Autore Vladimir Sorokin
Titolo Manaraga. La montagna dei libri
EdizioneBompiani, Milano, 2018, Narratori stranieri , pag. 224, cop.fle.sov., dim. 15x21x1,8 cm , Isbn 978-88-452-9482-2
TraduttoreDenise Silvestri
LettoreGiorgio Crepe, 2018
Classe narrativa russa , fantascienza , libri , alimentazione












 

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Indice


    13 marzo              5

    14 marzo             21

    15 marzo             41

    17 marzo             55

    18 marzo             89

    20 marzo            117

    25 marzo            127

    30 marzo            141

     3 aprile           155

     4 aprile           161

     8 aprile           169

    12 aprile           181
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Pagina 5

13 marzo





Sera


Šašlik di storione con L'idiota. Romanzo completo, peso super medio, 720 grammi, 509 pagine, carta vellum, rilegatura in tela percallina. Bastato per otto spiedini.

Come stabilito, il cliente e sette ospiti sedevano intorno al braciere. Per accertarsi, naturalmente, non soltanto che stessi bruciando proprio una prima edizione, un libro da 8700 sterline, ma anche che non lo sostituissi con un giallo nordico del ventunesimo secolo da centocinquanta sfumature di mediocrità. Volevano arte, l'avrebbero avuta.

Si è svolto tutto, tutto per il meglio. Sono andato alla grande.

Comunque, solo un book'n'griller sa quante insidie si nascondono nel nostro mestiere. È la nostra graticola interiore. I romanzi, come è risaputo, un tempo erano stampati su diversi tipi di carta, capaci di bruciare in modi diversi. Possono ardere a fuoco lento o avvampare in un'unica fiammata, con la conseguente levitazione dei fogli che poi aderiscono alla carne o volteggiano sopra la testa dei clienti. I nostri bracieri dispongono di speciali pompe ad aria in grado di bloccare il librarsi dei fogli che bruciano e di quelli già bruciati. Un vero maestro deve saper usare le mani e la testa. Oltre alla fiamma queste pompe smorzano, però, anche lo spettacolo. Assieme all'aria pompano via l'imponenza. Un libro, invece, deve essere vivido: deve ardere e folgorare. Un maestro esperto è costretto a considerare tutto il procedimento come una partita a scacchi, deve mantenersi in bilico sopra il baratro e conservare il sangue freddo. Rilegatura, capitello, percallina, cartone, strisce di garza, corda di canapa, segnalibri, colla di caseina, fiorellini essiccati, cuciture, cimici e scarafaggi nel dorso sono tutte minacce non visibili. È indispensabile tenerne conto. Una volta, a un cuoco si è incendiato un microfilm nascosto nel dorso di un libro della metà del ventesimo secolo. Un altro ha avuto problemi con una rilegatura antropodermica delle 120 giornate di Sodoma. Può succedere di tutto, proprio di tutto... La minima svista, insicurezza o presunzione, e la catastrofe è garantita. È un mestiere, il mio, che comporta rischi. Nel mígliore dei casi, una perdita di denaro, un po' di vino in faccia, qualche costosa stoviglia spaccata in testa. Nel peggiore, una pallottola molle, ma spesso anche dura. A ordinare roghi di libri, al momento, sono sempre di più i criminali. Dal dopoguerra, l'Europa pullula di armi. I tedeschi di oggi sono solo una pallida ombra di quelli della dorata epoca prebellica.

Il rischio aumenta quando dame e cavalieri siedono intorno al braciere e il cuoco non ha nessuno che gli copra le spalle. Ecco perché posso dirmi uno chef fantasista, non un comune book'n'griller. Ogni volta che intorno al braciere ci sono clienti con i piatti vuoti, mi viene in mente la storia di quel prestigiatore leggendario che un tempo girava per le città d'Europa lasciando di stucco il pubblico grazie a un numero semplice, in cui si perforava il dito con un chiodo. Un trucco elementare, basato interamente sul punto di osservazione del pubblico credulone. Un giorno, però, alcuni plebei un po' alticci incrociarono il "mago" in una piazza e gli richiesero a gran voce quel gioco di prestigio. Dopo avergli fornito loro il chiodo, lo circondarono da ogni parte, costringendolo a trafiggersi il dito per davvero. Scambiarono la sua smorfia di dolore per un sorriso. Fu allora che il prestigiatore raggiunse grande notorietà. Noi, invece, ahimè, non abbiamo nulla con cui trafiggerci. Il nostro insolito mestiere si basa esclusivamente sulla pura maestria.

Grazie al Fuoco, in questi nove anni ho imparato a trattare i libri nel mpdo giusto. Da noi si usa dire: "Quel cuoco legge bene." Io leggo discretamente. Nel senso che le mie pagine bruciano una dietro l'altra, ammaliando i clienti, la carne sfrigola, gli occhi scintillano, l'onorario sale...

I libri, se non sai come avvicinarti, sono come i cavalli: selvaggi e capricciosi. Con loro non adopero né il frustino né gli speroni. Uso dolcezza, solo dolcezza. Per me, non sono semplicemente legna, come vengono chiamati nella nostra comunità clandestina di cuochi. Un libro è un mondo intero, che se n'è andato per sempre. In un certo qual modo posso definirmi un romantico. Figlio di uno studioso di scienze umanistiche, nipote di un dentista, pronipote di un avvocato, propronipote di un rabbino. Se lo ami per davvero, e questo lo so bene, un libro sa darti tutto il suo calore. Adoro i classici russi, anche se non sono mai arrivato oltre la metà di nessun romanzo russo, e non cuocerò mai una bistecca con uno scrittore mediocre come Gor'kij. Dei classici, io e la mia pulce intelligente conosciamo a memoria argomento, biografia dell'autore in ogni dettaglio, data di pubblicazione del ciocco di carta. È indispensabile che queste cose siano note a ogni cuoco, al di là che sappia o non sappia leggere. E di gente così, da noi, purtroppo, ce n'è sempre di più. Per quanto, in effetti, per leggere bene un libro non è indispensabile che un cuoco lo legga. È il paradosso del ventunesimo secolo. "O tempora, o mores," diceva il mio defunto padre professore, e io da piccolo pensavo si riferisse alla tempura che servivano in una taverna giapponese nella strada accanto. Già allora si era risvegliata in me l'anima del cuoco.

In questi nove anni, è stata proprio la letteratura russa ad assicurarmi un'entrata più che dignitosa. Grazie alle sue pagine ardenti ho trovato la mia strada: un percorso duro, in cui sono passato da cuoco comune nelle bettole clandestine di Hong Kong a chef a tre stelle su chiamata, e ora posso permettermi di vivere in tournée, viaggiando per il mondo. Posso ben dirlo: l'Esperienza, sì, l'Esperienza, è "figlia di gravi errori". Sua madre, la Casualità. Suo padre, l'Intuizione.

Tutto, proprio tutto arriva con gli anni...

Ecco perché i libri vanno amati. Non a caso Zokal, il mio precettore, che per un leggendario banchetto notturno alla biblioteca di Atene si è beccato una "condanna a vita", diceva: "Un libro è il miglior regalo." Così noi, che allora eravamo ancora dei pivelli, sapendo che aveva in programma un poderoso grill party con le opere complete di Ian Fleming per la famiglia di un miliardario americano fissato con James Bond, per i suoi quarant'anni gli regalammo la prima edizione del Dottor No.

Dunque, viva i libri giusti nel fuoco!

Quello di oggi, infatti, era un classico mooolto giusto, un'edizione di Fëdor Michajlovič Dostoevskij pubblicata con l'autore ancora in vita.

Il cliente era un ricco tedesco di Berlino. Con sette ospiti di sessi diversi. Menù russo, naturalmente: caviale, vodka, pirožki e un solo piatto caldo da me eseguito, storione alla Dostoevskij.

È andato tutto bene. Ho letto il libro nel modo ideale, né troppo in fretta né troppo lentamente, con la minima quantità di fumo. Un classico. Ero in forma. La capacità di uno chef di sfogliare le pagine roventi per mantenere il fuoco uniforme è una delle caratteristiche più importanti della nostra professione. Le giriamo con Lina striscia metallica speciale a forma di spada, che nel nostro ambiente chiamiamo "excalibur". Ogni cuoco ha la sua excalibur forgiata su ordinazione. Dopo un'ultima perquisizione a Palo Alto, ne ho presa una nuova, di titanio, con il manico d'osso.

La mia spada non mi ha fatto sfigurare nemmeno questa volfa.

Ho servito su un piatto d'argento otto spiedini con appetitosi pezzi di storione infilzati, senza verdure né altro contorno. Da puristi. Assieme a un Roederer dell'anno in cui sono diventato uomo.

"Bon appétit!" ha augurato con discrezione agli ospiti il padrone di casa.

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Pagina 11

Se la gente avesse continuato a pubblicare e a leggere libri, a quest'ora mi troverei, nel migliore dei casi, in qualche resort ad arrostire un'orata alla griglia e, nel peggiore, in una bettola della mia natia Budapest a cucinare piatti di spaghetti. Non sarei mai diventato uno chef: non sono capace di dirigere una brigata. Ma, grazie al Fuoco, la macchina da stampa mondiale è ferma ad arrugginire da parecchio tempo. L'epoca di Gutenberg si è conclusa con il pieno trionfo dell'elettricità.

Nel nostro mondo l'unica cosa che si continua a stampare sono i soldi. Persino i francobolli sono belli che andati. Le banconote, invece, sono ancora qui...

A differenza dei libri, i soldi bruciano male. Per questo non si usano per cucinare.

È sorprendente che i contanti siano durati fino a oggi. Oh, Banconota! In un oceano di lampi elettronici ti sei rivelata incredibilmente stabile.

E, comunque, viva la Letteratura!

Dal momento in cui l'umanità ha smesso di stampare libri e i migliori li ha trasformati per sempre in oggetti da museo, ha fatto la sua comparsa il book'n'grill. Gli uomini tendono sempre una mano verso un frutto proibito. Il novanta per cento dei libri stampati dall'umanità era stato portato in discarica o semplicemente gettato in pattumiera affinché non occupasse spazio nelle case. Così le poche decine di copie sopravvissute nei musei e nelle biblioteche avevano suscitato nella parte migliore dell'umanità un'incredibile passione. La prima bistecca grigliata in quel modo fu cucinata a Londra dodici anni fa, alla fiamma di una prima edizione del Finnegans Wake sottratta al British Museum. A cucinarla e mangiarla furono quattro grandi uomini: uno psicanalista, un fiorista, un operatore di Borsa e un controfagottista. Nacque così il book'n'grill, una grande passione, che in questi anni irruenti si è trasformata in una grande tradizione...

[...]

Eppure, già dopo sei mesi, quando le rapine nei musei e nelle biblioteche di tutto il mondo erano diventate notizie di normale amministrazione, all'umanità toccò dichiarare il book'n'grill un reato non solo contro la cultura, ma anche contro la civiltà in generale. La scure della legge pendeva oltre che su cuochi, ladri di libri e clienti, anche sugli ospiti, smaniosi di assaggiare un carré di agnello alla Don Chisciotte oppure una bistecca di tonno alla Moby Dick. I primi processi in tribunale fecero grande clamore e, naturalmente, si conclusero con condanne severe: gli uomini cercavano di proteggere il proprio retaggio culturale. La parte più illuminata dell'umanità temeva che, senza i libri nei musei, l' Homo sapiens si sarebbe trasformato definitivamente in una scimmia con l'iPhone nella zampa. Così l'oggetto-libro finì nel Libro Rosso dei beni in estinzione.

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Pagina 21

14 marzo



Mattino

La giornata è cominciata con un bagno, la colazione e un viaggetto per ritirare la merce. Mi porteranno la legna dove verrà loro indicato. Quando ero un cuoco normale, giravo per i mercati clandestini. In un mercatino di libri a Padova mi sono beccato un paio di pallottole in una spalla, che adesso mi fa male ogni volta che c'è brutto tempo. Oggi il mio è uno status diverso, posso concedermi parecchie cose. Scelgo e i postini mi consegnano il libro nel posto stabilito. I miei sono antiquari bravi, lavoro con loro già da due anni. Prima prendo la metropolitana, poi fermo un taxi direttamente in strada. Scendo dal primo taxi e ne prendo un altro. Sono un po' all'antica. È per via del mio passato, quando i libri che acquistavo me li portavo a casa da solo. Erano tempi assurdi...

Per la strada bisogna stare molto attenti. In generale, io sono uno super attento. Dopo due pallottole, tre perquisizioni, due sparatorie, tre "patacche", quattro scazzottate... la prudenza non è mai troppa.

Arrivo a Kreuzberg. In un parcheggio sotterraneo. Quarto livello, niente macchine.

Ad aiutarmi ho le mie pulci intelligenti. Sono tre: una rossa, una blu e una verde. La rossa è la più importante, guida il mio psicosoma, mi inserisce nel tempo, mi rende più intelligente; è un giocattolino costoso, la versione 7, da centomila, saltata nel ponte di Varolio del mio cervello sei mesi fa. La blu, di navigazione, si muove in mezzo ai miei capelli. La verde, comunicativo-informativa, vive nel mio padiglione auricolare. Non uso più macchine intelligenti manuali e molli già da un bel pezzo. Tutto questo sofisticato complesso di pulci mi è costato quanto un anno e mezzo di compensi. Ma è grazie a loro se oggi sono ancora vivo e vegeto. E adesso ho tutto in testa. Con il loro aiuto posso apprendere una lezione sull'ultimissima teoria dei Campi Oscuri, raccontare nel dettaglio tutti i Vangeli apocrifi conosciuti, confutare l'equazione di Schrödinger con l'aiuto della formula di Kameyama oppure rispondere con cognizione di causa a domande sulla tecnologia di fabbricazione dell'impasto intelligente o delle pulci stesse. Da solo non sarei più nemmeno in grado di moltiplicare 17 per 19 e non ricordo cosa sia un'interferenza. Che ci volete fare, ci hanno insegnato così a scuola. In generale, le cose migliori della mia vita da cuoco le devo tutte alle mie pulci: mi forniscono suggerimenti, mi avvertono, mi salvano. Vedono non solo le persone che mi circondano ma persino gli insetti. Le pulci mi hanno avvertito numerose volte della presenza di pulci e pidocchi veri lasciati nei ristoranti da avventori trasandati. Da dopo la guerra ce ne sono in abbondanza. In un albergo ad Atene mi hanno salvato dalle cimici.

Le mie pulci ora stanno frinendo che è tutto pulito.

Dopo neanche un minuto, compare la jeep bianca degli antiquari, seguita a ruota da quella nera della scorta. La pulce blu emette un trillo di riconoscimento. Di nuovo via libera. Spunto da dietro la colonna di cemento. La scorta scende, fa trillare le sue macchine intelligenti. È buffo guardare i vecchi film di successo con le guardie con le pistole. Adesso non servono più. Oggi, in mano, è più importante avere un'amica molle che una pistola...

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Pagina 28

L'odore, l'odore della Steppa... mi si è fissato nella memoria. È composito. La pulce lo identifica: mogano essiccato, tabacco da pipa, stoppa, cherosene, liquirizia, cera, chissà perché squalo essiccato e, come sempre, profumo di mele (una conseguenza della decomposizione della cellulosa, grazie, pulce). In generale, l'odore dei libri è una questione a parte. Annusare un ciocco significa rispettare questa professione. I cuochi non annusano forse la carne o il pesce prima di cucinarli?

I libri vecchi hanno ognuno un proprio odore. La mia pulce verde li colleziona. Per lo più si tratta di odori complessi, ma ce ne sono anche di semplici. Per esempio, le favole tedesche profumano sempre di vaniglia, mentre i romanzi di Jules Verne odorano di muschio. Kafka, di legno di quercia e di piombo. Dickens, di ruggine ed escrementi di gatto. Una prima edizione di Nietzsche emana sempre un odore di pelo d'asino. Le 120 giornate di Sodoma puzzano di alghe di mare e di trementina. Venere in pelliccia ha un odore di pane di segale. Quanto alla letteratura russa, con cui cucino io, odora sempre in modo diverso, ma piacevole. La prima opera omnia di Turgenev profuma di composta di frutta. Una raccolta delle opere di Dostoevskij, di catrame. Mentre Tolstoj, di pastilà di mele, mischiata a bile d'orso.

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Pagina 31

Il mio è un destino tortuoso. Sono nato a Budapest trentatré anni fa da una famiglia di ebrei bielorussi e Catari polacchi. I miei genitori erano profughi: mio padre era scappato dai fondamentalisti ortodossi, mia madre da quelli islamici. Entrambi gli oscurantisti con la barba lunga pretendevano dalla popolazione amore e comprensione, per questo bombardavano, bruciavano, accoltellavano e fucilavano senza pietà. I miei genitori si incontrarono in un campo profughi, ma poi si stabilirono a Budapest, allora per fortuna occupata dagli americani. In generale, per i miei genitori Budapest era sinonimo di felicità, aveva rappresentato la salvezza, l'amore, la nascita del primo figlio, un'isola di vita fortunata, il Sziget festival, dove ballavano abbracciati. Sarà per questo che mi hanno dato un nome ungherese: Géza. Anche se mia madre ha sempre insistito di averlo scelto solo per la bellezza del suono. Mio padre, invece, su questo non si è mai espresso.

Di cognome papà fa Jasnodvorskij, che non sta a indicare origini nobili polacche o russe, ma deriva da Jasen Dvor, un posticino sul confine lituano-bielorusso, dove i nostri avi ebrei erano vissuti per trecento anni. Da là fuggirono due volte: nel 1906, dopo i pogrom contro gli ebrei, e nel 1941, scampando alle Einsatzgruppen SS. Ma poi tornarono nella loro cara Jasen Dvor, dove, a quanto diceva il mio bisnonno, "ogni primavera i frutteti di meli e le latrine straripanti mandano un odore così forte da diventar matti".

In Bielorussia mio padre era un antropologo famoso, che sulla Slavia antica si era costruito precocemente una carriera di professore. Fosse stato un po' meno rigido, non sarebbe fuggito da "quei coglioni con la barba", ma avrebbe tirato con tranquillità la cinghia accademica, dato che si occupava di un tema a loro caro dal punto di vista ideologico. Ma il suo intervento alla conferenza di antropologia a Parigi intitolato Le radici gotiche dei bielorussi scosse la società antropologica e sollevò dubbi su di lui nel KGB ortodosso di Minsk. Gli agenti si rivolsero a papà con indulgenza, chiedendogli di sconfessare i suoi studi alla conferenza successiva a Lubecca, ma lui, per "pure ragioni scientifiche", non se la sentì di giungere a quel punto. Non avendo allora una famiglia sua, papà, a Lubecca non ci arrivò nemmeno, scese dal treno prima e si diresse al confine ungherese. Per quale ragione non era rimasto in Prussia, non lo sapeva nemmeno lui, così ci scherzava: "L'ho fatto per incontrare tua madre." In realtà, conosceva e apprezzava il rettore dell'università di Budapest e alla cattedra di antropologia ottenne subito un posto da professore. Svolgeva le sue lezioni in inglese. A casa i miei genitori parlavano esclusivamente in polacco. In russo e in bielorusso mio padre imprecava soltanto. Di ungherese conosceva qualche parola. Come si suoi dire: "Nélkül non è che prometta bene." Quando nacqui, mi ritrovai a vivere in un ambiente bilingue. Tuttavia, studiai in una scuola ungherese solo per quattro anni: dopo la tristemente nota Pace della Transilvania, gli americani lasciarono il paese e la seconda ondata della Seconda rivoluzione islamica travolse l'Europa Orientale, e noi. Scappammo. Questa volta in Baviera, che accoglieva i profughi dell'Europa Orientale. Vagammo per sei mesi, poi mio padre ottenne un posticino tutt'altro che stabile come docente all'università di Passavia, mentre la mamma lavorava alla mensa dei professori. Bisogna dirlo, cucinava proprio bene, avrò preso da lei le mie doti culinarie. Mio padre, invece, sapeva cucinare solo due piatti: frittata e patate in giacchetta...

Dopo tre anni vissuti a Passavia avevo imparato il tedesco e il bavarese, a giocare a basket, a Blub, Red Lizard, [...], guidare un carro armato, piazzare le mine e sminare, sparare con la pistola, con il fucile, con il mitra e la mitragliatrice. Per il mio quattordicesimo compleanno, però, mio padre fece a me e a mia madre un bel "regalino": si innamorò di una collega più vecchia di lui di otto anni, con la quale salpò per la prospera Australia. Mia madre ne rimase sconvolta, cominciò a bere, anche se prima aveva sempre avuto un rapporto freddo con l'alcol. Era una tranquilla musulmana di una famiglia tartara di intellettuali della Crimea, trasferitasi a Cracovia all'inizio del secolo, dopo la presa della Crimea da parte dei russi: il divieto di assumere alcol non l'aveva mai nemmeno sfiorata. A tormentarla era soprattutto che mio padre avesse scelto una "vecchia carretta dell'università".

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Pagina 9

Fa il suo ingresso rotolando come una pagnottella tonda quel mattacchione di Antonio, un maestro di scaloppine alla Tornasi di Lampedusa. Nella Cucina lo hanno criticato tanto per la deriva da fast food che aveva preso mettendosi ad arrostire notte e giorno triglie alla Baricco e per aver caldeggiato attivamente l'introduzione della letteratura per ragazzi nel book'n'grill. In quell'idea, però, il Quintetto non lo aveva sostenuto. Sono contrario anch'io alle letture per ragazzi. Non è una questione morale (siamo tutti, indubbiamente, dei cinici affaristi), ma di mero calcolo economico: un bambino può fissarsi con alette di pollo poco costose cucinate con Peter Pan e richiederle anche in età adulta, perdendosi il gusto per la letteratura seria. L'infantilismo! Un vero e proprio pericolo. Dobbiamo trafficare sul serio con i bambini? Il dodicesimo congresso ha comminato ad Antonio una sanzione da cinquantamila per abuso di potere. Lui ha reagito con coraggio e, senza nemmeno cambiare grembiule, dopo aver pagato, si è messo a far conoscere Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. E gli è andata bene, bisogna ammetterlo. I guai del passato gli sono scivolati via come l'acqua.

"Antonio! Come brucia?"

"Forte, Géza, forte! Ho sentito che ti sei dato da fare con un Babel'?"

Come fa a saperlo? Mah...

"Possibile."

"Non hai paura dell'invidia degli ebrei?"

"Non ho fatto le scarpe a nessuno, Antonio. Babel' è uno scrittore sovietico."

"Ed ebreo. Abraham potrebbe prendersela con te."

"Sarebbe un suo problema. Io mi limito a rispettare il codice."

"Hai presente quando organizzai quella festicciola per bambini a Palermo con un Gianni Rodari? Ero convinto anch'io di non sbagliare!"

"È una cosa diversa, Antonio."

"Géza, conosco la mentalità della diaspora ebraica nella Cucina. Quelli si incavolano."

"Übertreibung," dice Alvis, battendo il pugno rossiccio contro i nostri pugni. "Di tanto in tanto leggo con un'opera di Feuchtwanger e a me nessuno degli ebrei ha mai detto una parola."

"Feuchtwanger! Ma per favoooore!" ride Antonio, e gli molla una pacca su una spalla. "Arriverà il momento in cui te lo diranno! Vogliono gli scrittori ebrei solo per loro, si prenderanno anche il tuo Feuchtwanger."

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Pagina 188

Nei minuti di irrequieta attesa non bisogna sprofondare nel sonno, ma tuffarsi in vecchi film piatti. Calmano e risollevano lo spirito meglio di qualsiasi dormita. Ad attendermi ci sono i miei amici Jeeves e Wooster. Adoro la prima serie, quando dopo un processo ridicolo per una bisboccia notturna l'aristocratico si trascina a casa mezzo ubriaco, crolla sul letto e subito dopo finisce nelle mani del suo angelo tutelare, il nuovo maggiordomo impeccabile e cortese, che esordisce nel suo compito preparando a quell'aristocratico contaballe un cocktail contro i postumi della sbornia. Un sorso di succo di pomodoro con sale, pepe, brandy e rosso d'uovo, un bagno, biancheria pulita, un cuscino in una federa di stoffa olandese ben sprimacciato, un sonnellino diurno, giornali di carta su un vassoio, la colazione tardi a letto, una vestaglia, canzoni da scapolo, una passeggiata, un pranzo allegro con ricchi sfaccendati come lui, divertimenti notturni... che ci può essere di meglio per uno scapolo?! Ogni volta che guardo quella serie desidero quella vita. Non mi serve una famiglia: figli, una suocera, feste con i parenti, ballare intorno a un albero di Natale olografico - "Cara, non è che hai visto i miei calzini?" "Tesoro, sul sedere mi è spuntato di nuovo un foruncolo che non mi convince"... - no, non fanno per me. Vorrei un maggiordomo, invece, calmo come una pietra, preciso e affidabile come un orologio svizzero, sempre rasato alla perfezione, vestito di tutto punto. Già. Sogno di avere accanto un uomo così. Con lui potrei girare il mondo, vivere all'insegna del divertimento. Una spalla fidata, mani esperte. E tutte le mattine sentire: "As you wish, sir!"

Una gran cosa.

Non è mica facile avere uno che ti dice: "At your service, sir!"

Ma non bisogna solo guadagnare bene, bisogna pure meritarselo. Io ci provo, cazzo... E sarebbe un'ottima cosa se sapesse anche cucinare come si deve. Sì, come si deve. È importante! Quando fra più o meno cinque anni me ne andrò in pensione dal servizio e userò un'excalibur solo per aprire le buste delle lettere scritte alla vecchia maniera, ordinerò al mio Jeeves bistecche, insalate e zuppe fredde.

A quarant'anni mi farò sostituire gli organi interni, cambiare la faccia, rimodernare il membro, installare nel cervello una super pulce...

"E la nostra felicità durerà per seeeeempre!"

Non faccio in tempo a finire la quarta serie che nell'abitacolo parte un segnale. Subito a ruota si sente la voce stentorea del biondo: "Calabroni! In piedi! Indossare le maschere! Equipaggiamento! Pronti in nove minuti!"

I bogatyri bianchi si alzano. Mi alzo anch'io. Si preparano, prendono le armi. Indosso la maschera, il casco bianco. Il biondo mi aiuta a infilarmi la valigetta dietro la schiena. Senza non sono niente.

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