Copertina
Autore Sandro Veronesi
Titolo XY
EdizioneFandango, Roma, 2010, , pag. 400, cop.fle., dim. 14,8x21x2,1 cm , Isbn 978-88-6044-181-2
LettoreGiangiacomo Pisa, 2011
Classe narrativa italiana
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Indice


Prima parte                                               7

Il destino non è invisibile                              11
Il tempo scorre in un verso solo                         31
L'edera è salita più in alto del muro che la sostiene    67
Se esistono le parole per dirlo, è possibile            101


Seconda parte                                           129

Deiscenza                                               133
Oh, la splendente assurdità di essere qui               163
Perché proprio a noi?                                   186
Eppure l'accettarono                                    211
Vergδnglichkeit                                         247


Terza parte                                             275

Impossibile                                             279
XY                                                      308
L'eroe di questa storia                                 354
Il Giorno Zero                                          359


Ringraziamenti                                          369

Fandango Extra                                          371
Arrigo Boito, L'alfier nero                             373


 

 

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Pagina 11

Il destino non è invisibile



Borgo San Giuda non era nemmeno più un paese, era un villaggio. Settantaquattro case, di cui più della metà abbandonate, un bar, uno spaccio di alimentari e la chiesa con la sua canonica — spropositate, in confronto al resto. Fine. Niente giornalaio, niente barbiere, niente pronto soccorso, niente scuola elementare: per tutto questo, e per gli altri frutti della civiltà, bisognava andare a Serpentina, oltre il bosco, oppure a Doloroso, a Massanera, a Gobba Barzagli, a Fondo, a Dogana Nuova, o addirittura giù a Cles. Però c'era un fabbro, per dire, Wilfred, che faceva i chiodi a mano e sembrava Mangiafuoco, e un cimitero con oltre trecento tombe. Vivere lì non aveva senso, ma ci vivevamo in quarantatre — anzi, in quarantadue, da quando era morto il vecchio Reze'. Era un posto che non esisteva quasi, e nessuno riuscirà mai a capire perché quello che è successo sia successo proprio lì, dove non succedeva niente.

Succedeva una cosa sola, d'inverno, a San Giuda: l'arrivo della slitta di Beppe Formento. I Formento erano una delle quattro famiglie di San Giuda — la più potente, si potrebbe dire, se non facesse ridere. Suo fratello e sua sorella possedevano il bar e lo spaccio, e i loro figli erano i soli giovani che vivessero lì. Una, Perla, figlia di Rina, aveva fatto parte della Nazionale di biathlon, e aveva anche vinto una medaglia nella staffetta; l'altro, Zeno, figlio di Sauro, era stato una promessa del salto dal trampolino, ma poi aveva smesso. Beppe Formento amava i cavalli e possedeva un centro ippico, vicino a Serpentina; d'estate c'era un certo giro di villeggianti che andavano a noleggiare i cavalli per fare le passeggiate, e d'inverno Beppe riusciva ad accalappiare una decina di turisti al giorno e li portava a fare un giro sulla slitta a cavalli: vecchi, mamme e bambini piccoli al seguito delle settimane bianche, che trovavano il dépliant negli alberghi della zona e decidevano di provare l'emozione di una gita da XIX secolo. L'itinerario era sempre lo stesso: dal centro ippico su verso il trampolino da salto abbandonato, da lì attraverso il bosco fino all'albero ghiacciato (lo ghiacciava lui stesso, tutti gli anni, col cannone da neve, per dare un'emozione ai suoi clienti), poi dritto a San Giuda e ritorno. Alle dieci in punto, tutte le mattine, Beppe Formento fermava la slitta nella piazza del villaggio, scendeva, annunciava una sosta di venti minuti e i turisti infreddoliti si rifugiavano nel bar di suo fratello a bere caffè e cappuccini. Era lui che portava la verdura fresca e la carne, ogni mattina, e l'acqua minerale, il latte, il caffè, la pasta, il formaggio, il vino e le bibite allo spaccio dei suoi fratelli, su un carrello coi pattini attaccato dietro alla slitta. Mentre i turisti si rifocillavano lui scaricava la roba e poi, prima di ripartire, consigliava a tutti una visita alla chiesa; i turisti gli davano sempre retta e a quel punto entravo in gioco io: li accoglievo all'ingresso, mostravo loro il crocifisso ligneo del XV secolo, il pulpito tardogotico con i suoi bassorilievi, la statua della Madonna delle Selve e quella del nostro Santo, sul conto del quale spiegavo le cose che c'erano da spiegare: San Giuda Taddeo (tutti credono sempre che si tratti di Giuda Iscariota, il traditore), apostolo, fratello di Giacomo il Minore e cugino di Cristo, morto martire in oriente, protettore dei diseredati e di tutti quelli che non hanno speranza. Certe volte le mie parole erano più ispirate, o magari tra i turisti c'erano veramente dei disperati, e allora si perdeva un po' di tempo perché qualcuno decideva di inginocchiarsi davanti alla statua a recitare la preghiera per chiedere una grazia. D'altronde, è una preghiera bellissima. Poi tutti risalivano sulla slitta, Beppe Formento faceva schioccare la frusta e i due cavalli, Zorro e Malinda, ripartivano scampanellando al trotto leggero e delicato che Beppe Formento aveva insegnato loro. Buck, il suo pastore tedesco, restava un altro minuto al caldo del bar, poi scattava al galoppo e raggiungeva la slitta prima che svoltasse la curva che riportava verso il bosco, e così era, da dicembre ad aprile, tutte le mattine, domeniche comprese. Beppe Formento non tornava mai al villaggio, nel pomeriggio: aveva sempre molto da fare al centro ippico, e da quando qualcuno, anni prima, una notte aveva rubato tutte le selle e i finimenti dalla scuderia, dormiva là in una stanzetta dietro l'ufficio.

Tutto questo dovrebbe essere sufficiente a rendere l'idea dello sconvolgimento che è piombato su di noi quella mattina, quando alle dieci la slitta si presentò in piazza, puntuale come sempre, ma vuota. Non c'era Beppe Formento, non c'era Malinda, non c'erano i turisti, non c'era il carrello coi viveri e non c'era Buck che la seguiva. Solo la slitta trainata da Zorro al galoppo, in un terrificante sferraglio di campanacci che ha insospettito immediatamente tutti noi che l'abbiamo udito. Si dice che il destino sia invisibile, ma almeno quella volta, per noi, non avrebbe potuto essere più appariscente. Θ il momento che ha cambiato le nostre vite, tutti lo abbiamo riconosciuto e nessuno di noi potrà mai dimenticarlo: tutti ricorderemo per sempre cosa stavamo facendo (io stavo preparando la marmellata di arance, per esempio), e l'urgenza con cui l'abbiamo interrotto per uscir fuori a vedere, nonostante nevicasse fitto. E nessuno di noi che siamo usciti in piazza dimenticherà gli occhi di quel povero cavallo, la sua espressione terrorizzata, e gli spasmi, credetemi, umani, che percorrevano il suo muso perduto. Se mai una bestia è stata sul punto di parlare, è proprio Zorro quella mattina; ma anche se gli fosse stato dato di farlo, credo che non avrebbe trovato le parole, perché di parole per dire quello che avrebbe dovuto dire non ce ne sono.


X



Sangue. Sulle lenzuola, sul cuscino, dappertutto. Mi hanno ammazzata? Sono entrati mentre dormivo e mi hanno tagliato la gola? Il cuore batte all'impazzata, ho paura: ho paura di scoprire che mi hanno ammazzata. Eppure devo guardare, devo controllare. Sto bene, però, mi sento bene: potrebbe non essere mio, il sangue. E di chi è? Questo mi fa ancora più paura. Mi alzo, fa freddo. Che ore sono? Le dieci e quarantacinque – cioè in realtà le nove e quarantacinque, perché non ho mai rimesso la radiosveglia con l'ora solare: non ho dormito niente – e questo sangue, sul letto, sul cuscino, è sangue mio. Eppure sono viva, sto ritta sulle gambe, e non sento dolore. Il sangue è sulla mano, la sinistra, sulle dita – è sangue fresco. Devo sedermi di nuovo, sto per svenire. Sempre stato così. Anche all'università, la vista del sangue mi faceva svenire. Ecco, seduta va meglio. Dovrei guardarmi allo specchio, lo so, ma ho paura che il sangue sia anche sul viso. Sfigurata non potrei vivere. Ma poi, sfigurata da chi? Alberto? Lui ha ancora la chiave: è impazzito, è venuto qui mentre dormivo e mi ha — ma che sciocchezza: povero Alberto, come mi salta in mente una cosa del genere? Eppure qualcosa è successo, c'è sangue sulle lenzuola, sul cuscino, sulla mia mano – rosso, fresco. Dalla mano sta ancora uscendo, ecco: gocce di sangue, sul pavimento. Devo guardare assolutamente, devo controllare, non devo svenire. Sono un medico o no? Coraggio: la mano, la mano sinistra. Ecco. Le dita. Il dito indice, soprattutto, sulla falange – oh, Dio, no. Oh, no. La cicatrice. Ma com'è possibile? Come diavolo è possibile? Eppure è proprio la cicatrice: s'è riaperta. Ma non è possibile che si sia riaperta – dopo quanto? Era l'ultimo anno in cui facevo le gare, avevo sedici anni – dopo quindici anni. Eppure è proprio la cicatrice, quella cicatrice. Sì, è lei. S'è proprio riaperta, guarda qui. Si vede l'osso, oh Dio, come quando mi tagliai, quindici anni fa – mi sento male, svengo. Si vede l'osso, il sangue continua a uscire a fiotti, io mi sento male ma devo fermarlo, devo fare qualcosa: prendere un fazzoletto, ecco, stringerlo attorno al dito, sì, legarlo, certo – con cosa? L'elastico per i capelli no, non regge; quei cerotti che ho nel bagno andrebbero bene, ma nel bagno c'è lo specchio, e io ho paura di guardarmi allo specchio: e se sono sfigurata? Però devo farlo, e in fretta, sennò va a finire che muoio dissanguata. Ecco, sono in bagno. Ecco, mi guardo allo specchio. Niente, il viso è a posto, solo le occhiaie, e un pallore cadaverico – per forza, sto per svenire, sto per morire dissanguata. E invece no, resisto, respiro e resisto, prendo i cerotti nell'armadietto, anzi no, meglio il cerotto a nastro, ecco qua, una bella legata, il fazzoletto è già zuppo di sangue, e ora che faccio? Respiro, torno in camera, mi risiedo sul letto. Respiro. Yoga. Dentro. Fuori. Dentro. Fuori. Il mantra com'è? So Ham, mi pare. Sì. So Ham. Guarda qua, che macello, sembra davvero che mi ci abbiano sgozzato. Che faccio? Torno al pronto soccorso, certo, c'è Crocetti, è montato quando me ne sono andata io, ci siamo incrociati nel vestibolo: ci penserà lui. Devo vestirmi, però, e sporcherò tutto di sangue: devo mettere la tuta, la felpa, roba che si lavi facilmente – ma poi che me ne importa? Devo evitare di morire dissanguata, che importa se sporco o non sporco i vestiti? E devo fare presto, sto per svenire, ma non posso svenire, anzi devo uscire, ma prima devo prendere le chiavi, già, e il telefonino, e respirare, respirare profondamente – So Ham – e poi uscire, sì, con la giacca a vento e il cappello. Nevica ancora, non posso andare a piedi. Devo rischiare con la macchina. Devo arrivare il prima possibile da Crocetti, lui mi ricucirà. Accidenti, la Clio è quasi coperta di neve, quanto avrà messo in un'ora e mezzo? Almeno dieci centimetri. Avanti, Giovanna, entra in macchina. Avanti, metti in moto. Aziona il tergicristallo. Brava, così. E respira, e non guardare il dito, e nemmeno il fazzoletto zuppo di sangue: aziona l'aria, piuttosto, che qui si sta appannando tutto. Brava. E ora esci dal parcheggio, piano piano, però, col piede leggero sul gas, così. La strada perlomeno è sgombra, gli spalaneve stanno lavorando, e vai, ecco, così, piano piano, seguendo le tracce delle altre macchine, tenendo le ruote nel binario pulito. Così, sì: senza strattoni, senza frenate, per carità – per fortuna in giro c'è poca gente. La cicatrice si è riaperta. Ma com'è possibile? Avrò picchiato il dito contro qualcosa, dormendo, qualcosa di tagliente, che ne so, sul comodino, occhio qua, la curva va fatta senza strappi, rotonda, così, o sulla testiera del letto, una botta mentre mi voltavo nel sonno, sì, contro qualcosa di tagliente. Occhio all'autobus. Non sorpassarlo, fermatici dietro. Fai scendere la gente, aspetta che riparta. No. Dopo quindici anni una cicatrice non può riaprirsi, così profonda e precisa come – Dio, se ci ripenso svengo. Respirare, respirare, e poi cos'è questa paura? Perché ho ancora paura? Di che cosa? So Ham. Non mi hanno sgozzata nel sonno, non sono sfigurata, non sono svenuta e ormai non muoio più dissanguata, ecco l'ospedale, ecco la sbarra del pronto soccorso. Il guardiano è cambiato, ora c'è quello rasato, che ha la sorella con la leucemia, poveretta: mi riconosce, alza la sbarra, mi saluta, ma dopo quindici anni una cicatrice non può riaprirsi da sola, non c'è niente da fare, avrò visto male, mi sarò ferita lì accanto, certo, sullo stesso dito: devo per forza aver visto male, colpa della paura, questa paura che non se n'è ancora andata. Guarda, c'è un posto libero – piano, però, occhio al mucchio di neve. Meglio fare manovra. Ecco, bella dritta, così. Fatto. Scendere, ora, e fare attenzione a non cadere su questo nevischio che cazzo, non ci posso credere: non ho messo le scarpe. Sono uscita in pantofole, ho guidato in pantofole – le pantofole orrende che mi ha regalato Alberto, quelle con le orecchie di Topolino. Mi presento al pronto soccorso con le pantofole di Topolino. Be', ormai c'è poco da fare, sono già entrata. Ciao, Luciano, ciao Ignazio. Gli infermieri mi guardano strano ma io tiro dritta, sento che questa cosa inspiegabile posso cercare di spiegarla una volta sola, a Crocetti, quando mi ricucirà. Eccolo, in piedi davanti alla porta dell'ambulatorio: non sta facendo niente, nessuna emergenza, chiacchiera con l'infermiera bella, come si chiama, Sofia...

– Giovanna – dice, quando mi vede.

– Mario – faccio. – Mi devi ricucire.

Sofia getta un'occhiata sbieca al fazzoletto insanguinato e smamma. Entriamo nell'ambulatorio e c'è odore di mangiare, tipo pasta al forno, a quest'ora del mattino. Crocetti ha un'aria allarmata, forse per via della mia, di aria, del sangue che inzuppa il fazzoletto, del fatto che sono in pantofole.

– Fa' vedere – mi dice, e si mette a disfare l'involto fradicio di sangue. – Ma che hai fatto?

E io, qui, mi vergogno. Già. Ora che è un altro a esaminare la ferita, ora che la responsabilità non è più mia, posso guardare il dito con l'attenzione che prima non riuscivo a metterci – ed è proprio quella cicatrice che si è riaperta. Nessun dubbio: è proprio quel taglio, netto, profondo - secondo dito, lato dorsale, livello intermedio, cioè preciso sulla nocca. Solo che all'improvviso me ne vergogno: sì, all'improvviso mi vergogno di dirgli che mi si è riaperta una cicatrice di quindici anni fa, all'improvviso non ho più nemmeno quell'unico colpo che credevo di avere per dire, per spiegare — e poi spiegare cosa? Dopo quindici anni una cicatrice non può riaprirsi.

— Mi sono tagliata affettando il pane — dico. Come dissi quindici anni fa alla mamma, per telefono, dopo che mi ebbero ricucito. Solo che allora era vero.

— Guarda qua — dice Crocetti, muovendo il dito con delicatezza. — Si vede l'osso. Ma come hai fatto?

La paura è passata, comunque. Guardiamo anche l'aspetto positivo: non sto più per svenire, non morirò dissanguata, e la paura è passata. Crocetti è rassicurante, dopotutto: la pelata, gli occhialetti sul naso, l'aria noiosa da modellista, fa questo lavoro da, chissà, magari proprio quindici anni.

Come ho fatto?

— Ho usato il coltello sbagliato — spiego —, quello da prosciutto. Il pane era duro, la lama è scattata sulla crosta e zac... — Come spiegai alla mamma quindici anni fa. Solo che allora era vero, e avevo sedici anni, e ora ne ho trentuno, e non ho fatto proprio niente, e la cicatrice s'è riaperta da sola mentre dormivo — ma io non riesco a dirlo, perché non può essersi riaperta da sola mentre dormivo.

Crocetti scuote il capo.

— Giovanna, Giovanna... — fa. Chissà che intende. Che sono un'imbranata? Che sono immatura? Un'incosciente? Certo, per lui tutti devono sembrare incoscienti, moscio com'è. Ma è proprio per questo che è rassicurante, perché è moscio. Quello che mi ricucì quindici anni fa, invece, somigliava a Lando Buzzanca. Lo ricordo benissimo.

- Io se vuoi ti ricucio dice -, ma c'è la possibilità che tu abbia leso il tendine e in questo caso...

No. Lo temeva anche Lando Buzzanca, quindici anni fa, in quella minuscola infermeria di — cos'era, Val Senales? Erano le finali dei campionati zonali: sì, era Val Senales. Ma poi si scoprì che il tendine non era leso.

- ...un piccolo intervento di ricostruzione. Se no poi rischi che il dito non si pieghi più.

No. Questo rischio l'ho già corso quindici anni fa, e mi è andata bene.

— No - dico —, ricucimi. Il tendine è a posto.

D'accordo che non può capitare, ma se capita, come pare che sia capitato a me, se una cicatrice si riapre dopo quindici anni, nel sonno, così, di punto in bianco, assurdamente, non può ledere un tendine che non era stato leso al tempo dell'incidente. O no?

— Come vuoi...

Cazzo. La logica non la possiamo buttare nel cesso. Se è quella la cicatrice, allora è quella anche la ferita: e quella ferita non ha leso il tendine. Punto.

Più o meno ciò che dicevo l'altro giorno ad Alberto, mentre lo lasciavo — la citazione di Cartesio: va bene l'irrazionalità, va bene l'ignoto, va bene tutto, ma l'edera non può salire più in alto del muro che la sostiene.

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Pagina 39

I giorni successivi alla strage sono stati i peggiori della mia vita, e li ricordo a stento. Almeno come giorni, come susseguirsi di ore che scandiscono il tempo, li ricordo a stento: ricordo piuttosto un tutt'uno di angoscia, spostamenti, attese, paura, domande, freddo, silenzio, stanchezza, stupore, impotenza, tutto come rovesciato alla rinfusa nella mia vita, senza un ordine, senza un vero scorrere. Dipanare questa matassa, distinguere il prima dal dopo e raccontare quei giorni seguendo un filo cronologico mi è impossibile: nella mia memoria ormai si tratta di un ingombro unico, come se il tempo si fosse fermato, ecco, nell'istante in cui ero sceso da quella motoslitta, e da lì in poi tutto avesse cominciato ad accadere simultaneamente.

D'altronde, cominciarono a verificarsi cose talmente assurde che parvero interrompere qualsiasi processo di causalità. Il bosco fu chiuso — sequestrato —, solo le forze dell'ordine potevano percorrere la strada che lo attraversava, e questo tagliò fuori Borgo San Giuda dal resto del mondo. Quanto a me, ero ostaggio di quel Procuratore. I carabinieri venivano a prendermi ogni mattina all'alba per portarmi a Trento, da lui, in tribunale. Erano due ragazzi giovanissimi, e sembravano smarriti come me: non parlavano mai, né con me né tra di loro. Non smetteva un secondo di nevicare, tirava un vento arrabbiato, e il fuoristrada faticava a viaggiare sulla neve fresca: a volte s'impantanava, si metteva di traverso, e bisognava scendere e spingere, o addirittura farsi venire a trainare dai cingolati della Guardia Forestale che erano stati piazzati alle due imboccature del bosco per non far passare nessuno. Impiegavamo più di due ore per raggiungere il tribunale, e una volta lì io diventavo uno strumento nelle mani del Procuratore. Era un uomo dall'aspetto patrizio, elegante, curato nei minimi particolari, ma era molto basso, il che lo portava a tenere il petto in fuori, il mento sollevato e la testa alta, in una posa che pareva sempre di sfida. Si prendeva ogni potere su di me: mi interrogava, poi mi faceva accompagnare in un'altra stanza, mi lasciava lì per ore, decideva che avevo fame e mi faceva portare un panino, poi mi richiamava e mi interrogava di nuovo. Ogni volta all'inizio era calmo e comprensivo, mi ripeteva che non ero indagato o sospettato di niente ma solo "persona informata sui fatti", che avevo il diritto di non rispondergli e, se lo desideravo, di farmi assistere da un avvocato; io gli dicevo che andava bene così, e lui sembrava apprezzare la mia disponibilità, ma via via che gli rispondevo diventava nervoso, autoritario, e fatalmente s'impuntava sulla faccenda del mio ritorno a Borgo San Giuda, che considerava completamente insensato. Se capitava che su qualche dettaglio io non ripetessi esattamente le cose che avevo detto la volta prima mi accusava di prenderlo in giro; se poi lo pregavo di dirmi cosa fosse successo, di preciso, poiché ancora non lo sapevo, allora si arrabbiava definitivamente: le domande le faceva lui, diceva, punto e basta. Eppure lo sapeva che su da noi non si prendevano né radio né televisione, gli avevo spiegato del Dente della Vecchia che oscurava tutti i segnali fino a dopo il bosco; i carabinieri che mi portavano da lui non erano autorizzati a fermarsi lungo la strada per farmi comprare un giornale, e così io continuavo a non avere la minima idea di cosa fosse successo. D'accordo, ero stato il primo ad arrivare sulla scena della strage, avevo visto: ma cosa, avevo visto? Cos'era successo? Non lo sapevo. Quante persone erano morte? Chi erano? Come erano state ammazzate? Da chi? Perché? Niente, le domande le faceva lui; che io sapessi quelle cose non era importante. Ero la "persona informata sui fatti", ma di quei fatti non sapevo nemmeno quel poco che sapevano tutti. In realtà ero caduto in trappola: governato dalla volontà altrui, mi ero lasciato trascinare nell'altrui ossessione - esattamente quello che un sacerdote viene addestrato a evitare.

Ma in quel momento, in realtà, non sapevo nemmeno quello.

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Pagina 44

Mi sentivo inadeguato, isolato, tagliato fuori. In tribunale capitava che incrociassi Zeno ma di sfuggita, nel corridoio, senza nemmeno potergli chiedere come stava suo padre, perché noi due non potevamo comunicare. Il Procuratore voleva confrontare le nostre versioni e continuava a interrogarci separatamente, a oltranza, finché ogni dettaglio dei nostri racconti non coincidesse: voleva ricostruire la scena che avevamo trovato e che era stata stravolta dall'arrivo degli abitanti del Borgo – e c'era sempre qualcosa di diverso, secondo lui, nelle nostre dichiarazioni, qualcosa che non combaciava. Per esempio, la storia della testa di Beppe Formento: a me pareva di ricordare che nessuno l'avesse toccata, ma a quanto pare Zeno aveva dichiarato che suo padre l'aveva addirittura presa in mano. Oppure se qualcuno di noi tre avesse vomitato o no: cosa vuole che le dica, ripetevo, io non me lo ricordo, ma che differenza fa? E lì lui si arrabbiava davvero – Che differenza fa? –, e sembrava perdere il controllo: non si può lavorare così, gridava, e tornava sempre al punto di partenza, ciò che per lui sembrava la vera sciagura – cioè non la strage in sé, ma il fatto che io fossi tornato a San Giuda e che, come conseguenza, praticamente tutti gli abitanti del villaggio avessero imperversato sulla scena del crimine, toccando i cadaveri e vomitando sui reperti prima dell'arrivo dei carabinieri. Alla fine della giornata era così risentito con me che temevo sempre volesse farmi arrestare; invece mi lasciava andare, e all'uscita c'era una ressa pazzesca di giornalisti e fotografi che urlavano il mio nome. I carabinieri mi proteggevano e mi riaccompagnavano a casa, altre due ore sul fuoristrada nella tormenta, con i fari al magnesio che parevano zanne tanto l'aria era densa di neve. Arrivavo a casa tardissimo, stanco morto, ma nelle poche ore in cui cercavo di dormire era ancora più dura. Sembrava che non riuscissi più a stare da solo, avevo paura. Non riuscivo a prender sonno, d'improvviso non c'era più nessuna posizione nella quale il mio corpo trovasse un po' di pace. In particolare succedeva alle braccia: comunque le mettessi s'intormentivano, costringendomi a muoverle di continuo – il che mi teneva sveglio e metteva in moto una lima sorda di angosce e preoccupazioni che si alimentavano a vicenda. Quando infine mi addormentavo era spaventosamente tardi, di lì a poco suonava la sveglia e tutto ricominciava da capo.

Col senno di poi posso dire che nulla di ciò che fu detto e fatto in quei giorni aveva la minima importanza, perlomeno non nel senso che gli attribuivamo tutti – per conoscere, risolvere, o anche solo scoprire cos'era successo; ma, sebbene in un mio modo istintivo io l'avessi capito subito, la pressione che il Procuratore mi metteva mi impediva di ragionare. Quell'uomo era ossessionante, inappagabile. Quella testa sempre protesa in alto, quel gozzo elastico, da rospo, capace di gonfiarsi e solcarsi di vene al primo alterarsi del suo umore, quello sguardo severo ed esigente, io li sentivo come armi puntate su di me. Che potevo fare? Avevo di fronte un'autorità di massimo livello e non riuscivo a darle ciò che voleva; la severità e l'ostinazione con cui mi incalzava mi dicevano che non stavo facendo il mio dovere – e mai, prima di allora, avevo mancato di fare il mio dovere. Naturalmente, ciò che a me sembrava accanimento nei miei confronti altro non era che frustrazione, data l'impresa impossibile che il Procuratore si trovava ad affrontare – ma io questo non lo sapevo. Come ripeto, io non sapevo niente di niente: non sapevo che sulla vicenda era stato posto addirittura il segreto di stato e non sapevo delle ipotesi fantasiose, esoteriche e fantascientifiche che cominciavano a circolare a causa di questo silenzio; non sapevo dei vertici tra ministri, procuratori e capi delle forze dell'ordine che si susseguivano nella sede della questura; non sapevo di essere menzionato in ogni cronaca giornalistica come il testimone-chiave. Non sapevo nulla di tutto questo, eppure sembrava che tutto fosse appeso a quello che rispondevo io al Procuratore.

Se però si mette in gioco il senno di poi, allora devo di nuovo riconoscere che, in tutt'altro senso, io stavo effettivamente mancando il mio dovere: il prolungarsi dell'abuso che subivo, senza poter avere contatti con gli altri e senza poter svolgere nemmeno le più urgenti delle mie mansioni, faceva di me un coscritto; ma la calda sensazione d'esser vittima di quell'abuso m'impediva di rendermi conto della cosa più assurda di tutte, e cioè che io non ero obbligato ad accontentare il Procuratore. Già. Sarebbe bastato che mi rifiutassi di sottostare alle sue richieste, che mi ricordassi di avere dei diritti e ne pretendessi il rispetto, e l'abuso sarebbe finito. Me lo ripeteva lui stesso, del resto, sempre, prima di ricominciare a torchiarmi – ma io, semplicemente, non ne tenevo conto: dunque, più che vittima, come mi sentivo, io ero complice di quell'uomo. Adesso è facile dirlo, ma sul momento, perlomeno per me, non lo era affatto: al contrario, lo sforzo stesso di accettare l'inaccettabile mi spingeva ad accettare anche ogni sovraccarico che chiunque ci mettesse sopra: un peso enorme mi schiacciava, e chiunque poteva aggiungervene dell'altro senza che io reagissi. Sentivo un vuoto terribile dentro di me, e l'idea di alzarmi ogni mattina e cominciare a convivere con quel che era successo, giorno dopo giorno, con pazienza e coraggio e forza d'animo e senza nemmeno essere perseguitato, all'improvviso non era più alla mia portata. Perciò – adesso è facile dirlo – l'accanimento del Procuratore diventava per me l'occasione di eludere questo mio dovere, e l'abbandono alla sua volontà mi dava modo di giustificare la mia mancanza.

Perché non adempi il tuo dovere, fratello?

Perché non posso.

Hah...

Mai stato così lontano dal sacerdozio come in quei giorni. Mai stato così perduto e senza Dio. Non riuscivo neanche più a pregare.

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Il Procuratore disse che erano parecchie notti che non dormiva, e si arrovellava, e che quella notte aveva fatto una cosa decisiva, da credente qual era: aveva pregato. Solo pregando, disse, si era reso conto che l'uomo su cui si stava accanendo, cioè io, era un sacerdote. E poiché ero un sacerdote, mi chiese se potevo considerare ciò che aveva da dirmi come una confessione, e dunque se avrei rispettato il vincolo della segretezza. Naturalmente gli risposi di sì. Allora lui girò intorno alla scrivania, aprì un cassetto chiuso a chiave e ne estrasse due faldoni pieni di documenti, così voluminosi che non si capiva come potessero starci. Li poggiò sulla scrivania e li lasciò lì, senza aprirli. Poi ricominciò a parlare.

All'inizio, disse, aveva creduto davvero che l'inchiesta fosse stata compromessa dall'inquinamento delle tracce che tutta quella gente aveva prodotto, piombando sulla scena del crimine prima delle forze dell'ordine. L'aveva creduto fermamente per i primi giorni, dinanzi alle incongruenze che l'indagine scientifica portava alla luce: ogni informazione che veniva acquisita, disse, andava in contrasto con le altre, e lui riusciva a spiegarselo solo con la scorribanda che aveva stravolto i reperti. Aveva continuato a crederlo finché aveva potuto, disse, si era aggrappato a quella convinzione finché gli era stato ragionevolmente possibile: ma in realtà era già da un po' che non lo credeva più – da quando aveva avuto i risultati ufficiali delle autopsie.

Indicò i due faldoni, ma di nuovo non li aprì, non li toccò neppure.

Lì dentro, disse, c'era scritto che quanto era accaduto in quel bosco non poteva essere accaduto. Lì dentro, disse, c'era scritta la sua dannazione di magistrato. Se nei primi giorni aveva agito secondo coscienza, e la segretezza estrema imposta a tutta la faccenda era l'unica condizione possibile per svolgere un'inchiesta che partiva così compromessa, da quando aveva ricevuto quei faldoni aveva cominciato a comportarsi male. A mentire, disse, a occultare, a depistare. Certo, avrebbe potuto affermare che stava solo eseguendo degli ordini, disse, poiché era pur vero che, dinanzi alle enormità contenute in quei fascicoli, le massime autorità dello stato gli avevano ordinato di comportarsi come si stava comportando. Ma – e questa era la sua confessione – lui sapeva in cuor suo che si sarebbe comportato esattamente allo stesso modo anche se non gliel'avesse ordinato nessuno. Una volta letti quei fascicoli, non aveva nemmeno per un secondo concepito di dire la verità. L'idea che la gente sapesse com'erano morte quelle persone, semplicemente, non era riuscito a concepirla. Per questo, disse, e non per il volere di chi stava sopra di lui, la gente non lo sapeva: perché per lui era inconcepibile; e per questo lui non stava affatto eseguendo degli ordini, ma stava deliberatamente lottando per tenere celata l'unica verità che era stato possibile estrarre da quella vicenda. Il limite insuperabile con cui aveva a che fare, disse, era una condizione perentoria che la sua mente poneva alla sua coscienza: la Ragione prima di tutto – anzi, la Ragione soltanto. Cioè, disse, anche se era cattolico credente e osservante, aveva scoperto che per lui tutto stava appeso alla Ragione: dove la Ragione non riusciva a fare luce, la scelta tra bene e male non era più possibile. E ancora adesso, disse, che si era risolto a parlarne con me, si accorgeva che continuava a girare attorno alla cosa vera, continuava a rimandare di istante in istante il momento di dirle perlomeno a me, le cose che stava nascondendo al mondo.

Appoggiò le mani sui faldoni. Padre, disse, mi aiuti: non riesco a dirle. Non riesco a dirle. Non riesco a dirle.

Io, malgrado l'emozione e la curiosità che mi divoravano, e nonostante il senso di ulteriore tragicità che percepivo nelle sue parole, mi sentivo di nuovo forte e concentrato – adatto, si può dire, a soddisfare il bisogno che mi veniva rovesciato addosso; e, pur non sapendo ancora nulla di ciò che mi doveva dire, la sofferenza di quell'uomo, la sua impotenza, la sua colpa, io le vedevo formidabilmente a fuoco, e le condividevo con lui, come doveva essere dinanzi a ogni vera confessione.

Mi aiuti, padre, continuava a dire il Procuratore. Non riesco a dirle.

E sapevo come aiutarlo. Lo sapevo perché è sempre lo stesso aiuto che, da confessore, avevo imparato a dare a tutti gli uomini e le donne che negli anni avevano deciso di confessarmi i propri peccati ma non riuscivano a farlo: domandare. Gli domandai ciò che lui non riusciva a dirmi spontaneamente, e cioè: com'erano morte quelle persone?

Solo allora, finalmente, il Procuratore aprì uno dei faldoni. Si mise gli occhiali e cominciò a leggere dai fascicoli che lo componevano: uno dopo l'altro li prese in mano e poi li ripose, capovolti, sull'altro lato della scrivania. Lesse con voce ferma, impersonale, come stesse scorrendo una lista di cose da fare. Naturalmente, il linguaggio utilizzato in quei referti era molto più tecnico di come lo ricordo io, molto più esatto e formale, ma nella propria imperscrutabilità non poteva celare la sostanza di quelle morti, così come non aveva potuto farlo la coltre di neve che le copriva quando le avevo viste io: solo, esattamente come quella neve, rendeva le cose un po' meno insopportabili di come sarebbero risultate nella propria nuda verità – e di come risulteranno dal mio resoconto, che di quel linguaggio non può servirsi.

Il Procuratore lesse dal primo fascicolo: Anelli Giancarlo, anni 73, asfissiato da esalazioni tossiche di ossido di carbonio; il suo cadavere si presentava in avanzato stato di decomposizione. Secondo fascicolo: sua moglie Massatani Maria Rosa, anni 71, edema polmonare conseguente a proliferazione tumorale in stadio terminale. Terzo fascicolo: Formento Giuseppe Maria, anni 57, decapitato da una lama sottile e affilatissima, come di sciabola o altra arma da taglio; il suo corpo si presentava avvolto in un saio arancione. Quarto fascicolo: Gigliotti Maria Elena, anni 59, soffocata da una crosta di pane incastrata in gola. Quinto: Girotti Matteo, anni 3, deceduto in seguito ad arresto cardiaco procurato da un'iniezione di potassio praticata per via endovenosa; il suo cadavere si presentava privo di cuore, fegato, reni, polmoni e bulbi oculari, che risultavano espiantati chirurgicamente. Sesto: suo fratello Gianluca, 5 anni e mezzo, strangolato dopo aver subito violenze e sevizie sessuali. Settimo fascicolo: la loro bambinaia, Estevez Ana Maria, 42 anni, di nazionalità ecuadoriana, morta di arresto respiratorio causato da overdose di eroina.

Il primo faldone era finito. Senza alzare gli occhi verso di me, e senza rimettere a posto i fascicoli, il Procuratore passò all'altro.

Primo fascicolo: Smet Dario, 47 anni, cittadino sloveno, morto suicida con un colpo di pistola calibro 7,65 esploso a bruciapelo alla tempia destra. Secondo fascicolo: sua moglie Albach-Retty Maria, 39 anni, di nazionalità austriaca, incinta di 6 mesi, morta per sventramento dopo avere subito numerose mutilazioni, e violenza sessuale da almeno quattro uomini diversi. Terzo fascicolo: il feto, strappato dal ventre materno e rinvenuto a una certa distanza, straziato con arma da taglio e bruciato. Quarto e ultimo fascicolo: Kotkin Olga, 31 anni, di nazionalità ucraina: uccisa dall'attacco di uno squalo.

Solo a quel punto, ancora con l'ultimo fascicolo in mano, il Procuratore alzò lo sguardo verso di me.

Biolcati Maria Sofia, disse, anni 3, era scomparsa.

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Oh, la splendente assurdità di essere qui...

Solo ventiquattr'ore fa ero nella mia casuccia a dibattermi nelle conseguenze di uno degli sbagli più stupidi che abbia mai commesso in vita mia, e mi sentivo frustrata, sporca, impotente, e la mia mente era un servomeccanismo in avaria che girava attorno a un buco nero senza nessuna via di fuga — e ora, come se avessi trovato un cunicolo nello spaziotempo, sono altrove. E dico nello spaziotempo perché questo posto è veramente pazzesco, è veramente spazio e tempo fusi insieme. L'arrivo nella notte, per dire, è stata un'esperienza settecentesca, come viaggiare davvero in una macchina del tempo. La bufera. Il fitto del bosco. La strada coperta di neve — altro che sgombra — da non sapere come ho fatto a non andare a sbattere. I fari della Clio che nulla potevano contro quel buio spettrale salvo ritagliare qualche sagoma di albero carico di una neve che però sembrava nera, non bianca, e faceva drizzare i capelli. L'albero ghiacciato.

Mai provato nulla di simile. Era paura? Sì, tecnicamente era paura — l'Ignoto si era manifestato proprio in quel bosco, e io lo stavo attraversando –, ma alla fine era meno paura di quella che provavo ieri, di quella che provo tutti i giorni a casa mia. Era paura fresca, vitale, provata mentre facevo qualcosa di attivo e intenzionale — e questa paura non paralizza e non deprime come quella melmosa e febbricitante nella quale stagnavo fino a ieri, quando ero solo spettatrice, lontana, passiva, inebetita. Sono tutte cose che so bene, intendiamoci, che dico ai miei pazienti ogni giorno, ma sperimentare sulla propria pelle che è davvero così che funziona, cioè scoprirlo, in pratica, come se non lo si fosse già saputo – constatare che la paura che marcisce i nostri atti mentali è quella che si prova da fermi, nella fossa biologica immane delle nostre case comprate col mutuo, col ronzio tecnologico in sottofondo che ci carica di elettroni malati – be', fa sempre un certo effetto.

Tra l'altro, anche sapere che questa strada qui porta e qui finisce fa un certo effetto. In un mondo così intrecciato, così pieno di incroci e alternative, dove tutto confina con tutto, fa effetto sapere di trovarsi alla fine di qualcosa. O all'inizio, magari – anzi sì, meglio all'inizio, all'origine: anche solo di una strada, che poi vuol dire civiltà, che poi vuol dire esseri umani, che poi vuol dire psiche. Questo posto non è raggiunto dalla televisione, e nemmeno dalla radio. Qui non c'è campo per i telefonini. Internet? Hah. Questo è un vero e proprio habitat autoctono – sociale e di conseguenza anche psichico.

Sono come Darwin quando arriva alle Galapagos a bordo del Beagle.

(Speriamo di avere portato i libri giusti, piuttosto, perché avevo poco spazio nella sacca e senza internet non è che si possa sbirciare dappertutto: il DSM IV, ovviamente, e l' ICD 10, ovviamente – versioni in italiano, ovviamente; poi Freud , ovviamente, e non potendo portare tutti e dodici i volumi delle opere complete ho dovuto scegliere e ho scelto quello che contiene L'interpretazione dei sogni, quello che contiene l' Introduzione alla psicoanalisi, e quello che contiene Psicologia delle masse e analisi dell'Io e i due scritti sulla telepatia che ormai mi ero messa in mente di rileggere, appena possibile, per via del paziente telepatico di Cles, come si chiama, anche se con questa faccenda non c'entrano; poi Sulla natura umana di Winnicott , che c'entra con tutto; poi Il cambiamento catastrofico di Bion, per le sue teorie sui gruppi; poi Auto da fé di Elias Canetti – non so neanch'io perché, visto che l'ho letto tanti anni fa e lo ricordo confusamente. E il Prontuario farmaceutico. Fine. Non c'era più posto nella sacca. E il paziente telepatico di Cles si chiama Altenburger.)

Questa stanzetta dove sono alloggiata, questa canonica. A parte che non ero mai stata in una canonica (questo odore, questo misto di legna che brucia, di muffa e – chissà perché – di pane), pare che nessun civile, per dir così, meno che mai proveniente dalla città, meno che mai donna, ci abbia mai passato una notte. Sono la prima, pare. Almeno da quando lui vive qui.

Questa stanza davvero disadorna. Questa stufa bellissima che sbuffa. I dischi di De André, di là in tinello: c'è un vecchio giradischi e ci sono dei dischi di Fabrizio De André, li ho visti. Dischi suoi, senza dubbio...

Sentilo. Come tossisce. Non dorme nemmeno lui...

Il suo mistero. Il suo carisma.

Mi ha stregata, dice la mamma.

Già, la mamma! Non l'ho chiamata.

E vabbe', pazienza. Non è che quando Darwin toccò terra alle Galapagos come prima cosa abbia scritto a sua madre.

Tossisce.

Quello che colpisce di lui è l'ampiezza, ecco, che impone all'orizzonte che lo circonda. Parla di dolore e di pace contemporaneamente, come se gettasse una rete immensa e fosse proprio la grandezza della sua rete a catturarti. Parla di cose inverosimili e lontanissime da te, ma lo fa in un modo tale che tu ti senti una di quelle cose. E poi come ci siamo andati a genio: la strana immediata intesa che ho provato con lui non ricordo di averla mai provata con nessun altro – sconosciuto, intendo. Mi ha emozionato fin da subito, ha riattivato in un'ora tutte quelle funzioni che mi si stavano atrofizzando. La voglia di vivere, di darsi da fare per gli altri. La paura. La fame... I tre etti di pasta al burro che abbiamo spazzolato, per esempio, è stato il primo piatto caldo che abbia mandato giù dopo giorni e giorni di Ritz e Miniritz e Oro Ciok e Jocca e Risolatte e Kinder Cereali...

La semplicità con la quale mi ha chiesto di mollare tutto e venire qui. Intendiamoci: è fuor di discussione che venire qui, in questo momento, nel cuore di una comunità chiusa e praticamente inaccessibile colpita da un trauma possente e attraversata dallo sciame di sintomi di cui lui mi ha parlato, sia un'opportunità irripetibile per uno psichiatra non solo per me, voglio dire, ma anche per uno più esperto e affermato: ma quando mai, pur rendendosene conto – perché distinguere il meglio dal peggio non è poi così difficile -, quando mai uno riesce davvero a farlo? E la famiglia, e il lavoro, e i pazienti privati, e l'analista (se non sta morendo), e yoga, e le lezioni al consultorio – la presa tentacolare del tuo adorato malessere che non ti lascia andare... Invece lui ha saputo chiederlo, ecco: ha toccato i tasti giusti, e non c'è stata incertezza. Quest'uomo mi avrà anche stregato, ma secondo me avrebbe stregato chiunque.

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