Copertina
Autore Manuel Vázquez Montalbán
Titolo Riflessioni di Robinson davanti a centoventi baccalà
EdizioneFrassinelli, Milano, 2000, Noche oscura , pag. 98, dim. 130x202x13 mm , Isbn 978-88-7684-616-8
OriginaleReflexiones de Robinson ante un bacalao [1995]
TraduttoreHado Lyria
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe narrativa spagnola , alimentazione , viaggi , mare
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Pagina 1 [ inizio libro ]

Il dottore mi aveva vietato addirittura di assaggiarle, le uova, per via della mia tendenza ad accumulare colesterolo cattivo. È possibile invece che mi riesca di pescare qualche frutto di mare, ma temo che si lascino prendere soltanto quei molluschi che stanno attaccati alle rocce. Mio padre sostenne sempre che non ero nato per la caccia. Troppo viziato. I bambini viziati non sono capaci di cacciare. No, non posso abusare delle uova che gli uccelli lasciano nei nidi a portata di mano, mi sazierebbero la fame, si, ma mi lascerebbero un tasso di colesterolo che sarebbe letale in un'isola come questa, dove non ci sono medici e non posso farmi un'analisi del sangue se non quella psicologica, fatta da me stesso. E ho il sangue proprio avvelenato ogni volta che i miei occhi cessano di scrutare stanchi l'orizzonte in attesa di una nave che mi scorga e mi riporti a me stesso, a me tanto lontano da me stesso, annullato naufrago in un'isola di cui ignoro il nome.

L'ultima volta che ebbi la mia barca sotto controllo fu quando infilava il corridoio marino formato dalle Barbados e dalle isole Sottovento. Uscendo da Port-of-Spain i venti erano soavi. Il mare mi parve propizio mentre mi lasciavo alle spalle le Bocche di Drago e l'oscurità forgiata dal cielo color pancia d'asino che incombeva su Trinidad e Tobago. Appena affrontai il mare faccia a faccia, il cielo si aprì e il sole illuminò i venti che mi portavano, senza che io lo sapessi, verso il più assoluto naufragio. Si prevedeva un mare inalberato, ma nulla annunciava tempeste, depressioni o nebbie, ossia tutto quello che incontrai oltre la latitudine delle Bermuda, allorché la deriva incominciò a cercare la curva della Corrente del Golfo.

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Pagina 5

Quando ero seminarista volevo diventare Papa. Allora pensavo che solo il Papa fosse in grado di sapere se Dio esiste, poiché era un fatto della conoscenza convenzionale, non teologica, dei cattolici del mio tempo, che il Papa e Dio si incontravano in udienze simili a quelle che vedono insieme un qualsiasi capo di Stato e il suo primo ministro. Un giorno diventerò Papa, mi dissi, e parlerò direttamente con Dio o constaterò la Sua Assenza. La parola Assenza, quando riguarda Dio, bisogna scriverla con rispetto e con la maiuscola. E l'Infinito. Ogni naufrago è in grado di scoprire il non-senso della vita, tranne quando costruirne il senso sia l'unico senso possibile. Di solito non ci rendiamo conto delle facilitazioni offerteci dal contesto sociale e dal suo paesaggio per costruire un senso convenzionale: si può essere lavoratore manuale o sarto o rivoluzionario o, come nel mio caso, vescovo ausiliare in esubero mentre mi rioriento spiritualmente. C'è bisogno di un minimo di tessuto sociale intorno a te perché il tuo ruolo possa realizzarsi e gli altri lo accettino, oppure no, volentieri o controvoglia che sia. Ma in un'isola deserta l'unico scopo consiste nell'andartene, e finché non ti riesce devi sopravvivere servendoti di quel che sai e di quel che trovi, e quasi nulla di quel che sai ti serve per manipolare quel che trovi. Lamento di non aver letto con maggiore attenzione quanto si è scritto sulle isole deserte, né libri fondamentali come L'orticoltore autosufficiente, che mi sarebbero stati ben più utili di tante disquisizioni teologiche o di tanti discorsi sociopolitici, da quando Muriel mi aprì gli occhi sulla teologia della liberazione e sulla navigazione a vela.

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Pagina 9

Terribile condizione, quella del naufrago più dotto in gastronomia che nella scienza del naufragio. Perché, predispostomi a vivere con quel che ho alla mia portata e fa parte di quanto conosco, a voler cucinare delle ostriche con le zucchine, astice con fave fresche, spigola con sedano di Verona e aceto, filetti di triglia alla crema di rosmarino, scaloppine di spigola con ostriche o una casseruola di ostriche alla Girardet, di quali elementi dispongo per ottenere un risultato decente? Né vini con cui insaporire le cotture, né verdure note per combinare aromi e consistenze, né erbe aromatiche in un'isola tropicale che sicuramente mi nasconde il tesoro delle sue spezie. Del resto non ho nemmeno il fuoco, e senza fuoco la cucina non esiste. Come disse quel famoso filosofo materialista dialettico, mi pare l'ultimo rimasto, don Faustino Cordón: «La cucina ha fatto l'uomo».

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Pagina 35

Lo avevo vissuto o lo avevo visto in televisione. Ma così come non sono per nulla soddisfatto e solidale con la condizione di naufrago, ormai alla fine del secondo millennio, recupero gli anni passati a guardare la televisione, come se le immagini mi fossero sfuggite nello scolatoio di un buco nero della coscienza, e mi tornano alla memoria pietosi e generosi frammenti dei romanzi su naufragi: Robinson Crusoe, Il Robinson svizzero, L'isola misteriosa e tutti gli altri romanzi di Verne che parlano del capitano Nemo come nesso sintattico e intrigante: Ventimila leghe sotto i mari e I figli del capitano Grant. E di tutti i naufraghi immaginari, sono soprattutto Crusoe e Cyrus Smith a farmi compagnia, in particolare Cyrus, l'ingegnere che scopre il mistero dell'isola enigmatica adoperando le sue conoscenze e la sua intelligenza deduttiva, argomento da me stesso sostenuto nella Revue des Recherches presque inutiles: «Tra il Robinson di Defoe e quello di Verne stanno in mezzo due secoli di lucidità borghese e di dura marcia dall'idealismo al pragmatismo. Nel romanzo di Defoe l'uomo ha bisogno soltanto di un servo, naturalmente nero, ma non è nemmeno indispensabile, infatti Robinson sarebbe sopravvissuto anche senza Venerdì. Robinson ha bisogno della spinta della Divina Provvidenza e ottiene tutto il resto mediante l'Esperienza. È questa l'origine dell'ottimismo borghese che crede nel progresso. Cyrus Smith, invece, è effettivamente un leader, ma i suoi compagni di naufragio formano una cellula di agenti attivi di sopravvivenza, complementari. Ciò che Defoe affidava alla Provvidenza e all'Esperienza, Smith lo basa sul sapere, sulla scienza. Alla fine del XIX secolo, la borghesia controlla ormai il sapere scientifico e la meccanica sociale, ma all'inizio del XVIII, quando Defoe costruisce il suo desideratum di Weltanschauung borghese, l'eroe è ancora un isolato Gary Cooper, solo davanti al pericolo come in Mezzogiorno di fuoco, in lotta contro i proprietari della conoscenza alleati con il vecchio ordine».

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Pagina 39

Sesso e gola. Questi molluschi che mangio vivi, o queste papaie che spacco contro le rocce, reggono al paragone con le natiche planetarie di Muriel o con le discese agli inferi dei suoi rumorosi orgasmi nella solitudine dell'oceano? Mi affatica la mia mente sensoriale, da cui entro ed esco tra un affaticamento e l'altro della mente razionalista, per non lasciarmi cadere nell'amarezza della mia mente sentimentale. Ho paura e fame mentale. Ma se mi inginocchiassi a chiedere aiuto al Dio dei naufraghi, tradirei la mia fede razionalista. Con ogni certezza, nessun Dio maggiore o minore mi darebbe ascolto, ma mi sentirei un po' più confortato, a partire dalla soddisfazione di aver fatto quanto ci si attende da ogni bravo robinson. È per questo che sto per mettermi in ginocchio, e ancora una volta supporrò il punto in cielo dal quale Dio mi guarda, per dirgli qualcosa che non offenda la mia intelligenza e nello stesso tempo non gli insinui la perversa idea che io credo in Lui. Ma prima guardo a destra e a sinistra nel caso qualcuno mi veda, nel caso Muriel stia badando a quel che faccio, lei nuda come me sul letto, che mi osserva curiosa mentre le spalmo miele di rosmarino sui capezzoli e sul pube. «Non te n'è quasi rimasto, di miele.» Era una verità oggettiva. «Questa non è una colazione. Ho il complesso di essere il boccone per un malato di cuore. Proteine con miele.» «Sezzo con miele.»

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Pagina 50

«Ecco qui il baccalà salato, proposta di meditazione sulla vita, perché fu un pesce vivo, diventato oggi cibo sotto sale, ma il suo corpo più che morto può essere usato ancora per onorare la Provvidenza in tempi di digiuno, e propongo una ricetta esemplare per temprare lo spirito senza dimenticare la vita: 'pane di baccalà delle Riparatrici', attribuita a un convento di suore dedite a riparare l'anima delle donne in peccato.

«In una casseruola riempita con acqua abbondante si mette a bollire il baccalà, dopo averlo ben dissalato; quando è pronto, si scola l'acqua in eccesso e lo si spina; lo si trita poi finissimamente con il coltello, gli si aggiunge una quantità non eccessiva di besciamella, e poi si passa il tutto al setaccio; si mette quindi l'impasto ricavato in una casseruola, dove lo si lavora con una spatola; si condisce abbondantemente con sale, noce moscata e succo di limone; vi si aggiungono tre uova e, dopo aver ben mescolato il tutto, si versa in un grosso stampo da budino unto di strutto e spolverato di farina, perché non si attacchi allo stampo. Si mette poi a cuocere in forno a bagnomaria, e quando è pronto si ritira. Si rovescia lo stampo sul vassoio e lo si circonda di gamberi bolliti e sgusciati; subito dopo si coprono sformato e gamberi con una salsa bianca cosparsa di prezzemolo tritato.»

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Pagina 54

Quei baccalà erano stati catturati in piena maturità sessuale, quando si lanciano in grossi gruppi composti da milioni di consimili a deporre le uova nelle acque più calde, dove femmine e maschi si congedano cordialmente, senza nostalgia e senza rancore, e si separano in cerca del cibo dei mari e di nuovi tempi per la riproduzione.

Pur non essendo il baccalà un pesce descritto da Aristotele nel suo inventario dei pesci conosciuti, i popoli mediterranei avevano sviluppato notevoli culture del baccalà, forse perché, essendo questo un pesce trasformato in mummia imperitura, aveva avuto un prezzo basso rispetto a quello del pesce fresco, e i popoli poveri si nutrono di memoria e di mummie. Ho sempre ritenuto una barbarie gastronomica il consumo di baccalà fresco, un pesce senza personalità, a metà tra il nasello e l'infinito. Invece, il baccalà salato o seccato all'aria, lo stoccafisso, prendeva così una seconda natura di disidratata mummia in attesa della resurrezione della carne grazie all'ammollo, e del Giudizio Finale dei fantastici libri di ricette pensati dalla condizione umana. Mangiare baccalà fresco è come fare l'amore con un animale giovane che chiede soltanto resistenza, senza preamboli, sotto un'oscena luce al neon e senza che chi di dovere si tolga i calzini.

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Pagina 65

Fa parte della condizione umana contrapporre sempre il desiderio alla realtà, e nelle mie fantasticherie da Robinson ricreavo la ricetta portoghese del baccalà alla Gomes de Sà, una gloriosa combinazione di patate, baccalà, aglio, cipolla, uova sode, olive, un po' di latte, pepe bianco macinato al momento e una spruzzata di prezzemolo. Quel piatto magistrale e popolaresco lo avevo assaggiato a Lisbona più volte, quando ci andai per via di un Congresso Eucaristico o forse in occasione di un incontro di barche a vela in cui Muriel mi aspettava con le sue natiche oceaniche e le sue gambe non depilate. Disponevo ora di baccalà e di uova sciape di quegli uccelli dalle lunghe zampe che svolazzano sugli acquitrini gracchiando in modo orribile e grottesco. Ma, dove trovare cipolle, aglio, olive, patate? Finché non trovavo patate, riso o farina, non potevo mangiare che primi piani della natura, senza paesaggio, senza quell'orizzonte di sapore e consistenza che i paesaggi neutri apportano allo spettacolo del gusto, paesaggi neutri che rimandano i sapori goduriosi, perché in ogni chicco di riso si concreta e moltiplica il sapore dominante, come in ogni spaghetto o nel benché minimo tocchetto di patata.

Di tutti i piatti sognati, il più chimerico era «El Niu», degustato in un paesino della costa catalana, dove si era raggiunta la koiné: il baccalà, la terra e il cielo. Un soffritto di cipolla, molta cipolla tagliata alla julienne, fritta prima sino a umiliarla e costringerla a perdere la sua consistenza minerale, fritta fino a trasformarla in una creatura debole e trasparente, senza abbandonare a quel punto il miracolo della modificazione, ma continuando a soffliggerla lentamente fino a caramellizzarla e aggiungerle allora delle seppie pulite tagliate a pezzi, tordi spennati, abbrustoliti, aperti a metà e, una volta domata la seppia e cambiato il colore del tordo, ecco il balsamo del pomodoro tritato, della paprika, del vino bianco e quindi il grande incontro con il baccalà, perché è il momento di aggiungere al manicaretto pezzi infarinati di stoccafisso e di baccalà, gli uni e gli altri passati attraverso la resurrezione dell'ammollo e il sudario della farina bianca. Ma non bisogna accontentarsi delle carni della bestia, bensì aggiungervi una piccola porzione delle sue viscere ben tritate, per far salire l'acidità del bouquet nell'attimo finale. Che altro? Patate a tocchetti, acqua tiepida, uova sode tagliate a metà, piselli o fave, e quando l'intruglio è cotto, un istante prima che esca dal seno di Abramo, cucchiaiate di salsa alioli, finché il tutto raggiunga livelli di rabbia prerivoluzionari e profumi stomacali che ci dureranno ventiquattro ore, tra sogni a occhi aperti di prime digestioni di tutto quel che cominciò a vivere sulla terra prima che venissero inventati il peccato e la pesca.

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Pagina 79

Un'invenzione tanto prodigiosa ha avuto per forza delle varianti straordinarie, che dimostrano quanto possa essere stimolata l'immaginazione umana per superare quanto è già meraviglioso di per sé. C'è stato una volta chi ha saputo ideare un baccalà al pil pil alla zucchina e menta d'acqua, la cui ricetta ricompongo nella cucina della memoria. Una volta dissalato il baccalà mediante cambi di acqua fredda, ossia dopo aver cambiato quattro volte l'acqua in trentasei ore, il baccalà va spinato e squamato senza danneggiare la pelle, madre di tutte le gelatine. Poi si sbuccia una zucchina, la si taglia a dadi di un centimetro e la si frigge in olio vergine d'oliva. A metà cottura, si aggiunge la menta d'acqua tagliata fine e si porta avanti la cottura per altri cinque minuti, salando leggermente il tutto. In una padella si mettono tre decilitri d'olio, tre spicchi d'aglio tagliati a lamelle che andranno ritirati appena avranno preso un colore dorato, e solo allora verranno sistemati in pentola i pezzi di baccalà con la pelle verso l'alto, quasi coperti dall'olio, a fuoco alto, più bolliti che fritti, per permettere alla gelatina di uscire dai suoi nascondigli. Si mettono ora i pezzi di baccalà in una casseruola di terracotta, vi si versano sopra l'olio e l'aglio, e si agita la casseruola in senso circolare perché olio e gelatina comincino a legare, come se si trattasse di una maionese, e quando l'emulsione sta per riuscire si aggiungono la zucchina e la menta, senza lasciare tuttavia che il miscuglio arrivi a cuocere, il che farebbe cagliare la salsa. Ho visto nel piatto, sul letto di zucchina e menta, il pezzo ambrato di baccalà, ricoperto dalla splendida emulsione. Ho visto e ho creduto.

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