Copertina
Autore Joseph E. Stiglitz
Titolo Bancarotta
SottotitoloL'economia globale in caduta libera
EdizioneEinaudi, Torino, 2010, Passaggi , pag. 430, cop.fle., dim. 14,5x22x2,5 cm , Isbn 978-88-06-20526-3
OriginaleFreefall. America, Free Markets an the Sinking of the World Economy [2010]
TraduttoreDaria Cavallini
LettoreRiccardo Terzi, 2011
Classe economia , economia finanziaria , economia politica , globalizzazione
PrimaPagina


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Indice


 IX Prefazione
XXX Ringraziamenti


    Bancarotta

    I. Come nasce una crisi

  6 La storia in breve
 10 Di chi è la colpa?
 18 I fallimenti del mercato
 25 Prevedere il crac era possibile?

    II. Economia in caduta libera e conseguenze

 45 Il dibattito sulla ripresa e la campagna presidenziale
 47 L'economia in evoluzione
 51 Visione
 54 La grande speculazione: denaro ed equità

    III. Una risposta sbagliata

 86 Lo stimolo
 90 Che cosa è stato fatto e che cosa si sarebbe dovuto fare
100 Conseguenze
105 La via da seguire

    IV. La truffa dei mutui

117 Il sistema bancario tradizionale
122 L'innovazione non riuscita: una pletora di cattivi prodotti
128 Gli avvertimenti ignorati
129 La cartolarizzazione
138 Risuscitare il mercato dei mutui

    V. La grande rapina americana

162 Le carenze del sistema statunitense
166 Il salvataggio che non c'è stato
173 I primi sforzi per salvare un sistema finanziario imperfetto
192 La Federai Reserve
203 Ulteriori considerazioni

    VI. L'avidità trionfa sulla prudenza

217 Il bisogno di regole
220 Incentivi sbagliati
226 La mancanza di trasparenza
234 L'assunzione sfrenata del rischio
237 Troppo grandi per fallire
242 Innovazioni rischiose: i derivati
251 Le pratiche creditizie predatorie
251 Una concorrenza inadeguata: abolire l'innovazione
255 Far funzionare la regolamentazione
256 Oltre la finanza e la regolamentazione finanziaria
258 Innovazione

    VII. Un nuovo ordine capitalistico

271 L'esigenza di ristrutturare l'economia
283 Il ruolo dello Stato
289 E allora, che cosa deve fare lo Stato?
294 Un ruolo diverso per lo Stato

    VIII. Dalla ripresa globale alla prosperità globale

307 Una risposta globale sbagliata
315 La perdita di fiducia nel capitalismo «American style»
325 Un nuovo ordine economico globale: la Cina e gli Stati Uniti
331 Un nuovo sistema internazionale delle riserve
336 Verso un nuovo multilateralismo

    IX. Riformare la scienza economica

345 La guerra delle idee
368 Le battaglie macroeconomiche
374 La battaglia per la politica monetaria
378 La battaglia nella finanza
386 La battaglia per l'economia dell'innovazione

    X. Verso una nuova società

400 Come l'economia plasma la società e le persone
402 Una crisi morale
409 Si misura ciò a cui si dà valore e viceversa
416 Comunità e fiducia
423 Commenti conclusivi


 

 

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Pagina IX

Prefazione


Nella Grande recessione cominciata nel 2008, milioni di persone negli Stati Uniti e nel resto del mondo hanno perso la casa e il lavoro. Molte altre hanno temuto che accadesse loro la stessa cosa e quasi tutti coloro che avevano messo da parte dei risparmi in vista della pensione o per far studiare i figli hanno visto crollare il valore dei loro investimenti. La crisi, partita dall'America, è presto diventata globale: decine di milioni di persone hanno perso il lavoro in tutto il mondo - 20 milioni solo in Cina - e altrettante sono cadute in povertà.

Le cose non dovevano andare in questo modo. L'economia moderna, con la sua fiducia nel libero mercato e nella globalizzazione, aveva promesso prosperità a tutti. La tanto decantata «new economy» - le strabilianti innovazioni che avevano caratterizzato la seconda metà del Novecento, comprese la deregulation e l'ingegneria finanziaria - doveva consentire una piú efficace gestione del rischio, permettendo di porre fine al ciclo economico. Pur non avendo eliminato le fluttuazioni economiche, la combinazione fra new economy ed economia moderna le teneva se non altro sotto controllo. O almeno è quanto ci avevano raccontato.

La Grande recessione - senza dubbio la peggiore contrazione dell'economia dai tempi della Grande depressione di settantacinque anni prima - ha infranto queste illusioni costringendoci a riflettere su concetti a cui ci eravamo ormai affezionati. Per un quarto di secolo hanno imperato le dottrine del libero mercato. Lo Stato deve svolgere un ruolo minimo nell'economia, e la regolamentazione non fa altro che impedire l'innovazione. Le banche centrali devono essere indipendenti e preoccuparsi soltanto di tenere sotto controllo l'inflazione. Oggi, persino Alan Greenspan - sommo sacerdote di questa ideologia e governatore della Federal Reserve nel periodo in cui era questa la visione prevalente - ha ammesso che tale ragionamento era sbagliato. La sua confessione, però, è arrivata troppo tardi per tutti coloro che ne hanno subito le conseguenze.

Questo libro parla di una battaglia fra idee, delle idee che hanno portato alle politiche sbagliate che hanno aggravato la crisi e degli insegnamenti che ne abbiamo tratto. Prima o poi tutte le crisi finiscono. Ma nessuna crisi, specie se di questa portata, passa senza lasciare un segno. Tra le altre cose, il 2008 ci lascia in eredità nuove prospettive sull'eterno conflitto circa il tipo di sistema economico che abbia maggiori possibilità di funzionare. Può darsi che la guerra fra capitalismo e comunismo sia finita, ma l'economia di mercato si presenta in numerose varianti, e il confronto fra esse è piú acceso che mai.

Ritengo che i mercati siano il cuore pulsante di qualsiasi economia efficiente, ma penso anche che i mercati, da soli, non possano funzionare. In questo senso, mi riconosco nella tradizione del grande economista inglese John Maynard Keynes la cui influenza sullo studio della moderna economia è preponderante. Lo Stato ha un ruolo da svolgere, che non deve ridursi ad andare in soccorso dell'economia quando i mercati entrano in crisi oppure a intervenire con la regolamentazione dei mercati per evitare le situazioni che abbiamo vissuto. Le economie hanno bisogno di un equilibrio tra il ruolo dei mercati e quello dello Stato e dell'importante contributo di istituzioni non commerciali e non governative. Negli ultimi venticinque anni, l'America ha perso questo equilibrio e ha diffuso il suo sbilanciamento in tutto il mondo.

Questo libro spiega come dei concetti sbagliati abbiano condotto alla crisi, impedendo a coloro che detenevano il potere decisionale sia nel settore privato sia in quello pubblico di capire fino a che punto i problemi si stessero aggravando e contribuendo all'insuccesso della politica, che non è riuscita a gestire efficacemente le conseguenze di tutto questo. La durata della crisi dipenderà dalle politiche che verranno realizzate, mentre gli errori già commessi faranno sí che il periodo di rallentamento dell'economia sia piú lungo e piú carico di difficoltà. Ma gestire la crisi è solo la prima delle mie preoccupazioni; mi preme anche, infatti, capire che tipo di mondo avremo dopo. Perché, neanche volendo, potremmo tornare a quello di prima.

Prima della crisi, gli Stati Uniti, e il mondo in genere, si sono trovati ad affrontare molti problemi, non ultimo quello di adattarsi al cambiamento climatico. La globalizzazione ha imposto repentini cambiamenti alla struttura economica, e questo ha messo a dura prova la resistenza di molte economie. Queste sfide rimarranno, in forma amplificata anche dopo la crisi, ma le risorse che abbiamo per affrontarle saranno notevolmente inferiori.

Mi auguro che la crisi porti a dei cambiamenti nell'ambito della politica e in quello delle idee. Se riusciremo a prendere le decisioni giuste, e non soltanto quelle piú convenienti dal punto di vista sociale o politico, non solo ridurremo le probabilità che si verifichi un'altra crisi, ma forse potremo accelerare l'introduzione di vere innovazioni, capaci di migliorare la vita delle persone in tutto il mondo. Se invece prenderemo le decisioni sbagliate, ne usciremo con una società piú divisa e un'economia piú vulnerabile a un'altra crisi e meno attrezzata per affrontare le sfide del XXI secolo. Uno degli scopi di questo libro è aiutarci a capire meglio quale potrà essere l'ordine globale post crisi e in che modo le nostre azioni di oggi contribuiranno a plasmarlo, nel bene o nel male.


Si poteva pensare che con la crisi del 2008 il dibattito sulla visione fondamentalista del ruolo del mercato - e cioè l'idea che i mercati liberi da qualsiasi vincolo possano, da soli, assicurare la prosperità e la crescita - sarebbe giunto al termine. Si poteva pensare che - almeno fino a quando il ricordo di questa crisi non si fosse perso in tempi lontani - nessuno avrebbe piú sostenuto che i mercati sono in grado di correggersi da soli e che possiamo fare affidamento sul comportamento egoistico di chi vi opera affinché tutto funzioni a dovere.

Coloro che con il fondamentalismo di mercato stanno bene offrono una diversa interpretazione. Alcuni dicono che la nostra economia ha avuto un «incidente», e gli incidenti succedono. Nessuno penserebbe mai di abolire le automobili solo perché ogni tanto ci sono delle collisioni. I fautori di questa filosofia vorrebbero che il mondo tornasse al piú presto com'era prima del 2008. Le banche sostengono di non aver fatto niente di male. Diamo alle banche i soldi che chiedono, apportiamo qualche ritocco alle norme, facciamo in modo che gli organismi di controllo non permettano frodi come quella messa a segno da Bernie Madoff, introduciamo nei curricula universitari qualche corso in piú sull'etica e ne verremo fuori alla grande.

La tesi sviluppata in questo libro è che i problemi affondano le loro radici molto piú in profondità. Negli ultimi venticinque anni, questo apparato che in teoria doveva autoregolarsi, e cioè il nostro sistema finanziario, è stato piú volte tratto in salvo dallo Stato. Dalla sopravvivenza del sistema abbiamo tratto l'insegnamento sbagliato, e cioè che funzionasse per meriti propri. Al contrario, il nostro sistema economico non aveva funzionato granché per gran parte degli americani prima della crisi. Alcuni stavano bene, ma non l'americano medio.

Un economista guarda alla crisi cosí come un medico si pone di fronte a una patologia: entrambi capiscono come funzionano le cose di solito osservando che cosa succede quando la situazione non è piú normale. Quanto all'analisi della crisi del 2008, ritengo di essere in vantaggio rispetto ad altri osservatori. In un certo senso, sono un veterano delle crisi, un «crisiologo». Questa non è stata la prima grande crisi degli ultimi anni. Nei paesi in via di sviluppo, le crisi si susseguono con allarmante regolarità: secondo alcuni dati, ce ne sarebbero state 124 fra il 1970 e il 2007. Ero chief economist alla Banca mondiale all'epoca dell'ultima crisi finanziaria globale, nel 1997-98. Vidi una crisi cominciata in Thailandia estendersi ad altri paesi dell'Est asiatico e poi all'America Latina e alla Russia. Fu un classico esempio di contagio: il fallimento di una parte del sistema economico globale che si diffonde in altre parti. Le conseguenze profonde di una crisi economica possono impiegare anni a manifestarsi. Nel caso dell'Argentina, la crisi ebbe inizio nel 1995, in parte trascinata dalla crisi del Messico e aggravata dalla crisi dell'Est asiatico del 1997 e da quella brasiliana del 1998, ma il tracollo definitivo avvenne soltanto negli ultimi mesi del 2001.

Forse gli economisti sono fieri dei progressi che la dottrina economica ha compiuto negli oltre settant'anni trascorsi dalla Grande depressione, ma questo non significa che esista un'opinione unanime su come si debba gestire una crisi. Nel 1997 ero orripilato per come il Fondo monetario internazionale (Fmi) pretendeva di rispondere alla crisi asiatica proponendo interventi che, riecheggiando le politiche sbagliate dei tempi del presidente Herbert Hoover durante la Grande depressione, erano destinati a fallire.

Ebbi quindi una sensazione di déjà vu quando, nel 2007, il mondo cominciò a scivolare verso una nuova crisi. Le analogie con gli accadimenti di dieci anni prima erano straordinarie. Per citarne solo una, l'iniziale smentita pubblica della crisi: dieci anni prima, il Tesoro degli Stati Uniti e l'Fmi avevano negato che vi fosse una recessione/depressione nell'Est asiatico. Larry Summers, allora sottosegretario al Tesoro e oggi presidente del Consiglio dei consulenti economici di Barack Obama, si imbufalí quando Jean-Michel Severino, allora vicepresidente della Banca mondiale per l'Asia, utilizzò parolacce come «recessione» e «depressione» per descrivere ciò che stava accadendo. Ma in quale altro modo si sarebbe potuta descrivere una contrazione dell'economia a causa della quale era rimasto disoccupato il 40 per cento dei lavoratori dell'isola indonesiana di Giava?

Anche nel 2008 l'amministrazione Bush negò inizialmente che vi fosse un problema serio. Avevamo semplicemente costruito un po' troppe case, suggerí il presidente. Nei primi mesi di crisi, il Tesoro e la Federal Reserve - come a bordo di un'auto impazzita - non seguirono una linea coerente, salvando alcune banche e lasciando che altre andassero alla deriva. Era impossibile distinguere i principi ispiratori delle loro decisioni. I funzionari dell'amministrazione Bush sostenevano di comportarsi in modo pragmatico, e a dire il vero si muovevano su un terreno sconosciuto.

Con la recessione dell'economia americana ormai imminente, nel 2007 e agli inizi del 2008, gli economisti si sono sentiti chiedere spesso se fosse possibile un'altra depressione, o anche solo una profonda recessione. «No!», rispondevano d'istinto in molti. I passi avanti compiuti dalla scienza economica - incluse le conoscenze su come gestire l'economia globale - rendevano inconcepibile, agli occhi di molti esperti, una catastrofe di questa portata. Eppure, dieci anni fa, quando si verificò la crisi dell'Est asiatico, avevamo fallito, fallito miseramente.

Non c'è da stupirsi che teorie economiche errate conducano a politiche errate, ma - ovviamente - coloro che le avevano auspicate pensavano che funzionassero. Si sbagliavano. Certe politiche inopportune non avevano soltanto messo in moto la crisi nell'Est asiatico di dieci anni fa, ma ne avevano anche aumentato la gravità e la durata, lasciandoci in eredità economie deboli e cumuli di debiti.

Il fallimento di dieci anni fa è in parte un fallimento della politica globale. La crisi ha colpito nei paesi in via di sviluppo, talvolta definiti la «periferia» del sistema economico globale. Coloro che avevano in mano le redini del sistema economico non si sono preoccupati tanto di salvaguardare la vita e il sostentamento degli abitanti delle nazioni colpite quanto di tutelare gli interessi delle banche occidentali che avevano concesso prestiti a questi paesi. Oggi che a lottare per rimettere in piedi l'economia sono l'America e il resto del mondo, la politica non è ancora capace di risposte adeguate.

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Pagina XV

Caduta libera.

Quando l'economia mondiale è precipitata nel 2008, tutte le nostre convinzioni si sono sgretolate, cosí come tante idee radicate sull'economia, sull'America e sui nostri eroi. All'indomani dell'ultima grande crisi finanziaria, la rivista «Time» del 15 febbraio 1999 mise in copertina il presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, e il segretario del Tesoro, Robert Rubin, a cui per molto tempo era stato attribuito il merito del boom degli anni Novanta, insieme al loro protetto Larry Summers. Furono definiti il «Comitato per salvare il mondo», e la gente comune li considerava alla stregua di semidei. Nel 2000, il celebre giornalista investigativo Bob Woodward scrisse una agiografia di Greenspan intitolata Maestro.

Avendo vissuto in prima persona la gestione della crisi dell'Est asiatico, non mi sono lasciato impressionare come invece è successo alla rivista «Time» e a Bob Woodward. A mio avviso, e secondo l'opinione della maggior parte delle persone nell'Est asiatico, le politiche imposte a quei paesi dall'Fmi e dal Tesoro degli Stati Uniti agli ordini del «Comitato per salvare il mondo» avevano reso le crisi molto piú gravi di quanto non sarebbero state diversamente poiché non tenevano conto di alcuni concetti fondamentali della moderna dottrina macroeconomica, per esempio che di fronte a una contrazione dell'economia è necessario ricorrere a politiche monetarie e fiscali di tipo espansionistico.

La società ormai non ha piú rispetto per í grandi maestri dell'economia. Negli ultimi anni, avevamo cominciato a guardare a Wall Street nel suo insieme - e non solo ai semidei come Rubin e Greenspan - per farci consigliare su come gestire quel complesso sistema che è la nostra economia. E ora a chi possiamo rivolgerci? Nella gran parte dei casi, gli economisti non sono stati certo di maggior aiuto. Erano stati proprio molti di loro a fornire la corazza intellettuale invocata dai politici nel movimento verso la deregulation.

Purtroppo, l'attenzione si sposta spesso dalla battaglia delle idee al ruolo dei singoli: i cattivi che hanno causato la crisi, e gli eroi che ci hanno salvato. Altri scriveranno (anzi, hanno già scritto) libri che puntano il dito contro questo o quell'uomo politico, questo o quel dirigente che ci hanno precipitato nell'attuale crisi. Il presente libro si prefigge uno scopo diverso. L'idea di fondo è che praticamente tutte le politiche di importanza sostanziale, come quelle legate alla deregulation, sono state la conseguenza di «forze» economiche e politiche - interessi, idee e ideologie - che vanno oltre il singolo.

Quando, nel 1987, il presidente Reagan nominò Greenspan governatore della Federal Reserve, cercava qualcuno votato alla deregulation. Paul Volcker, ex governatore della Fed, godeva di grande stima come banchiere centrale per essere riuscito a portare íl tasso d'inflazione dall'11,3 per cento del 1979 al 3,6 per cento del 1987. In condizioni normali, un simile risultato avrebbe dovuto portare a una riconferma automatica della nomina. Ma Volcker capiva l'importanza delle regole, e Reagan voleva qualcuno che invece lavorasse per eliminarle. Se mai Greenspan non fosse stato disponibile ad assumere l'incarico, non sarebbe certo mancato il sostituto fra i molti che c'erano, capaci e desiderosi di portare avanti la battaglia della deregulation. Il problema non è stato infatti Greenspan, ma l'ideologia di deregolamentazione che aveva ormai preso piede.

Mentre questo libro riguarda soprattutto i principi economici e il modo in cui essi influiscono sulla politica, per vedere il collegamento fra la crisi e questi principi occorre chiarire che cosa è successo. Non è un giallo, ma alcuni importanti elementi della storia hanno qualcosa di misterioso: com'è potuto succedere che la piú grande economia del mondo sia entrata in una fase di caduta libera? Quali politiche e quali eventi hanno innescato la grande flessione del 2008? Se non ci troviamo d'accordo sulle risposte a queste domande, non possiamo trovarci d'accordo sul da farsi, né per uscire dalla crisi né per prevenirne un'altra in futuro. Isolare i cattivi comportamenti delle banche, gli errori dei regolatori o le politiche monetarie sbagliate della Fed non è cosa facile, ma spiegherò perché attribuisco la colpa maggiore alle istituzioni e ai mercati finanziari.

Cercare la causa prima è come sbucciare una cipolla. Ogni spiegazione dà origine a una nuova domanda a un livello piú profondo: forse è colpa degli incentivi perversi se i banchieri hanno adottato comportamenti miopi e rischiosi, ma perché avevano questi incentivi perversi? C'è subito una risposta pronta: problemi di corporate governance, cioè il modo in cui vengono stabiliti i compensi e gli incentivi. Ma come mai il mercato non è intervenuto a disciplinare questa corporate governance di cattiva qualità e questo sistema di incentivi perversi? La selezione naturale dovrebbe assicurare la sopravvivenza dei piú adatti, e avrebbero dovuto far prosperare le aziende improntate a una governance solida e a un sistema di incentivi idonei a ottenere risultati positivi nel lungo periodo. Questa teoria è un'altra vittima della crisi. Pensando ai problemi che la crisi ha evidenziato nel settore finanziario, è evidente che sono piú generali e che ve ne sono di simili in altri settori.

Colpisce il fatto che quando si guarda sotto la superficie - al di là dei nuovi prodotti finanziari, dei mutui subprime e degli strumenti di debito con garanzia reale -, questa crisi appare molto simile a tante altre che l'hanno preceduta, sia negli Stati Uniti sia in altri paesi. C'era una bolla, ed è scoppiata, seminando devastazione. La bolla è stata alimentata dalle politiche creditizie perverse adottate dalle banche, che hanno accettato come garanzie reali dei beni il cui valore risultava gonfiato dalla bolla speculativa. Grazie ad alcune innovazioni, le banche sono riuscite a occultare gran parte dei loro prestiti inesigibili e a farli sparire dai bilanci per aumentare il rapporto di indebitamento effettivo, alimentando ulteriormente la bolla e rendendo cosí ancora piú drammatico il caos nel momento in cui è scoppiata. I nuovi strumenti denominati Cds (credit default swaps) - nati ufficialmente per gestire il rischio pur avendo in realtà lo scopo di ingannare gli organismi di vigilanza - erano talmente complessi che il rischio l'hanno amplificato. Il grande interrogativo, su cui verte in massima parte questo libro, è come e perché abbiamo di nuovo permesso che accadesse tutto questo, e in queste proporzioni.

Se da una parte è difficile trovare spiegazioni che vadano in profondità, dall'altra ce ne sono alcune semplici, ma facilmente opinabili. Come già accennato, gli addetti ai lavori di Wall Street volevano credere di non aver fatto nulla di sbagliato a livello individuale, cosí come volevano credere che il sistema in quanto tale fosse sostanzialmente giusto. Si ritenevano le vittime sfortunate di una tempesta che arriva una volta ogni mille anni. Ma la crisi non è qualcosa che si è abbattuto sui mercati finanziari cosí, dal nulla: è una crisi innescata dall'uomo, il risultato di ciò che Wall Street ha fatto a se stessa e al resto della società.

Per chi non si accontenta della spiegazione «è andata cosí», i partigiani di Wall Street ne hanno altre: è stato il governo a metterci sulla cattiva strada, incoraggiando l'acquisto della prima casa e chiedendoci di prestare soldi ai poveri. Oppure: il governo avrebbe dovuto impedirci di farlo; la colpa è degli organismi di vigilanza. Questi tentativi del sistema finanziario statunitense di fare a scaricabarile per dare la colpa della crisi a questo o a quello sono davvero vergognosi, e gli ultimi capitoli spiegano come mai questi argomenti non sono convincenti.

I sostenitori del sistema tirano in ballo anche una terza linea di difesa, la stessa adottata alcuni anni prima, ai tempi degli scandali Enron e WorldCom. Ogni sistema ha le sue mele marce e, per una qualche ragione, il nostro «sistema» - compresi gli organismi di vigilanza e gli investitori - non è riuscito a proteggersi efficacemente in questo senso. Ai vari Ken Lay (Ceo di Enron) e Bernie Ebbers (Ceo di WorldCom) dei primi anni del decennio, aggiungiamo ora Bernie Madoff e i molti altri (come Allen Stanford e Raj Rajaratnam) su cui pendono vari capi di imputazione. Ma quel che è andato storto - oggi come allora - non ha riguardato solo poche persone. I difensori del sistema finanziario non hanno capito che il marcio stava proprio in casa loro.

Quando si analizzano problemi persistenti e dilaganti come quelli che hanno afflitto il sistema finanziario americano, non si può che giungere a un'unica conclusione: i problemi sono sistemici.

I soldi che girano a Wall Street e il pensiero unico del guadagno attirano sicuramente tante persone di dubbi principi morali, ma l'universalità del problema lascia intendere che il sistema presenta dei difetti strutturali.

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Pagina XIX

Difficoltà di interpretazione.

Stabilire se una politica abbia avuto successo o sia stata un fallimento è ancora piú difficile che non accertare a chi o a che cosa attribuire i meriti o dare le colpe. Ma che cosa significa «successo», e cosa «fallimento»? Per gli osservatori statunitensi ed europei, i salvataggi operati nell'Est asiatico nel 1997 sono stati un successo perché Stati Uniti ed Europa ne sono usciti senza un graffio. Ma per coloro che, in quella regione, hanno visto crollare l'economia e svanire i loro sogni di fronte alla bancarotta delle aziende e al cumulo di debiti di cui venivano gravati, i salvataggi sono stati un disastro. Secondo i critici, le politiche del Fondo monetario internazionale e del Tesoro degli Stati Uniti avevano peggiorato le cose. I sostenitori, invece, ritenevano che avessero scongiurato lo sfacelo. E qui casca l'asino. Ci si chiede: come sarebbero andate le cose se fossero state adottate politiche diverse? Gli interventi dell'Fmi e del Tesoro Usa hanno prolungato e aggravato la crisi, oppure l'hanno abbreviata e resa piú sopportabile? A mio avviso, la risposta è chiara: i tassi d'interesse elevati e i tagli alla spesa pubblica imposti dal Fondo monetario internazionale e dal Tesoro - esattamente il contrario rispetto alle politiche seguite da Stati Uniti ed Europa nella crisi attuale - hanno peggiorato la situazione. I paesi dell'Est asiatico poi si sono ripresi, ma ciò è avvenuto malgrado quelle politiche, e non grazie a esse.

Allo stesso modo, molti di coloro che hanno osservato la lunga espansione dell'economia mondiale durante l'epoca della deregulation hanno concluso che i mercati lasciati liberi di agire funzionavano e che era stata la deregulation a consentire questa crescita elevata, che sarebbe continuata nel tempo. La realtà era piuttosto diversa. La crescita si era basata su un cumulo di debiti e le fondamenta di questa crescita erano a dir poco traballanti. Messe nei guai dall'assurdità delle loro politiche creditizie, le banche occidentali sono state piú volte soccorse con operazioni finanziarie di salvataggio, non solo in Thailandia, Corea e Indonesia, ma anche in Messico, Brasile, Argentina, Russia e via elencando. Dopo ogni episodio, il mondo ha continuato a girare, piú o meno come prima, e molti hanno concluso che i mercati riuscissero a regolarsi da soli. Ma è stato l'intervento pubblico che ha piú volte salvato i mercati dai loro stessi errori. Se qualcuno, com'è stato, aveva concluso che l'economia di mercato godeva di ottima salute, ebbene, ha fatto una deduzione sbagliata, ma l'errore è risultato evidente quando una crisi tanto grave da non poter essere ignorata è avvenuta qui in casa nostra.

Questi dibattiti sugli effetti di determinate politiche contribuiscono a spiegare come le idee sbagliate possano avere cosí lunga vita. A mio avviso, la Grande recessione del 2008 è stata l'inevitabile conseguenza delle politiche perseguite negli anni precedenti.

Il fatto che quelle politiche fossero state costruite su misura per andare incontro agli interessi dei mercati finanziari è ovvio. Piú complesso, invece, è il ruolo dell'economia. Nell'elenco dei colpevoli della crisi, metterei anche l'economia come professione, in quanto ha fornito a gruppi d'interesse particolari gli argomenti a favore dei mercati efficienti che si regolano da soli, anche se i progressi compiuti da questa disciplina nei due decenni precedenti avevano dimostrato che questa teoria regge solo in determinate condizioni. A seguito della crisi, la dottrina economica e le politiche economiche cambieranno quasi sicuramente, al pari dell'economia, e nel penultimo capitolo analizzerò alcuni di questi cambiamenti.

Mi sento chiedere spesso come la professione economica abbia potuto sbagliarsi cosí di grosso. Ci sono sempre economisti orientati a una tendenza ribassista, quelli che vedono i problemi in anticipo, che hanno previsto nove recessioni quando invece ce ne sono state cinque. Ma c'è stato un piccolo gruppo di economisti che non si limitavano a vedere le cose in un'ottica ribassista, ma erano anche d'accordo sul perché l'economia si fosse trovata di fronte a questi problemi inevitabili. Nelle nostre riunioni annuali, come per esempio il World Economic Forum di Davos che si tiene ogni inverno, ci scambiavamo opinioni e formulavamo diagnosi, cercando di spiegare come mai il giorno della resa dei conti che ciascuno di noi vedeva con tanta chiarezza non fosse ancora arrivato.

Noi economisti siamo bravi a individuare le forze in gioco; non siamo altrettanto bravi ad azzeccare i tempi. Al meeting di Davos del 2007 mi trovai a disagio. Durante le passate assemblee annuali, avevo pronosticato problemi imminenti e di sempre maggiore gravità. L'espansione economica globale, invece, continuava. Il tasso di crescita globale del 7 per cento non aveva precedenti, o quasi, e la situazione cominciava a migliorare persino in Africa e in America Latina. Come spiegai ai presenti, questo poteva significare due cose: o le teorie su cui mi basavo erano sbagliate oppure la crisi, quando fosse sopraggiunta, sarebbe stata piú grave e piú lunga del previsto. Ovviamente, propendevo per questa seconda interpretazione.

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Pagina XXII

L'attuale crisi ha messo a nudo alcune anomalie essenziali del sistema capitalistico, o se non altro di quella particolare versione del capitalismo emersa nella seconda metà del Novecento negli Stati Uniti, talvolta definita capitalismo «American style». Qui non si tratta di singoli individui disonesti o di errori specifici, né si può pensare di risolvere la situazione correggendo qualche piccolo errore qua e là o ritoccando in superficie certe politiche economiche.

È stato difficile mettere a fuoco queste magagne perché noi americani volevamo disperatamente credere nel nostro sistema economico. I «nostri» avevano ottenuto risultati infinitamente migliori rispetto agli acerrimi nemici del blocco sovietico. La forza del nostro sistema ci aveva permesso di trionfare sulle debolezze del loro. Facevamo il tifo per la nostra squadra in tutte le competizioni: Stati Uniti contro Europa, Stati Uniti contro Giappone. Quando il segretario della Difesa Donald Rumsfeld denigrò «la vecchia Europa» che si era opposta alla nostra guerra in Iraq, la partita che aveva in mente - e cioè quella fra lo sclerotico modello sociale europeo e il dinamismo americano - era chiara. Negli anni Ottanta, i successi del Giappone ci avevano creato qualche dubbio. Il nostro sistema era davvero migliore di «Giappone S.p.A.»? Quest'ansia è stata una delle ragioni per cui alcuni hanno tirato un bel respiro di sollievo di fronte alla crisi dell'Est asiatico del 1997 che aveva colpito molti paesi le cui economie si ispiravano in parte al modello giapponese. Non abbiamo gongolato pubblicamente per il malessere dell'economia del Sol Levante protrattosi per tutti gli anni Novanta, ma abbiamo sollecitato i giapponesi ad adottare il nostro stile di capitalismo.

Le cifre avvaloravano il nostro autoinganno. Dopotutto, la nostra economia cresceva a ritmo piú sostenuto di tutte le altre, fatta eccezione per la Cina, e visti e considerati i problemi che ci sembrava di vedere nel sistema bancario cinese, era solo questione di tempo, ma prima o poi sarebbe crollato anche quello. O almeno cosí pensavamo.

Non è la prima volta che certi giudizi (compresi quelli estremamente fallibili di Wall Street) si sono basati su una lettura incauta delle cifre. Negli anni Novanta, l'Argentina veniva presentata come la grande rivelazione dell'America Latina: il trionfo del «fondamentalismo di mercato» nel Sud. Le statistiche di crescita sono sembrate positive per alcuni anni, ma - come nel caso degli Stati Uniti - la sua crescita poggiava su un cumulo di debiti che sorreggeva livelli di consumo insostenibili. A un certo punto, nel dicembre del 2001, i debiti hanno superato il livello di guardia e l'economia è crollata.

Ancora oggi, molti negano l'entità dei problemi che affliggono la nostra economia di mercato. Una volta fuori da questo periodo difficile - e prima o poi qualsiasi recessione finisce -, tanti prevedono una ripresa decisa della crescita. Ma a un'analisi piú approfondita dell'economia statunitense, appare chiaro che ci sono problemi piú gravi: una società caratterizzata da una crescente sperequazione, in cui anche il ceto medio vede ristagnare il proprio reddito da un decennio; un paese in cui - salvo eclatanti eccezioni - le possibilità statistiche che un americano povero ce la faccia a salire al vertice della scala sociale sono inferiori rispetto a quanto accade nella «vecchia Europa» e dove il rendimento medio nei test scolastici standard si colloca, nella migliore delle ipotesi, a un livello mediocre. A detta di tutti, a essere in crisi - oltre alla finanza -, sono diversi settori economici strategici americani, fra cui il sistema sanitario, il comparto energetico e quello manifatturiero.

Ma i problemi da affrontare non esistono soltanto entro i confini degli Stati Uniti. Gli squilibri nel commercio globale che hanno caratterizzato il mondo prima della crisi non si risolveranno da soli. In un'economia globalizzata, non si può pensare di risolvere i problemi dell'America senza affrontare quegli stessi problemi a livello generale. È la domanda globale che determinerà la crescita globale, e difficilmente gli Stati Uniti potranno registrare una ripresa solida - anziché scivolare nel malessere di stampo giapponese - se l'economia mondiale non sarà solida anch'essa. E forse è difficile avere un'economia globale forte se una parte del mondo continua a produrre molto piú di quello che consuma e un'altra parte - quella che dovrebbe risparmiare per far fronte alle esigenze di una popolazione in costante invecchiamento - continua a consumare molto piú di quello che produce.

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Pagina XXIV

Quando ho cominciato a scrivere questo libro, ero animato da una speranza: il nuovo presidente Barack Obama avrebbe raddrizzato le politiche sbagliate dell'amministrazione Bush e avremmo fatto progressi non solo in termini di una ripresa immediata, ma anche nell'affrontare le sfide di lungo periodo. Il disavanzo fiscale della nazione sarebbe temporaneamente aumentato, ma il denaro sarebbe stato ben speso per aiutare le famiglie a non perdere la casa, per investimenti finalizzati a incrementare la produttività a lungo termine del paese e per la tutela dell'ambiente e, in cambio del denaro dato alle banche, avremmo potuto rivendicare diritti sugli utili futuri che avrebbero compensato lo Stato per il rischio che si era assunto.

Scrivere questo libro è stato doloroso: le mie speranze si sono avverate solo in parte. Certo, dobbiamo rallegrarci di non essere caduti in quel baratro a cui ci siamo trovati di fronte nell'autunno del 2008, ma certe concessioni alle banche sono state sbagliate come quelle dei tempi di Bush. L'aiuto ai proprietari delle case è stato inferiore a quanto mi sarei aspettato. Il sistema finanziario che si sta delineando è meno competitivo e le banche «troppo grandi per fallire» rappresentano un problema sempre piú preoccupante. Denaro che si sarebbe potuto spendere per ristrutturare l'economia e creare imprese nuove e dinamiche è stato sprecato per salvare vecchie aziende in fallimento. In materia di politica economica, Obama si è certamente mosso nella giusta direzione, ma commetterei un errore se, dopo aver criticato Bush per certe sue politiche, adesso non facessi sentire la mia voce quando quelle stesse politiche vengono attuate dal suo successore.

Scrivere questo libro è stato difficile anche per un'altra ragione. Io critico - e alcuni potrebbero dire che denigro - le banche e i banchieri e altri esponenti del mercato finanziario. Ho davvero molti amici in quel settore, donne e uomini coscienziosi, bravi cittadini che ci tengono a dare il loro contributo a una società che è stata tanto generosa con loro. Non solo sono generosi a loro volta, ma si impegnano a fondo per le cause in cui credono. Non si riconoscerebbero nelle caricature che dipingo qui, né io li riconosco in esse. Molti addetti ai lavori si ritengono anch'essi vittime. Hanno perso gran parte dei risparmi di una vita. All'interno del settore, tanti degli economisti che hanno cercato di prevedere la direzione in cui si stava muovendo l'economia, i dirigenti d'azienda che hanno cercato di rendere il settore piú efficiente, e gli analisti che hanno cercato di utilizzare le tecniche piú sofisticate possibili per prevedere la redditività e per garantire che gli investitori ottenessero il massimo dei profitti non sono coinvolti nelle malversazioni che tanto hanno nuociuto alla reputazione della finanza.

Come spesso avviene nella nostra società, moderna e complessa, «le cose succedono». Ci sono situazioni negative che non sono colpa di nessuno in particolare. Ma questa crisi è stata il risultato di azioni, decisioni e argomenti riconducibili al settore finanziario. Il sistema che ha fallito cosí miseramente non è «una cosa che succede». È stato creato, e molti hanno lavorato sodo — e speso tanti soldi — per fare in modo che assumesse quella determinata forma. La colpa ricade su chi ha contribuito a creare il sistema e a gestirlo, inclusi coloro che in quel modo hanno fatto i soldi.


Se riusciremo a capire le cause alla base della crisi del 2008 e come mai alcune delle prime risposte della politica sono state fallimentari, forse potremo far sí che le prossime crisi siano meno probabili, piú brevi e che lascino sul campo un minor numero di vittime innocenti. Forse potremmo anche riuscire a gettare le basi per una crescita davvero vigorosa basata su fondamenta solide, abbandonando la crescita effimera degli ultimi anni basata sui debiti; e magari potremmo anche fare in modo che i frutti di questa crescita vengano distribuiti presso la grande maggioranza dei cittadini.

La memoria è corta, e fra trent'anni la nuova generazione si sentirà sicura e penserà di non incorrere nei problemi del passato. L'ingegnosità dell'uomo non conosce limiti e qualsiasi sistema progetteremo ci sarà sempre qualcuno che troverà il modo di aggirare le regole e le leggi nate con l'intento di proteggerci. Anche il mondo cambierà, e le regole pensate per l'oggi non andranno bene nell'economia del 2050. Ma dopo la Grande depressione, siamo riusciti a creare un sistema normativo e di vigilanza che ha funzionato per mezzo secolo, promuovendo la crescita e la stabilità. Scrivo questo libro nella speranza che ci riusciremo anche questa volta.

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Pagina 11

La Federal Reserve - guidata in un primo tempo dal governatore Alan Greenspan e poi da Ben Bernanke - e gli altri regolatori sono rimasti alla finestra e hanno lasciato che tutto succedesse. Non solo hanno affermato di non poter sapere se c'era in atto una bolla fino a quando non è scoppiata, ma hanno detto che se anche l'avessero saputo per certo, non avrebbero potuto fare niente comunque. Si sbagliavano su entrambe le cose. Per esempio, avrebbero potuto insistere per alzare l'importo della caparra sulla casa e imporre depositi di garanzia piú elevati per la negoziazione dei titoli e queste misure avrebbero raffreddato i mercati decisamente surriscaldati. Ma hanno scelto di non intervenire. Quel che forse è peggio, Greenspan ha aggravato la situazione permettendo alle banche di concedere prestiti sempre piú rischiosi e incoraggiando le persone a contrarre mutui a tasso variabile con pagamenti che potevano facilmente lievitare - come poi è accaduto - mettendo anche le famiglie a medio reddito nella situazione di vedersi pignorare il bene ipotecato o precludere il diritto di riscatto.

I fautori della deregulation - che peraltro continuano a sostenerne la necessità malgrado le evidenti conseguenze - affermano che i costi della regolamentazione superano i benefici. Se consideriamo che i costi globali di questa crisi, in termini reali e di bilancio, ammontano ormai a migliaia di miliardi di dollari, non si capisce come certe persone possano continuare a pensarla in questo modo, sostenendo che il costo reale della regolamentazione è quello di soffocare l'innovazione. L'amara verità è che le innovazioni nei mercati finanziari americani erano mirate ad aggirare le regole, le norme contabili e l'imposizione fiscale. Hanno creato prodotti talmente complessi da comportare sia un aumento del rischio sia asimmetrie dell'informazione. Non c'è quindi da stupirsi se risulta impossibile ricondurre a queste innovazioni finanziarie un qualsiasi aumento sostenuto della crescita economica (al di là della bolla che hanno contribuito ad alimentare). Allo stesso tempo, i mercati finanziari non hanno prodotto innovazioni in grado di aiutare il semplice cittadino a gestire il rischio legato alla proprietà di una casa. Al contrario: le innovazioni che avrebbero aiutato le persone e i paesi a gestire gli altri rischi importanti a cui si trovano di fronte hanno di fatto incontrato resistenza. Regole serie avrebbero potuto orientare le innovazioni in modo tale da migliorare l'efficienza della nostra economia e la sicurezza dei cittadini.

Non c'è da stupirsi che il settore finanziario abbia cercato di scaricare la colpa altrove quando l'affermazione che si fosse trattato solo di un «incidente» (una di quelle tempeste che si verificano ogni mille anni) non ha trovato sostenitori.

Gli operatori del settore finanziario attribuiscono spesso alla Fed la colpa di aver permesso che i tassi d'interesse rimanessero troppo bassi per troppo tempo. Ma questo specifico tentativo di scaricare la colpa su altri è particolare: quale altro settore si sognerebbe di affermare che la ragione per cui ha avuto profitti bassi e un rendimento insoddisfacente è che il costo dei fattori di produzione (acciaio, manodopera) era troppo basso? Il principale «fattore di produzione» del sistema bancario è il costo del denaro, eppure i banchieri si lamentano che la Federal Reserve lo teneva troppo basso! Se questi fondi a basso costo fossero stati utilizzati a dovere, per esempio a sostegno degli investimenti nelle nuove tecnologie o delle imprese, avremmo avuto un'economia piú dinamica e competitiva.

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Pagina 21

Esternalità.

Le banche non hanno pensato a quanto pericolosi fossero per noi alcuni di questi strumenti finanziari né alle esternalità che si venivano a creare. In economia, il termine tecnico «esternalità» si riferisce a situazioni in cui uno scambio di mercato crea costi o vantaggi per soggetti che non vi partecipano. Se una persona gioca in borsa, e perde, la cosa non ha conseguenze su nessun altro. Ma il sistema finanziario di oggi è talmente intrecciato e centrale per l'economia che il fallimento di un grande istituto può trascinare nel baratro l'intero sistema. L'attuale fallimento ha colpito tutti: milioni di piccoli proprietari hanno perso la casa, e altrettanti hanno visto crollare il valore delle loro abitazioni; intere comunità sono rimaste devastate; i contribuenti si sono visti presentare il conto delle perdite delle banche; e i lavoratori hanno perso il posto. I costi della crisi si sono fatti sentire non soltanto negli Stati Uniti, ma anche nel resto del mondo, e gravano su miliardi di persone che non hanno tratto alcun vantaggio dal comportamento irresponsabile delle banche.

Quando vi sono importanti problemi di agenzia ed esternalità, in genere il mercato non riesce a produrre risultati efficaci, contrariamente alla credenza diffusa secondo cui i mercati sarebbero efficienti. Questo è uno dei motivi fondamentali per cui si impone una regolamentazione del mercato finanziario. I regolatori erano l'ultimo baluardo difensivo contro il comportamento eccessivamente rischioso e privo di scrupoli delle banche, ma dopo anni di pressioni lobbistiche da parte del settore bancario, il governo aveva eliminato le regole esistenti senza introdurne di nuove in risposta all'evoluzione del panorama finanziario. Soggetti che non capivano perché la regolamentazione fosse necessaria - e, di conseguenza, la ritenevano superflua - sono diventati regolatori. L'abrogazione, nel 1999, del Glass-Steagall Act, che aveva separato gli istituti di credito ordinario dalle banche d'affari, ha creato concentrazioni sempre piú grandi, troppo grandi perché si potesse permettere di lasciarle fallire. Sapendo di essere troppo grandi per fallire, si sono assunte rischi eccessivi.

Alla fine, le banche si sono date la zappa sui piedi: gli strumenti finanziari che hanno utilizzato per sfruttare i poveri si sono ritorti contro i mercati finanziari facendoli crollare. Quando è scoppiata la bolla, molte banche si sono ritrovate in mano una quantità tale di titoli a rischio da vedere minacciata la loro stessa sopravvivenza. Evidentemente, non erano riuscite cosí bene come avevano creduto a trasferire il rischio ad altri. E questo è solo uno dei tanti aspetti beffardi che hanno caratterizzato questa crisi. Greenspan e Bush, nel tentativo di relegare lo Stato a una funzione sempre piú marginale nell'economia, hanno finito per fargli assumere invece un ruolo senza precedenti, negli ambiti piú disparati: è diventato infatti proprietario della piú grande industria automobilistica e del piú grande gruppo assicurativo del mondo, oltre che di alcune delle principali banche, dando comunque di piú di quanto non abbia ricevuto. Un paese che spesso considera il socialismo una maledizione ha finito per socializzare il rischio ed è intervenuto sui mercati come non era mai successo prima.

Queste contraddizioni vanno di pari passo con le apparenti incongruenze delle tesi sostenute dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e dal Tesoro degli Stati Uniti prima, durante e dopo la crisi dell'Est asiatico, oltre che con le incoerenze fra le politiche di allora e quelle di oggi. L'Fmi potrebbe sostenere di credere nel fondamentalismo del mercato - e cioè che i mercati sono efficienti, capaci di correggersi da soli e pertanto vanno lasciati liberi di agire se si vogliono massimizzare la crescita e l'efficienza -, ma nel momento in cui si verifica una crisi, allora chiede un massiccio intervento pubblico, preoccupato del «contagio» e del diffondersi della malattia da un paese all'altro. Ma il contagio è un'esternalità allo stato puro, e se esistono delle esternalità non si può (a rigor di logica) credere nel fondamentalismo del mercato. Persino dopo le operazioni di salvataggio multimiliardarie, l'Fmi e il Tesoro degli Stati Uniti hanno osteggiato l'introduzione di misure (regole) che avrebbero potuto rendere questi «incidenti» meno probabili e meno costosi, perché rimanevano convinti che i mercati, sostanzialmente, funzionassero bene per loro dote intrinseca, malgrado la prova dei fatti avesse ripetutamente dimostrato il contrario.

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Pagina 33

Il quadro generale.

Alla base di tutti questi sintomi di disfunzione vi è una verità piú ampia: l'economia mondiale è soggetta a scosse sismiche. La Grande depressione ha coinciso con il declino dell'agricoltura statunitense, ma i prezzi agricoli erano in diminuzione anche prima del crac di Borsa del 1929. L'incremento della produttività agricola era stato tale da far sí che una piccola percentuale della popolazione fosse in grado di produrre tutte le derrate alimentari che il paese poteva consumare. La transizione da un'economia basata sull'agricoltura a una a vocazione manifatturiera non era stata facile e anzi l'economia si è ripresa solo con l'avvento del New Deal e quando, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, si sono messe al lavoro le fabbriche.

Oggi, la tendenza negli Stati Uniti è quella di un passaggio dal settore manifatturiero al terziario. Come prima, ciò avviene in parte a causa dell'incremento di produttività del settore industriale per cui basta una piccola parte della popolazione per produrre tutti i giocattoli, le automobili e i televisori che anche la società piú sprecona può comprare. Ma negli Stati Uniti e in Europa si aggiunge una dimensione ulteriore: la globalizzazione, che ha delocalizzato la produzione e il vantaggio comparato in Cina, India e in altri paesi in via di sviluppo.

Questo adattamento «microeconomico» è accompagnato da una serie di squilibri macroeconomici: anziché risparmiare per la pensione dei figli del baby boom, gli Stati Uniti vivono al di sopra delle loro possibilità, finanziati perlopiú dalla Cina e da altri paesi in via di sviluppo che producono piú di quanto non consumino. Pur essendo normale che alcuni paesi concedano prestiti ad altri - vi sono nazioni che registrano un disavanzo della bilancia commerciale, mentre altre hanno un saldo attivo -, quando sono i paesi poveri a prestare denaro a quelli ricchi, la cosa diventa particolare e l'entità dei deficit appare insostenibile. Quanto piú un paese si indebita, tanto piú i prestatori possono perdere fiducia nella sua capacità di rimborso, e questo vale anche per un paese ricco come gli Stati Uniti. Per riportare in salute l'economia americana e quella mondiale bisognerà tenere conto delle nuove acquisizioni in materia di dottrina economica e correggere questi squilibri.

Tornare a dove eravamo prima che scoppiasse la bolla nel 2007 non è possibile, né tantomeno dobbiamo desiderarlo. Quell'economia, come abbiamo appena visto, aveva mille problemi. Di sicuro, una qualche nuova bolla potrà sostituirsi a quella immobiliare, cosí come quest'ultima si era sovrapposta a quella dei titoli tecnologici, ma questo genere di «soluzione» non farebbe altro che rinviare il giorno della resa dei conti. Qualsiasi nuova bolla presenterebbe dei problemi: quella petrolifera, per esempio, ha spinto l'economia sull'orlo del burrone. Piú aspetteremo ad affrontare i problemi di fondo, piú tempo ci vorrà prima che il mondo torni a crescere in modo costante.

Capire se gli Stati Uniti hanno fatto abbastanza per fare in modo che non ci sia un'altra crisi è facile: se le riforme proposte fossero state operative, sarebbe stato possibile evitare l'attuale crisi? O ci sarebbe stata comunque? Per esempio, il conferimento di maggiori poteri alla Federal Reserve è un punto essenziale della riforma proposta da Obama per regolare il settore. Ma quando la crisi è cominciata, la Federal Reserve aveva piú poteri di quelli che ha utilizzato. Quale che sia l'interpretazione della crisi, la Fed è stata al centro della creazione di questa bolla e della precedente. Forse il governatore ha imparato la lezione, ma viviamo in un paese di leggi, non di uomini: dovremmo forse avere un sistema per cui la Fed deve prima andare a fuoco perché si eviti un secondo incendio? Possiamo avere fiducia in un sistema che può dipendere in modo tanto precario dalla filosofia economica o dall'intelligenza di una persona, o dei sette membri del consiglio direttivo della Fed? Al momento di andare in stampa, è chiaro che le riforme non sono andate avanti nel modo dovuto.

Non possiamo aspettare che la crisi finisca. Al contrario: il modo in cui l'abbiamo affrontata potrebbe rendere piú difficile la soluzione di questi problemi piú radicati. Nel prossimo capitolo, analizzeremo ciò che si sarebbe dovuto fare per affrontare la crisi, e perché quello che abbiamo fatto non è bastato.

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Pagina 345

Capitolo nono

Riformare la scienza economica


Le colpe da distribuire in questa crisi sono tante e abbiamo visto quale sia stato il ruolo svolto da regolatori e legislatori, Federal Reserve e finanzieri. Mentre da una parte ognuno si occupava dei propri affari, dall'altra tutti sostenevano di fare la cosa giusta e, nella maggior parte dei casi, basavano le loro argomentazioni sull'analisi economica. Fra le cose che non sono «andate per il verso giusto», non possiamo non menzionare la professione economica. Naturalmente, non tutti si sono uniti ai cori di giubilo per l'economia del libero mercato; non tutti erano discepoli di Milton Friedman, ma un numero sorprendentemente elevato di economisti si orientava proprio in quella direzione. Questi non si sono limitati a dare consigli sbagliati, ma hanno fallito in quello che era il loro compito principale: fare previsioni. Relativamente in pochi hanno visto il disastro incombente, e non è un caso che i fautori delle regole che avevano portato a questa catastrofe fossero accecati a tal punto dalla loro fede nel libero mercato da non capire quali problemi stesse creando. L'economia si è trasformata, molto piú di quanto gli economisti non vogliano ammettere, da disciplina scientifica a principale portabandiera del capitalismo neoliberista. Per poter riformare la loro economia, gli Stati Uniti dovranno forse innanzitutto riformare la scienza economica.


La guerra delle idee.

Durante la Grande depressione, la dottrina economica, specie negli Stati Uniti, ha vissuto momenti di grande difficoltà. Il paradigma dominante allora, come oggi, era che i mercati, per loro stessa natura, sono efficienti e in grado di correggersi da soli. Quando l'economia entrò in recessione e poi in depressione, molti diedero un consiglio assai semplice: non fare nulla. Sarebbe bastato aspettare, e l'economia si sarebbe ripresa in tempi rapidi. Molti sostennero anche Andrew Mellon, segretario al Tesoro del presidente Herbert Hoover, nel suo tentativo di riportare il bilancio in pareggio: la recessione aveva ridotto le entrate fiscali, che restavano inferiori alle spese. Per ripristinare la «fiducia» — così credevano i conservatori di Wall Street — bisognava ridurre in contemporanea anche le spese.

Franlin Roosevelt, eletto presidente nel 1933, la pensava in modo diverso e trovò sostegno oltre Atlantico: John Maynard Keynes consigliava di aumentare la spesa per stimolare l'economia, e questo significava aumentare il deficit. Per tutti coloro che erano scettici prima di tutto nei confronti del governo, questo era un anatema. Alcuni lo definirono «socialismo» tout court, altri lo videro come suo precursore. In realtà, Keynes cercava di salvare il capitalismo da se stesso; sapeva che se l'economia di mercato non fosse riuscita a creare occupazione, non avrebbe potuto sopravvivere. I discepoli americani di Keynes, come il mio professore Paul Samuelson , sostenevano che una volta riportata l'economia alla piena occupazione, saremmo potuti tornare alle meraviglie del libero mercato.

Durante la Grande recessione del 2008, sono stati in molti ad affermare che il New Deal di Roosevelt era stato un fallimento e, anzi, aveva peggiorato le cose. Secondo questa tesi, è stata la Seconda guerra mondiale a trascinare finalmente l'America fuori dalla Grande depressione. Questo è in parte vero, ma soprattutto perché il presidente Roosevelt non riuscí a condurre una politica di spesa espansionistica coerente a livello nazionale. Proprio come accade oggi, a fronte di un aumento della spesa federale, veniva contratta la spesa dei singoli stati. Arrivati al 1937, i timori circa l'entità del deficit avevano indotto a un taglio della spesa pubblica. Ma anche la spesa per la guerra è pur sempre una spesa, e non del tipo che può migliorare la futura produttività dell'economia né (direttamente) il benessere dei cittadini. Persino i critici di Roosevelt sono d'accordo nell'affermare che se non è stata la spesa del New Deal a traghettare l'economia fuori dalla depressione, c'è riuscita la spesa per la guerra. In ogni caso, la Grande depressione ha dimostrato che l'economia di mercato non era in grado di correggersi da sola, perlomeno non in un arco temporale accettabile.

Il 1970 ha visto profilarsi all'orizzonte il nuovo problema dell'inflazione e una nuova generazione di economisti. Il problema negli anni Trenta era la deflazione e la caduta dei prezzi. Per i giovani economisti, era storia passata. Un'altra recessione profonda non sembrava immaginabile. Il fatto che la maggior parte delle recessioni del dopoguerra fosse associata a un'eccessiva contrazione del credito da parte della Federal Reserve confermava i pregiudizi dei conservatori, e cioè che qualsiasi deviazione dalla perfezione fosse da ascrivere ai fallimenti dello Stato, e non del mercato.

C'erano, tuttavia, altri punti di vista. Secondo il compianto Charles Kindleberger, eminente storico dell'economia, le crisi finanziarie si verificano con cadenza decennale da quattrocento anni a questa parte. Il quarto di secolo compreso fra il 1945 e il 1971 è stato eccezionale in quanto, malgrado la presenza di fluttuazioni, nessun paese del mondo — con l'eccezione del Brasile nel 1962 — ha registrato crisi bancarie, che invece sono sempre state una costante della vita economica, prima e dopo questo periodo. Il professor Franklin Allen della Wharton School della University of Pennsylvania e Douglas Gale della New York University propongono una convincente interpretazione del motivo per cui il quarto di secolo seguito alla Seconda guerra mondiale non è stato afflitto da crisi: tutti si erano convinti del bisogno di una rigorosa regolamentazione. La maggiore stabilità può essere stata uno dei fattori che hanno contribuito al tasso di crescita elevato durante questo periodo. L'intervento del governo aveva portato a un'economia piú stabile, e forse può aver addirittura favorito la rapida crescita e la maggiore uguaglianza di quell'epoca.

È sbalorditivo che, giunti agli anni Ottanta, non solo negli ambienti politici conservatori, ma anche presso gli economisti accademici statunitensi, abbia ricominciato a prevalere la tesi secondo cui il mercato sarebbe efficiente e capace di autocorreggersi. Questa visione neoliberista era in disaccordo sia con la realtà sia con gli ultimi sviluppi della scienza economica, la quale aveva dimostrato come anche in periodi di piena occupazione o quasi e in presenza di mercati competitivi, le risorse non vengano comunque distribuite in modo efficiente.


La teoria dell'equilibrio generale.

Il filone dominante dell'economia teorica da oltre un secolo a questa parte si ispira a quello che viene definito modello walrasiano o dell'equilibrio generale, dal nome del matematico ed economista francese Léon Walras , che per primo lo elaborò nel 18747. Egli descrisse l'economia come un equilibrio - simile a quello newtoniano nella fisica - con prezzi e quantità determinati dal bilanciamento fra domanda e offerta. Uno dei grandi risultati dell'economia moderna è stato quello di utilizzare quel modello per valutare l'efficienza dell'economia di mercato. Nello stesso anno in cui gli Stati Uniti dichiararono la loro indipendenza, Adam Smith pubblicò il suo famoso trattato, La ricchezza delle nazioni , in cui sosteneva che il perseguimento dell'interesse personale avrebbe portato al benessere generale della società. Centosettantacinque anni dopo, Kenneth Arrow e Gerard Debreu, applicando il modello walrasiano, hanno spiegato che cosa mancava perché l'intuizione di Smith fosse corretta. L'economia era efficiente, nel senso che nessuno poteva stare meglio se non c'era qualcuno che andava a stare peggio, soltanto in presenza di limitate condizioni. I mercati dovevano essere piú che semplicemente competitivi: dovevano esistere mercati assicurativi di ogni specie (per poter contrarre polizze contro qualsiasi rischio possibile e immaginabile), i mercati dei capitali dovevano essere perfetti (dando a chiunque la possibilità di accendere prestiti per qualsiasi importo e durata, a tassi d'interesse competitivi, adeguati al rischio) e non ci potevano essere esternalità o beni pubblici. Le circostanze in presenza delle quali i mercati non riuscivano a produrre risultati efficienti venivano definite, piuttosto naturalmente, «fallimenti del mercato».

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L'insuccesso del modello neoclassico.

Il modello dei mercati perfetti viene talvolta definito «modello neoclassico». L'economia dovrebbe essere una scienza predittiva, ma molte delle previsioni chiave della dottrina neoclassica sono facilmente confutabili. La piú ovvia è quella secondo cui la disoccupazione non esiste. Se in un mercato in equilibrio la domanda di mele è uguale all'offerta, allo stesso modo (secondo questa teoria) la domanda di manodopera è uguale all'offerta. Nel modello neoclassico, qualsiasi scostamento dall'equilibrio ha vita breve, talmente breve che non varrebbe la pena impegnare risorse pubbliche per porvi rimedio. Per incredibile che possa sembrare, alcuni economisti di primo piano - incluso almeno un recente vincitore del premio Nobel per l'economia - ritengono che l'attuale crisi sia roba da poco. Alcuni godono semplicemente di qualche agio in piú del solito, tutto qui.

Non è certo questa l'unica conclusione bizzarra dell'economia neoclassica. I suoi accoliti sostengono anche che il razionamento del credito non esiste, perché chiunque può prendere in prestito le somme che vuole, naturalmente a un tasso d'interesse commisurato al rischio di insolvenza. Per questi economisti, la crisi di liquidità del 15 settembre non è altro che un'illusione, un parto della fantasia.

Un terzo esempio di come l'economia tradizionale abbia preso le distanze dalla realtà riguarda la struttura finanziaria delle società: che un'azienda si finanzi tramite debito o tramite l'emissione di azioni non fa differenza. Questo è stato uno dei contributi principali di Franco Modigliani e Merton Miller, insigniti del premio Nobel per l'economia rispettivamente nel 1985 e nel 1990. Cosí come in molte idee neoclassiche, un fondo di verità c'è, e seguendo la loro logica possiamo capire molte cose. Essi sostengono che il valore dell'azienda dipende esclusivamente dal valore degli utili che distribuisce, e non fa differenza se li distribuisce principalmente sotto forma di debito (attraverso pagamenti fissi, indipendentemente dal livello dei profitti) con il residuo che confluisce in capitale di rischio, oppure principalmente sotto forma di capitale di rischio. Facendo un paragone, il valore di un litro di latte intero può essere visto come il valore del latte scremato piú il valore della componente grassa. Modigliani e Miller hanno ignorato la possibilità del fallimento e i relativi costi, oltre al fatto che quanto piú l'azienda contrae prestiti tanto piú aumentano le sue probabilità di fallire. Hanno anche ignorato l'informazione legata alla decisione di un azionista di vendere la propria partecipazione: il desiderio di un proprietario di vendere le proprie azioni a un prezzo molto basso dice quasi sicuramente qualcosa al mercato su come la pensa a proposito delle prospettive future dell'azienda.

Un quarto aspetto critico dell'economia neoclassica che è stato smentito dall'attuale crisi è la sua spiegazione di che cosa determini i redditi e la disuguaglianza. Come spieghiamo i salari relativi dei lavoratori qualificati o generici e la retribuzione dei dirigenti d'azienda? La teoria neoclassica forniva una giustificazione della disuguaglianza affermando che ogni lavoratore è pagato in funzione del suo contributo marginale alla società. Le risorse sono insufficienti, e il prezzo di quelle che scarseggiano maggiormente deve essere piú alto allo scopo di garantirne un utilizzo efficace. Secondo questa teoria, interferire con la retribuzione dei dirigenti significherebbe interferire con l'efficienza del mercato. Negli ultimi venticinque anni sono andati aumentando i dubbi sull'idoneità di questa teoria a giustificare l'impennata delle retribuzioni dei dirigenti. Trent'anni fa lo stipendio di un manager era quaranta volte superiore quello di un normale lavoratore, oggi è centinaia o addirittura migliaia di volte più alto. I top manager non erano diventati improvvisamente piú produttivi, né avevano cominciato a scarseggiare. E nulla poteva dimostrare che il numero uno dell'organigramma fosse tanto piú specializzato del numero due. La teoria neoclassica non è neanche riuscita a spiegare come mai, in un mondo globalizzato, con le stesse tecnologie disponibili nei diversi paesi, queste disparità retributive fossero tanto più marcate negli Stati Uniti che non altrove. I dubbi sulla teoria si sono infittiti di fronte al fatto che i bonus nel mondo della finanza sono rimasti altissimi malgrado l'evidente cattivo servizio che questi operatori rendevano sia alle aziende sia alla società nel suo complesso. In precedenza, ho suggerito una spiegazione alternativa: i problemi di corporate governance hanno evidenziato l'assenza di una relazione diretta fra retribuzione e contributo sociale «marginale». Se fosse vero, questo avrebbe profonde implicazioni sulle politiche finalizzate a una migliore distribuzione del reddito.

Un ultimo esempio è che, secondo la teoria neoclassica non esiste discriminazione. L'argomentazione teorica era semplice: se ci fosse discriminazione, e nessuno nella società facesse discriminazioni, ci sarebbe una tendenza ad assumere gli appartenenti ai gruppi discriminati perché avrebbero salari inferiori. Questo farebbe salire i salari fino al punto di eliminare qualsiasi differenza fra gruppi razziali.

Io vengo dallo stato dell'Indiana, precisamente da Gary, una città siderurgica sulle coste meridionali del Lago Michigan. Durante l'infanzia e l'adolescenza, ho visto crescere la disoccupazione di pari passo con le continue crisi dell'economia. Sapevo che quando i miei concittadini vivevano tempi duri, non potevano andare in banca a prelevare i soldi per andare avanti e ho visto discriminazioni razziali. Quando ho cominciato a studiare economia, nessuna delle conclusioni raggiunte dalla teoria neoclassica aveva alcun senso per me. Questo mi ha fornito lo stimolo a cercare delle alternative. Insieme ai miei compagni di corso all'università, mi sono chiesto quale fosse l'assunto cruciale dell'economia (neo)classica responsabile delle «assurde» conclusioni della teoria.

Era ovvio, per esempio, che i mercati erano ben lungi dall'essere perfettamente competitivi. In un mercato perfettamente competitivo, un'azienda che abbassasse anche soltanto di poco i prezzi potrebbe conquistare l'intero mercato. Un paese piccolo non dovrebbe mai fare i conti con la disoccupazione; basterebbe ridurre il tasso di cambio per vendere tutte le merci che produce. Il presupposto della concorrenza perfetta era cruciale, ma avevo l'impressione che, in una grande economia come quella statunitense, il suo impatto principale fosse quello sulla distribuzione del reddito. Coloro che detenevano un potere monopolistico potevano accaparrarsi una quota sostanziosa del reddito nazionale e, come conseguenza del loro esercizio del potere di mercato, il reddito della nazione poteva diminuire. Ma non c'era ragione di credere che un'economia piena di monopoli potesse essere caratterizzata da disoccupazione, discriminazione razziale o restrizioni creditizie.

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Pagina 368

Le battaglie macroeconomiche.

All'interno della cattedrale del pensiero economico dominante si trovano numerose cappelle dedicate a problemi specifici. Ciascuna ha il proprio sacerdote e persino un suo catechismo. La guerra delle idee che ho descritto si riflette nella miriade di battaglie e scaramucce all'interno di ciascuna di queste discipline minori. In questa parte, e nelle tre che seguiranno, ne descriverò quattro, connesse a quattro temi di questa débâcle: macroeconomia, politica monetaria, finanza ed economia dell'innovazione.

La macroeconomia studia i movimenti della produzione e dell'occupazione e cerca di capire come mai le economie sono caratterizzate da fluttuazioni, con episodi intermittenti di disoccupazione elevata e sottoutilizzo della capacità produttiva. Le battaglie nell'arena delle idee economiche sono generalmente influenzate da una curiosa interazione fra l'evoluzione del pensiero all'interno della disciplina e gli eventi. Come abbiamo visto prima, all'indomani della Grande depressione erano tutti d'accordo nell'affermare che i mercati non sono in grado di autocorreggersi, o comunque non entro un tempo ragionevole. (È irrilevante che in dieci o vent'anni i mercati, lasciati liberi di agire, possano tornare alla piena occupazione). Per la maggior parte degli economisti, il fatto che nel 1933 la disoccupazione sia arrivata a toccare punte di quasi il 25 per cento è sufficiente per dimostrare che i mercati non erano efficienti. Nell'ultimo quarto di secolo i macroeconomisti hanno concentrato l'attenzione su modelli in cui i mercati sono stabili ed efficienti; si spera che questa crisi li induca a un ripensamento di questi presupposti di base.

Ho descritto prima come gli economisti abbiano abbandonato l'economia keynesiana quando l'attenzione si è spostata dalla disoccupazione all'inflazione e alla crescita. Ma questo spostamento è dovuto anche a un altro motivo piú concettuale. La microeconomia, che studia il comportamento delle aziende, e la macroeconomia, che analizza il comportamento dell'economia nel suo complesso, si erano sviluppate, negli anni dopo Keynes, andando a formare due branche separate della dottrina economica. Le due utilizzavano modelli diversi e giungevano a conclusioni diverse. I «micro» modelli dicevano che la disoccupazione non esisteva, mentre costituiva il nucleo centrale della macroeconomia keynesiana. La microeconomia sottolineava l'efficienza dei mercati; la macroeconomia, l'enorme spreco di risorse che si verifica in tempi di recessione e depressione. A metà degli anni Sessanta, i microeconomisti e i macroeconomisti si resero conto che questa dicotomia nelle scienze economiche era insoddisfacente. Entrambi sentivano l'esigenza di un approccio unificato.

Secondo una delle scuole di pensiero - molto potente nell'influire sull'elaborazione delle politiche deregolamentatrici che tanta parte hanno avuto in questa crisi -, l'approccio dell'equilibrio competitivo della microeconomia forniva le giuste basi per la macroeconomia. Questa scuola, basata sul modello neoclassico, veniva talvolta definita «New Classical School», o «Chicago School», perché alcuni dei suoi sommi sacerdoti insegnavano alla University of Chicago. Ritenendo che i mercati siano sempre efficienti, sostenevano che non bisogna preoccuparsi delle fluttuazioni economiche, come nell'attuale recessione, perché queste non sono altro che l'efficiente adattamento dell'economia agli shock (come i cambiamenti tecnologici) provenienti dall'esterno. Alla base di questo approccio c'era anche una linea politica ben precisa: lo Stato deve svolgere un ruolo minimo in campo economico.

Pur basando le loro analisi sui modelli (walrasiani) neoclassici, introdussero l'ulteriore semplificazione secondo cui tutti gli individui sono uguali con l'elaborazione del modello dell'«agente rappresentativo». Ma se tutti gli individui sono identici, non può esistere attività creditizia, perché il denaro verrebbe semplicemente passato dalla tasca destra alla sinistra. Quindi non può esistere fallimento. Prima ho sottolineato come i problemi dell'informazione imperfetta siano essenziali per capire l'economia moderna, ma nei modelli di questi economisti non esistono asimmetrie informative per cui qualcuno è a conoscenza di dati che altri ignorano. Qualsiasi asimmetria dell'informazione trasmetterebbe un senso di intensa schizofrenia che certo non va d'accordo con gli altri loro presupposti di piena razionalità. I loro modelli non hanno nulla da dire sulle questioni critiche che entrano in gioco nell'attuale crisi: che problema c'è se diamo alle banche altri mille o duemila miliardi di dollari? Nel loro modello, banchieri e lavoratori sono le stesse persone. I grandi dibattiti politici vengono eliminati alla radice. Per esempio, il modello dell'agente rappresentativo esclude qualsiasi analisi della distribuzione. In un certo senso, la visione dei valori (inclusa l'idea che la distribuzione del reddito non sia importante) è incorporata nella formulazione stessa delle loro analisi.

Molte delle conclusioni delle analisi di questa scuola (che peraltro sembrano assurde) derivano da queste e altre semplificazioni estreme nei loro modelli. Ne ho citata una nel capitolo III secondo cui la spesa pubblica in disavanzo non stimola l'economia. La conclusione è il risultato di presupposti che sono ancora piú irrealistici di quello in base al quale i mercati sarebbero perfetti. a) Si parte dal presupposto che l'«agente» rappresentativo sappia che in futuro ci saranno tasse da pagare per la spesa e che, per questo motivo, metta da parte oggi il denaro necessario per pagarle. Ciò significa che la riduzione della spesa dei consumatori compensa del tutto l'aumento della spesa pubblica. b) Inoltre, si suppone che la spesa non generi nessun beneficio diretto positivo. Per esempio, la costruzione di una strada genera reddito oggi, ma potrebbe anche stimolare qualche azienda a espandersi, vista la diminuzione dei costi di trasporto delle merci sul mercato. Per portare un altro esempio, essi sostengono che i sussidi di disoccupazione non sono necessari, poiché le persone non sono mai disoccupate (tutt'al piú si godono il tempo libero) e, in ogni caso, se proprio vogliono, possono sempre contrarre dei prestiti per finanziare i consumi. Peggio ancora, i sussidi di disoccupazione sono dannosi, perché il problema non è dovuto alla carenza di posti di lavoro - lavoro c'è sempre per chi lo vuole -, bensí al fatto che la gente non si sforza di cercare, e l'assicurazione contro la disoccupazione non fa altro che aggravare questo «azzardo morale».

L'altra scuola di pensiero, guidata dai neokeynesiani (divisi a loro volta in numerose sottoscuole), ha seguito una strada diversa per cercare di conciliare la macro e la microeconomia. Il problema, secondo questi economisti, stava nel carattere semplicistico dei modelli microeconomici e nella miriade di presupposti irrealistici che ho descritto all'inizio del capitolo. La ricerca condotta nell'arco degli ultimi trent'anni ha dimostrato la fragilità del modello neoclassico su cui si basavano le analisi della scuola di Chicago.

Secondo questa corrente, la Grande depressione e questa Grande recessione sono la prova provata di un'inefficienza talmente grave da non poter essere ignorata, mentre in altri casi ci sono stati molti fallimenti dei mercati, piú difficili da evidenziare, ma nondimeno reali. Le recessioni sono come la punta di un iceberg: sotto la superficie si nascondono problemi molto piú gravi, come questa volta. Poiché la debolezza vera dell'economia moderna non era la macroeconomia keynesiana, ma la microeconomia tradizionale, la sfida degli studiosi era elaborare una microeconomia coerente con il comportamento della macroeconomia.

L'economia, come ho osservato prima, dovrebbe essere una scienza predittiva. In tal caso, l'approccio della scuola di Chicago merita un voto molto basso: non ha previsto la crisi (come avrebbe potuto, quando sostiene che le bolle e la disoccupazione non esistono?) e non ha saputo dire quasi nulla quando la crisi è scoppiata, se non rifiutare l'idea del deficit pubblico. La loro ricetta è semplice: lo Stato deve tenersi fuori.

Questa crisi economica non solo ha screditato la macroscuola dei «mercati perfetti», ma ha anche acceso nuovamente il dibattito fra le diverse correnti neokeynesiane. Delle due piú importanti, una dava per buona la maggior parte dei presupposti neoclassici, con una importante eccezione: supponeva che salari e prezzi fossero rigidi, ossia, per esempio, che non scendessero neanche in presenza di un eccesso di offerta di manodopera (disoccupazione). L'implicazione era chiara: se solo i salari e i prezzi fossero piú flessibili, l'economia sarebbe efficiente e si comporterebbe secondo il modello neoclassico tradizionale. Questa corrente condivideva alcune delle preoccupazioni della scuola di Chicago in materia di inflazione e non dedicava grande attenzione alla struttura finanziaria.

L'altro filone, presumibilmente piú in linea con il pensiero di Keynes, vede problemi molto piú gravi nel mercato. Una diminuzione dei salari aggraverebbe la crisi, visto che i consumatori ridurrebbero le spese. La deflazione - o anche solo un rallentamento del tasso di inflazione rispetto alle previsioni - può mandare le aziende in bancarotta, dal momento che le entrate non coprono piú i debiti. Secondo questa corrente, parte del problema trae origine dai mercati finanziari per il fatto che i contratti di debito non sono indicizzati al livello dei prezzi. Parte del problema è ascrivibile inoltre alla tendenza delle aziende e delle famiglie che, nei periodi di stabilità dell'economia, tendono ad assumersi piú rischi, specie attraverso un maggiore indebitamento; nel momento in cui avviene questo, l'economia diventa piú fragile e piú soggetta a essere colpita da uno shock negativo. Come abbiamo visto, quando il livello di indebitamento è elevato, basta una diminuzione anche minima del valore dei beni per causare una catastrofe finanziaria su vasta scala.

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