza». In questo clima si fa strada la tendenza a limitarsi a un'asettica descrizione e addirittura alla banalizzazione dell'infezione stessa, fino a ricordare che le sue ferite sono «il frutto del piacere» e dunque paragonabili ai segni che le battaglie lasciano sui corpi dei soldati. Quelle ferite ora sono un «segno dei tempi» e mentre un secolo prima la sola speranza di salvezza era nell'astinenza, Casanova fra la «preservazione» e il «preservativo» non ha il minimo dubbio: sceglie quest'ultimo.

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Pagina 47

In questo senso le donne verranno demonizzate dal mondo ecclesiastico per il loro potere sessuale e, accusate di stregoneria, saranno rasate nelle parti intime, cioè laddove si ritiene che si annidino le armi e gli strumenti con cui compiono i loro malefici. Una valenza negativa che partendo dal cristianesimo dei primi secoli si riversa poi nel pensiero medievale con l'accostamento misogino della donna/vagina/diavolo. Per Giovanni Boccaccio la vagina è una «voragine infernale» da cui «discendono fiumi sanguigni e crocei, di bianca muffa fardellati, talvolta non meno al naso che agli occhi spiacevoli». Nella concezione colta di Michelangelo Biondo, medico e astrologo del Cinquecento, è un «gorgo senza fondo, putrido e mortalissimo» e quindi da evitare. Padre Antonio Rocco, lettore di retorica per conto del Senato veneziano, in L'Alcibiade fanciullo a scola, un trattato libertino che comincia a circolare manoscritto verso il 1630, giudica il sesso femminile una «vasta capacità [che] induce agl'orrori del laberinto» e che causa «putredine, ulcere, taroli, piaghe e altri mali infiniti». Una miscellanea di versi poetici del 1765, Il cotal truciolato, forse opera di Giovan Battista Casti, parla di un'«infame e cazzicida potta». Anche de Sade (Le centoventi giornate di Sodoma) rivolge per bocca del duca di Blangis un esplicito ammonimento alle donne affinché non concedano «il davanti» se non raramente, essendo la vagina quella «parte infetta» che fa più «ribrezzo» agli uomini. Nei sonetti del Belli il sesso femminile è un pantano, una chiavica, un fienile senza tetto, in cui gli uomini compiono la stessa operazione dei maiali quando «ficcano il grugno nelle sozzure per pascere la propria voracità». Il mangiare dei porci, ingrufare, diventa così il coito umano, in cui il fallo «si impantana nella palus putredinis della donna». In questo caso, Guido Almansi ha avanzato un'interpretazione di derivazione engelsiana. All'interno di un sotto-sotto-proletariato fatto «de merda e dde mmonnezza» il critico letterario ha colto l'occasione per formulare un'ulteriore suddivisione di genere e di classe, in cui il maschio sta alla femmina come la borghesia sta al proletariato. Infatti in questo mondo di derelitti il maschio può consolarsi «della propria bassezza scoprendo qualcosa ancora più lercio, una specie di modello di monnezza» cioè la donna, definita dal Belli una «schifenza bbastardaccia d'un mulo e dde 'na vacca», «er pissciatore d'un conte», «una carnaccia ch'è un zaccaccio de vermini». Ma il punto focale di questa «schifenza» è il suo sesso, che rappresenta «la quintessenza del lerciume, l'oggetto turpe e sozzo per eccellenza» così come turpe e sozzo è l'atto che ne deriva. Nell' Accademia delle Dame una donna maritata descrive a una vergine gli «effetti del matrimonio» e le «pensioni che ci costano i nostri piaceri» parlando di una cosa, fessura, fiore, porta dell'orto, che «tramanda un fiato puro e soave qual dalla vermiglia bocca», ma che è destinata a trasformarsi con l'atto sessuale in una caverna, voragine, bocca dell'inferno «larga e aperta» che «produce de' fiori molto puzzolenti» e «offende colla puzza il naso».

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Pagina 134

Purché il piacere non fosse eccessivo


La questione della sessualità matrimoniale sembra racchiusa per tutto l'Ottocento entro due barriere. La prima mira al «risparmio spermatico» in base al principio che il «seme, raccolto da lungo tempo nelle vescicole spermatiche, è un vero serbatoio di forza» che contribuisce a mantenere una «memoria pronta e tenace», un «pensiero rapido e fecondo», una «volontà robusta», un carattere temperato e «una vigoria del tutto sconosciuta ai libertini». La seconda esige prudenza e attenzione per non suscitare gli «ardori femminili» e rendere le donne consapevoli del loro potenziale erotico. Se a una donna, ammonisce Paul Good in Igiene e morale del 1903, si consente «di provare un piacere smodato», la si trasforma in un essere «passionale e quindi più incline all'adulterio».

Prese di posizione che rivelano una qualche affinità con i consigli che Francesco Petrarca elargisce più di mezzo millennio prima a Pandolfo Malatesta. La scelta di risposarsi con una «nobile fanciulla» di «prima età» potrebbe essere per il condottiero riminese la più conveniente, in quanto la sposa, «divelta dalle carezze dei suoi e dalle chiacchiere delle donnicciole, sarà più casta, più sottomessa, più obbediente, più santa, e presto liberandosi dalla giovanile leggerezza, si rivestirà di matronale dignità». Ma quel che più conta per Petrarca è che, «sia essa vergine o vedova», «una volta unita a te nel letto coniugale, vedendo e ascoltando te solo, e a te solo pensando, si confonda con te e con i tuoi costumi».

Il matrimonio e la sessualità coniugale si ritmano dunque per molti secoli sul dominio dell'uomo sulla donna, ma anche sulla consapevolezza (che poi tende a rafforzare il senso di dominio) che «il desiderio del piacere venereo in molti uomini» è «debolissimo» per svariate ragioni. Per «temperamento», per «un abito acquistato a forza di riflessione», per «una meccanica necessità» e per la «struttura del nostro corpo» che soggiace alle regole dell'età «che avanza», alla «frequenza dell'atto», alla «consuetudine» che «rende meno viva l'operazione del medesimo oggetto». Al contrario, in una donna «più giovane del marito», «bella e sana», succede che «il piacere e il desiderio» aumentino, proprio quando «in lui scemano». Concetti esplicitati nel 1762 da un Antonio Cocchi che per essere ancora più chiaro scandisce i ritmi temporali del «desiderio del piacere sessuale» nell'uomo: «frequentissimo nell'adolescenza» è destinato a diventare «più raro» dopo il ventunesimo anno e attorno ai quarant'anni si manifesta soltanto una volta ogni trenta giorni. Saltando a piè pari quasi duecento anni, troviamo un trattato che sulla stessa falsariga ricorda con convinzione che «da venti a trent'anni il marito può congiungersi da due a quattro volte la settimana», due volte a settimana dai trenta ai quarant'anni e una soltanto fra quaranta e cinquant'anni. Dopo tale soglia fatidica è bene ricorrere al coito «il meno possibile» e dedicarsi ad altri piaceri, come ricorda un detto popolare veneto: «Quando la barba tira al bianchin, lassa la donna e tienti al vin».

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