Copertina
Autore Carlo Vercellone
CoautoreDidier Lebert, Geneviène Schméder, El Mouboub Mouhoud, Pierre Dockès, François Chesnais, Claude Serfati, Stefano Lucarelli, Jacopo Mazza, Patrick Dieuaide, Andrea Fumagalli, Yann Moulier Boutang, René Passet, B. Paulré
Titolo Capitalismo cognitivo
SottotitoloConoscenza e finanza nell'epoca postfordista
Edizionemanifestolibri, Roma, 2006, Esplorazioni , pag. 296, cop.fle., dim. 145x210x18 mm , Isbn 978-88-7285-426-6
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe economia politica , economia finanziaria , lavoro , capitale
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Indice

    Introduzione                                             11
    di Carlo Vercellone


PARTE I.
DAL CAPITALISMO INDUSTRIALE ALL'ECONOMIA DELLA CONOSCENZA:
VERSO UN XXI SECOLO POSTSMITHIANO?                           17


 1. IL RUOLO DELLA CONOSCENZA NELLA DINAMICA DI LUNGO PERIODO
    DEL CAPITALISMO: L'IPOTESI DEL CAPITALISMO COGNITIVO     19
    di Didier Lebert e Carlo Vercellone

    Economia della conoscenza, rivoluzione informatica,
    economia basata sul sapere, capitalismo cognitivo:
    le parole e le cose                                      21
    Capitalismo industriale e economia della conoscenza      23
    La crisi del capitalismo industriale e la transizione
    verso il capitalismo cognitivo                           29

 2. ELEMENTI PER UNA LETTURA MARXIANA
    DELL'IPOTESI DEL CAPITALISMO COGNITIVO                   39
    di Carlo Vercellone

    Introduzione                                             39
    Divisione del lavoro e rapporti sapere/potere. Terreno
    primo e fondamentale dei conflitti capitale/lavoro       41
    L'originalità dei Grundrisse: il General Intellect
    come superamento della sussunzione reale del lavoro
    al capitale                                              49
    Conclusioni                                              54

 3. ROTTURE E DISCONTINUITÀ NELLA DINAMICA
    DELLA DIVISIONE DEL LAVORO                               59
    di Geneviène Schméder

    Alcuni principi tradizionali della divisione
    del lavoro                                               59
    Il cambiamento tecnologico e le nuove forme
    organizzative                                            62
    La riconfigurazione in reti                              63
    L'organizzazione del lavoro all'interno dell'impresa
    e il lavoratore polivalente                              65
    Conclusioni                                              69

 4. DIVISIONE INTERNAZIONALE DEL LAVORO E
    ECONOMIA DELLA CONOSCENZA                                71
    di El Mouboub Mouhoud

    Dal fordismo alla divisione cognitiva del lavoro:
    interpretare i cambiamenti strutturali                   72
    Cambiamenti delle logiche di localizzazione e di
    specializzazione internazionale                          77
    Conclusioni                                              82
    Appendice                                                84


PARTE II.
TRASFORMAZIONE DELLA DIVISIONE DEL LAVORO E
PROCESSO DI FINANZIARIZZAZIONE                               87


 5. METACAPITALISMO E TRASFORMAZIONI DELL'ORDINE PRODUTTIVO  89
    di Pierre Dockès

    Un primo capitalismo liberale e industriale (1770-1880)  93
    Il capitalismo monopolista: dalla depressione della fine
    del XIX secolo alla grande crisi                         98
    Il fordismo                                             104
    Il neocapitalismo: fondamenti e instabilità del nuovo
    modo di accumulazione                                   109
    Per concludere: due o tre periodi?                      112

 6. LE FORME DI APPROPRIAZIONE DEL «COGNITIVO» A BENEFICIO
    DEL CAPITALISMO FINANZIARIO                             117
    di François Chesnais

    Un punto di partenza metodologico e alcuni fatti
    stilizzati                                              118
    Aumento del tasso di sfruttamento, «corporate governance»,
    reti aziendali e TIC                                    121
    Quante imprese lasciano veramente spazio al «cognitivo»?123
    Conclusioni                                             125

 7. IL CAPITALE FINANZIARIO ALLA BASE DEI RAPPORTI
    DI PRODUZIONE CONTEMPORANEI                             129
    di Claude Serfati

    Una nuova tappa nell'evoluzione del capitalismo         130
    Mondializzazione del capitale, traiettorie nazionali e
    «Fondi pensione alla francese»                          135
    Conoscenza, innovazioni e qualifiche del lavoro         138
    Conclusioni                                             147

 8. CRISI DEL WELFARE, REDDITO DI ESISTENZA ED
    EUTANASIA DEL RENTIER COGNITIVO                         151
    di Stefano Lucarelli e Jacopo Mazza
    Introduzione                                            151
    Elementi di crisi dello stato sociale                   152
    Una proposta eterodossa per «cambiare» il nostro welfare:
    il reddito di esistenza                                 161
    Note sulla rendita                                      162
    Accumulazione flessibile e rendita tecnologica          165
    Conclusioni                                             168

 9. DIFFUSIONE DELLE TIC, CAMBIAMENTO DELL'ORGANIZZAZIONE
    E SVILUPPO DEI MERCATI BORSISTICI                       171
    di Patrick Dieuaide

    Effetti delle TIC sul ciclo di valorizzazione del
    capitale produttivo                                     172
    La dinamica dei mercati borsistici                      176
    Per concludere: verso un capitalismo cognitivo          184


PARTE III.
TRASFORMAZIONI DELLA DIVISIONE DEL LAVORO E NUOVE NORME
DI DISTRIBUZIONE: IL REDDITO SOCIALE GARANTITO              187


10. MUTAZIONE DEL CONCETTO DI LAVORO PRODUTTIVO E
    NUOVI NORME DI DISTRIBUZIONE                            189
    di Carlo Vercellone

    Reddito minimo di sussistenza e
    Reddito sociale garantito                               190
    Le questioni della legittimità e del finanziamento
    del reddito sociale garantito                           193
    Conclusioni                                             204

11. MERCATO DEL LAVORO, CONOSCENZA, BIOECONOMIA:
    PER UN NUOVO PARADIGMA TEORICO DELL'ECONOMIA POLITICA   209
    di Andrea Fumagalli

    Introduzione                                            209
    La teoria del funzionamento del mercato del lavoro      211
    Lo scambio nel mercato del lavoro è vero scambio?       216
    Lavoro, capitalismo cognitivo e bioeconomia             220
    Conclusione n. 1                                        230
    Conclusione n. 2: reddito di esistenza, perché no?      233

12. CAPITALISMO COGNITIVO E NUOVE FORME DI CODIFICAZIONE
    DEL RAPPORTO SALARIALE                                  237
    di Yann Moulier Boutang

    Le nuove caratteristiche della produzione di valore     238
    Elementi per un «tableau économique» della produzione   241
    nel capitalismo cognitivo                               241
    La trasformazione della codificazione salariale
    nel capitalismo cognitivo                               245
    Appendice                                               247

13. DALLA GIUSTIZIA COMMUTATIVA ALLA GIUSTIZIA DISTRIBUTIVA:
    IL REDDITO DI CITTADINANZA                              249
    di René Passet                                          257


    POSTFAZIONE
    di Bernard Paulré                                       258

    Le trasformazioni della divisione del lavoro            258
    La sfera finanziaria nel capitalismo contemporaneo      265

Bibliografia                                                271

 

 

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Pagina 11

INTRODUZIONE
di Carlo Vercellone



Questo lavoro si riallaccia ad un'analisi dei mutamenti del capitalismo che parte dal ruolo strutturante delle trasformazioni della divisione del lavoro per interrogarsi sull'ipotesi di un possibile crepuscolo del capitalismo industriale.

Questa scelta metodologica segue la strada tracciata dai padri fondatori dell'economia politica. Infatti Adam Smith, sin dal capitolo primo de La Ricchezza delle nazioni, considera gli «effetti della divisione del lavoro sull'industria generale della società» lo sprone più potente della rivoluzione industriale, che egli illustra attraverso il famoso esempio della fabbrica degli spilli. Possiamo retrospettivamente affermare che la crescita fordista ha rappresentato sotto molti aspetti l'esito storico del modello industriale di cui Smith aveva saputo anticipare i tratti e le tendenze essenziali. Da una parte, grazie all'associazione dei principi tayloristi e della meccanizzazione, la forza-lavoro si integra con un sistema sempre più complesso di strumenti e macchine. La produttività può essere allora rappresentata come una variabile le cui determinanti non tengono più in alcuna considerazione le conoscenze dei lavoratori. In questo senso, la rappresentazione smithiana della divisione tecnica del lavoro, caratterizzata dalla parcellizzazione del lavoro e dalla separazione dei compiti di progettazione ed esecuzione, conosce una sorta di compimento storico: la conoscenza e la scienza applicate alla produzione (progettate dagli ingegneri delle grandi imprese) si sono separate dal lavoro collettivo e, come annunciava Smith, sono divenute «come ogni altro impiego, la principale o la sola occupazione di una classe particolare di cittadini» (Smith 1991, p. 77). Dall'altra il potere di accumulazione del capitale industriale – poco importa se la mano invisibile del mercato è rimpiazzata dalla mano visibile dei manager (Chandler 1988) – si afferma non solamente nell'organizzazione della produzione, ma anche in rapporto alla sfera finanziaria. Quest'ultima, particolarmente sotto la forma di credito, si sviluppa essenzialmente in funzione dell'espansione dell'anticipazione di capitale che, secondo Smith, condiziona e governa la riproduzione allargata del capitalismo industriale. La crisi sociale del fordismo ha determinato l'esaurimento delle modalità tayloriste di conseguimento di incrementi di produttività. Più in generale, essa ha messo radicalmente in discussione la dinamica delle relazioni incrociate che riguardano l'economia della conoscenza e i rapporti capitale/lavoro e finanza/produzione. Per questo motivo questa crisi potrebbe essere interpretata come un vero capovolgimento storico all'interno della dinamica di lungo periodo del capitalismo. Questo capovolgimento si manifesta in particolare attraverso due tendenze principali del capitalismo contemporaneo.

La prima riguarda la diffusione e il ruolo centrale della conoscenza, all'interno di una organizzazione sociale della produzione che tende sempre più a superare i confini delle imprese. I1 sapere non è più, come sosteneva Smith, monopolio di una classe particolare di cittadini, e questa diffusione sociale del sapere trasforma la dinamica del progresso tecnico e il rapporto capitale/lavoro. Derivano da ciò il declino storico del capitalismo industriale nato con la grande fabbrica manchesteriana e il passaggio verso una nuova forma post-industriale di capitalismo che potrebbe essere definito capitalismo cognitivo, nel senso che la produzione e il controllo delle conoscenze divengono la posta in gioco principale della valorizzazione del capitale. In questo passaggio, i modelli di rete, di laboratorio di ricerca e di relazioni di servizi, potrebbero, in un certo senso, giocare lo stesso ruolo che la fabbrica degli spilli di Smith ha giocato nell'avvento del capitalismo industriale. Il ruolo centrale che la nozione di tempo impartito giocava all'interno del capitalismo industriale sembra, nello stesso movimento di trasformazione, cedere il posto, nel capitalismo cognitivo, alla nozione di tempi sociali necessari alla costituzione e alla valorizzazione dei saperi. Queste trasformazioni nella divisione del lavoro e nell'economia della conoscenza vanno di pari passo con i cambiamenti profondi che riguardano i meccanismi di regolazione del mercato del lavoro. In particolare, lo sfaldamento del modello canonico del rapporto salariale (il contratto a tempo indeterminato) e la crisi del sistema di tutela sociale costruitogli attorno, si combinano con un importante processo di desalarizzazione formale della manodopera. Un'autonomia crescente delle conoscenze dei lavoratori si trova così associata a una precarietà altrettanto importante che riguarda le condizioni di impiego e di remunerazione della forza lavoro, secondo una relazione sulla quale sarebbe opportuno interrogarsi.

La seconda tendenza riguarda un imponente processo di finanziarizzazione. Tuttavia, sono rari i lavori che accostano la genealogia del processo di finanziarizzazione alle trasformazioni della divisione del lavoro e del rapporto salariale. In effetti, la maggior parte delle analisi considerano la globalizzazione finanziaria come il risultato del crollo del sistema di Bretton-Woods che, secondo Robert Reich (1993), aveva segnato l'apogeo del nazionalismo economico. Queste analisi si basano sull'ipotesi secondo la quale, nella dinamica storica del capitalismo, esisterebbe un eterno contrasto tra la logica universale dell'espansione del capitale denaro e i limiti che il potere politico degli Stati tendono a imporre a questa espansione. La fase attuale corrisponderebbe allora ad un nuovo capovolgimento storico nel rapporto conflittuale tra il potere degli Stati e la tendenza della sfera finanziaria a sfuggire a ogni forma di regolamentazione. Pertanto, le relazioni tra crisi del rapporto salariale, trasformazioni della divisione del lavoro e repentino sviluppo della logica della finanziarizzazione sono trascurati. Uno degli scopi di questo lavoro è tentare di colmare almeno in parte questa lacuna, collegando questi aspetti dell'analisi agli altri cambiamenti strutturali che la finanziarizzazione implica nella regolazione del rapporto salariale, sia che si tratti della governance delle imprese o del nuovo ruolo giocato dal risparmio delle amministrazioni e dai fondi pensione.

Più in generale, i contributi qui raccolti si organizzano attorno alle seguenti domande. L'evoluzione attuale dell'organizzazione del lavoro e dell'economia della conoscenza corrisponde all'esaurimento della logica secondo la quale, seguendo Smith, si presume che la divisione tecnica del lavoro agisca sulla produttività e promuova il cambiamento tecnico e organizzativo? A questo riguardo, si può affermare che il modello della fabbrica degli spilli non sia stato in ultima istanza che una parentesi storica all'interno della dinamica del capitalismo? Se la risposta è affermativa, in che senso la diffusione e il ruolo primario del sapere definiscono l'apertura verso un XXI secolo postsmithiano? E quale sarebbe allora il modello che, alla stregua dell'esempio smithiano della fabbrica degli spilli per l'avvento del capitalismo industriale, potrebbe sintetizzare, con alcuni fatti stilizzati (nel senso di Kaldor), le nuove determinanti della divisione del lavoro e del progresso tecnico nell'ambito del capitalismo cognitivo? I diversi modelli che le teorie della crescita endogena e di una knowledge based economy hanno elaborato, spiegano il cambiamento attuale della divisione del lavoro e del nuovo ruolo giocato dalla conoscenza? In che modo, infine, lo sviluppo dell'economia della conoscenza è all'origine di nuovi dualismi che riguardano il mercato del lavoro e la specializzazione nella produzione delle nazioni e dei territori?

La globalizzazione finanziaria sarebbe dunque indipendente dalle trasformazioni che colpiscono i rapporti di lavoro? O, al contrario, gli sconvolgimenti che la crisi sociale del fordismo ha provocato nella divisione del lavoro e nel rapporto salariale hanno giocato un ruolo primario nella finanziarizzazione del capitalismo contemporaneo? Quali sono le forme di articolazione e di captazione del sapere da parte del capitale finanziario? Quali sono i possibili scenari di evoluzione della regolazione del rapporto salariale e del sistema di protezione sociale nel nuovo capitalismo? Quale ruolo potrebbe qui giocare lo sviluppo dell'azionariato salariale e dei fondi pensione? Esiste un'alternativa al modello americano di cui l'Europa potrebbe essere portavoce? Infine, queste trasformazioni delle sfere produttive e finanziarie, non dovrebbero far nascere una riflessione sulla necessità di nuove norme di distribuzione? In particolare, la questione di un reddito garantito che sia indipendente dall'impiego, non potrebbe trovare nuovi fondamenti teorici nella considerazione del carattere sempre più sociale della crescita della produttività e delle esternalità positive legate alla diffusione e al ruolo motore del sapere?

Per rispondere a queste domande, questo lavoro si propone di coniugare teoria e storia economica recuperando una visione centrata sulla dinamica a lungo termine del capitalismo. Questa prospettiva storica sembra tanto più necessaria se si considera che il capitalismo contemporaneo, sebbene segni una rottura con le tendenze della divisione del lavoro promosse dalla prima rivoluzione industriale, presenta numerose analogie con la struttura del capitalismo anteriore alla prima rivoluzione industriale.

Il piano di questo lavoro si articola in tre parti, destinate a rendere conto dei diversi aspetti e delle diverse implicazioni che le trasformazioni della divisione del lavoro hanno sulla finanziarizzazione e la regolazione del rapporto salariale.

La prima parte, Dal capitalismo industriale all'economia della conoscenza: verso un XXI secolo postsmithiano?, si interroga sull'ipotesi di una nuova tappa storica della divisione del lavoro corrispondente all'avvento di un'inedita forma di capitalismo, definita col termine di capitalismo cognitivo da alcuni degli autori dei contributi qui raccolti. Ne deriva un dibattito centrato tanto sull'importanza delle fratture intervenute rispetto alla logica dello sviluppo del capitalismo industriale quanto sull'impatto di una «economia fondata sulla conoscenza» sulle trasformazioni del rapporto salariale.

La seconda parte, Trasformazione della divisione del lavoro e mercati finanziari, tratta una delle questioni più complesse (e meno analizzate) che riguarda i rapporti dinamici tra le trasformazioni della divisione del lavoro e le cause dell'attuale processo di finanziarizzazione.

La terza parte, Trasformazioni della divisione del lavoro e nuove norme di distribuzione: il reddito sociale garantito (RSG), si propone di articolare l'analisi delle trasformazioni della divisione del lavoro e del processo di valorizzazione del capitale con la riflessione sulle nuove norme di ripartizione e ridistribuzione del reddito. Il problema centrale qui affrontato riguarda un reddito sociale garantito che sia indipendente dall'impiego e le cui basi poggino sull'analisi dei cambiamenti dell'organizzazione sociale della produzione.

Bernard Paulré, infine, tenta nella sua postfazione una sintesi del dibattito sull' esaurimento del capitalismo industriale e i cambiamenti della divisione del lavoro ponendo l'accento sull'esistenza di due paradigmi alternativi, il capitalismo cognitivo e il capitalismo finanziarizzato.

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Pagina 20

ECONOMIA DELLA CONOSCENZA, RIVOLUZIONE INFORMATICA, ECONOMIA BASATA SUL SAPERE, CAPITALISMO COGNITIVO: LE PAROLE E LE COSE

La scelta metodologica di seguire un approccio che combina teoria, storia e trasformazione dei rapporti sociali nasce dall'esigenza di superare alcuni limiti presenti nel dibattito sull'economia della conoscenza e dell'immateriale, che impediscono di formulare un'analisi articolata del «nuovo capitalismo». Inoltre, bisogna constatare che «la nozione di economia fondata sul sapere è ancora mal definita e, presi all'interno del rumore e del furore della storia, è ancora difficile svolgere un'analisi coerente» (Guellec 2002, p. 131).

Questa situazione dipende, secondo noi, da due difficoltà teoriche che hanno a che fare con il ruolo svolto dalla conoscenza e dall'immateriale nel funzionamento del sistema economico: 1) la prima difficoltà deriva dal vizio di affrontare il tema della conoscenza partendo da modelli teorici generali con validità in ogni tempo e spazio, fondati sulla separazione tra l'analisi economica e quella dei rapporti sociali. La tendenza a formulare leggi economiche universali è, a diversi livelli, il tratto comune delle teorie neoclassiche del capitale umano e della crescita endogena (Becker e Murphy 1992; Lucas 1988; Romer, 1990). In questo contesto, la conoscenza è analizzata in un quadro d'analisi che tende «a rifiutare l'esistenza di processi storici nella dinamica dei sistemi economici» (CGP 2002, p. 23). In altre parole, per questo approccio, come rivendica Howitt (1996), la novità non sta nell'affermazione storica di un' economia fondata sulla conoscenza (EFC), ma piuttosto nell'esclusiva formazione di un' economia della conoscenza come sottoinsieme della scienza economica, finalizzata allo studio della produzione di conoscenza, intesa come nuovo fattore produttivo. Si tratta di uno dei maggiori paradossi a cui ci ha abituato la scienza economica, nel tentativo di arrivare a formulare un unico modello del funzionamento dei sistemi economici: la teoria ignora o nega l'importanza dei cambiamenti strutturali che stanno alla base della nascita di nuovi campi di ricerca, in questo caso la tematica della conoscenza.

2) La seconda difficoltà sta nella visione riduttiva del ruolo della conoscenza propria alla maggior parte delle interpretazioni relative al sorgere di una EFC. Certo, l'interesse di questi approcci è di evidenziare l'esistenza di discontinuità storiche. Tuttavia, l'origine di una EFC è spiegata essenzialmente dalla mutata ampiezza del fenomeno, una sorta di passaggio hegeliano dalla quantità alla qualità. Questa accelerazione della storia è l'esito dell'incontro, a mo' di shock, di due fattori: da un lato, una tendenza di lungo periodo all'aumento relativo della quota di capitale detto «intangibile» (istruzione, formazione, R&S, sanità), dall'altro, il cambiamento nelle condizioni di riproduzione e trasmissione della conoscenza e dell'informazione grazie alla «diffusione spettacolare» delle nuove tecnologie di comunicazione e informazione (TIC) (Foray 2000, Foray e Lundvall 1997). Quest'ultimo punto contiene senza dubbio una parte di verità, ma comporta almeno due rischi. Il primo è il determinismo tecnologico. Alle TIC viene attribuito un ruolo guida nel passaggio alla «produzione di massa della conoscenza e dei beni immateriali», secondo uno schema meccanicistico simile all'approccio che – per Thompson (1988) – fa della macchina a vapore il vettore che conduce dalla prima rivoluzione industriale alla formazione della classe operaia e alla produzione di massa dei beni materiali. Una tale distorsione – come mostra Paulré (2002) – è tipica di molti approcci alla New Economy, tendenti a identificare un'EFC con la rivoluzione informatica. Questa visione va di pari passo con l'incapacità di operare una netta distinzione tra il concetto di informazione e quello di conoscenza, dove quest'ultimo si fonda sulla capacità cognitiva di interpretare e mobilitare l'informazione, che di per se stessa sarebbe altrimenti una risorsa sterile.

Il secondo rischio riguarda il riduzionismo storico di un approccio che, se propone di definire la nozione di EFC come «categoria della storia economica della crescita», tuttavia tende a considerarla come semplice ampliamento della variabile «conoscenza» nell'economia. La maggior parte egli approcci all'EFC sono, infatti, caratterizzati da una visione positivista e non conflittuale della scienza e della tecnologia che porta ad eludere le contraddizioni sociali, culturali, etiche insite nella dinamica di un'EFC. Da questo punto di vista, forte è la tendenza a trattare la produzione di conoscenza e il progresso tecnologico a prescindere dall'analisi dei rapporti sociali e dei conflitti che, per dirla con Marx, hanno attraversato tutta la storia del capitalismo intorno alla questione cruciale del controllo delle «potenze intellettuali della produzione».

In conclusione, il limite metodologico maggiore degli approcci in termini di EFC è di dimenticare che la novità dell'attuale congiuntura storica non sta solo nella semplice messa in opera di una EFC, ma in una EFC subordinata e inquadrata nelle forme istituzionali che definiscono l'accumulazione del capitale. È da questa dimenticanza che, a nostro parere, deriva la difficoltà di definire con precisione la nozione di economia fondata sui saperi e il senso e l'importanza di questa transizione.

Ed è proprio per precisare il senso delle trasformazioni attuali che è stata proposta la nozione di capitalismo cognitivo, al fine di cogliere la connessione totale tra lo sviluppo delle forze produttive e quello dei rapporti sociali di produzione. Questa esigenza è presente nello stesso concetto di capitalismo cognitivo, con il quale si intende focalizzare l'attenzione sul rapporto dialettico tra i due termini che lo compongono:

1) il termine capitalismo designa la permanenza, nella metamorfosi, delle variabili fondamentali del sistema capitalistico: in particolare, il ruolo guida del profitto e del rapporto salariale o più precisamente le differenti forme di lavoro dipendente dalle quali viene estratto il plusvalore;

2) l'attributo cognitivo mette in evidenza la nuova natura del lavoro, delle fonti di valorizzazione e della struttura di proprietà sulle quali si fonda il processo di accumulazione e le contraddizioni che questa mutazione genera. Da questa prospettiva, ciò che conta è cogliere la storicità del fenomeno conoscenza, identificando la dimensione poliedrica e le contraddizioni che caratterizzano la sua dinamica. La semplice osservazione empirica della storia mostra come la dinamica di lungo periodo del capitalismo sia segnata non da un solo modello immutabile dell'economia della conoscenza ma, piuttosto, da differenti modi di regolazioni e regimi di produzione della conoscenza. Questi ultimi evolvono in relazione alla trasformazione delle forme istituzionali che – secondo la scuola della regolazione – caratterizzano la storia del capitalismo e la sua capacità di riprodursi tramite un'incessante metamorfosi dei rapporti sociali fondamentali. Ed è proprio in rapporto a queste forme istituzionali che in questo contributo ci sforzeremo di analizzare la complessa interazione tra tre dimensioni principali che definiscono la dinamica della produzione, della circolazione, dell'uso e della diffusione della conoscenza.


1) La prima dimensione concerne il rapporto salariale, e, più fondamentalmente, il rapporto capitale-lavoro. Essa rinvia alla relazione, spesso conflittuale, tra due aspetti connaturati all'economia della conoscenza:

a) i saperi incorporati e messi in moto dal lavoro vivo: la loro analisi deve essere condotta sulla base della divisione tecnica e sociale del lavoro e dei meccanismi istituzionali che regolano l'accesso ai saperi e definiscono il livello generale della formazione nella forza-lavoro;

b) i saperi incorporati nel capitale sotto forma di capitale fisso (capitale materiale) o sotto la voce di risorse o beni immateriali (R&S, marchio, software, brevetti, ecc.). La relazione tra questi due aspetti dei saperi è al centro della caratterizzazione storica di differenti configurazioni del rapporto capitale-lavoro.

2) La seconda dimensione rinvia allo statuto storico del bene «conoscenza». Esso spazia dal considerare la conoscenza, ad un estremo, come merce, suscettibile di appropriazione privata, e, all'altro estremo, come bene pubblico, libero, sottratto alla logica di mercato. L'analisi di questo aspetto, oggi al centro di un vivace dibattito, porta ad una questione nodale, quella relativa all'evoluzione dei diritti di proprietà intellettuale (DPI) e della regolazione istituzionale che riguarda il rapporto tra il sistema della scienza «aperta» e quello della scienza «chiusa».

3) La terza dimensione riguarda il ruolo del sapere quale variabile competitiva a livello micro, macro e mesoeconomico. Esso risulta decisivo nell'analisi storica delle forme di concorrenza e dell'evoluzione della divisione internazionale del lavoro. Questi tre aspetti, fra loro correlati, concorrono a definire una logica coerente di regolazione e produzione di conoscenza dominante in un dato periodo storico. In quest'ottica, nelle sezioni che seguono identificheremo la successione storica delle due logiche distinte di produzione e di regolazione della conoscenza: quella relativa al capitalismo industriale e quella relativa all'emergere di un «nuovo sistema storico di accumulazione», definito capitalismo cognitivo.

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CAPITOLO 11
MERCATO DEL LAVORO, CONOSCENZA, BIOECONOMIA:
PER UN NUOVO PARADIGMA TEORICO DELLECONOMIA POLITICA
Andrea Fumagalli



INTRODUZIONE

Il pensiero economico dominante ha sempre avuto la pretesa di considerare la scienza economica come disciplina deputata all'analisi universalistica delle relazioni economiche di scambio tra singoli individui. Il ruolo del contesto storico è stato quasi sempre marginale. Eppure l'economia politica con la teoria economica classica (da Quesnay, a Smith e Ricardo) era nata e si era sviluppata come scienza autonoma proprio perché storicamente contestualizzata, all'indomani di quel poderoso processo di mutazione socio-economica rappresentato dalla rivoluzione industriale e dalla nascita del sistema capitalistico di produzione.

Con il passaggio dalla teoria economica classica a quella neoclassica, le peculiarità storiche del capitalismo scompaiono. Postulando la neutralità della moneta e il primato del processo di scambio su quello produttivo, i rapporti sociali così come si sono determinati nel divenire storico svaniscono, la differenza tra produzione agricola e produzione manifatturiera risulta irrilevante, il ruolo del progresso tecnologico diviene qualcosa che ha che fare con le scienze e l'ingegneria. L'economia politica diventa la scienza che descrive in modo rigoroso il comportamento economico dell'individuo razionale in uno stato di natura che si astrae del tutto dal contesto reale.

Con lo sviluppo dell'economia neoclassica, a partire da Walras, ma soprattutto con Marshall e Pareto, inizia a dispiegarsi un dispositivo ideologico di controllo e di trasmissione del pensiero dominante che non ha uguali in nessun altra disciplina scientifica e umanistica, almeno dopo la critica kantiana della metafisica aristotelica. A differenza del dispositivo disciplinare sul lavoro e sulla società descritto da Foucault (1975), in questo caso è forse più opportuno parlare di diffusione nell'accademia economica di forme di auto-controllo sociale di natura più deleuziana. Tale dispositivo si attua essenzialmente tramite due vie: quella metodologica e quella di merito.

Dal punto di vista metodologico, l'economia politica si dota come unica forma di trasmissione del sapere e di comunicazione dei risultati quella fondata sulla logica formale-matematica. Tutti i principali concetti economici — di natura astratta (quali utilità, benessere, preferenza, ecc.) — di natura antropomorfica, non misurabili, vengono tradotti nel linguaggio matematico, cioè in concetti aritmomorfici, con forzature che sono rese possibile grazie all'accettazione di postulati fondamentali (fundamentals). Tali fundamentals, una volta affermati, non vengono più messi in discussione e stanno alla base della teoria comportamentale dell' homo oeconomicus: una nuova antropologia economica metastorica (Volpi 1984). Qualsiasi esposizione economica, per essere accettata ed entrare nell'angusto spazio di discussione dell'accademia economica, deve così essere tradotta in modelli, altrimenti non ha un sufficiente grado di rigore scientifico.

Ne consegue che i vincoli posti dalla traduzione matematico-quantitativa di concetti teorici eminentemente qualitativi diventano un potente meccanismo di selezione e controllo della circolazione delle idee economiche. Chi fa riferimento alla tradizione economica classica, storicamente determinata, al limite si occupa di sociologia, antropologia oppure di storia del pensiero economico. L'analisi statica delle relazioni economiche, dove il divenire storico non è contemplato (anche per la carenza degli strumenti matematici nell'affrontare la complessità sistemica che ne consegue) tende così a concentrarsi esclusivamente sul concetto di equilibrio, un concetto che presuppone la costante riproducibilità metastorica della situazione economica di volta in colta rappresentata, con l'effetto di rendere le condizioni di equilibrio il punto di normazione a cui tutto il sistema economico deve tendere (Donzelli 1986; Lunghini 1979 e 1993).

L'astrazione analitica che ne consegue disconosce il principio di rilevanza, secondo il quale una teoria è tanto più fondata, oltre ad essere logicamente coerente, quanto più è in grado di spiegare e interpretare la fenomenologia del reale. Tanto più l'economia politica si astrae nel mondo dei sogni tanto pio risulta inpenetrabile e quindi sapere d'élite. Come ha affermato Igor Prígogine, nel 1989:

L'economia politica è forse l'ultima scienza rimasta a non aver accettato il principio della relatività di Einstein (Relazione tenuta al MC2 Institute dell'Università di Austin, Texas. Usa, il 24 maggio 1989. Testimonianza personale).

Il misconoscimento del principio di rilevanza è tanto più paradossale se si osserva che proprio a partire dagli ultimi due decenni del secolo XIX, la storia economica vede sorgere due forme di organizzazione economica che contraddicono in pieno, da un punto di visto di evoluzione storica, l'approccio economico fondato sull'individualismo metodologico: l'impresa e i sindacati.

La teoria del funzionamento del mercato del lavoro è, al riguardo, paradigmatica.


LA TEORIA DEL FUNZIONAMENTO DEL MERCATO DEL LAVORO

Nella teoria neoclassica e del libero mercato, la razionalità sta alla base della teoria del comportamento individuale, sulla base del principio di reciproca indifferenza. Si postula cioè che il comportamento razionale dell'individuo, tendente a massimizzare una propria funzione obiettivo, non incide negativamente né condiziona l'operato, altrettanto razionale, di un altro individuo. La razionalità economica liberale non contempla nessuna forma di social responsability, (si potrebbe parlare anche di principio di reciproca solidarietà, cfr. Gould 1988, Young 1990 e 2001, Orsi 2004). Il concetto di razionalità è quindi interamente riferito all'individuo. Il modello di equilibrio economico generale che ne consegue, secondo le prime trattazioni di Walras (1874, trad. it. 1974), proseguite con le analisi di Pareto (1896-97, trad. it. 1961) e definitivamente sistematizzate nel modello di Arrow-Hahn (1971) nell'arco di un secolo esatto (1871-1971), dimostra che sulla base dell'esistenza di una siffatta razionalità individuale, il libero scambio delle merci, consentito dalla libertà delle decisioni di scambio e dalla piena flessibilità dei prezzi in tutti i mercati, consente di raggiungere anche la massima efficienza possibile, a cui è associabile il massimo benessere individuale (Pareto-efficienza). È quindi il mercato il luogo in cui razionalità ed efficienza diventano complementari e consentono che i comportamenti individuali portino ad un risultato sociale ottimale. In questo contesto, l'analisi macroeconomica è quindi una semplice derivazione dall'analisi microeconomica.

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LO SCAMBIO NEL MERCATO DEL LAVORO È VERO SCAMBIO?

Considerare il lavoro come merce implica che lo scambio in oggetto sia rivale e solvibile.

Uno scambio è detto solvibile quando implica il passaggio dei diritti di proprietà sulla merce scambiata in cambio del suo valore: chi offre, vende i diritti di proprietà, chi domanda, acquista i diritti di proprietà.

Ne consegue che lo scambio privato tra beni è uno scambio tra beni rivali, altrimenti il passaggio dei diritti di proprietà in cambio del valore del bene non può avvenire. Infatti, il valore di una merce (la sua solvibilità) deriva dall'esclusività d'uso di tale merce.

Uno scambio solvibile privato è detto libero quando valgono le due seguenti condizioni:

- i due contraenti si muovono su un piano paritario, vale a dire non sono soggetti a nessun fattore discriminatorio ex-ante, godono di autonomia decisionale effettiva e potenziale uguale e massimo. Le differenze di comportamento sono dettate dalle diverse preferenze soggettive e da un diverso grado oggettivo di incertezza.

- vi è piena e totale flessibilità dei prezzi, ovvero nessuno dei due contraenti può imporre un prezzo all'altro (agenti price-taker).

Non tutti i mercati privati analizzati nell'economia politica implicano scambi solvibili. L'eccezione più eclatante è quello della moneta-credito.

Anche nel mercato del lavoro si pone la questione se lo scambio sia solvibile. Il punto è controverso. Il problema è se l'oggetto dello scambio – che definiamo disponibilità lavorativa – sia o non sia separabile dall'essere umano.

Per disponibilità lavorativa si intende la cessione di tempo di vita da parte degli individui finalizzata all'ottenimento di un reddito monetario tramite l'offerta di una prestazione lavorativa. Occorre notare che il concetto di disponibilità lavorativa non è assimilabile al più generale termine di prestazione lavorativa. Per prestazione lavorativa si intende il modo con cui viene utilizzata la disponibilità lavorativa in funzione del grado di alienazione contenuto. Il rapporto tra lavoro e alienazione rimanda a una tematica che è sempre stata al centro del dibattito filosofico degli ultimi due secoli e che è in parte scomparsa negli ultimi decenni (Napoleoni 1989, Lunghini 2004). In maniera estremamente semplificata, per alienazione del lavoro intendiamo il livello di separazione tra il lavoratore e l'oggetto del suo lavoro. Quando tale separazione è massima, ovvero quando l'oggetto del lavoro viene completamente espropriato al lavoratore, si ha totale alienazione. Lo scambio di lavoro può essere considerato scambio solvibile solo se si scambia disponibilità lavorativa e non prestazione lavorativa. Ovvero, detto in altri termini, lo scambio di lavoro tende ad essere solvibile solo se si è in presenza di alienazione. Considerare solo la disponibilità lavorativa e non la prestazione lavorativa, significa infatti ipotizzare la totale separabilità tra soggetto lavoratore e contenuto/oggetto del lavoro. Il senso del lavoro (qualità della prestazione lavorativa) viene così completamente scisso dal fine del lavoro (ottenere potere d'acquisto per vivere). Nell'economia neoclassica, il concetto di alienazione non esiste perché lo scambio di lavoro implica solo la (libera) disponibilità e viene tenuto in considerazione solo l'aspetto della prestazione lavorativa. Tuttavia, a differenza di tutte le altre merci, la merce «disponibilità lavorativa» non è «fisicamente» separabile dall'agente che ne è detentore (come lo sono le automobili o le patate quando sono poste in vendita). Nello scambio di lavoro, ciò che avviene non è quindi uno scambio effettivo di diritti di proprietà (potere), ma piuttosto uno scambio di disponibilità (potenza).

In conclusione, il lavoro non è merce in quanto tale poiché per sua natura non è solvibile ma viene reso tale dal fatto che, tramite la disponibilità al lavoro, il lavoratore è in grado di definire una domanda solvibile. Di fatto, pur se libero, il lavoro si immedesima nel lavoratore e nella sua necessità ineluttabile di dotarsi dei mezzi per la sopravvivenza. Il lavoro diventa merce in quanto mezzo di sussistenza: è variabile bioeconomica per eccellenza. A seconda del rapporto tra attività lavorativa ed essere umano, quindi a seconda del grado di alienazione commisurato, la solvibilità del lavoro diventa più o meno evidente e la sua ricattabilità – esemplificata dal dispositivo di comando e controllo sociale e gerarchico – più o meno forte, ma sempre esistente. Ne consegue che lo scambio di lavoro non puo essere considerato esempio di libero scambio.

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POSTFAZIONE
Bernard Paulré



[...]

La divisione del lavoro a livello microeconomico

La divisione del lavoro si declina in molteplici dimensioni. Fin da Smith si distingue in effetti la divisione del lavoro nell'impresa e la divisione che si instaura fra le imprese. Si distingue anche la divisione manifatturiera dalla divisione sociale. Si possono completare queste distinzioni opponendo una divisione del lavoro verticale (problema della linea gerarchica) e una divisione del lavoro orizzontale. La divisione di cui tratta Smith a partire dall'esempio della fabbrica degli spilli è principalmente orizzontale e manifatturiera. Da quando si è introdotta l'organizzazione, vale a dire le entità in seno all'impresa (le divisioni, i dipartimenti ed i livelli di responsabilità), ci si occupa della divisione verticale. Evidentemente, la natura e l'evoluzione della divisione del lavoro in queste differenti prospettive non devono essere considerate come indipendenti, anche se obbediscono a logiche differenti.

Incrociando i due primi criteri (inter — o intraimpresa da un lato, verticale vs. orizzontale dall'altro), disponiamo di una griglia di analisi che fa risultare quattro tipi di divisione del lavoro. Ma noi possiamo andare ancora più lontano osservando che il modo in cui si realizza ed evolve la divisione del lavoro non è per forza la stessa a seconda del campo in cui essa interviene. Noi proponiamo di introdurre una nuova distinzione articolata in cinque tipi di attività nelle quali si produce una divisione del lavoro:

— le attività di produzione di base (ciò che avviene nei reparti o nella fabbrica),

— le attività manageriali,

— le attività di modificazione o di concezione del processo di produzione,

— le attività di concezione del prodotto,

— le attività di concezione del sistema di management.

È possibile constatare, senza ombra di dubbio, che la divisione del lavoro nella sfera della produzione (la prima della lista), quella che attrae più spesso l'attenzione, non costituisce che uno dei campi nei quali si produce una divisione del lavoro. I due primi insiemi di attività sono in una relazione verticale e la loro distinzione traduce la differenza tra decidere (gestire e controllare) ed eseguire. I tre altri insiemi concernono attività più intellettuali o tecniche.

Su questa base si possono, dunque, distinguere i cinque campi nei quali si manifesta una divisione del lavoro. Queste differenti categorie della divisione del lavoro non sono necessariamente indipendenti, ma, allo stesso tempo, non sono della stessa natura. Infatti, ciascuno di questi insiemi di attività può dar luogo ad un'organizzazione e ad una divisione del lavoro più o meno «spinta». Di una divisione del lavoro si dirà che essa è approfondita se verte su una specializzazione o una maggiore standardizzazione delle attività interessate.

Secondo gli autori, è la divisione del lavoro in campi differenti che è studiata e privilegiata. Peraltro, i vari approcci non sono sempre comparabili. Qui non entriamo, per mancanza di spazio, nei dettagli. Ma se evochiamo le analisi di Smith, di Babbage, di Marx, di Taylor, di Fayol, di Young o di Aoki, solo per citare alcuni nomi, hanno tutti trattato della divisione del lavoro, ma in termini e all'interno di prospettive molto differenti.

Questa presentazione analitica ci sembra necessaria per giustificare la tesi sulla quale vogliamo attirare l'attenzione: è riduttivo parlare de la divisione del lavoro come se si trattasse di un fenomeno omogeneo di cui si possa cogliere globalmente la natura. La divisione del lavoro è un fenomeno complesso per il quale è difficile estrarre degli orientamenti o delle dinamiche con un certo valore di generalità. Senza pretendere di fornire una dimostrazione rigorosa di questo punto, desideriamo giustificarlo attraverso alcune osservazioni destinate a far risaltare le differenze, se non addirittura le evoluzioni divergenti che, secondo i tipi di attività, si possono rilevare. Considereremo qui due tipi.

Per quanto riguarda la divisione del lavoro «manageriale» é noto, a partire dall'opera di Tom Burns e G.M. Stalker (Burns e Stalker 1961), che, a mia conoscenza é la prima dedicata all'analisi dell'organizzazione nelle imprese elettroniche nelle quali (in un ambiente in cui avvengono dei cambiamenti rapidi e inattesi) i modi di gestione burocratici (o meccanici secondo le espressioni degli autori) divengono inefficaci. Essi devono essere rimpiazzati da modalità di gestione «organiche». Mentre la burocrazia poggia, tra le altre cose, su di una divisione del lavoro fondata su una stretta specializzazione, la concezione organica poggia, per esempio, su «una concezione realista dei compiti individuali che è affrontata in funzione di tutti gli aspetti della situazione con i quali l'individuo si confronta» e un «adeguamento e una ridefinizione continua dei compiti individuali attraverso delle interazioni tra individui», ecc.

In un opera posteriore di carattere prospettico, Warren Tennis sottolineò l'importanza dei sistemi temporanei (che oggi si potrebbero ribattezzare di gestione a progetto) nell'organizzazione a venire: «Ci saranno dei sistemi temporanei adattivi e capaci di cambiare rapidamente. Ci saranno delle task forces organizzate a partire dai problemi da risolvere, unità che riuniranno al loro interno degli individui relativamente estranei gli uni agli altri e rappresentanti delle competenze diverse» (Tennis e Slater 1968). In breve, la tendenza del management è quella di andare verso più flessibilità; verso la volontà di conciliare una competenza professionale forte, ancorché in evoluzione, e un'implicazione in gruppi e in coordinamenti destinati ad affrontare situazioni complesse e/o nuove.

A proposito delle attività di concezione, si può affermare, in seguito a un certo numero di lavori di ricerca molto recenti, che la distinzione tra la divisione del lavoro e quella che si può chiamare la «divisione della conoscenza» debba essere sottolineata e occupare ormai un posto importante. Numerose ricerche in corso mettono in evidenza la differenza tra ciò che le imprese fanno e ciò che le imprese sanno: «le imprese investono nell'ingrandimento delle loro basi di conoscenza riducendo le loro basi di produzione» (Brusoni, Principe e Pavitt 2001). Detto altrimenti, si può ritenere che la specializzazione della produzione tra le imprese si accresca allorché la specializzazione della conoscenza non si accresce, o si accresce meno se addirittura non decresce.

In un differente ordine di idee, ma nello stesso campo d'analisi, si può osservare che la divisione delle conoscenze (o del lavoro cognitivo) si può trasformare in funzione di elementi del contesto che sono specifici di un settore. Così, la deregolamentazione delle telecomunicazioni, unita al rapido cambiamento tecnico che l'ha accompagnata fa sì che la R&S si sia spostata dagli operatori verso gli equipementiers (produttori di apparecchiature, cfr. Fransman 2002). Si è assistito a una rispecializzazione degli operatori e a un'estensione delle attività degli equipementiers. Globalmente, la divisione del lavoro tra le imprese non si è accresciuta, ma si è tuttavia trasformata. Infine è stato osservato, a partire da una decina d'anni almeno, un triplo movimento:

— despecializzazione dei lavoratori per la produzione e la gestione;

— specializzazione tra le imprese per la produzione (attraverso il forte movimento di esternalizzazione — outsourcing - in corso);

— despecializzazione tra le imprese per la concezione e, più generalmente, per la produzione e la gestione delle conoscenze.

Per ritornare alla questione iniziale: a partire da quale momento si può considerare che l'approccio smithiano alla divisione del lavoro resta pertinente e utile? Se si tratta di sottolineare unicamente la pertinenza del tema della divisione del lavoro come linea di ricerca, ciò non solleva alcun problema. Se si tratta, invece, di decidere quale sia il modo in cui si manifesta per un certo periodo «la» divisione del lavoro, si constata un triplice problema. In primo luogo perché la divisione del lavoro non è unica. Successivamente, perché esistono delle evoluzioni che non sono omogenee a seconda del campo di attività, o secondo i settori nel corso di uno stesso periodo. Infine, perché la legge che sembravano sottolineare Smith e gli altri analisti dell'epoca (principio di una suddivisione crescente, vale a dire una specializzazione crescente per approfondimenti successive) non ha il carattere di generalità o di universalità che in genere le si assegna.


La divisione del lavoro a livello macroeconomico

Quando si passa al livello macroeconomico la divergenza sembra ancora più netta. Così, per illustrare quest'idea: da un lato, Carlo Vercellone sostiene la tesi di una trasformazione radicale della logica stessa del capitalismo, mentre Geneviève Schméder non vede nella divisione del lavoro contemporaneo un motivo sufficiente di rottura con l'analisi smithiana e con ciò che potrebbe significare in termini di evoluzione del capitalismo. Tuttavia, questi due autori si troverebbero senza dubbio d'accordo sull'idea che la conoscenza costituisce un fattore importante.

Il superamento della divisione del lavoro smithiana si fonda sulla predominanza di ciò che si può chiamare il lavoro mentale o intellettuale. La parte di lavoro diretto è in effetti fortemente diminuita e quella di lavoro immateriale è aumentata. Si può arrivare a suggerire che il lavoro materiale stesso si trasforma in lavoro mentale. Le macchine necessitano di una sorveglianza, di una manutenzione, un pilotaggio che suppone delle conoscenze generali, una specializzazione meno ristretta, una qualificazione più ampia. Per di più, il lavoro procede per la capacità di produrre e di gestire una cooperazione produttiva. Si concretizza nelle attività di gestione dell'informazione, di comunicazione e di decisione.

Questa evoluzione, che alcuni definirebbero di capovolgimento (basculement), ci conduce a introdurre la nozione di contenuto informativo o culturale di un bene.

Conveniamo di chiamare bene immateriale o «culturale» un bene il cui valore e l'utilizzo sono senza rapporto diretto essenziale con la sua natura e la sua forma materiale. Un bene materiale è un bene che vale essenzialmente per la sua consistenza e la sua funzione materiale o fisica (energia). Si può definire la nozione di attività o di lavoro materiale in modo analogo. Un lavoro culturale o mentale (o intellettuale) è un lavoro il cui valore non può essere messo in rapporto con il tempo passato, la fatica o l'energia fisica dispensata nel compierlo.

Nella misura in cui un bene immateriale può avere (e di sovente ha) una forma fisica (un CD per esempio), si è indotti a insistere sulla distinzione tra il supporto (forma fisica, materialità del bene) e il contenuto, vale a dire l'utilità o l'effetto atteso del bene.

Allo stesso modo in cui ogni bene immateriale implica sovente una forma fisica, non contestiamo l'idea che il bene materiale è, in una certa misura, culturale poiché, per utilizzarlo, bisogna disporre del suo modo d'impiego, vale a dire di una certa conoscenza o di un'esperienza. La forma fisica non è mai neutra. Ogni oggetto è culturale anche nella misura in cui traduce o esprime un certo livello di sviluppo e di organizzazione della società in cui esiste (es. i lavori di Bertrand Gilles).

Si può andare un po' oltre distinguendo il contenuto informativo o cognitivo di un bene dal suo contenuto simbolico. Il contenuto in informazione o cognitivo deriva dall'insieme di conoscenze determinanti la concezione, la fabbricazione o l'utilizzo di un bene. Il contenuto simbolico deriva dalle attività immateriali che tendono a fissare le norme culturali e artistiche, le forme, le mode, i gusti o a soddisfarli. Concretamente, questo contenuto è in parte determinato nell'impresa non dai dipartimenti impegnati nella concezione o nell' engineering, ma dai dipartimenti di marketing.

Potremmo riprendere, a proposito del lavoro, le distinzioni che abbiamo appena introdotto a proposito del contenuto e il supporto di un bene (materiale o immateriale).

La tesi sviluppata dai sostenitori del capitalismo cognitivo (es. Corsani et al. 2001) consiste nell'affermare la centralità del lavoro immateriale, la quale ha come conseguenza il progresso simultaneo dell'invenzione e dell'imitazione, sebbene l'invenzione, in questo contesto, assuma il ruolo predominante. La teoria dell'invenzione in qualche modo «gratuita e senza lavoro» sembra essere, per Gabriel Tarde, una reazione contro la centralità del lavoro che produce e contro la concezione puramente materiale della ricchezza (Lazzarato 2002). La centralità del lavoro immateriale si manifesta segnatamente con il movimento della scienza e del sapere, di cui si possono osservare gli effetti da due punti di vista: sotto la forma di capitale fisso (macchine) e sotto la forma di capitale vivo (lavoro immateriale).

Karl Marx stesso sembra aver intravisto questo stadio postindustriale dello sviluppo economico, se ci si riferisce al famoso Frammento sulle macchine. Allo stadio di sviluppo in cui sono giunti in modo particolare i paesi occidentali, la scienza ed il sapere formerebbero un sistema (un General Intellect per riprendere l'espressione di Marx: un'intellettualità di massa, un cervello generale). È il corpo sociale, attraverso un insieme di interazioni, di conoscenze, di paradigmi e di comunicazioni, che sarebbe depositario di questo sapere, dunque della capacità di mettere in opera e far funzionare la macchina produttiva.

Si potrebbe vedere in questa idea della società come un immenso cervello agente su un mondo di macchine, la semplice manifestazione di una concezione olistica del sociale. Dunque la manifestazione di un punto di vista dottrinale. Bisogna piuttosto vederci la conseguenza dell'esistenza di indivisibilità innate che caratterizzano il mondo intellettuale o mentale. Per giustificare su altre basi, non quelle fornite da Marx, questo punto di vista, è utile ritornare al tema dell'influenza della cibernetica sull'organizzazione della società, tema inizialmente affrontato da Norbert Wiener. Ritorniamo più precisamente all'interpretazione di George Simondon, opposta a quella di Norbert Wiener e che sembra allacciarsi, senza ovviamente confondersi, alla nozione di General Intellect. Ecco ciò che scrive:

Esiste qualche cosa che permette all'uomo di governare: la cultura che ha ricevuto; è questa cultura che gli da dei significati e dei valori; è la cultura che governa l'uomo, anche se quest'uomo governa degli altri uomini e delle macchine. Ora questa cultura è elaborata dalla grande massa di coloro che sono governati; in questo modo il potere esercitato da un uomo non deriva propriamente da lui, ma si cristallizza e si concretizza solamente in lui; deriva dagli uomini governati e vi ritorna. C'è qui una sorta di ricorrenza (Simondon 1969).

Misuriamo così il fossato che separa un approccio analitico microeconomico della divisione del lavoro da un approccio più globale e storico. Le differenti manifestazioni della divisione del lavoro secondo i campi e i livelli non sono indipendenti. Ma il senso generale e storico di questa interdipendenza globale ha un carattere sistemico, vale a dire un aspetto emergente. La complessità del sistema produttivo preso nella sua globalità è tale che c'è un no-bridge. Ciò chiarisce almeno in parte, le interpretazioni divergenti dell'evoluzione contemporanea della divisione del lavoro.

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