Autore Enzo Traverso
Titolo Malinconia di sinistra
SottotitoloUna tradizione nascosta
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2016, Campi del sapere , pag. 248, ill., cop.fle., dim. 14,3x22x1,8 cm , Isbn 978-88-07-10523-4
OriginaleLeft-Wing Melancholia: Marxism, History and Memory [2016]
TraduttoreCarlo Salzani
LettoreGiorgio Crepe, 2017
Classe storia contemporanea , storia sociale , storia dell'arte , cinema , movimenti , destra-sinistra












 

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Indice


    9     Ringraziamenti

   11     Introduzione


   31  1. La malinconia dei vinti

          Naufragio con spettatore, 31;
          La fine del comunismo, 35;
          Dialettica della sconfitta, 41;
          Malinconia di sinistra, 55;
          Le antinomie di Walter Benjamin, 64;
          La scommessa melancolica, 70


   75  2. Marxismo e memoria

          Enter memory, exit Marx, 75;
          Memoria e utopia, 78;
          Ricordare il futuro, 93;
          Mito e memoria, 97;
          Futuro passato, 100


  105  3. Immagini malinconiche

          Cinema e storia, 105;
          La terra trema, 107;
          Contro il colonialismo, 115;
          Luoghi della memoria, 121;
          Ombre rosse, 124;
          Fantasmi spagnoli, 132;
          Strade di Santiago, 137;
          U-topia, 144


  147  4. Marxismo e Occidente

          Marx e l'Occidente, 148;
          Matrici hegeliane, 152;
          Imperi, 155;
          "Popoli senza storia", 156;
          Violenza e rivolta, 159;
          Retaggi, 164;
          Separazioni, 167


  173  5. Tempi sincronici

          Portbou, 173;
          Parigi, 178;
          Tempi sincronici, 185;
          Storicismo, 192;
          Rivoluzione, 198;
          Utopia, 205


  209     Conclusione


  213     Note
  235     Indice delle illustrazioni
  237     Indice dei nomi


 

 

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Pagina 11

Introduzione


                        "Nel match del secolo tra socialismo e
                        barbarie, la seconda è nettamente in
                        vantaggio. Entriamo nel Ventunesimo
                        secolo con meno speranze dei nostri
                        antenati alla soglia del Novecento."

                        Daniel Bensaïd, Jeanne de guerre lasse
                        (1991)



Questo libro si propone di esplorare la dimensione malinconica della cultura di sinistra tra Otto e Novecento. "Cultura di sinistra" è un concetto aperto, eterogeneo e difficile da circoscrivere. La sinistra studiata in queste pagine non è definita in termini puramente topologici, seguendo le convenzioni della scienza politica, ma soprattutto ontologici: i movimenti che, nel corso della storia, si sono battuti per cambiare la società mettendo il principio di uguaglianza al centro dei loro progetti e delle loro lotte. La sua cultura include non solo diverse correnti politiche, ma anche una pluralità di tendenze intellettuali ed estetiche. Si tratta quindi di studiarne i testi e le immagini: le idee consegnate alle opere teoriche, i documenti politici e le testimonianze contenute negli scritti autobiografici e nei carteggi si affiancano alla grafica di propaganda, alla pittura e al cinema. Il marxismo, che ha fissato l'orizzonte ideologico dei movimenti rivoluzionari del Ventesimo secolo, occupa inevitabilmente una posizione di rilievo. Cultura di sinistra significa, in questo saggio, un insieme di teorie ed esperienze, idee e sentimenti, passioni e utopie. La memoria della sinistra è un vasto continente, un prisma nel quale si rifrangono conquiste e sconfitte, mentre la malinconia è un sentimento, uno stato d'animo e un impasto di emozioni. Distillare l'essenza della malinconia di sinistra significa necessariamente andare oltre le idee e i concetti.

All'inizio degli anni ottanta, l'irruzione della memoria negli studi umanistici ha coinciso con la crisi del marxismo, rimasto escluso dal moment mémoriel che ha segnato la svolta del Ventunesimo secolo. La visione marxista della storia portava in sé una prescrizione mnemonica: bisognava inscrivere gli eventi del passato nella nostra coscienza storica al fine di proiettarci nel futuro. Era una memoria "strategica" delle lotte emancipatrici del passato, una memoria orientata verso il futuro. Oggi, la fine del comunismo ha troncato questa dialettica tra passato e futuro, e l'eclissi delle utopie che accompagna il nostro tempo "presentista" ha condotto la memoria marxista alla soglia dell'estinzione. La tensione tra passato e futuro è diventata una sorta di dialettica "negativa", mutilata. Questo mutamento ha favorito la riscoperta di una visione malinconica della storia come rimemorazione (Eingedenken) dei vinti - Walter Benjamin ne è stato l'interprete più profondo - che appartiene a una tradizione nascosta del marxismo. È questo mutamento, questa transizione dall'utopia alla memoria che tenterò di sondare nelle pagine che seguono.

Per più di un secolo la sinistra radicale si è ispirata alla celebre undicesima tesi su Feuerbach di Marx: fino a oggi i filosofi si sono limitati a interpretare il mondo, ora si tratta di cambiarlo. Quando, dopo il 1989, siamo rimasti spiritualmente senzatetto e impotenti di fronte al fallimento di tutti i passati tentativi di trasformare il mondo, siamo stati costretti a rimettere in discussione le idee stesse con cui avevamo tentato di interpretarlo. E quando, un decennio più tardi, sono apparsi nuovi movimenti riuniti sotto una bandiera sulla quale era scritto: "un altro mondo è possibile", essi hanno dovuto reinventare le loro identità intellettuali e politiche. Più precisamente, hanno dovuto reinventare se stessi - le loro teorie e la loro prassi - in un mondo senza un futuro visibile, pensabile o immaginabile. Non hanno potuto "inventare una tradizione", come altre generazioni "orfane" avevano fatto prima di loro. Questo passaggio da un'epoca di fuoco e sangue che, nonostante tutte le sconfitte subìte, rimaneva decifrabile, a una nuova era di minacce globali senza esiti prevedibili, ha un sapore malinconico. Questa malinconia non è soltanto un guscio riempito di struggimento e rimemorazione; si tratta piuttosto di una costellazione di emozioni e sentimenti che avviluppano una transizione storica, il solo modo in cui la ricerca di nuove idee e progetti può coesistere con la tristezza e il lutto dopo la fine delle esperienze rivoluzionarie. Né regressiva né impotente, è la malinconia di una sinistra che, senza cercare scappatoie, carica sulle proprie spalle il fardello del passato, spesso soverchiante. È la malinconia di una sinistra che, dentro le lotte del presente, non sfugge al bilancio delle sconfitte accumulate nel passato; che non si rassegna all'ordine globale fissato dal neoliberismo, ma non può fare a meno, per affilare le sue armi critiche, d'identificarsi empaticamente con i vinti della storia, una moltitudine alla quale si è aggiunta inesorabilmente, alla fine del Ventesimo secolo, l'ultima generazione delle rivoluzioni perdute. Per essere feconda, tuttavia, questa malinconia non deve essere elusa o rimossa. Ci fu un'epoca in cui dare l'assalto al cielo sembrava il modo migliore di elaborare il lutto dei compagni caduti. Questo tempo è finito: la mestizia sublimata dall'eccitazione della lotta non è più, o non è ancora, all'ordine del giorno.

Questo saggio tenta quindi di ripensare la storia dei movimenti rivoluzionari attraverso il prisma della malinconia. In questo passato a un tempo familiare e "sconosciuto" - vissuto, trasmesso, poi rimosso e infine rimasto ignoto alle nuove generazioni - i dibattiti intellettuali si mescolano a esperienze culturali più ampie, difficili da sistematizzare. Le tracce di questa malinconia di sinistra sono assai più facilmente riconoscibili nelle molteplici espressioni della fantasia rivoluzionaria che nelle elaborazioni dottrinali e nelle controversie teoriche, le quali acquistano del resto nuovi significati quando sono riesaminate attraverso la lente dell'immaginario collettivo che le accompagna. Di conseguenza, questo saggio si muove costantemente tra i concetti e le immagini, senza stabilire alcuna gerarchia tra loro, considerandoli egualmente importanti nel dare forma ed espressione alla cultura di sinistra. Si tratterà di collegarli e di coglierne le risonanze, mostrando ciò che molti classici del marxismo condividono con dipinti, fotografie e film. Insomma, bisognerà studiare fonti di natura diversa senza dimenticare quelle che potremmo definire, citando Walter Benjamin, delle "immagini di pensiero" (Denkbilder). Non si tratta di costruire un monumento né di stilare un epitaffio ma di esplorare un paesaggio mnemonico multiforme e contrastato. A differenza del discorso umanitario oggi dominante che sacralizza la memoria delle vittime, trascurandone o censurandone l'impegno politico, la malinconia di sinistra dirige lo sguardo sui vinti. Essa vede le tragedie e le battaglie perdute del passato come un lascito e un debito che portano in sé una promessa di riscatto.

I capitoli che compongono il libro esplorano questa costellazione malinconica da diverse prospettive: tratteggiando i lineamenti di una cultura della sconfitta, ricostruendo il concetto marxista di memoria e analizzando la visione del lutto che emerge dalla pittura e dal cinema. Essi mettono l'accento su alcune figure che, da Karl Marx a Walter Benjamin , passando per Gustave Courbet e Lev Trockij, incarnano questa malinconia di sinistra. Due capitoli ricostruiscono degli incontri fecondi, conflittuali, tardivi o mancati, tra pensatori marxisti, tracciando i percorsi della loro malinconia. La malinconia marxista e quella postcoloniale testimoniano di un'alleanza difficile, fatta di profonde incomprensioni e di convergenze folgoranti, sigillata dalle promesse tradite del comunismo e della decolonizzazione. Incandescente è stato invece l'incontro postumo tra il filosofo francese Daniel Bensaïd e Walter Benjamin, reso possibile dalla risonanza tra due snodi cruciali del Ventesimo secolo: quello del 1939, all'origine della Seconda guerra mondiale, e quello del 1989, a conclusione della Guerra fredda. Dopo la caduta del Muro di Berlino, il ribelle degli anni sessanta e settanta ha scoperto una visione della storia nata dalla sconfitta degli anni trenta, intrisa di una malinconia che, ritornata di attualità, risuonava nel presente.

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Pagina 15

A dire il vero, la malinconia di sinistra non è nuova. Essa non è apparsa all'alba del nuovo secolo come un germoglio inatteso. Non si tratta neppure di una malattia della sinistra - un lutto patologico - come potrebbe suggerire l'applicazione superficiale di alcune categorie freudiane. La svolta storica del 1989 non l'ha creata, l'ha soltanto rivelata. La malinconia di sinistra è sempre esistita, discreta, pudica, spesso sotterranea, sempre rimossa nei discorsi ufficiali, censurata dalla propaganda e per lo più refrattaria a mostrarsi alla luce del sole. Potremmo chiamarla una "tradizione nascosta", prendendo in prestito questa definizione da Hannah Arendt. Nel 1944 essa aveva definito così (die verborgene Tradition) la storia dell'ebraismo "paria", irriducibile ai conformismi religiosi e politici, ribelle nei confronti della sinagoga e dei poteri costituiti. I suoi migliori rappresentanti erano Heinrich Heine e Bernard Lazare, due ebrei eretici, Charlie Chaplin, un artista che aveva introdotto nel cinema la figura dello schlemihl, il vagabondo marginale, e Franz Kafka , il più enigmatico e tormentato degli scrittori. Analogamente a questa "tradizione nascosta", la malinconia di sinistra non appartiene alla narrazione canonica del socialismo e del comunismo. Non condivide quasi nulla con l'epopea gloriosa, per lo più falsa e illusoria, dei trionfi e delle grandi conquiste, delle bandiere al vento, degli eroi venerati, delle "magnifiche sorti e progressive" celate nel futuro. Ha piuttosto a che fare con la tradizione delle sconfitte che hanno costellato la storia delle rivoluzioni. È la malinconia di Auguste Blanqui e Louise Michel dopo la repressione sanguinosa della Comune di Parigi e di Rosa Luxemburg nella prigione di Wronke, dopo la capitolazione del socialismo tedesco durante la Prima guerra mondiale. La malinconia di Antonio Gramsci che, in una prigione fascista, ripensa il rapporto tra "guerra di posizione" e "guerra di movimento" dopo la sconfitta delle rivoluzioni in Occidente. La malinconia di Trockij durante il suo ultimo esilio messicano, rinchiuso dietro le mura di una casa-bunker di Coyoacàn. La malinconia di Walter Benjamin che, in esilio a Parigi, elabora un nuovo concetto di storia in nome degli "antenati asserviti", con una maschera antigas posata sulla scrivania come il teschio che arredava lo studio dei monaci medievali. La malinconia di C.L.R. James che scrive su Melville in quarantena a Ellis Island, enemy alien negli Stati Uniti del maccartismo. La malinconia dei comunisti indonesiani sopravvissuti al massacro del 1965 e di Che Guevara sulle montagne della Bolivia, cosciente che la via cubana è diventata una strada senza uscita.

Questo saggio non vuole fissare un canone ma cerca di dare un volto a questa tradizione nascosta, di coglierne alcuni momenti cruciali e di indicarne le principali creazioni. La tristezza e il lutto, il sentimento soverchiante della disfatta, degli amici e dei compagni perduti, delle occasioni mancate, delle conquiste distrutte e della gioia svanita hanno accompagnato la storia del socialismo fin dalle origini. Sono il risvolto dell'estasi rivoluzionaria in cui tutto diventa possibile, in cui si prova il piacere e si sperimenta la forza dell'azione collettiva, quando si ha l'impressione di fluttuare liberamente nel cielo, leggeri, vincendo la legge di gravità, e di riuscire, in modo naturale, a dare un senso alla storia. Questa malinconia di sinistra è stata occultata, rimossa o sublimata dalle rappresentazioni di un futuro emancipato. Essa irriga la storia dei movimenti rivoluzionari come un fiume sotterraneo, come un flusso potente ma invisibile, esorcizzato da narrazioni edificanti. Parafrasando Benjamin, potremmo dire che la cultura di sinistra è intrisa di malinconia come una carta bibula: "Se dipendesse, tuttavia, dalla carta assorbente, non resterebbe nulla di ciò che è scritto". È appunto un testo invisibile, un sostrato di emozioni e memoria, che questo libro si propone di riportare in superficie.

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La fine del comunismo ha sollevato un'ondata di entusiasmo e, per un breve momento, la speranza di un possibile socialismo democratico. Ben presto, tuttavia, ci siamo accorti che un'intera rappresentazione del Ventesimo secolo era andata in frantumi. Un disagio profondo si è impadronito di tutta la sinistra, comprese numerose correnti antistaliniste. Christa Wolf , la più celebre scrittrice dissidente dell'ex Ddr, ha descritto questa strana sensazione in un testo autobiografico intitolato La città degli angeli: negli Stati Uniti, aveva l'impressione di essere rimasta senzatetto, in esilio da un paese che non esisteva più. Accanto alla storia ufficiale, "monumentale" ma già screditata, del comunismo, ce n'era un'altra, apocrifa, nata anch'essa dalla Rivoluzione d'ottobre, nel cui solco molte altre vicende si erano inscritte naturalmente, dalla Guerra civile spagnola alla Rivoluzione cubana e al Sessantotto. Secondo questa visione, il Novecento aveva creato un legame simbiotico tra barbarie e rivoluzione, oscillando in permanenza tra l'una e l'altra. Dopo lo shock del novembre 1989, tuttavia, questa dialettica è rimasta sepolta sotto le macerie del Muro di Berlino. Invece di liberare nuove energie rivoluzionarie, il crollo del socialismo di stato sembrava aver esaurito la traiettoria storica del socialismo stesso. L'intera storia del comunismo era ridotta alla sua dimensione totalitaria, che appariva come una memoria trasmissibile, fino a diventare una rappresentazione condivisa da tutte le culture politiche della nuova era globale. Ovviamente questa interpretazione non è stata inventata nel 1989; esisteva fin dal 1917, ma ormai era diventata una coscienza storica comune, una visione del passato normativa, il credo di ogni buon cittadino ostile alla violenza, amante della libertà e della democrazia. Dopo aver fatto irruzione nel Novecento come una promessa di liberazione, il comunismo ne usciva come un simbolo di oppressione. Di fronte alle immagini della demolizione del Muro di Berlino, si aveva l'impressione di far scorrere all'indietro Ottobre di Ejzenštejn: il film della rivoluzione era stato definitivamente "ribobinato". In realtà, quando il socialismo reale è crollato, l'utopia comunista si era già esaurita. Nel 1989 la loro sovrapposizione ha rubricato l'intera storia delle rivoluzioni sotto la categoria di totalitarismo. La storiografia conservatrice - François Furet e Martin Malia ne sono l'archetipo - ha cessato di essere un'interpretazione di parte per diventare una sorta di canone ermeneutico.

Nell'autunno del 1989, le "rivoluzioni di velluto" sembravano ritornare al 1789, scavalcando due secoli di storia del socialismo. Libertà e rappresentazione democratica apparivano come il loro unico orizzonte, secondo un modello liberale classico: il 1789 contrapposto al 1793 e al 1917, o perfino il 1776 contrapposto al 1789 e al 1793: la libertà contro l'uguaglianza. Le rivoluzioni sono sempre state fabbriche di utopie; hanno plasmato gli immaginari, inventato nuove idee, suscitato attese e speranze. Le cosiddette "rivoluzioni di velluto", tuttavia, fanno eccezione. Esse non hanno inventato nulla; si sono dimostrate molto più affamate del loro passato nazionale (avidamente "riappropriato" dopo quattro decenni di confisca sovietica) che del futuro, affidato prosaicamente alle forze del mercato occidentale. Una volta eletto presidente della Repubblica Ceca, Václav Havel ha messo fine a un itinerario scintillante di saggista e drammaturgo dissidente per diventare la copia pallida e triste di uno statista occidentale. La letteratura della Germania orientale era straordinariamente feconda e sottile quando, sottoposta al controllo soffocante della Stasi, creava romanzi allegorici che stimolavano l'arte di leggere tra le righe. Nulla di paragonabile è apparso dopo la Wende. In Polonia la svolta del 1989 ha generato un'ondata nazionalista e la scomparsa di Jacek Kuron e Krzysztof Kieslowski ha segnato la fine di un ciclo di creazione e pensiero critico. Invece di proiettarsi nel futuro, queste rivoluzioni hanno generato società ossessionate dal passato. Ovunque in Europa centrale sono nati musei e istituzioni patrimoniali tesi a recuperare un passato nazionale idealizzato.

Le rivoluzioni arabe del 2011 sono entrate a loro volta in un vicolo cieco. Prima di arenarsi in una serie di sanguinose guerre civili, dalla Libia alla Siria, dall'Iraq allo Yemen, hanno abbattuto due odiate dittature in Tunisia e in Egitto, ma non sapevano come sostituirle. Tutti i modelli ereditati dal passato - dal nazionalismo al panarabismo, dal socialismo laico al fondamentalismo islamico - avevano fallito. Le contraddizioni di queste rivoluzioni sono inscritte nella nostra epoca. Su di esse pesa la sconfitta delle rivoluzioni del Ventesimo secolo e questo fardello è gravoso. Non avevano un modello né una bussola, non potevano ispirarsi al passato né immaginare il futuro.

Il femminismo non è uscito indenne da queste metamorfosi. Esso aveva messo in discussione molti assiomi del socialismo classico - in particolare il suo universalismo "di genere", implicitamente identificato con una visione maschile della storia e della capacità di agire (agency) -, ma entrambi condividevano un'idea di emancipazione proiettata nel futuro. Il femminismo concepiva la rivoluzione come un processo globale di liberazione che trascendeva le classi e riconfigurava sia i rapporti di genere sia le forme dell'organizzazione sociale. Esso ridefiniva il comunismo come una società di uguali in cui non solo le gerarchie di classe e quelle sessuali sarebbero state abolite, ma in cui l'uguaglianza avrebbe implicato il riconoscimento delle differenze di genere. Il suo immaginario utopico annunciava un mondo in cui i legami familiari, la divisione sessuale del lavoro e il rapporto tra pubblico e privato sarebbero stati completamente ridefiniti. Sulla scorta del femminismo, la rivoluzione socialista era anche sessuale: la fine dell'alienazione dei corpi e la realizzazione di desideri repressi. Il socialismo non significava soltanto un cambiamento radicale delle strutture sociali ma anche la creazione di nuove forme di vita. Le lotte femministe sono state spesso vissute come pratiche emancipatrici che anticipavano il futuro e prefiguravano una comunità liberata. Nella società capitalista, esse rivendicavano il riconoscimento delle differenze di genere e l'uguaglianza dei diritti; in seno alla sinistra, criticavano il paradigma virile che ispirava una concezione militare della rivoluzione ereditata dal comunismo degli anni venti; tra le donne, creavano nuovi modelli di soggettività. Queste esperienze e pratiche sembrano oggi scomparse. L'estinzione dei movimenti femministi ha generato una forma particolare di malinconia. Come (e dentro) la sinistra, il femminismo ha vissuto la fine delle utopie e l'esaurimento delle proprie esperienze trasformatrici. Oggi le democrazie liberali e le società di mercato proclamano l'emancipazione femminile con il raggiungimento dell'uguaglianza giuridica e l'autodeterminazione individuale (la saga delle business women). La fine del femminismo socialista ha tuttavia generato, accanto a una stagione feconda di studi di genere, una nuova identity politics spesso regressiva. Il sesso e la razza non sono più visti come tracce di un'oppressione storica (contro la quale il femminismo aveva combattuto) e sono diventati categorie atemporali - Rosi Braidotti le definisce "metafisiche" - che definiscono alterità reificate. Secondo Wendy Brown , il genere è diventato "qualcosa che si può piegare, diffondere, turbare, risignificare, trasformare, teatralizzare, parodiare, dispiegare, resistere, imitare, regolare... ma non emancipare".

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Il filosofo marxista Ernst Bloch distingueva tra i sogni chimerici, prometeici, che abitano l'immaginario di una società storicamente incapace di realizzarli (le utopie astratte e fantasiose, come le macchine volanti immaginate durante il Rinascimento), e le speranze anticipatrici che ispirano la trasformazione rivoluzionaria del presente (le utopie concrete, come il socialismo nel Ventesimo secolo). Oggi osserviamo la scomparsa dei primi e la metamorfosi delle seconde. Da un lato, assumendo forme diverse, dalla fantascienza agli studi ecologici, le distopie di un futuro da incubo fatto di catastrofi ambientali e sociali hanno sostituito il sogno di un'umanità liberata - visto come pericoloso miraggio dell'età dei totalitarismi - e relegato l'immaginazione sociale negli angusti confini del presente. Dall'altro, le utopie concrete dell'emancipazione collettiva si sono trasformate in pulsioni individuali prigioniere del mercato. Dopo aver congedato il "flusso caldo" dell'azione di massa liberatrice, il neoliberismo ha introdotto il "flusso freddo" della ragione economica: le utopie sono distrutte dalla loro privatizzazione in un mondo reificato.

Secondo Reinhart Koselleck , è il presente a conferire un significato al passato. Allo stesso tempo, quest'ultimo mette a disposizione degli attori della storia un serbatoio di esperienze attraverso le quali essi possono formulare progetti e inventare pratiche sociali. In altri termini, passato e futuro interagiscono, uniti da un legame simbiotico. Anziché due continenti rigorosamente separati, essi intrattengono un rapporto dinamico e creativo. All'inizio del Ventunesimo secolo, tuttavia, questa dialettica del tempo storico sembra paralizzata. Non c'è alcun "orizzonte di attesa" visibile. L'utopia sembra una categoria del passato - il futuro immaginato in un tempo andato - perché non appartiene più al presente. La storia stessa sembra un paesaggio di rovine, un retaggio di dolore, di ferite ancora aperte. Alcuni storici, come François Hartog, definiscono il regime di storicità emerso negli anni novanta come "presentismo": un presente dilatato che assorbe e dissolve in sé sia il passato sia il futuro. Il "presentismo" ha una doppia dimensione. Da un lato, è il passato reificato da un'industria culturale che distrugge ogni esperienza tramandata; dall'altro, è il futuro abolito dal tempo del neoliberismo: non la "tirannia dell'orologio" descritta da Norbert Elias , ma la dittatura della finanza, un tempo di accelerazione permanente - usando ancora le parole di Koselleck - senza "struttura prognostica". Venticinque anni fa il crollo del socialismo reale aveva paralizzato e censurato l'immaginazione utopica, suscitando, per un momento, nuove visioni escatologiche del capitalismo come "orizzonte insuperabile" delle società umane. Il capitalismo, si diceva, ci avrebbe riservato un avvenire radioso. Era diventato una "religione", il culto del denaro, la fede del nostro tempo. Come ricorda Giorgio Agamben , in greco la parola "banca" (istituto di credito, trapeza tes pisteos) ha la stessa etimologia del termine "fede" (pistis). Oggi, questa religione secolare è entrata in crisi e non crea più illusioni: affidare alle banche il destino del mondo non rassicura nessuno. Dopo la crisi del 2008, il neoliberismo ha mostrato un volto ben poco attraente, ma non è caduto, si è anzi radicalizzato: nessuna nuova utopia è apparsa all'orizzonte. Quindi il "presentismo" si caratterizza come un tempo sospeso tra un passato che non può essere "superato" e un futuro negato, tra un "passato che non vuole passare" e un futuro che non può essere inventato o annunciato se non come catastrofe. Dopo il "disincanto del mondo" teorizzato da Max Weber un secolo fa - la modernità come l'epoca disumanizzata della razionalità strumentale -, viviamo oggi una seconda disillusione, prodotta dal fallimento delle rivoluzioni. La speranza nel futuro è stata abbandonata a favore di un eterno presente.

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La sinistra radicale degli anni sessanta e settanta pensava la rivoluzione come un processo esteso su tre "settori" distinti ma correlati: essa era anticapitalista in Occidente, antiburocratica nei paesi del socialismo reale e antimperialista nel Terzo mondo. Tra la Rivoluzione cubana (1959) e la fine della Guerra del Vietnam (1975), questa visione non sembrava uno schema astratto e dottrinale ma la descrizione oggettiva della realtà. Il Sessantotto fu l'apice di un'ondata di movimenti radicali che scossero molti paesi dell'Europa occidentale, dall'Autunno caldo italiano alla Rivoluzione portoghese e alla fine del franchismo in Spagna. In Cecoslovacchia, la Primavera di Praga sfidò apertamente il dominio sovietico, minacciando il contagio in altri paesi del socialismo reale. In America Latina, molti movimenti guerriglieri seguirono - perlopiù con risultati tragici - l'esperienza cubana, ma fino al golpe cileno del 1973 il socialismo rimase all'ordine del giorno, non un sogno proiettato in un lontano futuro. In Asia, i vietcong inflissero una sconfitta storica al dominio imperiale americano. La sensazione di una convergenza crescente tra queste esperienze di rivolta, di una sorta di sincronismo tra i "tre settori della rivoluzione mondiale", plasmava profondamente la gioventù, trasformandone le idee e le pratiche politiche. Probabilmente per la prima volta nella storia, apparve una cultura globale che - ben oltre le ideologie - prendeva la forma di romanzi, canzoni, film, acconciature e vestiti. In Italia, una canzone scritta nel 1971 da Pino Masi per Lotta continua s'intitolava L'ora del fucile. Riprendendo la melodia di Eve of Destruction di Barry McGuire (1965), Masi trasformava questa nota canzone pacifista in un appello alla rivolta che descriveva un mondo che "sta esplodendo dall'Angola alla Palestina". Dopo aver elencato i paesi in rivolta - dalle guerriglie dell'America Latina agli scioperi degli operai polacchi, alle insurrezioni nei ghetti americani -, la canzone poneva una domanda retorica: "E quindi, cosa vuoi di più, compagno, per capire che è suonata l'ora del fucile?".

Durante questi anni di lotta e di utopie, la memoria non era un oggetto di culto, era incorporata nei movimenti sociali. Auschwitz era presente nell'impegno di molti attivisti e intellettuali francesi contro la Guerra d'Algeria. Durante la Guerra del Vietnam, il processo di Norimberga era un modello per il tribunale Russell che nel 1967 riunì a Stoccolma molti intellettuali di rilievo - da Jean-Paul Sartre a Isaac Deutscher , da Noam Chomsky a Peter Weiss - per denunciare i crimini di guerra degli Stati Uniti. Comparare la violenza nazista e l'imperialismo americano era una consuetudine delle manifestazioni contro la guerra. La memoria serviva a lottare contro le ingiustizie del presente, non per commemorare le vittime del passato. Nel suo intervento a questo convegno, Sartre definiva "genocidio totale" la strategia americana di counter-insurgency, e Günther Anders , un filosofo ebreo che aveva vissuto in esilio negli Stati Uniti, suggeriva di trasferire il tribunale a Cracovia, vicino ad Auschwitz, per il suo valore simbolico. In Occidente come nel Terzo mondo, il ricordo della guerra faceva parte dell'impegno politico nel presente. Come ha osservato Michael Rothberg citando Aimé Césaire , il colonialismo era una sorta di "effetto boomerang" (un choc en retour). In Europa la lotta contro l'imperialismo prolungava la Resistenza e nei paesi del Sud il nazismo era percepito come una versione radicale del colonialismo.

Quest'ondata si è esaurita alla fine degli anni settanta. L'ondata rivoluzionaria trovò il suo epilogo nel luglio del 1979 a Managua, che coincise con la scoperta del genocidio cambogiano. In Europa l'Olocausto s'insediò al centro della memoria collettiva. L'antifascismo si ritrovò ai margini delle commemorazioni, ormai dominate dalla celebrazione delle vittime, mentre gli anniversari smisero di rievocare le lotte per sacralizzare i diritti umani. In Francia il maggio 1968 diventò una metamorfosi culturale, una sorta di carnevale in cui, giocando alla rivoluzione, la gioventù aveva traghettato la società dal gollismo alla modernità liberale e all'individualismo. In Italia e Germania, gli anni settanta divennero gli "anni di piombo", in cui la rivolta di una generazione era sfociata nel terrorismo. Nella Repubblica federale tedesca diventò un luogo comune comparare la sinistra radicale degli anni settanta alla Hitlerjugend. La rimozione delle lotte, sostituite dall'immagine di una gioventù più liberale che libertaria, faceva comodo a una generazione che aveva ripudiato le esperienze passate e scopriva il fascino delle istituzioni. Dopo il suo naufragio, i tre settori della rivoluzione mondiale divennero tre sfere memoriali riservate alle vittime: l'Occidente dominato dal ricordo dell'Olocausto, l'Europa centrale ossessionata dal retaggio del socialismo reale e il Sud gravato dall'eredità della schiavitù.

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Nel 1959 Theodor W. Adorno prendeva atto dell'amnesia che, favorita da un uso ipocrita dell'idea di "elaborazione del passato", si era impadronita della Germania occidentale (e dell'Europa). Questa dubbia formulazione, spiegava Adorno, non voleva dire "elaborare seriamente le vicende storiche rimuovendone, mediante una coscienza critica, il tabù che le aveva segnate". Al contrario, significava "chiudere definitivamente col passato cancellandone possibilmente la stessa memoria". Più di cinquant'anni dopo, la stessa amnesia colpisce le nostre culture, dove intere dimensioni del passato - antifascismo, anticolonialismo, femminismo, socialismo e rivoluzione - sono sepolte sotto la retorica ufficiale del "dovere di ricordare". In questo paesaggio di lutto, il retaggio delle lotte di liberazione è diventato quasi invisibile e ha assunto una forma spettrale. Come spiega la psicoanalisi, i fantasmi hanno esistenze postume e infestano i nostri ricordi di esperienze apparentemente concluse, archiviate. Essi popolano le nostre menti come figure che ritornano dal passato, come spiriti redivivi, eterici, separati dalla nostra vita corporea. Abbozzando una sorta di tipologia spettrale, Giorgio Agamben segnala un genere particolare di spettri, le "larve" che "non vivono sole, ma cercano ostinatamente gli uomini dalla cui cattiva coscienza sono state generate". Lo stalinismo ha prodotto queste specie di spettri "larvali". A differenza di altre epoche di restaurazione, come quelle conosciute in Francia dopo il 1848 o la Comune di Parigi, la svolta del 1989 non poteva offrire ai vinti che la rimembranza di un socialismo sfigurato, la caricatura totalitaria di una società emancipata. Non solo la memoria prognostica del socialismo si era bloccata, ma il lutto stesso della sconfitta è stato censurato. Le vittime di violenze e genocidi occupano la memoria pubblica, mentre le rivoluzioni popolano le nostre rappresentazioni del Novecento come spettri "larvali". Vinti, i loro protagonisti non hanno diritto ad alcun riscatto. Non sono più spettri che annunciano il futuro, come quelli evocati da Burke nel 1790 e Marx ed Engels nel 1847. Essi rivelano invece, osservava Derrida una ventina d'anni fa, "la persistenza di un presente passato, il ritorno di un morto, una riappropriazione fantomale di cui il lavoro del lutto mondiale non riesce a sbarazzarsi". I fantasmi che si aggirano oggi per l'Europa non sono le sollevazioni del futuro, ma le rivoluzioni sconfitte del passato.

Possiamo sempre consolarci con il fatto che le rivoluzioni non sono mai "in orario", che arrivano quando nessuno le aspetta. In tempi recenti, Erri De Luca ha suscitato lo scandalo paragonando il retaggio dei turbolenti anni settanta al destino tragico di Euridice, la ninfa della giustizia nella mitologia greca: Euridice non poté essere salvata da Orfeo, che per liberarla scese nell'Ade, il regno dei morti. Attraverso quest'allegoria, Erri De Luca descrive gli anni settanta come un decennio invaso da un "Orfeo collettivo" che, innamorato della giustizia, impugnò le armi per conquistarla. È sintomatico che, a differenza di Marx, De Luca non paragoni la rivoluzione a un assalto al cielo ma piuttosto a una discesa agli inferi. L'assalto al cielo e il viaggio nell'Ade sono i poli della transizione descritta sopra, dall'utopia alla memoria, dal futuro al passato. La malinconia di sinistra non significa l'abbandono dell'idea di socialismo o della speranza per un futuro migliore; vuol dire ripensare il socialismo in un'epoca in cui non se ne ha più memoria. Anziché deplorare le utopie perdute, questa malinconia potrebbe contribuire a ricostruirle. Diventerebbe così una malinconia produttiva, tesa, come suggerisce Judith Butler , a cogliere l'"effetto trasformatore della perdita".

Un esempio di elaborazione del lutto che, invece di paralizzare l'azione, la stimola in modo autocritico e cosciente, è la reazione degli attivisti gay alle conseguenze distruttrici dell'Aids, una pandemia contemporanea alla fine del comunismo. Nel 1989 Douglas Crimp osservava che, lungi dal diffondere passività e favorire il ripiegamento in una sfera privata di sofferenza, questo trauma aveva suscitato una nuova militanza ispirata dal lutto, un attivismo che traeva la propria forza dalla malinconia e dall'afflizione. Per molti attivisti gay che vivevano con un sentimento permanente di abbandono, sapendo che presto sarebbero morti condividendo lo stesso destino di coloro che rimpiangevano, questa malinconia diventava un'incitazione all'impegno civile e politico. Molte vittime della malattia erano giovani e i sopravvissuti si sentivano soli, impotenti, privati dei loro amici più cari e dei loro amati. La loro vita era cambiata. Avevano bisogno di ricostruire una comunità distrutta, di reinventare l'amicizia, il piacere e le pratiche sessuali, mentre si sentivano sopraffatti dalla minaccia dell'epidemia e circondati da un ambiente ostile che li condannava. Molti di loro erano paralizzati dalla paura e interiorizzarono lo stigma come un sentimento di colpa, come una pulsione di morte trasformata in odio di sé. Ma l'attivismo gay che, in circostanze così tragiche, reagì contro questa pulsione di morte, era inseparabile dal lutto. Invece di sfuggire alla malinconia, esso la canalizzò verso un proficuo lavoro di ricostruzione, creando centri medici, garantendo assistenza psicologica, difendendo diritti minacciati e strutturando un nuovo tessuto associativo. Act Up fu il risultato di una malinconia politica feconda. Il significato di quest'esperienza, osserva Douglas Crimp, potrebbe essere riassunto in una formula che rispecchia bene lo spirito di questo libro: "Militanza, certo, ma anche lutto: lutto e militanza".

Parigi, Ithaca, NY, dicembre 2015

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Memoria e utopia


Il marxismo è nato e si è costruito come un'interpretazione e come un progetto di trasformazione rivoluzionaria del mondo. La memoria di cui si faceva portatore era legata a questo progetto, ma la fine del comunismo l'ha cancellata insieme alle sue speranze utopiche. In altre parole, esso ha smesso di trasmettere la memoria delle lotte per un mondo diverso. Non c'è bisogno di riesaminare i vecchi dibattiti filosofici per riconoscere che l'utopia era il tropismo segreto della concezione marxista della storia. Nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852), la memoria è evocata come "la tradizione di tutte le generazioni scomparse" che "pesa come un incubo sul cervello dei viventi". Essa fa sì che gli attori della storia vestano abiti del passato, credendo di ripetere un copione già rappresentato:

Proprio quando sembra ch'essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d'ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia.

Ma la rivoluzione moderna diretta contro il capitalismo, continua Marx, "non può trarre la propria poesia dal passato, ma solo dall'avvenire", deve "lasciare che i morti seppelliscano i loro morti" e liberarsi delle "reminiscenze storiche" che accecavano i suoi predecessori per potersi proiettare nel futuro.

La storiografia marxista ha sempre mostrato una forte inclinazione teleologica. Essa postulava il comunismo come telos, come finalità della storia, e da questa visione scaturiva una periodizzazione della modernità scandita dalle rivoluzioni. Una linea retta univa il 1789 al 1917, passando per le rivoluzioni del 1848 e la Comune di Parigi. Dopo la Rivoluzione d'ottobre, il processo diventava globale e la curva ascendente si espandeva attraverso tutti i continenti, dalla Cina nel 1949 a Cuba una decina di anni dopo. Le rivoluzioni sembravano instancabili locomotive del progresso. Eric Hobsbawm , uno storico marxista la cui ricostruzione del mondo contemporaneo rimane scandita dalle stesse tappe (1789-1914, 1917-1989), ha efficacemente sintetizzato questa visione della memoria citando un sindacalista britannico che, negli anni trenta, si rivolgeva ai Tories nei termini seguenti: "La vostra è una classe in declino; la nostra, è la classe del futuro". Scrittura della storia e memoria erano intrecciate e si nutrivano a vicenda. In altre parole, la memoria era coltivata per il futuro, poiché annunciava le battaglie a venire. Certo, il ricordo delle rivoluzioni passate non sempre era idilliaco e includeva la tragedia delle loro sconfitte. Durante i giorni più bui della Guerra civile russa, quando il potere sovietico era minacciato e la rivoluzione sembrava agonizzare, il fantasma della Comune di Parigi ossessionava i bolscevichi. Una vittoria delle guardie bianche avrebbe portato a un massacro come quello della "Settimana di sangue" del maggio 1871, su una scala incomparabilmente più vasta. Come ricorda Victor Serge nelle sue memorie, una dittatura militare bianca sembrava il risultato più probabile, con la conseguenza che i leader bolscevichi sarebbero stati "tutti impiccati o fucilati". Ma lungi dal diffondere lo scoraggiamento, aggiunge Serge, questa consapevolezza non faceva che "galvanizzare il loro spirito di resistenza". A lungo termine, la storia dava loro ragione: "Noi, i rossi, malgrado la fame, gli errori - e persino i crimini - avanziamo verso la città futura".

Per un secolo, le iconografie socialista e comunista hanno illustrato questa visione teleologica della storia. Le loro immagini si sono "scolpite" nella memoria di varie generazioni di militanti - dagli operai agli intellettuali e hanno dato forma al loro immaginario. Hanno agito come "punti di riferimento subliminali" o "sentinelle fantomatiche del pensiero" - secondo la bella formula di Raphael Samuel - la cui interpretazione può essere interessante quanto un'esegesi testuale.

Il Quarto stato di Pellizza da Volpedo (1901) [Fig. 2.1], forse la più famosa rappresentazione dell'idea socialista prima della Grande guerra, descrive l'avanzare delle classi lavoratrici dalle tenebre verso la luce: la loro marcia è una metafora della storia vista come un cammino che va dall'oppressione all'emancipazione, da un passato fosco a un futuro lucente. Il Quarto stato è la versione estetica della strategia socialista descritta da Friedrich Engels , poco prima di morire, in una nota e controversa prefazione alla riedizione delle Lotte di classe in Francia di Marx (1895). Osservando lo spostamento del baricentro del socialismo europeo dalla Francia - il locus delle rivoluzioni del Diciannovesimo secolo - alla Germania, il paese in cui la socialdemocrazia aveva realizzato i suoi maggiori progressi elettorali - da centomila voti nel 1871 a quasi due milioni nel 1890 -, Engels prendeva atto di un cambiamento strategico radicale. Il tempo delle lotte di strada e delle barricate era finito. La "ribellione di vecchio stile" appariva irrimediabilmente "invecchiata" se paragonata all'ascesa del "grande esercito internazionale dei socialisti, che avanza senza soste, e di cui si accrescono ogni giorno il numero, l'organizzazione, la disciplina, la comprensione, la certezza della vittoria". Il socialismo era ineluttabile, e qualsiasi tentativo di accelerarne la venuta inutile, per non dire nocivo:

E se anche questo potente esercito del proletariato non ha ancora raggiunto la meta, anche se esso, lungi dal conseguire la vittoria con una sola grande battaglia, deve progredire, lentamente, di posizione in posizione, con una lotta dura e tenace, ciò dimostra una volta per sempre come fosse impossibile conquistare la trasformazione sociale del 1848 con un semplice colpo di sorpresa.

Retrospettivamente, le rivoluzioni del Diciannovesimo secolo prendevano un sapore "blanquista" e questa critica della lotta insurrezionale era presentata come un'opposizione tra due tempi della storia: da un lato quello fulmineo e dirompente delle rivoluzioni; dall'altro, quello lento ma omogeneo e irresistibile di un cambiamento evolutivo. Questa distinzione conteneva già, in nuce, la dialettica che Gramsci s'incaricò più tardi di codificare teoricamente tra una "guerra di movimento" e una "guerra di posizione". Il futuro del socialismo, pensava Engels, apparteneva alla seconda e, di conseguenza, la memoria delle barricate diventava un ostacolo di fronte a questa crescita graduale ma irresistibile. Ormai le rivoluzioni del Diciannovesimo secolo erano diventate, come il terrorismo populista agli occhi dei socialdemocratici russi, un'espressione di impazienza politica, una politica che veniva "prima del tempo", troppo presto e troppo rapidamente per consolidare le posizioni conquistate.

La Prima guerra mondiale riabilitò l'azione rivoluzionaria con il suo tempo folgorante ed esplosivo, ma quest'accelerazione rimaneva inscritta in una visione utopica del socialismo. Dopo la Rivoluzione d'ottobre, l'utopia smise di essere la rappresentazione astratta di un futuro lontano e sconosciuto per diventare l'immaginario sfrenato di un mondo da costruire nel presente. Nel 1919, durante la guerra civile russa e le scosse rivoluzionarie nell'Europa centrale, Vladimir Tatlin progettò un monumento alla Terza Internazionale [Fig. 2.2].

Ispirandosi al mito della Torre di Babele, l'architetto russo. concepì quest'opera d'arte in stile costruttivista, come un edificio che doveva essere non solo ammirato ma anche usato, dimostrando che l'arte era uno strumento per costruire il socialismo. Non si trattava di creare un simbolo ma di fornire la prova che un nuovo mondo poteva essere edificato attraverso la fusione di estetica e politica. "Radicalmente anti-monumentale", come ha fatto notare Svetlana Boym, questo progetto si differenziava profondamente da tutti i suoi predecessori. Non aveva nulla a che vedere con la verticalità lineare della Torre Eiffel, che si limitava a esaltare la modernità industriale, né con la Statua della Libertà, la cui estetica si ispirava a un classicismo convenzionale, e nemmeno con la Tour du travail di Auguste Rodin, un progetto - probabilmente noto a Tatlin - creato per l'Esposizione Universale del 1900 ma mai realizzato. Nello spirito della Terza Repubblica, la torre di Rodin celebrava le virtù redentrici del lavoro, raffigurato come una spirale ascendente che andava dal lavoro manuale alla tecnica e alla scienza, vettori di un progresso posto sotto il segno della Provvidenza e realizzato come sacrificio [Fig. 2.3].

Tatlin rompeva con questa concezione tradizionale dell'arte e della cultura. Fatto di ferro e vetro, il suo "monumento" integrava in una sola struttura tre diversi elementi rotanti: un cubo, una piramide e un cilindro.

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Futuro passato


Il monumento di Tatlin alla Terza Internazionale traeva ispirazione dal mito biblico della Torre di Babele (Genesi 11) che, come è noto, sfociò nella punizione divina degli uomini colpevoli di aver voluto realizzare un sogno demiurgico. La Torre di Babele rimase incompiuta e cadde in rovina; la sua immagine è stata tramandata nei secoli da un'ampia tradizione iconografica nella quale spicca un celebre dipinto di Pieter Bruegel [Fig. 2.11].

Dopo la caduta del Muro di Berlino, lo storico e critico letterario Hans Mayer scelse questo mito per rappresentare la fine del socialismo reale: esso meritava probabilmente di cadere, ma la sua caduta non era ineluttabile né significava che i suoi inizi fossero stati così terribili come la sua fine. La Torre di Babele alla quale si riferiva Mayer è una poesia scritta nel 1949 dal poeta espressionista Johannes R. Becher che, per ironia del destino, divenne per alcuni anni ministro della Cultura della Ddr. Riletta nel 1990, questa poesia assume un sapore profetico, specialmente nella sua conclusione, dove la Torre di Babele, che "parla tutte le lingue" e "s'innalza nel cielo", alla fine "sprofonda nel nulla". Come la Torre di Babele, quella di Tatlin voleva conquistare il cielo ma il suo messaggio universale si era rivelato menzognero sotto lo stalinismo, che lo aveva reso inudibile. Anch'essa era ridotta a un cumulo di rovine.

Alcuni artisti d'avanguardia hanno anticipato la fine del comunismo rappresentandola come una cesura della memoria. In un dipinto del 1983, l'artista russo in esilio Aleksandr Kosolapov raffigura una testa di Lenin posata a terra, a fianco della sua statua in frantumi, di fronte alla quale ci sono tre putti chini su un giornale intitolato Il Manifesto che tentano a fatica di decifrarne il contenuto [Fig. 2.12]. L'utopia è crollata e ciò che era stato annunciato come un futuro radioso giace come un rudere. Il comunismo è diventato un testo incomprensibile che richiede di essere riscoperto e reinterpretato. Lenin è caduto dalla sua base, ma la sua testa è ancora intatta e il suo sguardo è fosco; non sappiamo se rivolge il suo rimprovero a chi ha distrutto la sua statua o a chi aveva deciso di costruirla, costringendolo a interpretare un ruolo che non aveva scelto.

La fine del comunismo come eclissi di un'utopia e atto di commemorazione, cordoglio mesto e silenzioso, ha trovato la sua espressione più toccante nello Sguardo di Ulisse (1995) di Theo Angelopoulos, un film dedicato alla guerra nell'ex Jugoslavia.

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3. Immagini malinconiche

Il cinema delle rivoluzioni sconfitte




Cinema e storia


La caduta del comunismo non ha suscitato molti film sulla fine della speranza comunista. Molte pellicole di successo hanno raccontato il crollo di un mondo ricorrendo a una vasta gamma di registri, dalla commedia alla tragedia. Nelle Vite degli altri (2006), Florian Henckel von Donnersmarck analizza i dilemmi morali e le menzogne quotidiane alle quali un potere dispotico sottomette gli individui e i rapporti umani, mentre in Good Bye, Lenin! (2003) Wolfgang Becker ha evocato con nostalgico senso dell'umorismo la scomparsa del socialismo reale. In Russia, Aleksandr Sokurov e Aleksej German hanno rappresentato il crollo del regime sovietico attraverso la metafora di Lenin e Stalin sul letto di morte (rispettivamente in Taurus, 2001, e Khrustalyov, mashinu!, 1998), mentre Emir Kusturica ha raccontato la storia della Jugoslavia come un'immane farsa balcanica in Underground (1995). Nel comunismo, spiega Kusturica, "tutto era falso, una finzione, un imbroglio". Si trattava, ai suoi occhi, di un sistema orwelliano in cui "il linguaggio politico era programmato per far sembrare vere le menzogne". La maggior parte di questi film descrive il comunismo come uno strano, buffo e spesso incomprensibile luogo di disgregazione sociale, come un abisso insondabile. Quel che resta è il vuoto. Soffermandosi sulla predilezione di Sokurov per le "elegie" - questo è il titolo di molti suoi documentari -, Giorgio Agamben ricorda l'etimologia del termine, che in greco significa sia lamento funebre sia rimostranza politica: "L'oggetto del lamento funebre di Sokurov è il potere o, più precisamente, il vuoto centrale del potere".

Forse questo vuoto era così profondo da inghiottire il potere stesso. La fine del socialismo reale non ha generato, ma solo rivelato l'eclissi della speranza socialista. Nel 1989, Nanni Moretti ha girato Palombella rossa, un film in cui questo vuoto diventa amnesia. Il protagonista del film è un comunista che, in seguito a un incidente stradale, ha perduto la memoria. Frammenti del passato - il suo vissuto e quello collettivo della sinistra italiana - ritornano durante una partita di pallanuoto, uno sport che ancora gli offre un senso di comunità e lo aiuta a evadere dall'universo individualista in cui vive. Amnesico, egli si ritrova scettico e amaro in un paese diventato per lui ormai irriconoscibile. Un anno dopo, Moretti filmava le discussioni tra i militanti di base in preparazione del congresso in cui il Partito comunista avrebbe cambiato nome (diventando il Partito democratico della sinistra). L'abbandono di qualsiasi riferimento al comunismo - e di conseguenza la separazione da culture, idee, esperienze e identità forgiate nel corso di decenni - aveva generato qualcosa di sconosciuto e strano, un oggetto misterioso: La cosa (1990). Tuttavia, i film di Nanni Moretti, "l'egocentrica Cassandra della sinistra" italiana, non scavano in questa amnesia della sinistra, limitandosi a rispecchiarla con malinconica ironia. Bisogna quindi cercare altrove le immagini capaci di descrivere l'eclissi della speranza socialista e il lascito delle rivoluzioni sconfitte del secolo scorso.

Questo capitolo tratta di ciò che Antoine De Baecque chiama histoire-caméra, "una forma cinematografica della storia", e Hayden White historiophoty, la "rappresentazione della storia e di quel che pensiamo di essa mediante le immagini e il discorso filmico". A differenza della storiografia, che è un discorso critico sul passato - un tentativo di ricostruire e interpretare ciò che è avvenuto - i film sono talvolta inaccurati e approssimativi nel rappresentare le epoche storiche, mentre gli studiosi sono avvezzi a lavorare su fonti verificabili. Tuttavia, i film e i romanzi storici possono penetrare o trasfigurare gli eventi cogliendone la dimensione "soggettiva", raccontando come sono stati vissuti, sentiti e interpretati dai loro protagonisti. I film, suggerisce Natalie Zemon Davis, possono essere "un esperimento di pensiero sul passato" e, senza pretendere di descrivere i fatti "come sono accaduti", ci forniscono una delle sue verità. Possono quindi essere studiati come barometri della coscienza rivoluzionaria, come rivelatori dei suoi dilemmi e dei suoi mutamenti. Sono numerosi i film che, direttamente o in forma allegorica, hanno rappresentato le rivoluzioni e le loro sconfitte. Senza ambire alla completezza, questo capitolo analizza alcune pellicole che hanno contribuito alla cultura della sinistra, stimolandone l'azione e la riflessione critica; film che rivelano, oltre il loro valore estetico, il paesaggio mentale e la "struttura del sentire" della sinistra.

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U-topia


Da Ejzenstejn a Pontecorvo, dalla Corazzata Potëmkin a Queimada, i film di sinistra hanno rappresentato le lotte e le rivoluzioni, poi hanno iniziato a elaborare il passato facendo della sconfitta il punto di partenza di una riflessione retrospettiva. Prima descrivevano movimenti di massa e prefiguravano vittorie ineluttabili, anche quando celebravano le sconfitte del passato; in seguito si sono messi a elaborare il lutto di queste sconfitte. Girato nel 1977 e rimontato nel 1993, Le fond de l'air est rouge segna emblematicamente lo spostamento dalla prima alla seconda epoca del cinema di sinistra.

I film di Angelopoulos, Castillo, Guzmán, Loach e Marker delineano un ritratto del Ventesimo secolo come epoca tragica di rivoluzioni naufragate e utopie sconfitte, ricordando i vinti delle sue battaglie perdute. La morte aleggia su tutti come un destino fatale. Essi sono la dimensione estetica di un travaglio interiore che interessa la cultura di sinistra all'inizio del Ventunesimo secolo, cordoglio collettivo di alcune generazioni di militanti. I protagonisti dei film presi in esame in questo capitolo sono, nella maggior parte dei casi, gente comune. Angelopoulos descrive una folla anonima che accompagna l'apparizione della statua di Lenin in viaggio lungo il Danubio. Loach non racconta la storia di George Orwell in Spagna ma quella di David Carr, un giovane operaio di Liverpool. La memoria dei protagonisti dei suoi film può anche assumere una forma ironica, ludica, come gli operai immigrati ispanici di Bread and Roses (2000) che, arrestati durante uno sciopero, rispondono al poliziotto che chiede i loro nomi adottando l'identità degli eroi rivoluzionari latinoamericani: Ernesto Guevara, Emiliano Zapata, Simón Bolívar, Augusto César Sandino eccetera Chris Marker intervistava intellettuali e leader politici, ma il vero soggetto del suo film era il movimento di massa che aveva scosso il mondo per più di un decennio, emergendo sincronicamente in diversi paesi e continenti. Carmen Castillo era la moglie di un leader, ma il suo ricordo di Miguel Enríquez è cambiato quando ha condiviso le sue memorie con dei giovani militanti. Dopo due decenni di esilio, ha capito che il suo lutto non era isolato. Patricio Guzmán descrive l'abnegazione di persone sconosciute, familiari dei vinti come Violeta, la cui ricerca muta e ossessiva rivela un enorme potenziale di amore e dignità. Questi ritratti non sono le statue di un museo, sono una galleria di gente comune che condivide valori e speranze e le cui virtù nascono dall'azione collettiva. I luoghi della memoria descritti in queste "immagini di pensiero" non possono diventare pezzi da museo, perché appartengono a una sfera privata, intima, affettiva - una casa, un fazzoletto, una foto di famiglia - in cui le esperienze collettive incrociano i destini individuali. Senza alcun sigillo ufficiale, essi sono espressione di memorie discrete, talvolta segrete, marrane, con le quali ognuno può identificarsi nonostante la loro irriducibile unicità. E ciò riguarda perfino i simboli del socialismo reale - la statua di Lenin - che devono essere smontati e "sconsacrati" per diventare i custodi malinconici di un'utopia sconfitta.

Nel discorso pronunciato in occasione della consegna del premio Georg Büchner, pubblicato con il titolo Il meridiano (1960), Paul Celan distingue tra u-topia e utopia. L' u-topia, letteralmente "non-luogo", è uno spazio inesistente, mentre utopia significa una speranza, una visione del futuro, qualcosa che ancora non esiste. Secondo Ernst Bloch l'utopia è una prefigurazione, la sfera del "non ancora" (noch nicht). Questo è anche il significato dell'utopia di Celan, "qualcosa di aperto e di libero", a cui la poesia potrebbe dare una forma. Oggi, dopo la fine delle rivoluzioni del Novecento, l'utopia non è più un "non ancora", ma piuttosto un' u-topia, un luogo che non esiste più, un futuro passato, un'utopia distrutta e divenuta oggetto di un'arte malinconica. I luoghi della memoria sono spazi materiali o mentali (topoi) creati per ricordare speranze diventate non luoghi, qualcosa che non esiste più. Le utopie del Ventunesimo secolo non sono ancora nate.

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