Copertina
Autore Mario Stefanile
Titolo Breviario della cucina napoletana
EdizioneColonnese, Napoli, 2010, Lo specchio di Silvia 53 , pag. 94, cop.fle., dim. 9x14,5x1 cm , Isbn 978-88-87501-76-6
LettoreFlo Bertelli, 2010
Classe alimentazione , citta': Napoli , regioni: Campania
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Indice


Prefazione                                    7
di Franco de Ciuceis

Per Mario Stefanile                          13
di Vincenzo Buonassisi

La Sirena in cucina                          17
di Mario Stefanile

Minestre e «primi»                           23

Maccheroni di zita al ragù,
Lasagna di carnevale,
Fusilli alla Cales,
Vermicelli alle vongole,
Vermicelli aglio e olio,
Vermicelli alla marinara,
Timballetti di maccheroni,
Fettuccine alla genovese,
Gnocchi o strozzapreti,
Sartù di riso,
Minestra maritata o pignato grasso,
Fagioli alla maruzzara,
Fagioli con pasta

Il mare in tavola                            39

Zuppa di vongole,
Zuppa di cozze,
Zuppa di maruzze,
Pesce fritto,
Zuppa di pesce,
Polpi in cassuola,
Sàrago al forno,
Baccalà e stocco alla napoletana

Le carni                                     49

Zuppa di soffritto,
Braciole alla napoletana,
Carne alla pizzaiola,
Agnello del Matese al forno

L'orto                                       55

Peperoni imbottiti,
Parmigiana di melanzane,
Zucchini alla scapece,
Insalata di pomodori

Altri «sfizi»                                63

Fritto alla napoletana,
Pizza,
Calzone imbottito,
Mozzarella in carrozza,
Uova in purgatorio,
Frittata di «friarielli»,
«Tòrtano» e «Casatiello»

I dolci napoletani                           73

La sfogliatella,
La pastiera,
La croccante,
Gli «strùffoli»,
Le «zèppole»,
Dolci natalizi,
Sanguinaccio

La frutta                                    81

I vini                                       85


 

 

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Pagina 17

LA SIRENA IN CUCINA



Dire «cucina napoletana» significa dire assai più della cucina di una sola città, per grande, antica e celebre nel mondo che essa sia. Significa riferirsi, nel gioco di una ricca tradizione, a un'intera regione - quella campana - e anche, per certi aspetti un po' tutto al Mezzogiorno d'Italia, unitario gastronomicamente anche se qua e là, come dovunque, alcuni prodotti particolari abbiano conquistato un aspetto tipico, una loro presenza autonoma nel variare dei gusti e delle abitudini. In tempi di scatolami, in tempi così frettolosi e anche così irriverenti verso un passato anche recente e in tempi di mutate abitudini e quindi di nuove esigenze e di nuovissime proposte anche bromatologiche, la cucina napoletana rappresenta tuttavia un punto abbastanza fermo e conforta vedere come essa, sia pure fra mille insidie e mille adulterazioni e sofisticazioni, resista abbastanza intrepidamente con le proprie specialità che, da regionali o addirittura locali, hanno avuto diritto di gloriosa cittadinanza in molte parti del mondo. Basterebbe l'esempio della «Pizza» inventata a Napoli e da Napoli passata poi in tutto il mondo o il trionfo dei maccheroni e spaghetti e pasta asciutta che da Napoli si sono irradiati dovunque, a dimostrare che la gastronomia napoletana è riuscita a farsi famosa e a farsi soprattutto apprezzare per la sua sostanziosa semplicità e per la gamma dei suoi sapori.

Cucina mediterranea, indubbiamente, quella napoletana di ieri e anche di oggi almeno là dove resiste meglio alle intrusioni e cucina in fondo semplice, addirittura sobria fino alla povertà, proprio una cucina per gente semplice e non ricca se non di fantasia, che sempre s'è accontentata di poche elementari cose, lavorando con l'immaginazione anche nel dominio della tavola. Ma, se è cucina povera non è certo cucina misera o meschina e se, in fondo, dei grandi sontuosi piatti di arrosti, di selvaggina, di cacciagione fa volentieri a meno non per questo la Sirena Partenope non dispiega meno bene il suo canto fascinoso tra fornelli e tegami.

Certo, non è quella napoletana cucina (come del resto ogni altra, di ogni regione o paese) tutta e chiaramente originale e uno storico dell'alimentazione, un etnografo culinario, un sociologo del gusto rinverrebbe subito certi filoni meno autonomi, derivazioni sottili, talvolta imponderabili, dagli influssi angioini, spagnoli, per non dire greci e romani quali s'andarono definendo e perdendo durante i duemilacinquecento armi di storia accertata che conta la città. E forse dalla famosa «Cena di Trimalcione» del «Satyricon» in poi, via via attraverso il medioevo più oscuro e quello più luminoso, i gusti, i sapori, le abitudini della cucina napoletana andarono di pari passo con gli avvenimenti maggiori della storia e giunsero fino ai nostri distratti e irriverenti giorni con il loro carico di suggestioni.

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Pagina 25

Maccheroni di zita al ragù

Anche se Napoli più non detiene incontrastata lo scettro della pasta asciutta, i suoi «maccheroni di zita al ragù» restano, per esperti e per profani uno dei massimi cardini culinari: quelli intorno ai quali ruotano innumerevoli variazioni gastronomiche che a quell'antica e certo gloriosa preparazione poi si ispirano. I maccheroni, di trafila grossa e dall'ampio foro che li percorre in tutta la loro lunghezza son detti - maliziosamente, forse - di «zita» («zitoni» quando son di misura ancora più grossa) e vanno accuratamente spezzati in piccoli ma non piccolissimi pezzi. Già alla rottura a mano debbono, i maccheroni, rivelare la loro consistenza vitrea ed elastica insieme: garanzia di una fabbricazione accurata, con farine e semole di prim'ordine e con catene di essiccamento, anch'esse calcolate minuziosamente, perfette. Vanno cotti, come tutti i maccheroni, in moltissima acqua giunta al bollore pieno e stabile; vanno anch'essi sistemati, dopo accurata sgocciolatura, in una zuppiera o in un vassoio e cosparsi di sugo di ragù. Il matrimonio fra i maccheroni di trafila grossa (ziti, zitoni, anche rigatoni) e il sugo ristrettissimo di ragù di carne, cioè della trionfante salsa ottenuta mettendo a cuocere insieme lentissimamente bei pezzi di carne di manzo o di maiale con pomodori freschi e una cucchiaiata di conserva di pomodoro, possibilmente in un tegame di creta e su un fuoco di carboni di giusta intensità, dà origine a una pietanza alla quale del formaggio parmigiano grattugiato fresco e una fogliolina di basilico e magari una spruzzatina lievissima di pepe daranno poi i tocchi finali, quelli che la fanno ritenere uno dei capolavori della cucina settecentesca e ottocentesca napoletana.

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Pagina 35

Fagioli alla maruzzara

Fra i mille modi di condire i fagioli, freschi o secchi, quello detto «alla maruzzara» è forse fra i più saporiti, certamente il più napoletano di tutti per una certa sua intrinseca arguzia, quasi una storia popolare raccontata con gusto. Messi a mollo i fagioli la sera prima o sgranati quelli freschi si cuociano in molta acqua poi si uniscano con sedano, aglio e prezzemolo che si saranno fatti cuocere in molto olio e sotto coperchio, così che gli aromi loro particolari non vadano svaporati. Si tengano i fagioli così conditi per un'altra ora su un fuoco lentissimo aggiungendo però una grossa, generosa manciata di origano. D'accordo, è un po' indigesta una zuppa cosiffatta: ma quanto è gustosa e a togliere il coperchio e ad annusare soltanto si sente che è pietanza sopraffina nel suo particolare gusto. Anche sui fagioli altro non si beva che acqua naturale.

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Pagina 36

Fagioli con pasta

In verità, si chiamano «pasta e fagioli» a indicare esattamente la preponderanza che ha la pasta (o quella minuta, per esempio, tubettini o quella ormai difficile a reperire formata dai residui di dieci e venti qualità e detta per questo, a Napoli, «pasta mischiata» o con termine più brutale «munuzzaglia», cioè cascami) sui legumi. I fagioli si lessano, si condiscono soprattutto con lardo battuto, con aglio e si uniscono alla pasta lessata a parte e fino a ottenere una magnifica intesa, un amalgama perfetto. Si tengano ancora, i fagioli con la pasta, al fuoco lento. Una punta di peperoncino piccante non disdice ma è preferibile il pepe, macinato grosso e fresco. V'è chi al posto del lardo, esagerando, aggiunge delle cotenne tagliate a listerelle non troppo minute: e il risultato è altrettanto squisito, anche se un tantino meno elegante. Ma allora la pasta e fagioli con le cotiche va mangiata un po' soda e fredda.

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Pagina 45

Polpi in cassuola

Il polpo (non polipo, per carità, che è tutt'altra cosa) deve essere «verace» - cioè con i tentacoli a doppia fila di ventose - e deve essere di piccola taglia, diciamo che in un chilogrammo debbono starcene soltanto sette, otto, meglio dieci. Deve essere freschissimo, non vivo, altrimenti è coriaceo e deve essere cotto in un pentolino di coccio, insieme con olio, aglio, prezzemolo, pepe, niente sale. Nella prigione d'argilla, tenuta a fuoco lento, con un coperchio premuto magari da un peso così che non lasci vaporare alcun aroma, il polpo s'arricciola, i tentacoli fanno corona intorno alla testa lucida. Son detti anche «alla luciana» perché a cucinarli in questo modo sopraffino furono per primi - forse per ultimi - i pescatori del quartiere marinaro di Santa Lucia, quello che vide nascere Partenope sette o otto secoli prima di Cristo... Vi è chi vi aggiunge una manciatella di olive nere, ma così i polpi si snaturano, a stento essi sopportano, dentro il loro sapor di mare, una traccia lieve d'aglio, spenta accortamente dal prezzemolo. Vino bianco - anche rosato, via - di Ischia o del Vesuvio.

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Pagina 59

Zucchini alla scapece

Si dice - meglio, si racconta, perché è leggenda - che l'idea di condire con aglio, aceto, un filo d'olio e menta a foglioline delle fette di zucchine fritte venisse duemila anni fa ad Apicio, un fantomatico cuoco romano autore di un trattato di cucina detto «De re coquinaria» (forse, invece, apocrifo divertimento di un frate francese del Cinquecento). Dall'espressione «ex Apicio» sarebbe venuta poi, a Napoli, l'espressione gastronomica «alla scapece» per indicare appunto un particolare condimento fatto come s'è detto di aceto, poco olio, aglio, prezzemolo e menta. Comunque, è un contornino anzi un piatto di mezzo gradevolissimo, fresco, arguto soprattutto d'estate. Come su ogni pietanza all'aceto - beati gli astemi! - si beva soltanto acqua e non minerale, non freddissima per carità.

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Pagina 60

Insalata di pomodori

Sembra uno scherzo preparare una buona insalata di pomodori e non lo è affatto. Anzitutto, se i pomodori son rotondi, verdi e rosa, vanno tagliati a dischi, se sono invece rossi e a fiasco vanno tagliati a spicchi: e attenti a non far perdere nemmeno una goccia del sugo, prezioso, odoroso, sapido, che contengono. Poi, vanno sistemati in un piatto di terraglia forte, rustica: e conditi con olio sopraffinissimo, uno spicchio d'aglio, una fogliolina di basilico stropicciata fra le dita e una manciatella, un velo di ghiaccio triturato finissimo. Qualcuno vi preme un altro pomodoro che poi, strizzato, è buttato via. E' il più bel contorno che sia dato di mangiare, il miglior antipasto, il più fresco dessert: e con un cetriolino a fette sottili è straordinariamente (dicono) terapeutico. I pomodori così preparati possono servire anche con l'aggiunta d'origano, di qualche oliva nera, di sedano e di tonno sott'olio, a far da condimento particolare a grosse fette di pane raffermo o biscottato (detto «freselle») o su ciambellette al finocchio («taralli»). Ma la vera insalata di pomodori va mangiata e goduta senz'altra aggiunta, se non forse di cipolline novelle, bianche e tenerissime, tagliate per il lungo. Anche qui un bel bicchiere d'acqua fresca e limpida.

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Pagina 75

La sfogliatella

E' impossibile ed è inutile tentar di descrivere come si fa la «sfogliatella», il più sconcertante dolce napoletano: a chi non è nato pasticciere certamente non riuscirebbe mai nemmeno alla lontana a ottenere una «sfogliatella» gustabile. E' un dolce monacale, barocco, è un nastro di pasta sfoglia dolce arricciolato dieci e cento volte su se stesso, come un cartoccio schiacciato, una piccola cornucopia dalla quale poi occhieggia appena un tenerissimo ripieno di ricotta, zucchero, cedro. Come una grande conchiglia dalla perfezione ermetica e dorata la «sfogliatella riccia» napoletana ha una sua variante più modesta, la «sfogliatella frolla» dalla stessa forma e dallo stesso contenuto ma dal guscio liscio, ottenuto con pura e semplice pasta frolla dolce. Si cosparge di zucchero a velo vanigliato che sposa delicatamente la lieve fragranza di fior d'arancio che esala da entrambi i tipi di sfogliatelle. Vi si beva su un bicchierino di Mandarinetto o di Crema cacao, mai Cognac o, peggio, Whisky.

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Pagina 75

La pastiera

E' dolce di primavera, dolce di Pasqua che adesso mentre primizie d'ogni sorta hanno capovolto le stagioni e sovvertito il calendario gastronomico, permettendo di mangiare asparagi di ferragosto e carciofi a metà dicembre, può mangiarsi anche per Natale o in qualsivoglia occasione. Ma, direi, non è la vera, antica, nobilissima pastiera napoletana: dolce dall'apparenza casalinga, onesta, sincera, color del legno stagionato, decorata col suo modesto traliccio incrociato di pasta frolla. Intanto è un dolce a metà, il suo sapore è delicatissimo, composto come è dai chicchi di grano primaticcio ammorbiditi e ammollati, da una buona ricotta, da pezzetti di cedro, umida e fragrante d'acqua di fior d'arancio. E' un dolce che sa di primavera e di nozze, di innocenza e d'infanzia, di sole e di serenità, un dolce d'altri e forse più felici, almeno più tranquilli tempi. Vi si beva del liquore «Strega» forte e schietto.

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