Autore Paolo Virno
Titolo L'idea di mondo
SottotitoloIntelletto pubblico e uso della vita
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2015, n. 70 , pag. 200, cop.fle., dim. 12x18x1,6 cm , Isbn 978-88-7462-766-0
LettoreGiorgia Pezzali, 2016
Classe filosofia , politica












 

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Indice


  7 Avvertenza alla nuova edizione accresciuta
  9 Premessa (1994)


 13 Mondanità
    Contesto sensibile e sfera pubblica

 15 1.   Meraviglia e sicurezza
    1.1. Il miracolo secondo Wittgenstein (p. 15);
    1.2. Esistenza del mondo, esistenza del linguaggio (p. 18);
    1.3. Il sublime secondo Kant (p. 20);
    1.4. Grandezza e potenza (p. 24);
    1.5. Iconoclastia (p. 27);
    1.6. Sublime Tractatus (p. 29).

 33 2.   La radice emotiva della cosmologia
    2.1. Il principio incondizionato (p. 33);
    2.2. «L'impossibilità di raggiungere la natura» (p. 37);
    2.3. II mondo nell'Ultimo Giorno (p. 40);
    2.4. Totalità o contesto? (p. 42).

 45 3.   Natura grezza
    3.1. Noia e felicità (p. 45);
    3.2. Contesto sensibile (p. 50);
    3.3. Padre e Figlio (p. 58);
    3.4. L'inserzione del linguaggio (p. 61);
    3.5. Chiasmo (p. 69);
    3.6. «Un pudore così indolente» (p. 73).

 77 4.   Sfera pubblica
    4.1. La minaccia senza nome (p. 77);
    4.2. Timore e riparo (p. 80);
    4.3. Il perturbante (p. 85);
    4.4. Ancora una volta (p. 89);
    4.5. Luoghi comuni e pubblicità della mente (p. 93);
    4.6. Lo spazio dell'intelletto (p. 101).


113 Virtuosismo e rivoluzione
    La teoria politica dell'esodo

    1.   Azione, lavoro, intelletto (p. 115);
    2.   Attività senza opera (p. 117);
    3.   L'intelletto pubblico, spartito dei virtuosi (p. 125);
    4.   Esodo (p. 130);
    5.   La virtù dell'intemperanza (p. 132);
    6.   Elogio della moltitudine (p. 137);
    7.   Diritto di resistenza (p. 142);
    8.   Atteso imprevisto (p. 148).


153 L'uso della vita

    1.   Tatto (p. 1 55);
    2.   Preposizioni (p. 156);
    3.   Tavoletta di cera (p. 157);
    4.   Quel che l'uomo può fare di se stesso (p. 160);
    5.   L'animale maldestro (p. 162);
    6.   Avere (p. 163);
    7.   Fenomeni istituzionali (p. 165);
    8.   Il pronome `noi' (p. 168);
    9.   Limiti e crisi dell'uso (p. 169);
    10.  La cura di sé (p. 172);
    11.  Sul palcoscenico (p. 176);
    12.  Effetto di straniamento (p. 179);
    13.  Gli appunti di regia di Wittgenstein (p. 182).


189 Bibliografia


 

 

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Pagina 115

1. Azione, lavoro, intelletto


Nulla sembra così enigmatico, oggi, quanto l'agire. Enigmatico e inattingibile. Per celia, si potrebbe dire: se nessuno mi chiede che cos'è l'azione politica, mi pare di saperlo; ma se devo spiegarlo a chi me lo chiede, quel presunto sapere si riduce a una nenia inarticolata. Eppure, quale nozione è più familiare, nel parlare comune, dell'azione? Perché l'ovvio si è ammantato di mistero e suscita meraviglia? Per rispondere, non basta mobilitare il solito plotone di sacrosante ragioni prêt-à-porter: rapporti di forza sfavorevoli, l'eco persistente di sconfitte patite, l'arrogante rassegnazione che l'ideologia postmoderna non smette di fomentare. Tutto questo conta, come no, ma, di per sé, non spiega niente. Anzi, confonde, giacché lascia credere che si stia attraversando un tunnel senza luce alla fine del quale ogni cosa tornerà come prima. Invece, la paralisi dell'agire è connessa ad aspetti essenziali dell'esperienza contemporanea. È lì, presso tali aspetti, che bisogna scavare, sapendo che essi non rappresentano una congiuntura sfortunata, ma uno sfondo inaggirabile. Per rompere il sortilegio, occorre elaborare un modello di azione che consenta a quest'ultima di trarre alimento proprio da ciò che ora ne determina il blocco. È la stessa interdizione che deve trasformarsi in un lasciapassare.

Secondo una lunga tradizione, l'ambito dell'agire politico può essere identificato a colpo sicuro tracciando due linee di confine. La prima, nei confronti del lavoro, del suo carattere strumentale e taciturno, di quell'automatismo che ne fa un processo ripetitivo e prevedibile. La seconda, nei confronti del pensiero puro, della sua indole solitaria e inappariscente. Diversamente dal lavoro, l'azione politica interviene sulle relazioni sociali, non su materiali naturali; ha da vedersela con il possibile e con l'inatteso; modifica il contesto in cui si inscrive anziché infoltirlo di nuovi oggetti. Diversamente dalla riflessione intellettuale, l'azione è pubblica, consegnata all'esteriorità, alla contingenza, al brusio della moltitudine. Ecco ciò che insegna la lunga tradizione. Ma ecco, a un tempo, ciò su cui non si può più fare conto. Le frontiere consuete tra Intelletto, Lavoro, Azione (se si preferisce il gergo aristotelico, tra episteme, poiesis e praxis) hanno ceduto, dovunque si segnalano infiltrazioni e teste di ponte.

In queste note si sostiene: a) che il Lavoro ha assorbito i tratti distintivi dell'agire politico; b) che tale annessione è stata resa possibile dalla combutta tra la produzione contemporanea e un Intelletto diventato pubblico, irrotto cioè nel mondo delle apparenze. In ultimo, a provocare l'eclisse dell'Azione è proprio la simbiosi del Lavoro con il general intellect, o «sapere sociale generale», che, secondo Marx (1939-1941, vol. II, p. 403), imprime la sua forma al «processo vitale stesso della società». Si avanzano poi due ipotesi. 1) Il carattere pubblico e mondano del pensiero, ossia la potenza materiale del general intellect, costituisce il punto di partenza inevitabile per ridefinire la prassi politica, nonché i suoi problemi salienti: decisione, governo, democrazia, violenza ecc. In breve, a quella tra Intelletto e Lavoro, va opposta l'alleanza tra Intelletto e Azione. 2) Mentre la simbiosi di sapere e produzione procura l'estrema, anomala e però vigorosa, legittimazione al patto di obbedienza nei confronti dello Stato, la commessura tra general intellect e Azione politica lascia intravedere la possibilità di una sfera pubblica non statale.

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(3) Nel suo romanzo La vita agra (1962), Luciano Bianciardi offre un ritratto grottesco e perspicace del lavoro nell'industria culturale alla fine degli anni Cinquanta. Leggiamo un passo (ivi, pp. 129-132, corsivi miei) sulle disavventure in cui incorrono coloro che sono dediti a una attività che non mette al mondo alcuna opera duratura.

«E mi licenziarono, soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo attorno anche quando non è indispensabile. Nel nostro mestiere invece occorre staccarli bene da terra, i piedi, e ribatterli sull'impiantito sonoramente, bisogna muoversi, scarpinare, scattare e fare polvere, una nube di polvere possibilmente, e poi nascondercisi dentro.

Non è come fare il contadino o l'operaio. Il contadino si muove lento, perché tanto il suo lavoro va con le stagioni, lui non può seminare a luglio e vendemmiare a febbraio. L'operaio si muove svelto, ma se è alla catena, perché lì gli hanno contato i tempi di produzione, e se non cammina a quel ritmo sono guai [...]. Ma il fatto è che il contadino appartiene alle attività primarie, e l'operaio alle secondarie. L'uno produce dal nulla, l'altro trasforma una cosa in un'altra. Il metro di valutazione, per l'operaio e per il contadino, è facile, quantitativo: se la fabbrica sforna tanti pezzi all'ora, se il podere rende.

Nei nostri mestieri, è diverso, non ci sono metri di valutazione quantitativa. Come si misura la bravura di un prete, di un pubblicitario, di un PRM? Costoro né producono dal nulla, né trasformano. Non sono né primari, né secondari. Terziari sono e anzi oserei dire [...] addirittura quartari. Non sono strumenti di produzione, e nemmeno cinghie di trasmissione. Sono lubrificante, al massimo, sono vaselina pura. Come si può valutare un prete, un pubblicitario, un PRM? Come si fa a calcolare la quantità di fede, di desiderio di acquisto, di simpatia che costoro saranno riusciti a far sorgere? No, non abbiamo altro metro se non la capacità di ciascuno di restare a galla, e di salire più su, insomma di diventare vescovo. In altre parole, a chi scelga una professione terziaria o quartaria occorrono doti e attitudini di tipo politico. La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere. Così la bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo che vi si mantiene. [...] Allo stesso modo, nelle professioni terziarie e quartarie, non esistendo alcuna visibile produzione di beni che funga da metro, il criterio sarà quello».

In questo brano è contenuta una formidabile intuizione. Bianciardi osserva che le nuove e stravaganti professioni legate alla comunicazione non danno luogo a un prodotto tangibile, non comportano un esito merceologicamente definito. E aggiunge che esse esigono «doti e attitudini di tipo politico». Decisivo è il nesso logico, anzi l'autentico rapporto causale, tra i due aspetti: proprio perché manca un'"opera" dotata di vita autonoma (che possa cioè essere valutata in termini quantitativi), il comportamento lavorativo assomiglia alla prassi pubblica, all'Azione. Quando non si fabbricano nuovi oggetti, ma si imbastiscono trame comunicative, allora comincia il regno della politica.

Nel racconto di Bianciardi, non mancano certo accenti caduchi. I mestieri «terziari e quartari» sono percepiti ancora come qualcosa di innaturale e parassitario, che solo a fatica merita il nome di lavoro. L'industria culturale è tenuta per una eccezione pagliaccesca rispetto alla regola, dettata pur sempre dalla fabbrica tradizionale. È assai superficiale, inoltre, la nozione di politica evocata dal romanziere: sgomitamento, sopraffazione, cieca brama di potere. Resta il fatto, però, che la politicità del lavoro è incardinata all'assenza di un'"opera". E questo è un risultato di gran conto, il cui valore irrobustisce allorché l'eccezione di un tempo è assurta al rango di nuova regola, ossia allorché la simbiosi tra lavoro e comunicazione costituisce un tratto pervasivo dell'intero processo produttivo (lavori "primari" e "secondari" inclusi, per dirla con Bianciardi).


(4) Vale la pena di chiedersi che rapporto vi sia tra i caratteri peculiari dell'industria culturale (di cui parla, tra gli altri, Bianciardi ne La vita agra, cfr. supra, nota 3) e il postfordismo in generale. Come si sa, da Adorno e Horkheimer in poi le "fabbriche dell'anima" (editoria, cinema, radio, televisione ecc.) sono state scrutate con il microscopio della critica, cercando in esse tutto ciò che le equiparava alla catena di montaggio. Il punto cruciale fu mostrare che il capitalismo era in grado di meccanizzare e parcellizzare la produzione spirituale, proprio come aveva meccanizzato e parcellizzato l'agricoltura o la lavorazione dei metalli. Serialità, insignificanza della singola mansione, econometria delle emozioni e dei sentimenti: ecco i refrains consueti. Si ammetteva, certo, che alcuni aspetti di quella che potremmo definire la "produzione di comunicazione a mezzo di comunicazione" risultavano refrattari a una completa assimilazione all'organizzazione fordista del processo lavorativo: ma, giustamente, li si considerava residui ininfluenti, modesti disturbi, piccole scorie. Sennonché, a guardare le cose con gli occhi di oggi, non è difficile riconoscere che tali "residui" erano invece carichi di futuro: non echi dell'epoca precedente, ma veri e propri presagi. In breve: l'informalità dell'agire comunicativo, l'interazione competitiva tipica di una riunione di redazione, il guizzo di imprevisto che può animare un programma televisivo, in genere tutto ciò che sarebbe antifunzionale irrigidire e regolamentare oltre una certa soglia all'interno dell'industria culturale, è diventato ora, in epoca postfordista, il nucleo centrale e propulsivo dell'intera produzione sociale. In tal senso, non è azzardato sostenere che il "toyotismo" consista, almeno in parte, nell'applicazione dei moduli operativi un tempo attinenti soltanto all'industria culturale alle fabbriche dei beni di consumo durevoli. Il seguito sociologico de La vita agra può essere rintracciato, forse, nelle inchieste sul modo di lavorare nella Fiat di Melfi.

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3. L'intelletto pubblico, spartito dei virtuosi


Qual è lo spartito che i lavoratori postfordisti non smettono di eseguire dacché sono indotti a dare prova di virtuosismo? La risposta, ridotta all'osso, suona così: lo spartito sui generis del lavoro contemporaneo è l'Intelletto in quanto Intelletto pubblico, general intellect, sapere sociale complessivo, comune competenza linguistica. Si potrebbe anche dire: la produzione esige virtuosismo, e quindi introietta molti tratti peculiari dell'azione politica, proprio e soltanto perché l'Intelletto è diventato la principale forza produttiva, premessa ed epicentro di ogni poiesis.

La stessa idea di un intelletto pubblico è scartata con insofferenza da Hannah Arendt. A suo giudizio, la riflessione, il pensiero, o insomma la vita della mente, non hanno alcunché da spartire con quella cura degli affari comuni che implica, essa sì, «l'esposizione agli occhi degli altri». L'intromissione dell'Intelletto nel mondo delle apparenze è invece adombrata da Marx, dapprima con il concetto di "astrazione reale" e poi, soprattutto, con quello di general intellect. Mentre l'astrazione reale è un fatto empirico (lo scambio di equivalenti, per esempio) che ha la rarefatta struttura di un pensiero puro, il general intellect segna piuttosto lo stadio in cui sono i puri pensieri, come tali, ad avere il valore e l'incidenza tipica dei fatti (se si vuole: lo stadio in cui le astrazioni mentali sono immediatamente, di per sé, astrazioni reali).

Sennonché, Marx concepisce il general intellect come «capacità scientifica oggettivata» nel sistema di macchine, dunque come capitale fisso. In tal modo, egli riduce l'appariscenza o pubblicità dell'Intelletto all'applicazione tecnologica delle scienze naturali al processo produttivo. Il passo cruciale consiste invece nel riconoscere che il general intellect si presenta, oggi, come diretto attributo del lavoro vivo, repertorio dell' intellighenzia diffusa, spartito che accomuna una moltitudine. A compiere tale passo obbliga, peraltro, l'analisi della produzione postfordista: in essa, infatti, giocano un ruolo decisivo costellazioni concettuali e schemi di pensiero che non possono mai rapprendersi in capitale fisso, essendo bensì inscindibili dall'interazione di una pluralità di soggetti viventi. Non è in questione, ovviamente, l'erudizione scientifica del singolo lavoratore. A venire in primo piano, guadagnando il rango di pubblica risorsa, sono solo (ma quel "solo" è tutto) le più generiche attitudini della mente: facoltà di linguaggio, disposizione all'apprendimento, capacità di astrarre. e di correlare, accesso all'autoriflessione.

Per general intellect bisogna intendere, alla lettera, intelletto in generale. Ora, va da sé che l'Intelletto-in-generale costituisce uno "spartito" solo in senso lato. Non si tratta certo di una specifica composizione musicale (mettiamo le Variazioni Goldberg di Bach), eseguita da un impareggiabile pianista (mettiamo Glenn Gould), ma, per l'appunto, di una semplice facoltà, anzi, della facoltà che rende possibile ogni composizione (nonché ogni esperienza). L'esecuzione virtuosistica, che mai dà luogo a un'opera, in questo caso non può neanche presupporla. Essa consiste nel far risuonare l'Intelletto in quanto attitudine. Suo unico "spartito" è la condizione di possibilità di tutti gli spartiti. Questo virtuosismo non è affatto inconsueto, né richiede qualche raro talento. Basti pensare alla perizia con cui qualsiasi parlante attinge l'inesauribile potenzialità della lingua (il contrario di un'"opera" definita) per eseguire una contingente e irripetibile enunciazione.

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6. Elogio della moltitudine


Il contrasto politico decisivo è quello che oppone la Moltitudine al Popolo. La nozione di popolo, a detta di Hobbes (ma anche di larga parte della tradizione democratico-socialista), è strettamente correlata all'esistenza dello Stato, anzi, ne è un riverbero: «Il popolo è un che di uno, che ha una volontà unica, e cui si può attribuire una volontà unica. Il popolo regna in ogni Stato» e, reciprocamente, «il re è popolo» (Hobbes 1642, p. 188). La cantilena progressista sulla "sovranità popolare" ha per contrappunto acre l'identificazione del popolo con il sovrano o, se si preferisce, la popolarità del re. La Moltitudine, invece, rifugge dall'unità politica, recalcitra all'obbedienza, non consegue mai lo status di persona giuridica né, quindi, può «promettere, fare patti, acquistare e trasferire diritti» (ivi, p. 130). Essa è antistatale, ma, proprio per questo, anche antipopolare: i cittadini, allorché si ribellano allo Stato, sono "la moltitudine contro il popolo" (ivi, p. 188).

Per gli apologeti seicenteschi del potere sovrano, "moltitudine" è un concetto-limite radicalmente negativo: rigurgito dello stato di natura nella società civile, detrito persistente e però informe, metafora della crisi possibile. In seguito, il pensiero liberale ha addomesticato l'inquietudine provocata dai "molti" mediante la dicotomia pubblico/privato. Privata – nel senso letterale del termine: priva di volto e di voce, nonché in quello giuridico: estranea alla sfera degli affari comuni – è la Moltitudine. A sua volta, la teoria democratico-socialista ha brandito la coppia collettivo/individuale: mentre la collettività dei produttori (ultima incarnazione del Popolo) si immedesima con lo Stato, poco importa se con Scalfaro o con Ceausescu, la Moltitudine è confinata nel recinto dell'esperienza individuale, ovvero è condannata all'impotenza.

Questo destino di marginalità ha oggi fine. La Moltitudine, anziché costituire un antefatto naturale, si presenta come un risultato storico, maturo punto di arrivo delle trasformazioni intervenute nel processo produttivo e nelle forme di vita. I Molti irrompono sulla scena, e vi restano da protagonisti assoluti, allorché si consuma la crisi della società del Lavoro. La cooperazione sociale postfordista, abrogando il confine tra tempo di produzione e tempo personale, nonché la distinzione tra qualità professionali e attitudini politiche, crea una nuova specie al cui cospetto suonano farsesche le dicotomie pubblico/privato e collettivo/individuale. Né "produttori" né "cittadini", i moderni virtuosi assurgono in ultimo al rango di Moltitudine.

Si tratta di un esito duraturo, non di un intermezzo tumultuoso. Infatti, la nuova Moltitudine non è un vortice di atomi cui ancora difetti l'unità, ma la forma di esistenza politica che si afferma a partire da un Uno radicalmente eterogeneo allo Stato: l'Intelletto pubblico. I Molti non stringono patti, né trasferiscono diritti al sovrano, perché già dispongono di un comune "spartito"; non convergono mai in una volonté générale perché già condividono un general intellect.


6.1. La Moltitudine ostruisce e dissesta i meccanismi della rappresentanza politica. Si esprime come insieme di "minoranze agenti", nessuna delle quali, però, aspira a trasformarsi in maggioranza. Sviluppa un potere refrattario a diventare governo.

Il fatto è che ciascuno dei Molti risulta inseparabile dalla «presenza altrui», inconcepibile al di fuori della cooperazione linguistica, o agire-di-concerto, che questa presenza comporta. Ma la cooperazione, a differenza del tempo di lavoro individuale o dell'individuale diritto di cittadinanza, non è una "sostanza" estrapolabile e commutabile. Può venire sottomessa, certo, ma non rappresentata né, tanto meno, delegata. La Moltitudine, che nell'agire-di-concerto ha il proprio esclusivo modo di essere, è infiltrata da ogni sorta di kapò e da non pochi Quisling, ma non accredita controfigure o prestanome.

Gli Stati dell'Occidente sviluppato si conformano ormai all'irrappresentabilità politica della forza-lavoro postfordista; anzi, se ne fanno forti, traendo da essa una paradossale legittimazione alla loro ristrutturazione autoritaria. La crisi soda e irreversibile della rappresentanza offre l'occasione per liquidare ogni residuo simulacro di sfera pubblica; per dilatare oltre misura, come si è detto, le prerogative dell'Amministrazione a scapito dell'ambito politico-parlamentare; per rendere consueto lo stato di emergenza. Le riforme istituzionali apprestano regole e procedure necessarie a governare una Moltitudine cui non si può più sovraimporre la fisionomia tranquillizzante del Popolo.

Interpretato dallo Stato postkeynesiano, l'indebolimento strutturale della democrazia rappresentativa si dà a vedere come tendenziale restringimento della democrazia tout court. Va da sé, tuttavia, che un'opposizione a questo decorso, se condotta in nome dei valori della rappresentanza, è spuntata e patetica. Efficace quanto predicare la castità ai passeri. L'istanza democratica coincide, oggi, con la sperimentazione di forme di democrazia non rappresentativa ed extraparlamentare. Il resto è chiacchiera petulante.

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8. Atteso imprevisto


Lavoro, Azione, Intelletto: sulla falsariga di una tradizione che risale ad Aristotele e che ancora valse come common sense per la generazione giunta alla politica negli anni Sessanta, Hannah Arendt separa irrevocabilmente queste tre sfere dell'esperienza umana, mostrando la loro reciproca incommensurabilità. Sebbene adiacenti e perfino sovrapposti, i diversi ambiti sono però irrelati. Anzi, si escludono a vicenda: mentre si fa politica, non si produce, né si è assorti nella contemplazione intellettuale; quando si lavora, non si agisce politicamente esponendosi alla presenza altrui, né si partecipa della vita della mente; chi è dedito alla riflessione pura, si sottrae provvisoriamente al mondo delle apparenze, e, quindi, non agisce né produce. A ciascuno il suo, sembra dire l'autrice di Vita activa, e ciascuno per sé. Pertanto, allorché rivendica con ammirevole passione il valore specifico dell'Azione politica, battendosi contro il suo rattrappimento nella società di massa, Arendt presuppone che le altre due sfere fondamentali, Lavoro e Intelletto, siano rimaste immutate per quel che riguarda la loro struttura qualitativa. Certo, il Lavoro si è esteso oltre misura; certo, il pensiero conosce la penuria e lo scacco: tuttavia, quello è pur sempre ricambio organico con la natura, metabolismo sociale, produzione di nuovi oggetti, e questo è ancora un'attività solitaria, di per sé estranea alla cura degli affari comuni.

Come del resto è evidente, il discorso qui intrapreso si oppone in radice allo schema concettuale proposto da Arendt, nonché alla tradizione cui esso si ispira.

Ricapitoliamo brevemente. La decadenza dell'Azione dipende dalle modificazioni qualitative intervenute sia nella sfera del Lavoro, sia in quella dell'Intelletto, dacché si è stabilita una ferrea intimità tra l'una e l'altra. Congiunto al Lavoro, l'Intelletto (come attitudine o facoltà, non già in quanto ricettacolo di speciali conoscenze) diventa pubblico, appariscente, mondano: viene in primo piano, cioè, la sua natura di risorsa condivisa o di bene comune. Reciprocamente, quando la potenza del general intellect costituisce il principale pilastro della produzione sociale, il Lavoro prende l'aspetto di una attività-senza-opera, somigliando in tutto a quelle esecuzioni virtuosistiche che si basano su una evidente relazione con la «presenza altrui». Ma che cos'altro è il virtuosismo, se non il tratto caratteristico dell'agire politico? Bisogna concludere, pertanto, che la produzione postfordista ha assorbito in sé le tipiche modalità dell'Azione, e proprio così ne ha decretato l'eclisse. Questa metamorfosi non ha alcunché di emancipativo: sotto l'egida del Lavoro salariato, la virtuosistica relazione con la «presenza altrui» si traduce in dipendenza personale; l'attività-senza-opera, che pure ricorda da vicino la prassi politica, è ridotta a modernissima prestazione servile.

Nella seconda parte di questo scritto, si è poi sostenuto che l'Azione politica conosce il suo riscatto là dove si coalizzi con l'Intelletto pubblico (là dove, dunque, tale Intelletto sia svincolato dal Lavoro salariato e, anzi, di esso imbastisca la critica con il garbo di un acido corrosivo). L'Azione consiste, in ultimo, nell'articolare il general intellect come sfera pubblica non statale, ambito degli affari comuni, Repubblica. L'Esodo, nel corso del quale si realizza la nuova alleanza tra Intelletto e Azione, ha alcune stelle fisse nel proprio cielo: Disobbedienza radicale, Intemperanza, Moltitudine, Soviet, Esempio, Diritto di Resistenza. Queste categorie alludono a una teoria politica di là da venire, che sappia affrontare la crisi dell' ancien régime novecentesco, prospettandone una soluzione radicalmente antihobbesiana.

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L'uso della vita





1. Tatto


Nell'uso prevale il tatto a discapito della vista (del theorein, dello sguardo teorico-contemplativo). L'oggetto visivo ci fronteggia da una certa distanza: indipendente dall'osservatore, esso è passibile di una ricognizione disinteressata. L'uso non ha mai a che fare con qualcosa che sta di fronte, quindi con un oggetto in senso stretto, contrapposto all'Io. Che si tratti di parole o di indumenti, di un lasso di tempo o di un teorema, quel che si usa è adiacente, collaterale, capace di attrito. La cosa utilizzata retroagisce sul vivente che la utilizza, trasformandone la condotta. È la medesima riflessività che contraddistingue l'esperienza tattile: chi tocca un ramo è toccato a sua volta dal ramo che sta toccando.

Tanto l'uso che il tatto non enucleano le proprietà caratteristiche di un ente, ma colgono la sua appropriatezza (o, viceversa, la sua refrattarietà) all'attività in corso. L'uso è segnato in lungo e in largo dall' interesse, nell'accezione più letterale del termine: inter-esse, essere-tra, assorbimento in una relazione che lede l'autonomia dei poli correlati. Preso dall'interesse per l'arnese di cui si serve, l'agente non può definirsi adeguatamente senza menzionare questo arnese, anche se esso nulla aggiunge alla sua natura o essenza.

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4. Quel che l'uomo può fare di se stesso


Usiamo macchine, scarpe, mappe in vista della nostra vita, della sua conservazione e del suo potenziamento. Ma usabile è, innanzitutto, la stessa vita in vista della quale si usano macchine, scarpe, mappe. È l' uso di sé, della propria esistenza, il presupposto e l'architrave di tutti gli altri usi.

Sempre tattile, e per nulla visivo, è il rapporto che intratteniamo con la nostra vita. Non si dà mai il caso che essa si profili come un oggetto che ci sta di fronte, da indagare e rappresentare. Non fine a se stessa, ma aperta a utilizzazioni dissimili, la vita è avvertita dall'animale umano come qualcosa a portata di mano, che incombe e preme, dal quale si è toccati nel preciso momento in cui lo si tocca.

Merito grande di Foucault è di avere mostrato che nel mondo classico il troppo celebrato precetto gnothi seauton, «conosci te stesso», fu soltanto un tardo corollario, e perfino una storpiatura, della ben più fondamentale epimeleia heautou, cioè dell'uso e della cura di sé. Mentre il gnothi implica la preminenza della vista, del theorein con cui un soggetto imperturbabile scruta l'oggetto che gli si para dinnanzi, l' epimeleia si risolve interamente in un saggiare manipolativo. Non si tratta tanto di studiare le proprie facoltà (percezione, memoria, immaginazione ecc.), quanto di affinare il modo di servirsene. Anziché descrivere quel che l'uomo è, occorre prospettare quel che egli può fare di se stesso grazie a un esercizio quotidiano il cui nome meno difettoso è forse spiel o play: al tempo stesso gioco e recitazione.




Glossa


L'uso della vita è legato a doppio filo all'uso del linguaggio. Non è concepibile l' epimeleia heautou, la cura di sé, senza l' epimeleia logou, la cura dei propri discorsi. E viceversa, beninteso. Una osservazione di Wittgenstein (1969, pp. 154 sg.) aiuta a chiarire la faccenda: «"Un segno è pur sempre lì per un essere vivente, dunque questa deve essere una cosa essenziale al segno". – Già, ma come si definisce un essere "vivente"? Sembra che qui io sia pronto a definire l'essere vivente ricorrendo alla capacità di utilizzare un linguaggio segnico. E in effetti il concetto di essere vivente ha una indeterminatezza del tutto simile a quella del concetto "linguaggio"». Per spiegare che cos'è un segno linguistico, devo soffermarmi sull'impiego che ne fa un vivente; per spiegare che cos'è un vivente, devo menzionare la sua propensione a servirsi dei segni linguistici. Rimandando l'uno all'altro e sostenendosi a vicenda, i due termini, vita e logos, rivelano la loro comune indeterminatezza. Ora, è proprio l'indeterminatezza a rendere possibile, anzi inevitabile, l'uso. Usabili, appunto perché indeterminati, sono sia la vita sia il linguaggio; entrambi abbisognano di una ininterrotta modulazione, così da circostanziarsi in spartiti o copioni ben articolati (abitudini, ruoli, gerghi, tropi retorici). A esprimere questa duplice usabilità provvede la componente più indeterminata del linguaggio: le preposizioni.

Ciò che fissa e poi modifica i significati verbali è, sì, l'uso, come recita lo slogan wittgensteiniano, ma, si badi, l' uso della vita da parte dei parlanti. Quest'ultimo si realizza anche con i discorsi, ma non si limita di sicuro a essi. Il contenuto semantico di 'quadro', 'amore', 'santità', 'soldi', 'addizione' non dipende tanto dal modo in cui utilizziamo tali vocaboli, quanto dall'intreccio di attività linguistiche e non-linguistiche in cui si esplica l'utilizzazione della nostra esistenza. Stanley Cavell ha scritto (1979, pp. 246 sg.): «Non si possono usare le parole per fare ciò che noi facciamo con esse finché non si è iniziati alle forme di vita che danno a quelle parole lo scopo che esse hanno nella nostra vita». Giusto, a patto però di intendere per «forme di vita» niente di più e niente di meno che i diversi usi cui è soggetta la vita.

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7. Fenomeni istituzionali


L'utilizzazione della propria esistenza, prerogativa e onere di un animale maldestro, richiede addestramento, esercizi prolungati, procedimenti sperimentali, acquisizione di tecniche, osservanza di regole. Gli usi di sé non sono istintivi, né quindi naturali o spontanei. Tutt'al più, diventano tali: la loro facilità non è altro che una difficoltà superata; la grazia che talvolta li caratterizza lascia intravedere in controluce l'originaria goffaggine.

L'addestramento, le tecniche, le regole di cui si nutre l'inclinazione a servirsi della propria vita costituiscono il fondamento antropologico (cioè metastorico) delle istituzioni. A dire meglio: essi sono i fenomeni istituzionali, pervasivi e multiformi, che, solo a certe condizioni e mai per intero, si cristallizzano in vere e proprie istituzioni. Va da sé che i fenomeni istituzionali, ossia le «tecnologie del sé» indagate da Foucault (1988), sono un campo di battaglia, non un territorio liberato. Questo campo persiste pressoché inalterato, al pari della postura eretta o della facoltà di linguaggio; mutevoli e sorprendenti sono, invece, gli esiti della battaglia. Le lotte di classe hanno come posta in palio il modo in cui si usa la vita. Non mancano di inventare usanze inaudite, in grado di confinare quelle fin lì prevalenti nel museo degli orrori. Modificando le forme tradizionali della epimeleia heautou, possono generare istituzioni in rotta di collisione con la sovranità statale e la compravendita della forza-lavoro, con il Ministero degli Interni e il Fondo Monetario Internazionale.

L'uso della vita si avvale di tecniche e ha sempre una tonalità istituzionale. È lecito supporre, anzi, che proprio esso stia all'origine delle nozioni di 'tecnica' e di 'istituzione'. Da ciò segue che l'uso di sé e delle cose circostanti non è mai esente da regole. Adottando il lessico di Wittgenstein: non è mai sprovvisto di una grammatica. Per evitare equivoci, bisogna introdurre, qui, una distinzione concettuale. Le regole non sono norme giuridiche. Tra le une e le altre non vi è soltanto una disomogeneità logica, ma anche un contrasto irriducibile. La regola fa corpo con l'uso, lo innerva e ne è innervata, non sussiste al di fuori di esso. Si potrebbe dire: l'utilizzazione della vita è, insieme, attività bisognosa di misurazione e unità di misura, condotta da controllare e strumento di controllo. Al contrario, la norma giuridica è scissa dall'uso, postula la sua sospensione (reale o ipotetica), lo trascende, gli applica surrettiziamente criteri ricavati dallo scambio delle merci (equivalenza dei prodotti scambiati, punizione del debitore, risarcimento del creditore ecc.).

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10. La cura di sé


Secondo Foucault, l'uso della vita esige una ininterrotta cura di sé. Il motivo è intuibile: non potremmo servirci efficacemente della nostra esistenza, se non adottassimo giorno dopo giorno i provvedimenti necessari per fare di essa uno strumento ben temperato, duttile, polivalente. Accurato è chi predispone il proprio organismo psicofisico ai più vari impieghi, preoccupandosi di garantire la sua costante maneggiabilità.

Nelle lezioni pubblicate con il titolo L'ermeneutica del soggetto (2001), Foucault analizza le forme che ha preso la cura di sé nella società ellenistica e nel cristianesimo delle origini. Ecco qualche esempio risaputo: l'esame di coscienza, il rendiconto epistolare a un amico degli eccessi e delle carenze che hanno costellato il pomeriggio appena trascorso, gli esperimenti mentali sui diversi modi di reagire a eventi imprevisti, i precetti ascetici, la confessione, l'accorta amministrazione di una vocazione o di una abilità, il ragionamento controfattuale ('se non fossi il musico o la cortigiana che in effetti sono, allora agirei così e così'), l'allenamento a recitare la parte di molti personaggi della commedia umana, l'evocazione congetturale di emozioni attualmente non condivise, la prontezza nel passare la frontiera tra generi di discorso del tutto eterogenei. Che cosa ricaviamo da questo elenco (e dal suo prolungamento virtuale)? Qual è, insomma, il midollo del concetto di cura?

Balza agli occhi che le pratiche in cui si riversa la preoccupazione per la propria utilizzabilità consistono, a loro volta, in una peculiare utilizzazione di sé. La cura, che prepara a ogni sorta di maneggio tattile della vita, è già, in quanto tale, un tastarsi e un maneggiarsi da parte del vivente. Più che un preambolo dell'uso, essa è il suo raddoppiamento riflessivo. Saggiando il nostro organismo psicofisico mediante simulazioni ed esperimenti, usiamo questo organismo allo scopo di renderlo sempre più usabile. In breve: la cura è un uso alla seconda potenza. L'esame di coscienza, l'ascesi, il ragionamento controfattuale ecc. sono gremiti di tecniche e di regole la cui funzione eminente è di facilitare l'acquisizione delle tecniche e delle regole da cui dipendono i molteplici usi particolari dell'esistenza.

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Glossa


Nell'epoca del capitalismo, la vita da usare si presenta come forza-lavoro. Questo termine designa la potenza di produrre. O meglio: designa tutte le potenze fisiche e mentali insite in un corpo umano (facoltà di linguaggio, abilità motoria, memoria, attitudine all'apprendimento ecc.), a condizione però che esse siano indirizzate alla produzione. Comprata e venduta prima ancora di attuarsi in specifiche operazioni lavorative, la dynamis che porta il nome di forza-lavoro è il punto di applicazione della moderna cura di sé. Occorre salvaguardare e qualificare e accrescere la propria potenza di produrre, ovvero la propria utilizzabilità all'interno dell'impresa capitalistica. Incessante e perfino frenetica è la cura di sé che prepara un uso di sé da parte di altri.

L'«ermeneutica del soggetto», scandita da esercizi spirituali e giochi di ruolo, è ormai parte integrante del concetto di forza-lavoro. E contribuisce non poco a determinare il valore di scambio di quest'ultima. L'esame di coscienza, lo studio dei modi in cui bisogna reagire all'imprevisto, l'allenamento a recitare copioni diversi, finanche la confessione, rifioriscono negli stages, nei corsi aggiornamento, insomma nella "formazione ininterrotta" cui sono obbligati i lavoratori salariati. La cura dell'anima praticata dagli stoici e dalle prime comunità cristiane ha un equivalente caricaturale, ma non infedele, nell'atteggiamento oculato e guardingo dei pezzenti della terra che indulgono all'infame mitologema secondo il quale ciascuno di essi sarebbe "imprenditore di se stesso".

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Sospendendo e poi ripristinando il sodalizio tra attività linguistiche e non-linguistiche, l'interprete di una pièce mette in luce l'ordito della forma di vita umana (ovvero, ma è lo stesso, l'ordito dell'uso della vita da parte degli animali umani). E dà ragguagli preziosi su un passaggio cruciale dell'antropogenesi. Enunciati che faticano a inserirsi nella sequenza di gesti e movimenti, intraprese non verbali che stentano a integrarsi con quel che si dice: tutto lascia pensare che questa duplice difficoltà abbia segnato per un periodo non breve il processo di formazione della nostra specie. L'attore che intravede nella parola un intralcio all'azione, o nell'azione un indebolimento della parola, riproduce in proporzioni lillipuziane il training evolutivo dell'animale loquace.

Negli ultimi vent'anni della sua vita, Ludwig Wittgenstein non ha mai perso di vista il nesso indissolubile che lega assieme parlare e agire, semantica e motilità corporea. Il suo campo d'indagine coincide in larga misura con i problemi che assillano attori e registi durante la preparazione di uno spettacolo. Anche Wittgenstein, come la gente di teatro, ricostruisce analiticamente il connubio di enunciati e gesti mediante una miriade di esperimenti, o meglio, di prove. Si chiede, per esempio, come bisogna immaginare la scena, solo in apparenza semplice, di un operaio edile che ordina all'aiutante di passargli una lastra (cfr. Wittgenstein 1953, 2); o quali sono le manifestazioni verbali e fisiognomiche del dubbio, dell'attesa, del dolore. Egli chiama Sprachspiele queste prove sperimentali. Il termine tedesco viene reso in italiano con «giochi linguistici». Propongo una traduzione diversa: recite linguistiche. La variante è legittima, giacché il verbo spielen (come l'inglese to play) significa tanto giocare quanto recitare e suonare. Ma la traduzione alternativa presenta anche qualche vantaggio da un punto di vista schiettamente teorico. In linea di principio, un gioco può essere soltanto verbale; una recita, mai. Un gioco eseguito con le parole si limita a presupporre certe pratiche non-linguistiche; la recita, invece, mette esplicitamente a tema l'intersezione tra queste pratiche e i discorsi, attestando la loro inscindibilità. Un gioco (elencare i colori che si conoscono, per esempio) si staglia sullo sfondo di una forma di vita (quella del pittore o del commerciante di fiori); la recita include in sé il preteso sfondo, lo rende appariscente, ne fa una figura in altorilievo (si elencano i colori mentre si danno gli ultimi ritocchi a una tela o si lega un mazzo di fiori).

Sia le recite linguistiche di Wittgenstein sia le rappresentazioni teatrali non concedono nulla all'invisibile. Non svolge alcuna funzione, in esse, l'interiorità psicologica.

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