Copertina
Autore Ian Tattersall
Titolo Il cammino dell'uomo
SottotitoloPerché siamo diversi dagli altri animali
EdizioneGarzanti, Milano, 2004 [1998], gli elefanti , pag. 222, cop.fle., dim. 120x190x19 mm , Isbn 978-88-11-67592-1
OriginaleBecoming Human [1998]
TraduttoreLaura Montixi Comoglio
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe evoluzione , antropologia , biologia , scienze cognitive
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Indice

Introduzione                              7

Capitolo primo
L'esplosione creativa                    11


Capitolo secondo
Il cervello e l'intelligenza:
uomo e antropomorfe                      31

Che cos'è l'intelligenza?                32
Comportamento e intelligenza             35
Intelligenza e società                   41
Costruzione e uso di strumenti           47
Antropomorfe e linguaggio                55
Il cervello umano                        65

Capitolo terzo
Perché l'evoluzione?                     73

Selezione naturale                       74
La Sintesi evoluzionistica               76
La Sintesi e la paleoantropologia        81
Equilibri punteggiati                    84
Selezione di gruppo e geni immortali     88
Evoluzionismo oggi                       91
Monito finale                            97

Capitolo quarto
Il punto di partenza                    101

In principio                            101
Modi di vita degli ominidi arcaici      109
I più antichi ominidi sudafricani       113
I primi artefici di strumenti           115

Capitolo quinto
Diventare uomini                        123

Verso l'uomo anatomicamente moderno     123
Fuori dall'Africa                       127
Le glaciazioni                          128
Gli antichi Europei                     131
I Neandertaliani                        136
Come vivevano i Neandertaliani          139
Neandertaliani e sepoltura dei defunti  146
La fine dei Neandertaliani              148
L'evoluzione del linguaggio articolato  150
La comparsa dell'uomo di tipo moderno   156
Riepilogo                               163

Capitolo sesto
Essere uomini                           169

Gli usi della coscienza                 170
La non-condizione umana                 176
La nostra eredità evolutiva             182
Cervello e comportamento                189
L'uomo e la Terra                       193
Allora, che cosa è accaduto?            200
Conclusione                             210

Ringraziamenti                          215

Letture consigliate                     217

 

 

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Pagina 7

Introduzione



[...]

Noi esseri umani siamo animali enigmatici. Siamo imparentati con il resto del vivente, ma ci distinguiamo per le nostre capacità cognitive. Gran parte del nostro comportamento è condizionato dall'interesse per concetti astratti e simbolici. Ciò non significa che non condividiamo con altri animali alcuni comportamenti, inclinazioni e strutture fisiche: questa verità non è nemmeno in discussione. Anzi, è proprio attraverso l'osservazione delle somiglianze che sappiamo di essere parte integrante della natura, ed è proprio studiando come sono distribuite tali somiglianze fra le numerose specie della Terra che possiamo conoscere con precisione il nostro posto nel grande albero della vita. Fare ipotesi sulla struttura di questo albero va oltre i propositi del mio libro, poiché intendo piuttosto affrontare la questione dell'unicità umana, analizzando ciò che ci differenzia dai nostri «parenti» più prossimi. La nostra parentela può essere considerata sotto due diversi aspetti. Fra tutti gli organismi viventi noi siamo senza dubbio i più strettamente imparentati con le grandi antropomorfe, e parte di questo libro verrà dedicata a stabilire l'ampiezza del divario cognitivo fra loro e noi, in quanto è possibile condurre in modo diretto questo tipo di indagine solo sugli animali viventi.

Nel più ampio schema delle cose, tuttavia, noi e le antropomorfe non siamo imparentati molto strettamente. Possediamo un progenitore comune a noi e a una (o più) delle specie antropomorfe. Questo progenitore comune è vissuto almeno sei o sette milioni di anni fa, ma molto è avvenuto da allora, sia nella loro filogenesi sia nella nostra. Gli archivi di quei lontani avvenimenti sono i fossili e la documentazione archeologica, che contengono informazioni sulla struttura fisica e sui comportamenti di almeno una dozzina di specie umane e preumane, alcune strettamente imparentate con noi, altre meno. Ciò che possiamo immaginare sulle capacità cognitive di queste specie basandoci su fattori quali il volume cerebrale o la struttura di un sito archeologico è, ovviamente, del tutto congetturale. Non possediamo informazioni dirette sul comportamento o sul modo di pensare dei nostri progenitori o dei nostri parenti estinti. Tuttavia, avvalendoci degli studi sui nostri parenti attuali e delle testimonianze lasciate da quelli estinti, possiamo sperare di migliorare la conoscenza di ciò che ci ha resi speciali, e come abbiamo acquisito la nostra unicità. Ma, ancora più importante, la conoscenza dei processi che ci hanno condotti a essere quali siamo ci aiuterà a comprendere non solo il nostro passato ma che cosa ci riserva il futuro. Di tutto ciò mi propongo di parlare in questo libro.

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Pagina 11

Capitola primo
L'esplosione creativa



Gli esseri umani, in tutta la loro unicità, sono il risultato di un lungo processo evolutivo. E visto che il racconto è cominciato nella Francia dell'Era glaciale, perché non iniziare il nostro itinerario evolutivo da quel periodo, dando un'occhiata alle sorprendenti testimonianze lasciateci dagli Europei vissuti al suo termine? Queste popolazioni ci hanno fornito la più antica documentazione ben conservata che dimostri l'unicità del talento umano, il quale aveva già raggiunto la sua forma più piena: sono le testimonianze di quella che il divulgatore scientifico John Pfeiffer ha definito «l'esplosione creativa». Non si è trattato però di un fenomeno locale. Fino a circa 40.000 anni or sono (40 kyr, dove 1 kyr = 1000 anni) l'Europa fu abitata solo dai Neandertaliani, un gruppo umano dotato di caratteri distintivi, appartenente alla specie Homo neanderthalensis, ora estinta. I Neandertaliani, che incontreremo di nuovo nel Capitolo 5, erano esseri umani complessi che sapevano utilizzare con intelligenza l'ambiente in cui vivevano, ben diversi dall'immagine di bruti attribuita loro da generazioni di disegnatori di vignette. Tuttavia non lasciarono testimonanze di quella scintilla di creatività e capacità di innovazione che costituisce una caratteristica così evidente della nostra specie, e vennero rapidamente sostituiti dai primi Homo sapiens europei, pienamente dotati dei comportamenti che caratterizzano l'umanità attuale.

Questi nuovi Europei sono noti come «Cro-Magnon», e devono il nome alla località della Francia in cui furono trovati e descritti per la prima volta i loro resti fossili. Esattamente da dove i Cro-Magnon provenissero non è ancora molto chiaro (su questo argomento torneremo nei Capitoli 5 e 6), ma non c'è dubbio che fossero come noi. Fisicamente non presentavano alcuna differenza rispetto a Homo sapiens attuale; per ricchezza e complessità, le testimonianze materiali della loro vita indicano inequivocabilmente che anche ci eguagliavano sul piano intellettuale.

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Pagina 15

I Neandertaliani avevano occasionalmente inumato i morti, ma fra i Cro-Magnon troviamo le prime testimonianze di sepolture regolari ed elaborate, con indicazioni di riti e della fede in una vita ultraterrena. L'esempio più impressionante viene dal sito di Sungir', in Russia, datato a 28 kyr, dove due individui molto giovani e uno di sesso maschile di circa sessant'anni (nessun'altra specie umana precedente era mai vissuta fino a quell'età) vennero inumati con una sbalorditiva ricchezza di offerte. I defunti erano vestiti con abiti su ciascuno dei quali erano state cucite più di tremila perle di avorio di mammut (secondo gli esperimenti condotti, ogni perla aveva richiesto un'ora di lavorazione) e indossavano pendenti intagliati, braccialetti e collane di conchiglie. I due ragazzi, sepolti testa contro testa, avevano a fianco due zanne di mammut lunghe un paio di metri. Ancora più sorprendente è il fatto che le zanne erano state raddrizzate. Il mio collega Randy White mi ha fatto osservare che ciò si sarebbe potuto ottenere solo con la bollitura. Ma come? Qui è più saggio tenere a freno l'immaginazione, perché in un caso simile non sarebbe bastato lasciar cadere qualche pietra rovente in una buca foderata di pelli. Nella sepoltura vennero trovati anche numerosi strumenti su osso e parecchi oggetti intagliati, comprese alcune forme a ruota e un cavallino in avorio di mammut punteggiato di minuscole coppelle circolari. Le elaborate sepolture di Sungir' ci colpiscono più delle altre, ma nel loro complesso tutte le sepolture dei Cro-Magnon hanno molto da raccontarci sui gruppi umani che vi sono rappresentati.

In primo luogo, in tutte le società umane che la praticano, l'inumazione dei defunti accompagnata da offerte funerarie (oltre ai riti invariabilmente associati alla loro deposizione nella sepoltura) indica la fede in una vita oltre la morte: le offerte vengono deposte accanto al defunto perché in futuro gli saranno utili. Non erano necessariamente oggetti di uso quotidiano, sebbene tutto ciò che è stato rinvenuto a Sungir' potesse esserlo, in quanto gli ornamenti personali sembrano soddisfare una necessità fondamentale dell'uomo, espressa al massimo grado dai Cro-Magnon. Ma che alcuni manufatti rinvenuti in questo sito fossero stati preparati specificamente per usi funerari oppure no, una cosa è certa: la consapevolezza dell'inevitabilità della morte e la spiritualità sono strettamente correlate, e nelle sepolture dei Cro-Magnon troviamo abbondanti indizi di entrambe. È qui che abbiamo la più antica testimonianza incontrovertibile di un'esperienza religiosa.

In secondo luogo, la pura e semplice quantità di lavoro dedicato alla produzione degli oggetti decorati rinvenuti nelle sepolture indica che l'ornamentazione, l'elaborazione e l'arte erano parte integrante della vita e delle società dei loro artefici, che non erano certamente degli improvvisatori. Per queste popolazioni l'arte non era un'occupazione occasionale o marginale, ma era centrale alla conoscenza del loro ambiente e alla maniera che avevano di spiegarsi non solo il mondo ma presumibilmente anche la posizione dell'umanità al suo interno.

In terzo luogo, le società che praticavano l'inumazione dei defunti dovevano necessariamente disporre di considerevoli surplus economici per potersi disfare di oggetti di così grande valore in termini di tempo occorrente per produrli. È evidente che i loro membri non dovevano dedicare tutto il tempo ad attività di sopravvivenza, e che sapevano sfruttare l'ambiente in modo così efficiente da avere tempo libero per le attività simboliche. Tuttavia occorre tener presente che nell'Era glaciale l'attività artistica poteva essere compiuta in numerosi ambienti diversi, alcuni dei quali assai più vantaggiosi di altri dal punto di vista dei cacciatori-raccoglitori. Quando la pratica di produrre manufatti simbolici si fu consolidata insieme con i riti a essa connessi, è possibile che la produzione artistica fosse diventata parte integrante del sistema economico e che le società di Cro-Magnon la considerassero un elemento essenziale della loro economia. Quando sopraggiungevano i momenti difficili - come sarà sicuramente accaduto considerando le fluttuazioni climatiche dell'Era glaciale - è possibile che queste persone vedessero la propria arte e i riti connessi come un'attività in qualche modo necessaria affinché il benessere continuasse, essenziale per il successo nella caccia e per le altre attività che le mantenevano in vita giorno dopo giorno.

Infine, il fatto che vi sia una considerevole varietà nell'elaborazione e nei dettagli delle sepolture dei Cro-Magnon (l'opulenza di Sungir' è un'eccezione e non la regola) lascia intuire che la loro società era stratificata e che vi si praticava la divisione del lavoro.

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Pagina 21

Cosa ci dice tutto ciò sui Cro-Magnon? Innanzitutto avvalora la conclusione che le prime popolazioni di Homo sapiens anatomicamente moderno giunsero in Europa equipaggiate di tutte le capacità cognitive di cui siamo dotati noi. In secondo luogo sottolinea la tendenza verso l'innovazione e la diversificazione culturale che è una caratteristica fondamentale della nostra specie ed è al contempo estranea a tutte le specie umane precedenti. Alcuni ricercatori ritenevano che, servendosi della vecchia cronologia, sarebbe stato possibile individuare un unico filone di evoluzione stilistica attraverso tutto l'arco temporale coperto dall'arte dell'Era glaciale, dalle prime manifestazioni dell'Aurignaziano, datate intorno a 34 kyr or sono, fino al termine del Magdaleniano, intorno a 10 kyr or sono. Una simile continuità per un periodo di tempo così lungo era già stata considerata improbabile, e ora la sua impossibilità appare evidente. Al contempo sembra che il modello di sporadica innovazione tecnologica nel corso del Paleolotico superiore continui a essere valido: per fare un esempio, le punte di zagaglia su osso comparvero oltre 34 kyr or sono, mentre gli aghi di osso con cruna non comparvero che intorno a 26 kyr or sono e gli arponi muniti di denti intorno a 18 kyr.

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Pagina 27

Queste interpretazioni non sono più ritenute valide. Gli archeologi non hanno tardato a rendersi conto che gli animali dipinti nelle grotte non erano necessariamente le prede più frequenti. Il mammut, l'orso e il rinoceronte lanoso non erano i primi animali che un cacciatore intenzionato a vivere a lungo avrebbe scelto, mentre la renna - la voce principale della dieta nel Paleolitico superiore - compare solo di rado fra le raffigurazioni parietali. Inoltre la più famosa immagine di renna di tutta l'arte di questo periodo è difficilmente associabile al concetto di uccisione. Nella grotta francese di Font-de-Gaume è stata scoperta la raffigurazione, sbiadita ma commovente, di due renne affrontate. Sulla destra c'è una femmina china in avanti, con le zampe anteriori flesse. Davanti a lei c'è un maschio adornato di un magnifico palco, che protendendosi verso di lei le lecca delicatamente la fronte. La scena, frutto di un'osservazione attenta, è molto tenera, e chiunque, me compreso, stenterebbe a vederla in un contesto di violenza. Nella mente del creatore di questo capolavoro doveva esserci qualcosa di completamente estraneo alla caccia.

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Pagina 30

Comunque sia, i Cro-Magnon ci hanno trasmesso ampie testimonianze dell'importanza dei simboli nella loro vita. Un'analisi accurata dei segni astratti che dipinsero sulle pareti delle grotte e incisero sulle placchette, come anche una migliore comprensione della loro «arte», sta cominciando a rivelarci che in realtà non ci troviamo di fronte a un singolo corpo unitario di simboli e di credenze. Anzi, verso il termine dell'Era glaciale, nella sola Europa occidentale (una regione geograficamente limitata) vi furono dozzine di sistemi simbolici correnti. Questa diversità culturale, tipica dell'uomo attuale - e, in realtà, la stessa ampia diffusione del comportamento simbolico - contrastano vistosamente con la relativa monotonia dell'evoluzione umana nel corso dei cinque milioni di anni precedenti. Prima dei Cro-Magnon, infatti, le innovazioni furono a dir poco sporadiche. Nuove tecniche cominciano a rivelare sfaccettature e ritmi nell'evoluzione dell'arte e della società dell'Era glaciale che sarebbero stati impensabili per l'umanità precedente, e stanno portando questo campo della scienza a una nuova epoca di fermenti finora inimmaginabili. Non siamo ancora in grado di sapere dove e come questi fermenti avranno termine, ma è già ampiamente evidente che con l'avvento di Homo sapiens anatomicamente moderno era emersa un'entità del tutto nuova: ancora oggi stiamo esplorando e ampliando il suo potenziale.

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Pagina 62

Gli scimpanzé, dunque, non possiedono il linguaggio articolato. Anche attraverso gli eroici e tenaci sforzi degli istruttori non lo acquisiscono nemmeno nella sua forma più rudimentale. Inoltre è difficile dimostrare che possiedono capacità cognitive che potrebbero essere chiamate «prelinguistiche». Gli esseri umani sono realmente unici per il possesso del linguaggio e dell'apparato che permette loro di apprenderlo ed esprimerlo. Affinché non si pensi che nutro avversione per gli scimpanzé, mi affretto ad aggiungere che non c'è ragione per cui le antropomorfe dovrebbero avere la capacità di linguaggio articolato. Il problema è nostro. Gli esseri umani ritengono di aver raggiunto una vetta evolutiva - anzi, la vetta - e amano enfatizzare questa posizione tanto elevata considerando i loro parenti stretti come creature che stanno ancora faticosamente salendo la china che essi hanno scalato da tempo. Ma rappresentare il successo evolutivo come una scala che occorre salire fino in cima distorce la nostra prospettiva. Vi sono molti modi di fare le cose a questo mondo, e le antropomorfe hanno il loro, come noi abbiamo il nostro. Nelle comunità di antropomorfe la comunicazione vocale serve a scopi diversi che per la nostra specie, ed è del tutto sbagliato considerare la loro versione come una forma inferiore della nostra. Se pensiamo in termini di vette, dobbiamo riconoscere che al mondo ce ne sono altre oltre a quella che occupiamo noi: una per ciascuna delle specie che popolano la terra, e che sono milioni.

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Pagina 64

Le antropomorfe, dunque, hanno comportamenti, società e modi di comunicazione molto complessi. I singoli individui hanno personalità e necessità emotive diverse, e in condizioni di deprivazione sociale sono capaci di estrema sofferenza. In quale misura esse forniscano un modello adeguato delle capacità - comprese quelle di comunicazione - dei più antichi ominidi in ogni loro stadio evolutivo è comunque piuttosto discutibile - eccetto forse che per gli stadi più antichi. Il divario cognitivo fra loro e noi è stato in qualche misura ristretto dagli studi di cui abbiamo appena riferito, ma certamente non è stato colmato e, com'è ovvio, non lo sarà mai. A quanto sembra, le antropomorfe non sanno pianificare, non hanno capacità di astrazione, e sanno avvalersi di esperienze passate come guida per azioni future solo nel modo più rudimentale. Non mostrano «generativismo», cioè quella capacità che ci permette di unire singole parole in frasi, o idee nei loro prodotti. Ciò è chiaramente rivelato dalla loro mancanza di capacità linguistiche, mentre è altrettanto evidente che il nostro linguaggio articolato riflette intimamente tali capacità.

Nel migliore dei casi le antropomorfe attuali lasciano appena intravedere quale potrebbe essere stato il punto di partenza dal quale i nostri progenitori intrapresero il loro cammino. Conseguentemente definiscono, seppure in modo approssimativo, dove si trovi l'estremità più lontana della voragine comportamentale superata parecchi milioni di anni or sono dai nostri progenitori dei quali abbiamo ritrovato i resti fossili. In qual modo e quando ciò avvenne saranno gli argomenti dei Capitoli 4 e 5, ma nel frattempo daremo una breve occhiata a quella notevole struttura da cui le nostre capacità uniche al mondo dipendono.

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Pagina 66

Ma il puro e semplice volume cerebrale non è tutto. Anche l'organizzazione, cioè la struttura, del nostro cervello è unica, e a quanto sembra è qui che va cercata la spiegazione delle nostre eccezionali capacità cognitive. Vi sono moltissime cose che ancora ignoriamo sul suo funzionamento. In particolare è difficile spiegare come da un insieme di sostanze chimiche e segnali elettrici scaturiscano effetti così complessi come la cognizione e la coscienza. Tuttavia, la struttura e la complessità del cervello dei vertebrati ci dicono molto sulle loro capacità.

Il cervello di tutti i mammiferi è costruito in base a un progetto comune: qualcosa che ci si può aspettare solo da un gruppo di organismi imparentati. Per comodità rappresenteremo questa struttura come «stratificata», un po' come una cipolla, anche se il modo in cui il cervello si è evoluto, con nuove funzioni ed espansioni ad hoc che si sovrapponevano alle strutture più antiche, rende questa organizzazione considerevolmente meno ordinata di quanto questa immagine lasci intendere. I componenti più interni sono situati alla sommità del midollo spinale, cioè nella parte più bassa dell'encefalo, e sono quelli che si formarono per primi nel corso dell'evoluzione dei vertebrati. Essi vengono collettivamente chiamati «tronco encefalico» (o «cervello rettiliano», poiché il cervello dei rettili consiste di appena qualcosa di più di queste strutture) e controllano le funzioni fondamentali dell'organismo, come il battito cardiaco e il respiro, oltre ad allertare altre strutture cerebrali dell'arrivo di segnali dal midollo spinale. Il cervelletto, un'espansione posteriore del tronco encefalico, presiede all'equilibrio e al movimento; inoltre immagazzina i ricordi correlati al controllo di alcune fondamentali risposte apprese.

Con l'evoluzione dei mammiferi si ebbe l'elaborazione del «sistema limbico» (il «cervello olfattivo» dei rettili), il complesso delle strutture situate al disopra del tronco encefalico la cui funzione essenziale è il controllo dei processi corporei fondamentali e delle risposte emozionali correlate alla sopravvivenza e alla riproduzione (nutrirsi, combattere, fuggire, accoppiarsi). Le strutture limbiche hanno anche un ruolo di magazzino della memoria a lungo termine, e comprendono la parte più primitiva della corteccia cerebrale. Al di sopra di questa vi è un'area complessa, di origine evolutiva più recente, che ha preso il nome di «neocorteccia». È la neocorteccia che compie la maggior parte di quello che ordinariamente consideriamo «il lavoro» del cervello: cognizione, sofisticata elaborazione delle informazioni uditive e visive, immagini mentali e così via.

Nell'uomo, i due emisferi in cui il cervello è diviso sembrano corrispondere non solo ai due lati del corpo (l'emisfero sinistro controlla il lato destro e viceversa) ma, almeno in qualche grado, a funzioni mentali diverse. La superficie esterna del cervello dei mammiferi è solcata da circonvoluzioni, soprattutto nell'uomo, nel quale tutta l'ampia superficie della corteccia cerebrale (circa 14.000 cm2 per uno spessore di soli 2,5 mm) è contenuta entro i limitati confini del cranio. Circonvoluzioni particolarmente profonde definiscono i quattro lobi cerebrali: frontale, temporale, parietale, occipitale. In passato i lobi, o parti di essi, venivano identificati con distinte funzioni motorie e sensoriali, sebbene recenti ricerche indichino che molte di queste, al pari delle più complesse funzioni cognitive, sono in realtà distribuite su tutta la corteccia.

Vi sono due questioni importanti che dobbiamo tenere a mente. Innanzitutto, poiché il cervello dei primati superiori è il prodotto di un processo opportunistico di accrescimento ed elaborazione sviluppatosi in un lungo periodo di tempo, le sue strutture non sono paragonabili alle parti di una macchina. Tanto per cominciare, molti centri cerebrali «superiori» (cioè quelli di più recente acquisizione) comunicano fra loro principalmente o esclusivamente attraverso i centri «inferiori», più antichi. Parallelamente, gran parte della coordinazione di numerose funzioni «superiori» è mediata da strutture principalmente responsabili di quelle «inferiori» (per esempio, le suddette funzioni di nutrirsi, combattere, fuggire, accoppiarsi). Quindi, per quanto alto sia il valore che possiamo attribuire alle nostre notevoli facoltà mentali, alla base di tutto c'è sempre il vecchio cervello «primitivo»: una ragione, forse, per cui non saremo mai gli esseri supremamente razionali che nel momenti di maggior sicurezza ci piace immaginare. Negli ultimi tempi è invalsa la moda di sminuire il significato di questa eredità evolutiva, ed è certamente vero che, con l'acquisizione di nuove conoscenze sul flusso delle informazioni fra le diverse aree cerebrali, la vecchia nozione secondo cui l'aggiunta di nuove strutture ha necessariamente condotto a un conflitto fra funzioni «inferiori» e «superiori» ha perso molta della sua forza. Tuttavia è innegabile che il nostro cervello abbia una storia evolutiva. E se il cervello dell'uomo anatomicamente moderno è un prodotto di tutte le molteplici fasi di quella storia, altrettanto devono esserlo i comportamenti da esso mediati.

Il secondo punto è che il cervello umano, quali che siano le sue meraviglie, probabilmente non contiene alcuna struttura del tutto nuova, anzi, nessuna struttura che non sia comune a tutti gli altri nostri parenti primati (o addirittura mammiferi), per quanto umili. Ne consegue che se vogliamo spiegare le nostre capacità cognitive non dobbiamo cercare nuove strutture cerebrali, anche se questa potrebbe apparirci una spiegazione elegante. Ciò che è accaduto durante la nostra storia evolutiva è che certe parti del cervello umano si sono ingrandite o ridotte rispetto ad altre, e che le connessioni fra queste parti si sono modificate o accresciute. Ma nemmeno in questo siamo unici: mentre è innegabile che fra i primati noi possediamo la più sviluppata corteccia cerebrale (circa il 76 per cento del peso totale del cervello), è altrettanto innegabile che fra i primati superiori vi è stato un fortissimo aumento percentuale della parte del cervello occupata dalla corteccia cerebrale e dalle strutture di sostegno. In proporzione al peso totale del cervello, per esempio, la nostra corteccia non è immensamente superiore a quella dello scimpanzé (che raggiunge il 72 per cento) o del gorilla (68 per cento). Quando prendiamo in considerazione le dimensioni cerebrali complessive, queste piccole differenze corrispondono più o meno a quelle attese. Ma, in termini pratici, la considerazione più importante è che in proporzione alle dimensioni corporee la nostra corteccia è molto più estesa: gli scimpanzé non pesano mediamente molto meno di noi, e i gorilla pesano molto più di noi, ma il loro cervello è circa un terzo delle dimensioni e del peso del nostro. Inoltre nelle antropomorfe il volume del cervelletto costituisce una più alta percentuale del volume cerebrale totale, il che accresce ulteriormente la dimensione relativa degli emisferi cerebrali dell'uomo.

Ma è ancora più sifnificativo che vi siano differenze nello sviluppo delle varie aree della corteccia fra noi e le antropomorfe. In particolare, nell'uomo le aree di associazione - le parti della corteccia che sintetizzano stimoli dalle varie vie sensoriali e le traducono in esperienze percepite - sono molto complesse. Per esempio, la corteccia prefrontale (un'area di associazione che sembra essere la sede di molta parte della nostra attività di pensiero), il lobo temporale e la regione parietale inferiore sono più sviluppati nell'uomo che nelle antropomorfe. Parecchi decenni or sono il grande neurobiologo Norman Geschwind fece osservare che le strutture parietali inferiori si trovano al di sotto della corteccia di associazione per la vista, l'udito e la somatestesia (sensazione cosciente del proprio corpo) e che, in particolare, la loro parte posteriore (il giro angolare), molto più espansa nell'uomo che nelle antropomorfe, serve probabilmente da «area di associazione delle aree di associazione». Topograficamente, il giro angolare è idealmente situato per mediare direttamente fra le aree di associazione adiacenti, che a loro volta sono interconnesse solo attraverso il sistema limbico, una massa ribollente di pulsioni non razionali, mediate da ormoni. A causa di ciò, Geschwind avanzò l'ipotesi che il giro angolare possa essere la base neurale del linguaggio, in quanto ci permette di nominare oggetti mediante associazioni dirette, non-limbiche, fra i centri della vista, dell'udito e del controllo dell'apparato vocale. Questa ipotesi era stata avanzata qualche tempo fa, e da allora abbiamo imparato molto sulla distribuzione delle funzioni nel cervello umano (la nostra conoscenza delle antropomorfe a questo proposito è molto inferiore), particolarmente ora che nuove tecniche permettono la localizzazione precisa dell'attività cerebrale mentre vengono compiuti specifici compiti mentali. Oggi è la corteccia prefrontale l'area che attrae particolarmente l'attenzione come centro di integrazione polimodale. Inoltre sta apparendo sempre più evidente che la corteccia entorinale del lobo temporale - che negli individui affetti dal morbo di Alzheimer è particolarmente vulnerabile - svolge una funzione cruciale nell'integrazione dell'informazione sensoriale, determinando ciò che chiamiamo coscienza. Ovviamente ci resta ancora molto da scoprire, ma nel frattempo ipotesi come quella di Geschwind indicano con certezza che l'organizzazione interna del cervello è importante almeno quanto le mere dimensioni nel generare le nostre straordinarie capacità mentali (i Neandertaliani, per esempio, avevano un cervello voluminoso quanto il nostro, ma più avanti sosterrò che essi, probabilmente, non possedevano il linguaggio articolato), e che la nostra corteccia di associazione, con il suo notevole sviluppo, riveste un ruolo speciale nel renderle possibili.

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Pagina 73

Capitolo terzo
Perché l'evoluzione?



[...]

Selezione naturale

I naturalisti inglesi del secolo scorso Charles Darwin e Alfred Russel Wallace sono giustamente celebrati come i padri del moderno pensiero evoluzionistico, sebbene concetti «evoluzionistici» di qualche specie fossero stati discussi molto prima del 1858, l'anno in cui entrambi resero pubbliche le loro idee. Il grande merito di questi scienziati fu quello di trovare un meccanismo - la comune origine - mediante il quale diventava possibile spiegare l'evidente ordine che regna nella natura. Il fatto che tutti gli esseri viventi si suddividano naturalmente in gruppi che a loro volta fanno parte di gruppi più ampi è intuitivo, ed è riflesso dalle «tassonomie popolari» che vengono usate da tutte le società umane per classificare in categorie il mondo circostante.

Questo schema - secondo il quale le specie appartengono a gruppi che a loro volta entrano a far parte di gruppi più ampi - era già stato «sistematizzato» oltre un centinaio di anni prima di Darwin e di Wallace dal naturalista svedese Carlo Linneo. Fu lui a sviluppare il metodo di classificazione degli esseri viventi in una gerarchia che man mano inglobava un numero crescente di categorie (specie, genere, famiglia, ordine e regno). Questa gerarchia continua a restare valida, con l'unica differenza che nel frattempo si sono aggiunte molte altre categorie. Noi uomini apparteniamo quindi alla specie Homo sapiens del genere Homo. Questo, a sua volta, appartiene insieme con certi altri generi alla famiglia Hominidae. Analogamente, Hominidae e parecchie altre famiglie formano l'ordine Primates; e Primates è solo uno dei numerosi ordini compresi nel regno Animalia.

Il nocciolo dell'evoluzione biologica come spiegazione del modello di forme di vita «a scatola cinese» sta nel fatto che questo modello proviene dal concetto di «discendenza con modificazioni» (per usare la concisa espressione dello stesso Darwin). Le specie danno origine ad altre specie che non sono perfettamente identiche ai loro progenitori. Nel ricercare una spiegazione del modo in cui queste modificazioni possano prodursi, sia Darwin sia Wallace furono fortemente influenzati da Thomas Malthus, che nel polemico Saggio sul principio di popolazione, pubblicato nel 1798, aveva sottolineato come le popolazioni umane abbiano un'innata tendenza a incrementarsi. A parità di condizioni, ragionava Malthus, una popolazione umana tende a raddoppiare in circa venticinque anni. Tuttavia (almeno ai suoi tempi e nel suo paese) questo non avveniva, perché la crescita era frenata dalla scarsità di risorse causata da carestie, malattie, guerre e altre calamità sociali. I deboli e gli imprevidenti soccombevano, mentre i più forti e avveduti sopravvivevano. Darwin e Wallace si resero conto che questo scenario si applica con uguale forza a tutto il vivente: in ogni popolazione naturale nascono molti più individui di quanti ne potranno mai sopravvivere fino all'età riproduttiva. Wallace, pur basandosi sulle ipotesi più caute, calcolò che una singola coppia di uccelli può potenzialmente avere dieci milioni di discendenti in una quindicina d'anni. Ma il mondo non è completamente invaso dagli uccelli, ed è evidente che qualcosa ne control1a il numero. Fu a questo qualcosa che Darwin diede il nome di «selezione naturale».

L'osservazione di partenza era semplice: tutti gli individui di una popolazione presentano qualche differenza, seppure minima, e solitamente le differenze sono ereditarie. Gli individui che non vengono eliminati dal pool riproduttivo da una morte precoce o dall'impossibilità di riprodursi sono generalmente i più adatti al proprio habitat, e mediante questo processo di selezione i caratteri ereditari per loro vantaggiosi tenderanno a diventare più numerosi di generazione in generazione, almeno fino a quando l'ambiente continuerà a favorire tali adattamenti. Ma la variabilità interindividuale sarà sempre presente, e se le condizioni cambiassero la selezione potrà cambiar marcia (anzi, lo farà senz'altro), indirizzando la linea evolutiva in una direzione diversa. Dunque, la selezione naturale non è nulla più che il successo riproduttivo differenziale degli individui nell'ambito delle popolazioni, mediato dall'ambiente. È un meccanismo cieco e indifferente, che di per sé non è diretto verso alcuno scopo, ma che ciononostante costituisce il nocciolo dell'adattamento e del cambiamento evolutivo.

Ma la nozione di evoluzione richiede che tutte le forme di vita siano imparentate in quanto condividono un progenitore comune, e mentre la selezione naturale spiega il cambiamento evolutivo nel corso del tempo, di per sé non spiega l'evidentissima diversità delle specie discese da quel progenitore (nessuno sa esattamente quante specie vi siano al mondo oggi, ma il numero è immenso: le stime variano da trenta milioni a più di ottanta milioni). Evidentemente manca un ingrediente nella ricetta dell'evoluzione. Eccolo. Il modello della diversità in natura può essere rappresentato come un albero ben ramificato più che come una scala in salita; quindi le modificazioni entro linee evolutive di organismi devono accompagnarsi alla suddivisione delle specie in più specie discendenti, nello stesso modo in cui i rami più grossi di un cespuglio si dividono progressivamente fino ad arrivare ai ramoscelli più sottili. Rendendosene conto, Darwin si concentrò sulla selezione naturale come componente fondamentale del cambiamento evolutivo, in quanto sarebbe riuscito a far accettare le proprie idee solo trovando un modo convincente per distruggere la nozione imperante della fissità delle specie così come Dio le aveva create. Perciò concepì l'evoluzione come accrescimento graduale, sotto la spinta della selezione naturale, di minimi cambiamenti ereditari nel corso di periodi di tempo tanto lunghi da dare spazio anche alle più ampie divergenze anatomiche. Per Darwin, i piccoli cambiamenti nell'ambito di popolazioni che oggi chiamiamo «microevoluzione» si assommavano per eoni dando luogo a quelle più ampie discontinuità osservabili in natura - fra generi, famiglie, ordini e così via - che chiamiamo «macroevoluzione».

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Evoluzionismo oggi

I dettagli del processo evolutivo vengono discussi con passione, oggi come sempre, e non avrebbe senso cercare di illustrare in questa sede tutti gli aspetti del dibattito. Ciononostante, poiché anche sottili differenze nel modo in cui la gente pensa al funzionamento dei meccanismi evolutivi possono avere grandi ripercussioni sull'interpretazione della documentazione fossile, sento il dovere, in qualità di paleontologo attivo e operante, di esprimere almeno la mia opinione.

Secondo me (e non sono solo) la chiave di volta per la comprensione del processo evolutivo sta nel riconoscere non solo l'esistenza ma anche il significato della gerarchia di organizzazione biologica, della quale ho già parlato. Si tratta della gerarchia che comincia con i geni e procede verso l'alto, dall'individuo alle popolazioni locali, alle specie e forse anche oltre. Tutti questi livelli sono coinvolti nel processo evolutivo, ma ciascuno partecipa a modo proprio. Le mutazioni e le ricombinazioni genetiche generano quella variabilità su cui opera la selezione naturale. Promuovendo il successo o il fallimento riproduttivo di individui con caratteri ereditari più o meno favorevoli, la selezione naturale favorisce l'adattamento di una popolazione locale ad ambienti specifici. Per definizione, le popolazioni locali sono le uniche ad avere buone probabilità di vivere in un habitat - o un insieme di habitat - relativamente omogeneo al quale è possibile adattarsi; perciò esse sono la reale forza traente dell'innovazione evolutiva. I nuovi caratteri si originano con gli individui, ovviamente, ma è solo l'affermazione di quei caratteri in una popolazione che costituisce innovazione nel senso evolutivo vero e proprio.

In breve, quindi, gli individui non si evolvono, le popolazioni sì. Ma quali popolazioni? In un certo senso, è la specie riproduttivamente unitaria a costituire la popolazione definitiva. Ma in un altro senso, che non è meno importante, le specie sono essenzialmente astrazioni. Infatti, come abbiamo appena visto, esse consistono solitamente di più popolazioni locali che occupano una varietà di ambienti, o perlomeno di microambienti. La conseguenza è che le tendenze evolutive nell'ambito di una specie non saranno unidirezionali, ma divergenti, in quanto ciascuna popolazione locale facente parte della specie si scava un solco adattativo nel proprio habitat. E noi sappiamo con certezza che le popolazioni locali sviluppano routinariamente le proprie peculiarità ereditarie, anche se è possibile sostenere che nella maggior parte dei casi la selezione naturale è qualcosa che dobbiamo presumere, e non qualcosa che possiamo sapere, poiché solo molto recentemente abbiamo cominciato a disporre di evidenze sperimentali dirette a conferma del fatto che la selezione naturale opera realmente nell'ambito di popolazioni.

Le popolazioni locali, dunque, diventano quasi sempre entità distinte, ma è l'evento della speciazione che «fissa» le innovazioni e conferisce loro validità storica. Infatti mentre popolazioni locali distinte possono avere un'esistenza economica, esse restano sempre legate al resto della loro specie dalla continuità riproduttiva, almeno potenzialmente. Gli habitat sono costantemente fluttuanti, e le popolazioni isolate o quasi isolate al cui interno sorgono le innovazioni corrono sempre il rischio di venire riassorbite, insieme con le loro peculiarità genetiche, nella popolazione parentale. È qui che entrano in funzione i «meccanismi di isolamento» che assicurano almeno un certo grado di incompatibilità riproduttiva fra popolazioni imparentate. Spezzando la continuità riproduttiva, creano nuove entità storiche distinte dalle effimere unità che erano precedentemente a rischio per riassorbimento o per estinzione locale. A lungo andare la nuova specie potrebbe non sopravvivere, ma la sua esistenza, per quanto breve, sarà stata perlomeno obiettiva e indipendente da ogni altra. E se, al contrario, essa ha successo ed espande l'areale, porterà i propri caratteri distintivi in nuovi habitat dove i processi gemelli di innovazione locale e competizione interspecifica ricominceranno da capo. In questo modo l'entità specie agisce principalmente per definire i confini entro i quali le innovazioni possono accumularsi, mentre il processo di speciazione sceglie nuovi attori per il palcoscenico dell'evoluzione.

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Il risultato è che siamo stati propensi a considerare la storia del nostro genere - almeno in termini di speciazione - meno ricca di eventi di quanto fu in realtà. Al contempo abbiamo fatto apparire la nostra specie più centrale per la storia evolutiva della nostra famiglia di quanto sia appropriato a quella che in realtà è soltanto una propaggine terminale di un grosso cespuglio ben ramificato, anche se si tratta dell'unica diramazione sopravvissuta. Infatti, come ho osservato, fin dall'inizio della loro professione i paleoantropologi si sono impegnati nel compito di proiettare le origini della singola specie Homo sapiens il più possibile indietro nel passato, e quasi invariabilmente in modo lineare. E sebbene siano gli unici a interessarsi a una singola specie vivente - la maggior parte dei paleontologi studia le origini della diversità fra grandi gruppi di specie - è chiaro che il loro tradizionale impegno è stato molto male indirizzato.

L'accettazione di un intricato modello di speciazioni ed estinzioni nel passato biologico della nostra famiglia si accorda bene con ciò che sappiamo sui complessi mutamenti ambientali che furono così frequenti nel Pleistocene, durante il quale si è verificata la comparsa del nostro genere sulla Terra. Tale accettazione ci obbliga anche a liberarci una volta per tutte della persistente nozione che noi siamo il risultato finale, non importa se perfetto o meno, di un processo di miglioramento costante. Inoltre è importante riconoscere molto esplicitamente che, per quanto notevoli noi uomini certamente siamo, non abbiamo acquisito le nostre caratteristiche speciali in seguito a un processo altrettanto speciale. Ci siamo arrivati onestamente: attraverso gli stessi meccanismi - non importa se alcuni dei quali poco comprensibili - da cui si sono originati tutti gli altri esseri viventi.

[...]

Per tornare alla questione posta nel titolo del capitolo, l'evoluzione non ha alcuno scopo. Come processo è notoriamente «cieco». Ma la cosa più importante è che le novità anatomiche e comportamentali non hanno finalità, ma sono semplicemente generate da una varietà di processi genetici che in sé non hanno nulla a che fare con l'evoluzione. Ovviamente, la successiva selezione attraverso i meccanismi di cui ho parlato può certamente favorire la diffusione dell'uno o dell'altro carattere. Ma quando nei prossimi due capitoli seguiremo gli eventi dell'evoluzione umana, non dovremo perdere di vista - come sarebbe persin troppo facile - il ruolo cruciale giocato da unità più grandi dei geni e dagli insiemi di caratteri, o addirittura dagli individui.

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Capitolo quarto
Il punto di partenza



Comunque la si guardi, la storia biologica dell'umanità risale a tempi remoti: in un certo senso, alla comparsa delle prime microscopiche forme di vita, tre miliardi e mezzo di anni fa. Ma se invece cerchiamo le origini delle caratteristiche che fanno di Homo sapiens la specie unica che è, non dobbiamo addentrarci molto nel passato. La storia umana comincia con Hominidae, la nostra famiglia, e i primi ominidi comparvero presumibilmente in Africa poco più di cinque milioni di anni or sono. In genere la gente rimane sorpresa nell'apprendere che il nostro patrimonio genetico è identico a quello dello scimpanzé per più del 98 per cento, ma se riflettiamo sul fatto che abbiamo vissuto il 99,9999997 per cento della nostra storia evolutiva in comune con le antropomorfe africane (e se è vero, come ho udito affermare, che condividiamo il 40 per cento dei geni con la banana), questo dato appare molto meno sorprendente. Comunque sia, meno del due per cento fa una differenza notevole, e nei restanti due capitoli ci occuperemo di questa differenza e ne vedremo anche l'origine.

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Per un darwinista rigoroso questa osservazione è sufficiente. La coscienza umana è derivata semplicemente - e inevitabilmente - dal vantaggio riproduttivo conferito dalla selezione naturale, generazione dopo generazione, agli individui dotati di una capacità sempre maggiore di guardare dentro se stessi. Ma abbiamo già visto che il processo evolutivo è di fatto molto più complesso; ed è difficile capire perché, se piccoli vantaggi comportamentali erano stati inesorabilmente amplificati nel tempo secondo questo meccanismo, tra gli animali altamente sociali come i primati non sarebbe potuta accadere la stessa cosa in tutte le linee di discendenza. Inoltre non esiste esempio migliore della storia evolutiva del cervello dei vertebrati per dimostrare che il cambiamento evolutivo non è semplicemente consistito di graduali miglioramenti nel corso del tempo. L'evoluzione del cervello non è proceduta per semplice aggiunta di qualche nuova connessione qua e là, fino a diventare, dopo eoni, una grande macchina perfettamente oliata. L'evoluzione opportunistica ha arruolato, in maniera alquanto disordinata, vecchie parti del cervello per svolgere nuove funzioni, e sono state aggiunte nuove strutture, mentre alcune delle vecchie sono state ampliate in modo piuttosto casuale.

Per avere una chiara visione di questo fenomeno dobbiamo capire che per arrivare dove siamo oggi è stato necessario un processo naturale a vari livelli. Innanzitutto, a partire da un precursore che possedeva la gamma di ex-attamenti necessari comparve il cervello dell'uomo moderno all'interno di un'antica popolazione locale e per mezzo di modificazioni che ancora non comprendiamo. In seguito la selezione naturale operò all'interno di quella popolazione fissando la variante come norma. Poi intervenne la speciazione che stabilì l'individualità storica della nuova entità. Infine la nuova specie vinse la competizione con le altre a essa imparentate, in un processo che - forse per la prima volta poco dopo la comparsa dell'ominide ancestrale - finì per lasciare sulla scena un'unica specie ominide: Homo sapiens. Vista in questo modo, la piena coscienza umana è solo uno dei risultati di quel processo routinario e casuale di comparsa e affermazione delle innovazioni che si verifica nell'evoluzione di tutte le linee.

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