Copertina
Autore Yi-Fu Tuan
Titolo Il cosmo e il focolare
SottotitoloOpinioni di un cosmopolita
Edizioneeleuthera, Milano, 2003, , pag. 192, cop.fle., dim. 125x189x11 mm , Isbn 978-88-85060-77-7
OriginaleCosmos and Hearth, a cosmopolite's viewpoint [1996]
PrefazioneFrancesco Paolo Campione
TraduttoreBarbara Bombi, Susanna Fresko
LettoreRiccardo Terzi, 2004
Classe sociologia , psicologia , paesi: Cina , paesi: USA
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Indice

Prefazione                                7
di Francesco Paolo Campione

  I. Due dimensioni e un'autobiografia   15
 II. La Cina                             29
III. Gli Stati Uniti                     83
 IV. Un punto di vista cosmopolita      139


 

 

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Pagina 15

I
DUE DIMENSIONI E UN'AUTOBIOGRAFIA



Nel libro di Kenneth Grahame The Wind in the Willows, il talpone Mole è appena tornato alla sua comoda abitazione sotterranea. Quasi subito, posa soddisfatto il capo sul cuscino. Prima di chiudere gli occhi, li lascia vagare per la stanza, «accogliente nel bagliore del caminetto [...] su cose amichevolmente familiari». Com'è bello essere di nuovo a casa! Eppure egli non vorrebbe abbandonare gli splendidi spazi in superficie; non ha intenzione di volgere le spalle al sole e all'aria aperta rintanandosi nella sua dimora e fermandosi là. «Il mondo di sopra era troppo forte, lo chiamava ancora a sé, anche laggiù, e lui era consapevole di dover tornare su un palcoscenico più grande».

All'inizio del terzo millennio, fino a che punto condividiamo le sensazioni di Mole? Per molti di noi, non c'è forse uno stimolo potente a rimanere nella propria tana, a trovare sostentamento nelle cose familiari piuttosto che sul «palcoscenico più grande», al sole e all'aria aperta, in uno scenario che può apparire talvolta ostile (il sole anziché scaldare è causa di eritemi e siccità, l'aria aperta non tonifica ma raggela)? Anche negli Stati Uniti, dove un tempo si esaltavano i valori della mobilità e della spazialità, place (posto, luogo) sembra oggi la parola preferita; e più in generale, nel mondo, il particolarismo culturale e l'eredità etnica hanno acquisito sempre maggiore risonanza a spese del cosmopolitismo e dell'universalismo, concetti che, dall'illuminismo alla prima metà del XX secolo, sono stati prevalenti nel modo di sentire e di pensare delle personalità più influenti.

A un livello elementare (riflesso), il cambiamento è sorprendente, se solo si pensa che il percorso esistenziale di un essere umano evolve naturalmente da «casa» a «mondo», da «focolare» a «cosmo». Crescendo, noi umani entriamo in un mondo più grande. Comportarsi diversamente significa condurre una vita grama. Presso tutte le culture si celebrano le fasi di evoluzione verso la maturità di ciascun individuo, perché a ogni fase corrisponde l'ingresso in una più ampia sfera di attività e di responsabilità. La critica nei confronti delle società patriarcali è che, al loro interno, le donne sono destinate a restare attorno al focolare. La critica nei confronti delle società con una forte struttura gerarchica è che, al loro interno, i cittadini delle classi più umili sono confinati in una sfera di attività domestica (casa, villaggio, vicinato), mentre l'élite si muove per scoprire le gioie del mondo e goderne. L'élite può avere entrambe le cose, mondo e casa, può essere cosmopolita eppure ritornare al focolare per trarne nutrimento e rinnovarsi. È privilegiata. Le società illuminate mirano a estendere tale privilegio a un sempre maggior numero di persone che in precedenza pativano forti limitazioni, così che in futuro nessuno debba pensare che il limite della sua casa corrisponda al limite del suo mondo.

Tuttavia, come Mole, molti esseri umani potrebbero mostrare una certa ambivalenza verso entrambi i poli dello spettro geografico. Il focolare, anche se offre nutrimento, può essere troppo angusto; il cosmo, anche se liberatorio, può essere sconcertante e minaccioso. In alcune isolate comunità tribali, l'età adulta è preferita senza ambiguità alle fasi precedenti della vita. La nostalgia per il mondo confinato dell'infanzia è praticamente sconosciuta, forse perché il mondo degli adulti, anche se molto più vasto, non appare minaccioso essendo sufficientemente stabile: i giovani che entrano nell'età adulta, una volta che si sono sottoposti a un rito di passaggio e hanno appreso le fondamentali cognizioni sociali e tecnologiche del gruppo, hanno la certezza di avere accesso a un certo numero di privilegi di cui potranno godere senza ulteriori prove. Nelle società letterate e complesse, la vita nella sfera pubblica è più aperta ma con minori garanzie; nelle società moderne è di gran lunga più aperta ma offre ancor meno certezze.

Cina e Stati Uniti, in quanto società complesse, possono ben esemplificare queste diversità. Nella Cina tradizionale, l'élite terriera colta attribuisce a se stessa il cosmo, sia quello sacrale delle cerimonie e dei riti sia quello secolare dei beni materiali e dei privilegi. Comunque, salire la scala che porta al successo non è mai stato facile neppure per i privilegiati: la storia della Cina è ricca di vicende riguardanti l'ascesa e il declino delle maggiori famiglie. Il fatto stesso che una società così grande sia un mondo aperto contribuisce a creare una certa ansia, una persistente insoddisfazione. La nostalgia per la terra natia è un tema frequente nell'arte poetica cinese, anche per la consuetudine di assegnare i funzionari in sedi lontane dalla loro città di origine; e così questi possono esprimere in anticipo il dolore per il distacco dalle proprie radici anche quando sono felici per la notizia di una promozione che li porterà ad amministrare una città più grande. A confronto con questi privilegiati, l'ambizione della gente comune ha ben poche opportunità di esprimersi: raramente il loro muoversi nel mondo è qualcosa di più di un piccolo passo. In compenso, conservano la loro serenità sociale e culturale.

Tuttavia, almeno in un aspetto dell'esistenza l'élite cinese si sente senza dubbio più sicura: nel rapporto con la natura. I progressi nella cultura materiale hanno favorito questa sicurezza: i funzionari di rango, in particolare, hanno constatato come l'ingegnosità e la forza umane abbiano realizzato imponenti apparati d'irrigazione e di controllo delle acque, che contrastano il potenziale devastante della natura. I riti cosmici, con la loro grandiosa visione del movimento dei corpi celesti e del succedersi delle stagioni, rappresentano anch'essi un segno di questa attitudine confidente. Per l'élite colta e i funzionari di rango, il cosmo ispira reverenza più che timore; malgrado i molti misteri ancora da svelare, è un'entità impersonale, armoniosa e accessibile alla mente umana. Invece, per i contadini, che rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione, la natura è qualcosa da temere, anche per la sua imprevedibilità, ed è bene propiziarsela e rabbonirla con sacrifici e riti magici. Il mondo domestico del contadino, rassicurante nella sua familiarità e immutabilità, è infestato da spiriti e demoni la cui esistenza è un segno certo dell'incontrollabile aleatorietà e dell'insicurezza dei suoi mezzi di sussistenza. Di conseguenza, sia la «casa» (il focolare) sia il «mondo» (il cosmo) presentano vantaggi e svantaggi. E tuttavia, se fosse possibile una scelta, senza dubbio la maggior parte dei cinesi vorrebbe godere delle piacevolezze, degli stimoli e della protezione rispetto agli eventi naturali che il «mondo» offre.

Gli Stati Uniti sono stati fondati in un periodo storico in cui una visione statica del cosmo, che affondava le radici nell'antichità classica e nel Medioevo, stava per essere sostituita da una visione della natura rielaborata in chiave scientifica e da una concezione della storia basata sul movimento lineare (progressivo). In sé, la visione scientifica della natura potrebbe apparire statica nella sua perfezione: il sistema elaborato da Newton lasciava, per esempio, proprio quest'impressione in molti pensatori del tempo. Tuttavia, nel XVIII e nel XIX secolo era la storia universale, più che le leggi senza tempo della natura, a emergere come il paradigma dominante del pensiero, mentre la scienza, soprattutto con le sue applicazioni pratiche, contribuiva a dare quella sensazione di moto progressivo.

L'America è il locus classicus delle grandi narrazioni o miti storico-geografici. Tra i più consolidati, l'idea che la civilizzazione abbia seguito un percorso verso ovest, nella stessa direzione del sole, fino al suo culmine in terra americana. Concepita come un tutt'uno, l'America si vede come una città che domina dall'alto di una collina la pianura sottostante, un faro di luce (secolare-morale, religiosa e tecnologica) da cui è attirata la gente proveniente dalle altre parti del mondo.

Un altro mito potente è quello che esalta la frontiera: le opportunità sono «là fuori», un «là fuori» che è a un tempo spaziale e temporale. Si possono identificare quattro frontiere: la terra, l'industria urbana, la metropoli, la cibernetica (la «rurban cybernetic» di Daniel Elazar).

La più antica e quella più importante, come concetto e come mito, è la terra, la frontiera «agricola». Uno spazio senza confini e un suolo fertile fin oltre l'orizzonte rappresentano il sogno che attira la gente verso ovest.

La frontiera dell'industria urbana ha i suoi inizi lungo la costa nord-orientale degli Stati Uniti per poi spostarsi verso il Midwest, dove si localizza per molti decenni. È caratterizzata da processi innovativi nello sfruttamento e nella trasformazione delle risorse naturali, intendendo la natura non come terra dapprima selvaggia e poi coltivata, ma come vapore ed elettricità, carbone e acciaio. Il suo archetipo è un pensatore dedito al sapere tecnico, nonché un inventore, come Thomas Alva Edison, e non più un coltivatore o un allevatore.

La frontiera della metropoli si identifica con la mobilità meccanizzata e in particolare con l'automobile. Anch'essa porta le persone al limite della natura, ma soltanto se hanno sufficienti cognizioni scientifiche per esplorare i misteri dell'universo fisico-biologico.

La frontiera cibernetica è l'ultima venuta alla luce. Come le altre, ha avuto origine lungo la costa nord-orientale degli Stati Uniti, ma in seguito ha creato nuovi centri di sviluppo in Illinois, in California e negli Stati sud-occidentali. In questa frontiera la natura è davvero lontana dalle cose tangibili con cui si entra in contatto nella vita di tutti i giorni. È diventata un'astrazione di proprietà fisiche e chimiche, manipolate intellettualmente per creare computer e tecnologie che hanno enormemente incrementato la capacità umana di elaborare e trasmettere dati e informazioni.

Miti e realtà sono inestricabilmente intrecciati. La realtà dell'America è creata e sostenuta da miti totalizzanti. Quelli che si potrebbero definire storico-geografici, combinatisi con la vocazione democratica, hanno convinto molti americani a credere che nessuno deve sentirsi confinato in un posto (una località o un particolare tipo di occupazione), che c'è sempre uno spazio «là fuori» dove l'opportunità è a portata di mano, che esiste sempre un mondo più grande nel quale ognuno può muoversi per realizzarsi. Questo è ancora oggi il credo dominante in America: tutti i grandi cambiamenti sociali, nella storia più recente, hanno avuto l'obiettivo di liberare un gruppo dall'essere legato a una determinata condizione, a un determinato luogo.

Eppure, negli ultimi trent'anni è emersa una forte controspinta ideologica che chiede di ripristinare quel locus dove l'umanità possa sentirsi appagata. A questo inaspettato mutamento contribuiscono diversi fattori, ma in questa sede mi limiterò a ricordarne due.

Il primo è rappresentato dallo sviluppo, in alcuni eminenti studiosi, di una coscienza storica fortemente critica: a loro giudizio, la storia degli Stati Uniti non è affatto sinonimo di progresso e illuminismo, come lascerebbe intendere il mito delle «quattro frontiere», ma è piuttosto una storia di avidità, oppressione e sopraffazione ai danni dei nativi americani, degli schiavi, degli immigrati poveri e della natura stessa.

Per porvi rimedio, è necessario che la natura riacquisti, almeno in parte, l'antico rigoglio e la sua specificità, che i nativi americani e gli immigrati delle diverse etnie ricostruiscano la loro eredità culturale, guardando con maggior orgoglio a quest'ultima piuttosto che al tentativo di incarnare, secondo il modulo linguistico degli storici del passato, il Nuovo Adamo in un Nuovo Mondo.

Il secondo elemento di disaffezione riporta in primo piano le quattro frontiere. Questa volta, però, il problema è il loro status, ovvero non in quanto grandi narrazioni e miti ma in quanto realtà. Magari fossero solo miti! I miti possono essere rapidamente decostruiti laddove la realtà impone tempi molto più lunghi. E qual è la realtà? È che la frontiera - la «soglia» su cui potevano stabilirsi gli immigrati, sentendo con orgoglio che stavano contribuendo al benessere della società nel suo complesso - ha da tempo cessato di essere «terra» o anche «vapore ed elettricità» (capacità industriale), ma s'identifica con attività produttive (nei settori della biochimica, dell'elettronica, dell'informatica) basate su scienze e conoscenze esoteriche il cui accesso richiede anni di studio.

Per raggiungere una frontiera geografica servono soltanto un paio di buone gambe, per raggiungere una frontiera intellettuale è necessario un cervello ben allenato. Tenere in allenamento la mente non è soltanto un esercizio difficile e costoso, col rischio del fallimento sempre in agguato, ma comporta inevitabilmente il distacco dal gruppo familiare originario e dal luogo natio, dalle consuetudini e dalle convinzioni più radicate, molte delle quali hanno avuto origine in un mondo pretecnologico soggetto a varie limitazioni. Con una frontiera diventata ora così remota, e per di più con l'idea, diffusa da taluni pensatori radicali, secondo cui la scienza potrebbe anche non essere degna di avere proseliti, essendo una sorta di piaga che decima la diversità naturale e culturale, è comprensibile che gli immigrati provenienti dai Paesi poveri o i nativi americani - in cui alberga un senso profondo delle ingiustizie subite in passato e dell'ostracismo che ancora patiscono - trovino consolazione nel focolare, ovvero in quello che già hanno, potenziato da un lato dall'eredità ritrovata del loro passato e dall'altro da quei vantaggi materiali che una società opulenta e altamente tecnologica è in grado di offrire.

Organizzare, per esempio, una tradizionale danza del raccolto che manifesti un atteggiamento reverenziale e propiziatorio nei confronti della natura, facendolo però con il ricorso a una ricerca documentale storica, all'uso del telefono e forse anche del fax, appare paradossale. Eppure, è proprio quello che fanno, in America, i gruppi etnici nel desiderio di preservare il senso unico della propria appartenenza. Ed è quello che fanno molti popoli nel resto del mondo, su scale differenti, compresa la scala dello Stato-nazione. Così, la Cina vuole nello stesso tempo mantenere la sua identità storica ed essere un Paese moderno come la Svezia o gli Stati Uniti, e ricorre volentieri a tutti gli strumenti della scienza contemporanea - dalla linguistica ai metodi più avanzati di datazione basati su proprietà chimiche - per ricreare una «cinesità» autentica. Che cosa accadrà quando questo paradosso sarà pienamente ed esplicitamente messo in luce?

Il tradizionalismo, inteso come il ritorno a un passato idealizzato e dai contorni incerti, è un fenomeno indesiderabile; nel nostro villaggio globale, è in ogni caso impossibile. Il modernismo è altrettanto indesiderabile nella sua «inconsistenza», nella sua visione spesso univoca e semplicistica, nella sua corsa precipitosa verso il nuovo. Il che ci lascia alle prese con un tardo modernismo che vede ragioni di merito sia nel «focolare» sia nel «cosmo», nella confortevole dimora sotterranea di Mole con i suoi rassicuranti ricordi del passato e negli spazi aperti con la loro promessa di un futuro diverso e stimolante.

[...]

I capitoli II e III di questo libro, dedicati rispettivamente alla Cina e agli Stati Uniti, rappresentano il mio tentativo di esplorare il tema del cosmo e del focolare in due culture che, a livello personale, hanno contribuito a definire il mio senso di identità e che, a livello impersonale, sono un esempio significativo della distinzione tra «tradizionale» e «moderno», tra una società tutta tesa alla stabilità (la pace celeste) e un'altra orgogliosa della sua apertura necessariamente associata all'eterogeneità, a una ricorrente conflittualità e al cambiamento. In questi due capitoli scrivo con l'attitudine di un ricercatore che conscio della complessità persegue la conoscenza. Il mio ideale resta l'obiettività, anche se mi rendo conto che in questo libro essa è messa a dura prova non solo dal mio bagaglio culturale e dalle mie carenze di studioso, ma anche dal desiderio di arrivare a un equilibrio tra i due poli «cosmo» e «focolare». Ed è il «cosmo» - società, civiltà, mondo - che in questo momento ha bisogno di essere intellettualmente rivalutato, dato che negli ultimi decenni ha subìto attacchi di una violenza senza precedenti da critici influenti che, a differenza di quelli di un passato recente (come Lewis Murnford e René Dubois negli Stati Uniti), non riescono a trovare nulla di buono nei progressi ottenuti dall'umanità su scala mondiale.

L'ultimo capitolo, Un punto di vista cosmopolita, si basa su quanto ho scritto nei due precedenti, ma si spinge oltre per prendere in esame alcune delle caratteristiche più generali, e positive, del «cosmo» attraverso una serie di raffronti: cultura come convenzione con cultura come tecnologia, vincoli comunitari con reti sociali impersonali, reciprocità calcolata con reciprocità circolare e scambi lineari, focolare tradizionale con «focolare cosmopolita». I punti salienti di questo capitolo verranno percepiti come veri ma ovvi oppure come falsi e sovversivi? Ho il sospetto che le opinioni dei lettori non saranno unanimi. Tuttavia, anche se può sembrare curioso, posso essere soddisfatto per entrambi i giudizi: nel primo caso perché mi suggerisce che c'è, dopotutto, un ampio consenso, nel secondo perché mi rassicura sul fatto che c'era bisogno di questo capitolo e di questo libro.

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