Copertina
Autore Corrado Stajano
Titolo La città degli untori
EdizioneGarzanti, Milano, 2009, Nuova biblioteca 76 , pag. 256, cop.ril.sov., dim. 14,5x22x2,5 cm , Isbn 978-88-11-68362-9
LettoreRiccardo Terzi, 2009
Classe citta': Milano , storia contemporanea d'Italia , paesi: Italia: 1940 , paesi: Italia: 1960 , paesi: Italia: 1980
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Pagina 24

4.



Nelle sue inchieste Guido Galli scopre un'altra Milano, non più la capitale morale dell'apologia, ma la città dove la corruzione si è stesa come una rete da pesca messa ad asciugare al sole e dove i protagonisti sono spesso gli stessi di quel tempo di euforia collettiva. Corruzione non diffusa come trent'anni dopo ai tempi dell'inchiesta «Mani pulite», ma già ramificata tra finanza e politica.

Gli capita in sorte la causa della società SFI, la Società finanziaria italiana, andata a rotoli, di cui il ministro del Tesoro Emilio Colombo ordina, su proposta del governatore della Banca d'Italia Guido Carli, la liquidazione coatta amministrativa. La SFI è una società atipica, ha operato come se fosse una banca, contro la legge, raccogliendo il credito, manovrando i depositi.

«Nata come società finanziaria degli industriali tessili biellesi, si è poi smisuratamente ingrandita anche in altri settori e il boom della Borsa ha moltiplicato appetiti, velleità, megalomanie. [...] Controlla anche un centinaio di società immobiliari, industriali e finanziarie, possiede piantagioni di caffè in Costarica, è stata proprietaria dell'Agenzia giornalistica Italia ceduta poi a prezzo di favore a una corrente della Democrazia cristiana. Il denaro è stato raccolto soprattutto nelle province di Pavia e di Vercelli, tra migliaia di piccoli risparmiatori allettati da interessi più alti di quelli normalmente concessi dalle banche.»

Gli amministratori sono legati alla DC, il protettore politico è Giuseppe Pella, amico dei lanieri di Biella, che tenta il salvataggio della società, infruttuoso perché la situazione è ormai compromessa. Le parti lese sono quarantamila piccoli risparmiatori, il crac è di 70 miliardi. I dirigenti della SFI vengono arrestati, qualcuno riesce a scappare. C'è subbuglio in città perché sono persone che fanno parte dell' establishment. Vengono nominati commissari liquidatori un professore universitario, Tancredi Bianchi, il ragionier Ferdinando Tesi e Vincenzo Storoni, vicepresidente dell'Iri.

Molto impegnati nelle loro professioni, chiedono l'assistenza di un collaboratore in grado di fare da consulente giuridico. Viene scelto un giovane avvocato, Giorgio Ambrosoli , che per dieci anni, fin quando nel 1974 diventerà commissario liquidatore della banca mandata in rovina da Michele Sindona, la Banca privata finanziaria, sarà la vera mente di quella intricata questione culminata in un processo penale a carico di 29 imputati, i responsabili della società.

Il giovane avvocato lavora in piazza Pio XI, di fronte alla Biblioteca Ambrosiana, dove abitò Antonio Sciesa, il patriota milanese, un tappezziere, condannato a morte nel 1851. Sulla sua casa è murata la lapide con la famosa scritta: «All'austriaco gendarme che vita e denaro gli offriva a patto di delazione, sprezzante rispondeva "Tiremm innanz"». Soltanto.


Un incrociarsi di destini, quello di Giorgio Ambrosoli e di Guido Galli, che si conobbero in quegli anni in occasione della bancarotta della SFI: il magistrato fu pubblico ministero al processo che iniziò nel 1969. Coetanei, l'uno morì nel 1979, in nome dei princìpi di onestà, assassinato da un killer venuto dagli Stati Uniti su ordine di Michele Sindona: l'altro morì neppure un anno dopo in nome dei princìpi dello Stato di diritto, assassinato da un killer che scambiò quell'efferato delitto comune con l'idea di rivoluzione.


Guido Galli si trova a dover lavorare su un terreno di illegalità melmosa. La faccia meno visibile della città offre a chi sa andare oltre l'apparenza una cognizione del futuro. Gli anni Sessanta-Settanta e i primi anni Ottanta del Novecento più che fervidi sono torbidi. Segnati a Milano dall'ombra sinistra di due personaggi finiti tragicamente. Il primo, Sindona, in un carcere della pianura padana, a Voghera, ucciso nel 1986 dal cianuro contenuto in una tazzina di caffè, lo stesso destino toccato a Gaspare Pisciotta, il luogotenente del bandito Giuliano, all'Ucciardone di Palermo più di trent'anni prima. Il secondo, Roberto Calvi, trovato impiccato a Londra, nel 1982, sotto il Blackfriars Bridge.

Michele Sindona, il maestro, si muove tra la mafia italo-americana, la massoneria, la Democrazia cristiana, i servizi segreti, l'Istituto opere di religione, lo IOR – la banca sporca del Vaticano manovrata dal vescovo Marcinkus –, immobiliarista, consulente di aziende di cui denunziava le magagne a uomini corrotti della Guardia di finanza per dividere con loro il prezzo dei ricatti, speculatore di aree fabbricabili, venditore di villaggi turistici costruiti in Sicilia con la sabbia del mare, mediatore di traffici finanziari, banchiere in proprio, la Franklin National Bank negli Stati Uniti, la Banca privata finanziaria a Milano, al servizio della mafia e della politica. È il «salvatore della lira», come lo definisce Giulio Andreotti.

Roberto Calvi, l'allievo, si muove anche lui tra affari criminali, mafia, massoneria, il Partito socialista, i segreti del Vaticano, i potentati dell'economia e della politica. Diventa proprietario del «Corriere della Sera» attraverso la Loggia massonica P2 alla quale è affiliato insieme con il maestro. È il banchiere della banca dei preti, il Banco Ambrosiano, dove viene raccolto il denaro dei piccoli risparmiatori che, senza sospetti, seguono i consigli dei parroci.


(Poi verranno gli intrighi finanziari dell'ultimo decennio del secolo e degli inizi del Duemila, il proliferare della corruzione in tutti gli strati sociali, il groviglio del capitalismo irriformabile delle «scatole cinesi», lo spionaggio d'azienda collegato ai servizi segreti, i pataccari travestiti da grandi imprenditori, come ai tempi di Sindona, senza la sua cupa intelligenza, le società di gran nome svanite nel nulla o comprate dagli americani, dagli arabi, dai cinesi, dai giapponesi, gli scandali casalinghi, le tangenti diventate pratica abituale tra politici e aziende, i tavoli comuni in cui tutti i partiti, di maggioranza e di opposizione, si spartiscono gli illeciti proventi secondo il peso del potere. E poi le catene societarie, i patti di sindacato, i capitali irrisori che controllano enormi imprese come in un gioco beffardo. La finanza vince la sua partita con l'imprenditoria, si inabissa o quasi il mondo fondato soltanto sull'industria lasciando dietro di sé vuoti materiali e psicologici inimmaginabili.

A far da nuovi padroni sono le cordate degli speculatori immobiliari: promettono ai creduli cittadini quartieri a «misura d'uomo», palazzi in giardini incantati, condomini con piscine e campi gioco da sogno, pulendo così, con l'avallo di architetti famosi, il denaro della mafia. L'altezzosa fama di «capitale morale» di cui Milano gratificò generosamente sé stessa, è irrimediabilmente finita in fondo a un pozzo.)

Come diversa e persino affettuosa, al confronto, la lingera della Milano di Gadda: «L'Olocati Ermenegildo detto "el Gildogratta" o anche "el Biscella", già una volta rincorso, per quanto invano, dal brigadiere Veronesi della squadra mobile; Carlo Moriggi detto "el Pistòla"; Tantardini Agàtocle detto "el Scirésa"; Galbiati Pier Domenico detto "el Baüscia"; e Freguglia Vitaliano detto "el Casciavít."»

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10.



Piazza Fontana è a un centinaio di passi dall'Università. Ci torno per l'ennesima volta, ma la rivisitazione, in questa ricerca del corpo della città e della sua anima, assume un significato particolare: «Io certifico il reale / Io sto attento alle parole / Non voglio sbagliarmi voglio / sapere».

Passo da piazza Santo Stefano, lascio sulla destra la chiesa dedicata al protomartire della cristianità e, a far da quinta, più piccola, San Bernardino alle ossa, una cripta domestica dei cappuccini che raggela il sangue se si pensa alle pareti di teschi accumulati là dentro, biglie nerastre dagli occhi bucati, vittime della peste, condannati a morte, ergastolani, impiccati, ghigliottinati nei secoli passati.

L'assurdo è di voler rompere il tempo infinito trascorso da allora, quarant'anni quasi, due generazioni una volta, adesso forse quattro. La scritta Banca nazionale dell'agricoltura rimasta sulla facciata del palazzone squadrato, vista e rivista sui giornali, alla tv, sembra un relitto abbandonato. La banca ha cambiato nome e proprietà, si chiama Antonveneta ABN Amro, è diventata olandese, in attesa di cambiar di nuovo padronato e ragione sociale. Davanti alla piazza e dalla parte di via San Clemente dove una volta aveva sede il Consorzio Agrario e dove, in occasione del mercato del venerdì, si riunivano gli agricoltori, i fittavoli, i mediatori del contado venuti in città per le loro contrattazioni, si inseguono le vetrine della banca tappezzate di suadenti promesse: «Concediti il gusto. Prova il sapore di vantaggi concreti». «Making more possible.» (Una ragazza, un po' allusiva, mangia una tavoletta di cioccolato.) «Conto Sistema Dinamico.» Dedicato a chi lavora, mantiene le promesse e aiuta a raggiungere i propri obiettivi. (Un giovanotto con la testa rasata, piccolo manager di moda, con la cartella nera e il soprabito sul braccio, trascina una valigetta con le ruote.) «Conto Sistema Bellavista.» Dedicato a chi è in pensione. (Un vecchio felice innaffia girasoli e margherite.) «L'abbiamo creato per lei che vuole di più dalla pensione, che ha esperienza della vita e sa come passare delle giornate splendide, magari in compagnia dei nipotini.» E poi benefici per tutti, per il tempo libero, il benessere, una settimana alle Maldive, una settimana a Sharm-al-Sheikh, un weekend a Parigi, i regali di Natale, il «Conto Più Brio e Conto Clubba», per bambini e ragazzi.

Davanti all'ingresso c'è la fermata dello scalcinato tram numero 23, color arancio, e su un altro binario quella del jumbo tram numero 15, panciuto e potente, color verde e grigio. La fermata, una volta, non c'era, quella sera avrebbe reso ancor più opprimente la ressa delle ambulanze, delle barelle, dei carri dei pompieri.


Nel pomeriggio del 12 dicembre 1969 ero tornato da Roma e alla stazione centrale avevo preso un taxi. In piazza Fontana, mi disse il tassista, è appena successo qualcosa di grave, è scoppiata una caldaia alla Banca dell'agricoltura e si parla di molti morti. Gli dissi di portarmi alla banca, non più a casa. In piazza Fontana c'era solo qualche ambulanza, qualche macchina della polizia e dei carabinieri, si sentiva che da via Larga stavano arrivando i pompieri. Non c'erano ancora curiosi. I sopravvissuti, informi ossessi, uscivano barcollando dal portone della banca e si scontravano, nell'aria nerastra, con i barellieri che correvano in senso contrario.

«Macché caldaia, è una bomba, ci saranno trenta morti», disse qualcuno. Anche dopo la strage della stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, fu diffusa la falsa notizia che era scoppiata una caldaia. Ma undici anni dopo tutti erano diventati esperti delle tecniche della polizia, che nei momenti di emergenza ha bisogno di guadagnar tempo per tentare di saperne di più, per ricevere ordini, per decidere il da farsi.

Non c'erano cordoni polizieschi e senza difficoltà entrai nella grande sala a pianterreno. Vidi subito un braccio appiccicato a un muro e poi una testa rotolare sul pavimento tra detriti, carte, cadaveri, travi, seggiole rotte. Girai intorno al bancone dalla forma di ferro di cavallo. Il sangue colorava il vetro polverizzato e il legno dei mobili ridotto in briciole. Brandelli di corpi umani - una macelleria dell'orrore - spuntavano da ogni parte, qualche cadavere era finito dietro il bancone dove gli impiegati, una parte di loro, almeno, erano riusciti a salvarsi buttandosi a terra come in una trincea.

I salvati venivano condotti fuori a braccia, infilati nelle ambulanze. Qualcuno - un infermiere, un poliziotto? - gettava in un mucchio informe gambe, braccia, teste, pezzi di cadavere trovati via via nel salone. Nessuno gridava, era il momento del silenzio innaturale che viene sempre dopo la tragedia. Non provavo sentimenti, non avevo reazioni, non mi ponevo domande, mi sentivo confusamente prigioniero di un'atonia paralizzante. Non mi veniva in mente niente, riflessioni, pensieri, giudizi. Come se il cervello si fosse azzerato. La coscienza, anche dopo un massacro, affiora con lentezza. Ero invece smisuratamente attento ai particolari. Non smettevo di guardare i resti straziati dei corpi tutt'uno con l'intonaco, un tavolo rotto, una mano recisa, una macchina da scrivere schiacciata, una scarpa. Ma mentre camminavo sui calcinacci non sapevo ancora collegare i tasselli di quel che era accaduto in quell'ambulacro di morte.

Tra le macerie captavo qualche parola. Sembravano voci recitanti, dialetti mescolati di tonalità diverse. A esprimersi, con mozziconi di frasi, tra i lamenti, erano gli ultimi sopravvissuti, impiegati, commessi, agricoltori.

La bomba era scoppiata con un gran tuono e un bagliore. La borsa che conteneva l'esplosivo - si saprà dopo che era un misto di polvere e di plastico di provenienza militare - era stata messa sotto il tavolo di legno in mezzo al salone e aveva creato un buco profondo dalla forma di un rettangolo. L'epicentro della strage. I frammenti della bomba erano schizzati soprattutto dalla parte dei banchi degli impiegati seminando cadaveri, smembrandoli – diciassette morti e un centinaio di feriti –, ma questi numeri veritieri si sapranno durante la notte e nei giorni successivi dopo un macabro alternarsi di voci. Non riuscivo a spostarmi dall'orlo del buco. Cominciavo lentamente a capire l'enormità di quanto era successo ma senza la percezione di trovarmi dentro una storia di cui si sarebbe discusso per anni.

A un certo momento vidi sul muro dietro i banconi l'orologio della banca che non avevo notato prima. Paralizzato come da una sincope. Si era fermato alle 16.37. Quasi un notaio della strage. Farà il giro del mondo.

Fino a quell'ora il salone della Banca nazionale dell'agricoltura era stato popolato più del solito dai clienti del mercato del venerdì, di antica tradizione, estate e inverno. Per offrire ai clienti maggiori opportunità, gli sportelli, nel pomeriggio di quel giorno, restavano aperti più a lungo dell'orario abituale.

Compratori e venditori di bestiame, di terreni, di fieno, di grano, di sementi, usavano da sempre la banca dell'agricoltura e il tavolo di legno massiccio, ottagonale, era il posto dove, dopo gli interminabili tira e molla e le rotture, vere o finte, dopo la stretta di mano dei contraenti, tagliata dai mediatori, come usava un tempo, si arrivava all'atto finale. Si sedevano proprio lì gli agricoltori per firmare l'assegno, il bonifico, la distinta di versamento, la cambiale. Il tavolo, sotto il ripiano di scrittura, era diviso a spicchi e capitava che i clienti appoggiassero la loro borsa sul pavimento accanto ai divisori di legno.

Anche l'assassino aveva lasciato lì sotto la borsa fabbricata da un'industria tedesca, la Mosbach e Gruber, con dentro la bomba. Venduta con altre tre borse simili – si saprà dopo – dalla valigeria Al Duomo di Padova.

Restai ancora un po' di tempo, non misurabile, in una gran polvere di relitti davanti a quel poligono di morte. Poi cominciarono ad arrivare le autorità, il prefetto, il cardinale, il questore, il sindaco e si misero in moto i meccanismi dell'ufficialità. Si formarono blocchi, cordoni, barriere, cominciarono a sentirsi urla stizzite, gli ordini gutturali delle guardie. Le autorità interessavano più dei morti e dei sopravvissuti. Uscii dalla banca o fui fatto uscire.

Non avrei mai immaginato, allora, quanto quel fatto atroce sarebbe stato importante nelle scelte della vita di molti. Significò il rifiuto di tutto quanto viene dato per scontato, la necessità di una continua riconquista dei diritti acquisiti e poi cancellati, il dovere di mettere perennemente in discussione le «verità» del potere politico e istituzionale e le certezze di chi, in nome della ragion di Stato, ritiene oro colato anche le bugie più impudiche.

Quante volte avrei sentito, dopo, le parole piazza Fontana, Banca nazionale dell'agricoltura.

Quella notte andarono a dormire in pochi. Si temeva il colpo di Stato. Dopo averne parlato per mesi i ragazzi del Movimento studentesco cercavano ora un tetto fuori di casa per nascondersi. Fino a tardi ci fu quasi una processione nella piazza, uomini e donne di ogni condizione sociale sostavano in piccoli gruppi davanti alla banca e nelle strade lì intorno, via Santa Tecla, via Larga, via Festa del Perdono, piazza Santo Stefano, il Verziere. A discutere, a far congetture, a darsi torto o ragione mentre le notizie delle bombe di Roma all'Altare della patria e alla Banca nazionale del lavoro e del fallito attentato di Milano alla Banca commerciale italiana, in piazza della Scala, aprivano nuovi scenari e alimentavano nuovi incubi.

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Indro Montanelli, il giornalista principe della nazione, stella polare della città – Milano gli ha dedicato nel 2006 una statua dorata, seduto in un tempietto ai giardini pubblici con la sua Lettera 22 sulle ginocchia – è il nume della borghesia conservatrice che un quarto di secolo dopo lo tradirà. Forcaiolo anarcoide, modello del fascista che in un fantasioso domino di date apocrife cancella il suo passato, reazionario travestito da vecchio saggio, abile nell'apparire controcorrente, italiano selvaggio e acuto, giornalista di arcani istinti, è riuscito a render credibile la favola di essere uno che gliele canta chiare ai potenti dei quali è al servizio. Venerato dal suo pubblico, capace di dar di sé un'immagine di uomo libero, ha saputo mascherare con la sua abilissima verve e con un uso sapiente e spregiudicato delle bugie, la verità dei fatti secondo i desideri padronali. Conservando la sua fama di anticonformista naturale.

Sulla terza pagina del «Corriere della Sera» il 21 marzo 1972 scrive un elzeviro, Lettera a Camilla, dedicato a Camilla Cederna, giornalista che sull'«Espresso» ha condotto, negli anni di piazza Fontana, una battaglia appassionata in nome della giustizia. È un articolo violento, nutrito di maschilismo impudico dove la volgarità si sposa all'insulto della più becera camerata di caserma.

«C'è chi parla di un retour d'âge, ma questo lo escludo senz'altro, visti i tuoi giovanissimi quarant'anni portati in modo che sembrano trenta. C'è chi dice che, più delle bombe, ti sei innamorata dei bombaroli, e questo, conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla parola "amore" si dia il suo significato cristiano di fratellanza [...]. Fino a ieri testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino, ora si direbbe che tu abbia sempre parlato il gergo dei comizi e non sappia più respirare che l'aria del Circo. Ti capisco. Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanità, ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto patronato. Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della café society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d'uomo anche se forse un po' troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga. [...] »

Camilla Cederna risponde con severità sull'«Espresso» senza indulgere alla polemica: «Pubblicando la Lettera a Camilla [hai fatto] un vero connubio linguistico da destra nazionale, col suo linguaggio, la sua delicatezza cultural-sessuale (hai letto l' Eros e Priapo di Gadda?). Hai anche l'aria di voler fissare un limite d'età per la scoperta dell'impegno ideologico, per il mestiere di "sentinella", ma cosa mai ti fa pensare che per questo ci voglia un'età acerba? Il problema è di essere coerenti con le proprie convinzioni e di difendere i valori morali in cui si crede, cercando di dare alla giustizia un contenuto diverso da quello a cui siamo abituati, cioè la continua incarcerazione degli innocenti. Può darsi che rispetto a te abbia perso credibilità, ma l'importante è combattere una battaglia giusta e non avere la stima dei soliti benpensanti».

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Nasce così il ballo macabro della «Colonna infame». È il primo giorno d'estate, piove. Sembra una storia di quartiere a ripensarla oggi, dentro un isolato di dimensioni non ampie, popolato di sbirri, di bargelli, di monatti, di gente da bettola e da lupanare, di stregoni, esorcisti, crocesegnati, inquisitori, diavoli, draghi, boia, spie e anche, dentro e fuori da quel pantano immondo, frati, preti, monsignori, madri badesse, capitani di giustizia, ufficiali di Sanità, medici, giuristi, il cardinale, il governatore, il gran cancelliere, il presidente del Senato.

Da quel puntino di Porta Ticinese dove il silenzio di prima dell'alba viene rotto dalle chiacchiere tremebonde delle donnicciole della Vetra alle grida mortali del Senato al Lazzaretto al Castello alla guerra combattuta nell'assedio di Casale Monferrato ai ministri fino al re di Spagna, terra lontana e domina; si consuma qui la misera vita del barbiere Giangiacomo Mora.

La struttura dei luoghi non è mutata. Fanno da sfondo le colonne di San Lorenzo dove passano le notti i giovani tristi di oggi che lasciano il segno della loro presenza con le lattine, le bottigliette di birra, le siringhe, le cartacce gettate per terra, il piscio che cola nella piazza della basilica e le botteghe – il cuoiaio, il venditore di stoffe, il tintore, il maestro pellettiere, il farmacista e i bar, Todos a Cuba, Al Battirolo, Exploit. Quattro secoli fa levavano le insegne qui intorno l'Hostaria della Rosa d'oro, l'Hostaria del Gambero, l'Hostaria di San Paolo, l'Hostaria dei sei ladri, l'Hostaria delli Brugnoni, l'Hostaria dell'Agnello, l'Hostaria del Paiazza, l'Hostaria della Parazana, posti, spesso, di loschi traffici.

C'era un tempo anche l'Offellaria delle sei dita, il batidor de oro, il candelaio, il menescalco e un po' più in là, andando verso il cuore della città, «il fruttaruolo che vende gambari in Carrobio» e il gran bar color arancione dove la ragazza della banda di terroristi aspetterà, nel 1980, il buon esito dell'azione degli amici, l'assassinio del giudice Guido Galli, in fuga dall'Università statale.


Furono i lanzichenecchi, «ventiduemila pedoni e 3500 cavalli» o «forse trentacinquemila tra cavalleria e fanteria», a scendere dai Grigioni e a portar la peste a Milano.

L'orda passò nel settembre 1629 lasciando guasti e rovine, ma fu un soldato, di nome Pietro Paolo Locato il corriere del contagio. Di guarnigione a Chiavenna, il 22 novembre ebbe una licenza per far visita a Milano alla zia Elisabetta – i cognati, le zie e i nipoti popolano la storia sociale d'Italia oltre, s'intende, alle trepide madri mediterranee in adorazione dei figli fino a tarda età.

«Ammalò e, peggiorando, venne trasportato all'ospedale grande non avendo mezzi per farsi curare in quella piccola casa. Dopo due giorni morì e, fatta l'autopsia del cadavere, si trovarono i bubboni, indizio sicuro di peste, non mai prima riscontrati in città benché il volgo molto ne mormorasse. In breve morirono quanti abitavano in quella casa, togliendo ogni dubbio che la peste fosse introdotta in Milano. Denunziato il caso al magistrato di Sanità, venne posta sotto sequestro la casa di cui era proprietario un Colonna, il quale morì egli pure insieme con la moglie e i figli.»

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22.



La storia non insegna mai nulla, come predicano invece i manuali scolastici. È una palla di neve che rotola, si ingrossa e poi si sfalda sotto la pioggia. Nel Novecento, e poi nel Duemila, quattro secoli dopo il 1630, la tortura resta indenne nel corpo di non pochi Stati e nell'agire degli uomini.


1944. Dalle Lettere di condannati a morte della Resistenza europea. Franc Mernik, contadino iugoslavo, fucilato dai nazisti il 16 giugno 1944 a Maribor.

«Cara moglie, tu sai come ci torturano. Ci spengono sul petto nudo le sigarette accese, e, di giorno in giorno, quando ci sono gli interrogatori, ci tirano la pelle con tenaglie arroventate, ci mettono le dita sui ferri arroventati o ci estraggono le unghie dalle dita. Sono sofferenze terribili. Rimani coraggiosa e in buona salute; educa bene nostro figlio e nostra figlia, se ormai il destino ha deciso che non ci incontreremo più nella vita. [...] Il tuo addolorato marito, Francek Mernik.»


1957. La guerra d'Algeria. Henry Alleg, giornalista di «Alger républicain», catturato dai paracadutisti francesi.

«Sempre sorridendo mi agitò dinanzi agli occhi le pinze cui erano fissati gli elettrodi. Piccole pinze d'acciaio brillante, lunghe e dentellate. Pinze "coccodrilli", dicono gli operai delle linee telefoniche che le adoperano. Me ne fissò una al lobo dell'orecchio destro, l'altra a un dito della mano destra. Improvvisamente sobbalzai e urlai a squarciagola. Cha... mi aveva cacciato in corpo la prima scarica elettrica. Vicino all'orecchio era scoccata una lunga scintilla. Sentii il cuore balzarmi nel petto. Mi torcevo urlando e mi irrigidivo sino a ferirmi, mentre le scocche trasmesse da Cha..., magnete in mano, si succedevano senza soste. Con il loro stesso ritmo Cha... scandiva una sola domanda, martellando le sillabe: "Dove sei stato ospitato?".

Mi tolsero í pantaloni, abbassarono lo slip e mi fissarono gli elettrodi agli inguini. Cominciarono a girare la manovella del magnete. Ormai non gridavo che all'inizio della scossa e a ogni nuova immissione di corrente; i miei movimenti erano assai meno violenti che durante le prime sedute [...]. Mentre il supplizio proseguiva, sentivo una radio urlare canzonette di moda.»


1967. La Grecia dei colonnelli. «Durante il 1967, i rapporti sulle torture cominciavano ad apparire sulle pagine del "Guardian", di "Le Monde", del "Times", del "New York Times". Amnesty International inviò due missioni: i rapporti, redatti da un avvocato inglese e da uno americano, citavano i luoghi della tortura, le tecniche impiegate, e anche i nomi dei torturati e degli aguzzini.

«A un anno dal putsch, all'estero si poteva avere un'idea chiara di ciò che accadeva in vari posti di polizia e nei campi militari greci. Nessuno ignorava più la sede di via Bouboulinas e il suo capo Lambru. Il campo militare di Dionisos, alla periferia di Atene, era conosciuto per la brutalità e per il comportamento del maggiore Theofilojannacos. Il corpo degli aguzzini comprendeva membri della politica militare (ESA) e del KYP (la CIA greca) e anche medici, il più celebre dei quali, il dottor Karagunakis si dedicava alla tortura elettrica nell'ospedale militare 401.»


1982. L'Iran di Khomeini. Marina Nemat, 16 anni, ritenuta una sovversiva dal governo islamico, condannata a morte, poi graziata.

«"Ti frusterò le piante dei piedi con questo tubo", disse dondolandomi davanti alla faccia un pezzo di tubo nero, di più di due centimetri di diametro. "Alì, secondo te quanti colpi ci vorranno per farla parlare?" "Non molti." "Io dico dieci." Il tubo fendette l'aria con un sibilo secco e minaccioso, atterrando sulle piante dei miei piedi. Dolore. Non avevo mai provato niente di simile. Non avrei nemmeno potuto immaginarlo. Mi esplose dentro come la scarica di un fulmine. Secondo colpo: il respiro mi si fermò in gola. Com'era possibile soffrire in quel modo? Cercai di pensare a qualcosa che mi aiutasse a resistere. Non potevo gridare perché non mi era rimasta abbastanza aria nei polmoni.»


2003. Sul cittadino egiziano Abu Ornar rapito dalla CIA in Italia. «Il Parlamento europeo [...], considerando che la proibizione della tortura è una norma imperativa del diritto internazionale jus cogens, a cui non è possibile derogare, e l'obbligo di proteggere dalla tortura, di indagare in proposito e di condannarla è un obbligo di tutti gli Stati erga omnes, come sancito dall'articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, dall'articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali dell'Unione europea e dalle costituzioni e legislazioni nazionali degli Stati membri; considerando che convenzioni e protocolli specifici concernenti la tortura e i meccanismi di controllo adottati a livello europeo e internazionale dimostrano l'importanza attribuita dalla comunità internazionale a questa norma inviolabile; considerando che l'uso di garanzie diplomatiche è incompatibile con tale obbligo, [...] condanna la consegna straordinaria da parte della CIA del funzionario egiziano Abu Omar, al quale era stato concesso asilo in Italia e che è stato rapito a Milano il 17 febbraio 2003, trasferito in macchina da Milano alla base militare Nato di Ramstein in Germania, verso l'Egitto, dov'è stato tenuto in incommunicado e torturato; condanna il ruolo attivo svolto da un maresciallo dei carabinieri e da taluni funzionari dei servizi segreti e di sicurezza militari italiani (SISMI) nel rapimento di Abu Omar, come risulta dall'indagine giudiziaria e dalle prove raccolte dal Pubblico ministero di Milano Armando Spataro; conclude e deplora il fatto che il generale Nicolò Pollari, già direttore del SISMI, abbia nascosto la verità il 6 marzo 2006, quando è comparso di fronte alla commissione temporanea, affermando che gli agenti italiani non avevano partecipato a nessun rapimento perpetrato dalla CIA e che il SISMI non era a conoscenza del piano per il rapimento di Abu Omar.»


2004. Le torture nella prigione di Abu Ghraib dopo l'aggressione USA dell'Iraq avvenuta nel 2003. Le immagini di quel che accadeva nella prigione sono state trasmesse per la prima volta dalla rete televisiva americana CBS nel programma 60 minutes II, il 28 aprile 2004.

«Ciò che le immagini di Abu Ghraib hanno chiaramente mostrato è il volto sorridente dei soldati americani impegnati a tormentare i detenuti. Le pose che assumono sono di chi è felice di apparire in una foto ricordo, sempre pronta in tasca per essere mostrata con orgoglio ad amici e parenti.

Questo dimostra come le torture siano state perpetrate in un contesto assolutamente libero, senza che vi fosse da parte degli aguzzini la minima preoccupazione rispetto al rischio di essere scoperti dai superiori, forse anzi con la consapevolezza che tali crimini potessero essere commessi non solo con la loro acquiescenza, ma addirittura con il tacito consenso. Non è un mistero, del resto, che torturatori non ci si improvvisi da un giorno all'altro: occorre un soldato inesperto e poco preparato sugli standard internazionali del diritto umanitario, meglio se adeguatamente indottrinato sulla cattiveria assoluta e bestiale del nemico da punire; servono superiori pronti a chiudere un occhio sul rispetto della disciplina e un'intera catena di comando propensa ad accettare esuberanze che spesso arrivano a configurarsi come veri e propri crimini di guerra; è necessaria anche una certa atmosfera generale, quella del tutto ci è permesso, siamo dalla parte del giusto, che spinge le autorità politiche a ridurre il controllo sul rispetto delle regole e sconsiglia invece l'adozione di provvedimenti efficaci per colpire i responsabili degli abusi. Il "sistema della tortura" è costituito da tutti questi elementi messi insieme e, da quello che sappiamo, ad Abu Ghraib non ne mancava nessuno.»


Possono andar fieri i milanesi di quel che è stato scritto tre secoli e mezzo dopo la colonna infame (il 13 agosto 2006) in un editoriale di prima pagina del «Corriere della Sera», firmato da Angelo Panebianco, che ha fatto ricordare, in gloriam, il cittadino illustre Cesare Beccaria, pubblicando un elogio della tortura: «Facciamo un'ipotesi di fantasia, ma non proprio del tutto implausibile. Immaginiamo che tra qualche mese venga fuori che l'Apocalisse dei cieli, il grande attentato destinato a oscurare persino gli attacchi dell'undici settembre [2001], con migliaia e migliaia di vittime innocenti, sia stato sventato solo grazie alla confessione estorta dai servizi segreti anglo-americani tramite tortura, di un jahadista coinvolto nel complotto, magari anche arrestato (sequestrato illegalmente). [...] Fra coloro che condannerebbero i torturatori senza dubbi e tentennamenti ci sarebbero anche tante brave persone di buona fede che hanno orrore del terrorismo ma che credono che cose come la legalità, i diritti umani e quello che chiamano (in genere, senza sapere cosa sia) lo "stato di diritto" debbano sempre avere la precedenza su tutto: anche sulla salvezza di migliaia di vite umane [...]».


Jean-Paul Sartre: «Felici quelli che sono morti senza aver mai dovuto domandarsi: "Se mi strappano le unghie, parlerò?". Ma più felici quelli che non sono stati costretti, usciti appena dall'infanzia, a porsi l'altra domanda: "Se i miei amici, i miei compagni d'armi, i miei capi strappano le unghie a un nemico dinanzi ai miei occhi, che cosa farò?"».

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La città è incenerita. Le bombe hanno distrutto interi quartieri, strade, chiese, palazzi. Non soltanto la Scala. Santa Maria delle Grazie, Sant'Ambrogio, San Fedele, il Teatro Manzoni, il Teatro Dal Verme, la Ca' Granda, l'Università, corso Vittorio Emanuele. Fra il 7 e il 15 agosto 1943, nei 45 giorni del governo del maresciallo Badoglio, 916 quadrimotori della RAF radono al suolo 12 mila edifici, ne danneggiano altri 15 mila. Resta fortunosamente in piedi il Duomo. I morti sono migliaia.

I fuochi degli incendi, la notte, si vedono da lontano. Vanno in fumo gli archi, le colonne, i monumenti mirabili e le povere case, le vie del centro storico e quelle di periferia. I repubblichini stampano sui francobolli le immagini delle opere d'arte sbriciolate, con la scritta «Hostium rabies diruit». La paura è il sentimento comune. Sotto quei bombardamenti terroristici, 250 mila persone restano senza tetto. Ogni sera i sopravvissuti abbandonano l'abitato e con ogni mezzo fuggono in lunghe file verso la campagna. Piange la città, piangono i poeti: «Non toccate i morti, così rossi, così gonfi: / lasciateli nella terra delle loro case: / la città è morta, è morta».


Milano è una gigantesca prigione. Gli atti del processo celebrato dalla Corte d'Assise nel maggio 1947 contro gli uomini della Legione autonoma Ettore Muti riempiono ancora oggi di angoscia. L'elenco dei delitti commessi è lungo: oltre al collaborazionismo con il tedesco invasore, sequestri, arresti arbitrari a scopo di lucro personale, furti, rapine ai danni di antifascisti e di ebrei, consegna ai nazisti di prigionieri politici oppure di «cittadini che non aderissero alle richieste criminose mascherate col movente politico», rastrellamenti antipartigiani o di persone estranee eseguiti con saccheggi, incendi, massacri, sevizie, minacce sulle persone dei famigliari, lesioni gravi o gravissime con «vari tipi di bastone foderati di cuoio ingrossati ad una estremità [le cosiddette V1, V2, V3], col calcio del fucile, con sedie e assi di legno, con sacchetti di sabbia, con bastoni animati, con scarpe calzate, mediante strappamento delle unghie delle mani, con lampade a luce violenta, con altoparlanti funzionanti giorno e notte». E poi: «Omicidi a scopo di lucro e per occultare altri reati, inscenando finte fughe delle vittime, occultandone il cadavere, gettandolo in aperta campagna o in corsi d'acqua, inscenando simulate scarcerazioni che formalmente apparivano registrate negli incartamenti degli uffici della "legione" e a cui seguivano invece le uccisioni mediante il cosiddetto "viaggetto notturno" attribuendo il delitto, a volte, anche ai tedeschi occupanti e sempre agendo con particolare crudeltà dopo aver seviziato le vittime».

Il comandante della legione, Francesco Colombo, era un sergente che dopo l'8 settembre si cucì sulla giubba i gradi di colonnello; il vicecomandante, Ampelio Spadoni, era un caporale che, più modesto, si cucì sulla giubba i gradi di tenente colonnello. Colombo fu fucilato dai partigiani dopo la Liberazione, Spadoni, nel 1972, ebbe nel centro di Milano un funerale solenne vegliato da statuari personaggi con baschi da parà, gagliardetti e bandiere.

Le vittime della Muti non erano state poche negli anni di Salò. Un tenente della legione si era vantato di avere ucciso da solo 210 persone; un maggiore, nella sua macabra contabilità, era arrivato a 82 omicidi. Qualcuno pagò con la vita per quei delitti. Con il comandante Colombo furono «giustiziati dal popolo», come scrisse nella sua sentenza la Corte d'Assise di Milano, il maggiore Bruno De Stefani, Celestino Carrella – il legionario che si faceva chiamare «conte di Toledo» – i capitani Azeglio Beltramini e Geminiano Venturini. Ma passati i giorni infuocati della Liberazione, la Corte di Cassazione, l'amnistia Togliatti, l'anticomunismo che mandava assolto anche il fascismo più nero, addolcirono le pene, le commutarono, le cancellarono.

La Muti, 2700 fanatici, non era una qualsiasi formazione di briganti, ma l'incarnazione della Repubblica di Salò, la «pupilla del duce», che se ne serviva per i bassi servizi criminali. Il 28 ottobre 1944 fece dono ai camerati di via Rovello di una sua fotografia: «Agli arditi che sono veramente tali della legione "Muti", degni di portare il nome dell'eroe, dedica Mussolini».


Le bande fasciste hanno preso quartiere in tutta la città, simili a quei puntini colorati delle centrali di controllo del traffico che si accendono a comando sugli schermi, bianchi, rossi, verdini.

La banda Bossi in via Moscova, nella caserma dei carabinieri; la brigata nera Resega in via Fiamma; la GNR in via Lamarmora e in via Abbondio Sangiorgio; la X Mas in piazza Fiume, un palazzone all'angolo del viale Monte Santo. Il generale Karl Wolff, comandante delle SS in Italia, di passaggio da Milano alloggia in una villetta di viale Zara; il colonnello Eugenio Dollmann in un pied-à-terre all'Hotel Principe di Savoia.

In appartamenti requisiti, magazzini, case fuori mano o anche in palazzi dove l'andirivieni non dà sospetti, nazisti e fascisti hanno allestito le loro centrali di spionaggio, mascherate spesso dall'attività di imprese commerciali. Piccoli capi si sono messi in proprio o lavorano al servizio di figuri usciti da sordide tane.

Gli innumerevoli uffici dei servizi di informazione dei reparti tedeschi e delle bande italiane sono disseminati tra le strade, le piazze, il parco, la ferrovia, in centro e in periferia. Da quelle stanze dipendono spesso i destini di uomini e di donne fucilati contro una muraglia o finiti nei forni di Auschwitz.

La banda Koch, poi. Villa Triste. Così chiamata dalle vittime di efferate torture, prese il nome da una malinconica canzone. Via Paolo Uccello 19, tra la vecchia Fiera Campionaria e San Siro.

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Gli anni del fascismo sono amari per chi fascista non è ed è costretto a subire, sottostare, usare attenzione in quel che fa e in quel che dice. Che cosa deve essere in un tempo di dittatura un giornale divenuto fascista, dove ogni spiffero può essere traditore e non sai se ti puoi fidare oppure no del tuo vicino fino a ieri consonante compagno di idee che oggi invece può riferire, far la spia. Che cosa pensano i pochi antifascisti rimasti al giornale, seduti sotto quelle famose lampade verdi, nell'ascoltare le parole indecenti dei loro colleghi, oltre che leggerle?

Le giovani firme sono all'offensiva. Guido Piovene segue in divisa da legionario la guerra di Spagna, anima e cuore con i franchisti: «Al ponte, a ridosso del muro di una autorimessa, erano i leoni della XXIII Marzo e delle Freccie giunti da nord. Accolsero il generale al canto di inni fascisti, mentre di là dalle rovine del ponte il nemico faceva gracchiare come risposta le sue due o tre inutili mitragliatrici».

Qualche mese dopo, Piovene supererà persino sé stesso scrivendo un articolo sul libro razzista di Telesio Interlandi, Contra judaeos «Gli ebrei possono essere solo nemici e sopraffattori della nazione che li ospita. Di sangue diverso, e coscienti dei loro vincoli, non possono che collegarsi contro la razza aliena. L'enorme numero di posizioni eminenti occupate in Italia dagli ebrei è il risultato di una tenace battaglia. Come stranieri essi tentano di ottenere il trionfo sulla cultura nazionale altrui».

Indro Montanelli, appena assunto al giornale, nell'autunno 1938, non perde tempo. L'occasione è ghiotta, il momento propizio. Proprio nei giorni della promulgazione delle leggi razziste scrive un articolo autobiografico sulla sua esperienza nella campagna d'Etiopia. Ha come titolo Meticci di Ghinda: «È da allora che m'è entrato addosso un sentimento strano per questi mezzosangue sradicati da ogni terra, distillazione del pus di tre continenti, che pullulano e s'aggrumano specialmente in certi porti del Mar Rosso. Non è odio, no, ma qualcosa di peggio, c'è dentro soprattutto dell'orrore. Padri di meticci, già meticci essi stessi, se li perdoni, non ti perdoneranno mai di averli perdonati».

Orio Vergani, la bella penna del «Corriere», non è da meno. Racconta di quanti dalle città e dalle campagne scrivono a Mussolini e subito vengono convocati a Palazzo Venezia, esauditi nei loro desideri: «Gente di ogni regione d'Italia, di ogni pronuncia, di ogni età, di ogni condizione sociale, di ogni passato. Non speravano che in Mussolini. C'è anche il balbuziente, e la gobbina. Ed ecco che l'affitto è pagato, ecco il denaro per la balia e per il corredo del piccolo, ecco il posto di verniciatore; ecco l'aiuto alla suonatrice di contrabbasso, ecco trovato l'alloggio per la vecchia ex-attrice che non trova casa perché non ha occupazione. [...] Avanti, uno per uno, verso quella che è forse la prima ora di felicità della vita. [...] E il Duce dov'è? È su, al piano di sopra, che lavora? È in mezzo a una folla acclamante? È, col suo pensiero e la sua volontà, in faccia al mondo, per trovare un posto al sole al suo popolo? È ovunque. Ma - non hai sentito? - è anche qui, in questa stanzetta semibuia a pianterreno, mentre tu, povero, parlavi dei tuoi dolori. Non hai sentito che ti ascoltava?».

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