Copertina
Autore Guido Visconti
Titolo Dove va la terra?
SottotitoloNascita, storia e prospettive del nostro pianeta
EdizioneBoroli, Milano, 2006, Storia storie memorie , pag. 206, ill., cop.ril.sov., dim. 150x222x20 mm , Isbn 978-88-7493-084-5
LettoreCorrado Leonardo, 2006
Classe scienze della terra , ecologia , natura , fisica
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Indice


  7 Introduzione



    LE CARATTERISTICHE FISICHE DELLA TERRA


 15 Le dimensioni della Terra

 20 La massa della Terra

 24 La Terra nel sistema solare

 24 Alcuni dati a confronto sui pianeti
    del sistema solare
 25 La densità come «spia» della composizione
 27 Le indicazioni fornite dai meteoriti
 29 Qualche nozione di «fisica» dei pianeti

 36 La struttura interna della Terra

 36 Quali informazioni ricaviamo
    dal regime di rotazione
 38 La precessione degli equinozi
 41 La forma della Terra svelata
    dai satelliti artificiali
 44 Le variazioni secolari
    dello schiacciamento ai Poli
 45 Il sondaggio sismico

 50 L'origine della Terra

 50 La nascita del sistema solare
 52 L'ambiente della nebulosa primitiva
 54 Come nascono i pianeti
 55 La composizione chimica dei pianeti
 57 La differenziazione della Terra e
    l'origine del nucleo
 60 L'origine della Luna
 61 La temperatura della Terra


    IL SISTEMA TERRA


 65 Il misterioso nucleo terrestre

 67 Il campo magnetico
 69 La generazione del campo magnetico
 72 Il caos
 76 Le inversioni del campo magnetico
 77 La dinamo nel nucleo

 81 La Terra dinamica: la tettonica a placche

 81 La storia della scoperta
 83 Le prove induttive della tettonica a placche
 84 Le prove fisiche della tettonica a placche
 86 La geografia delle placche
 87 Il motore della tettonica a placche
 90 Anche la Luna ha la sua parte
 91 Tettonica e calore
 92 E sempre stato così?
 93 La tettonica a placche e i terremoti

 95 L'idrosfera

 95 Le caratteristiche delle acque oceaniche
 98 La circolazione dell'oceano
100 La chimica dell'oceano

104 L'atmosfera

104 L'origine dell'atmosfera
105 L'atmosfera prebiologica
108 La rivoluzione dell'ossigeno
110 La storia dell'ossigeno si intreccia
    con quella della Terra
112 Il ciclo idrologico
113 L'atmosfera e il clima
116 La biosfera
120 L'origine della vita
121 Le molecole della vita
122 La sintesi prebiotica
123 Gaia: la mitizzazione della biosfera

130 I cicli biogeochimici

130 Il riciclo degli elementi
130 Il ciclo dell'azoto
132 Il ciclo dell'ossigeno
135 Il ciclo del carbonio

137 Come funziona il sistema Terra

137 Il legame tra la tettonica a placche e il clima
140 I livelli di anidride carbonica
    durante le ere glaciali
141 Le glaciazioni e la crosta terrestre


    EVENTI CHE CI RIGUARDANO DA VICINO


147 Impatti di asteroidi


153 I vulcani

154 Gli effetti diretti delle eruzioni
156 Gli effetti climatici delle eruzioni

162 I terremoti

162 Un po' di storia
164 Come avvengono i terremoti
166 La previsione dei terremoti


    IL FUTURO DELLA TERRA


171 Come finirà la Terra?

171 Quante «Terre» ci sono nell'Universo?
173 Quando moriranno gli oceani?
176 La deriva dei continenti: torneremo a Pangea?

179 La distruzione della Terra?

180 La creazione di particelle strangelet
182 Le instabilità del vuoto
183 La fine naturale della Terra
183 Una via di uscita: la sfera di Dyson
    e il terraforming
184 Homo sapiens colono di altri pianeti?

    APPENDICE

191 Bibliografia

197 Glossario

 

 

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Pagina 7

Introduzione


La visione scientifica della Terra ha conosciuto nei trascorsi decenni una rapida evoluzione. Per avere un 'idea dell'avvicendamento di studi e teorie sul nostro pianeta, mi pare interessante e istruttivo cominciare a parlare della Terra con una veloce rassegna dei testi classici, di tipo professionale e divulgativo, che ho incontrato nella mia carriera.

Nel 1954 esce il secondo volume della serie «The Solar System» pubblicata dalla University of Chicago Press e curata da Gerard Kuiper, uno dei padri fondatori della planetologia. Al libro, che si intitola The Earth as a Planet, con chiara allusione alla sua impostazione «olistica», collaborano i maggiori «mostri sacri» del tempo, come per esempio Sir Harold Jeffreys per la dinamica del sistema Terra-Luna, Sir Edward Bullard per la struttura interna della Terra, Tuzo Wilson per l'evoluzione della crosta terrestre, fino a Harald Ulrik Sverdrup per l'oceanografia.

Questi contributi offrono notizie e dati di inestimabile valore, ma l'impressione generale è che le conoscenze sulla Terra fossero ancora, a quel tempo, molto «primitive», se confrontate con quelle attuali. Per esempio, nel saggio di Wilson non si fa menzione della tettonica delle zolle (o a placche) e neanche della teoria della deriva dei continenti. Non tutto è però a questo livello. Per esempio, il capitolo di Evelyn G. Hutchinson sulla biogeochimica dell'atmosfera terrestre fa intravvedere la metodologia che porterà poi allo studio dei cicli biogeochimici.

Ovviamente, si avverte nel libro la mancanza di quella mole di dati, fondamentali per lo studio della Terra, che saranno in seguito raccolti grazie all'impiego di satelliti artificiali (è solo nel 1957, infatti, che viene lanciata la prima sonda).

In alcuni settori, però, si ricorreva già al mezzo spaziale. Per esempio, Fred Whipple parla dei dati per l'atmosfera sopra i 30 km ottenuti mediante razzi. Impiegando missili da guerra come le V-2 vengono fornite le prime foto della Terra prese sopra i 100 km di altezza, che ritraggono una regione sudoccidentale degli Usa e che nel volume sono commentate da Clyde Holliday.

Molto citato in quasi tutti i capitoli sulla Terra è il «testo sacro» di Jeffreys, The Earth, pubblicato alla fine degli anni '40 del secolo scorso e arrivato alla terza edizione nel 1952. Leggendo oggi questo libro ci si trova in grande difficoltà. La mancanza di dati, ma soprattutto la grave lacuna rappresentata dall'assenza del calcolo numerico, porta al ricorso a metodi matematici estremamente involuti e nella maggior parte dei casi incomprensibili. Nel libro curato da Kuiper, al contrario, sono riportati i più importanti risultati che riguardano la fisica della Terra e che oggi sarebbero alla portata di qualunque studente di Fisica del primo anno.

Nel 1970 viene pubblicato un volume curato da Preston Cloud, uno dei geologi più «umanisti», dal titolo significativo Adventures in Earth History. Il libro ha il seguente sottotitolo: Una raccolta di scritti significativi, ripresi dalle fonti originali, di cosmologia, geologia, climatologia, oceanografia, evoluzione organica, e altri argomenti di interesse per gli studiosi di storia della Terra. Vi sono contributi di Harold Urey e Charles Darwin, ma anche di Edward Lorenz e del giovane Stephen Jay Gould. Qui la teoria della deriva dei continenti e la tettonica delle zolle si trovano citate persino nel glossario e nell'articolo di Tuzo Wilson del 1965 ristampato da «Nature». In questo testo il segnale forte viene dal capitolo che tratta l'evoluzione interattiva tra biosfera, atmosfera e litosfera nella Terra primitiva. Si trovano articoli storici di Thomas H. Huxley e John Burton Sanderson Haldane, ma anche più recenti di Melvin Calvin e George Wald, che possono ora parlare di origine della vita in termini assai più concreti, essendo trascorsi oltre 10 anni dalla scoperta della struttura del Dna (1953).

Per quanto riguarda un altro settore in rapida ascesa, quello relativo alla storia climatica della Terra, si passa dall'articolo di Ernst J. Öpik dei primi anni '50 del 1900 fino a quello del 1958 di Cesare Emiliani (altro profeta inascoltato in patria), nel quale si intravvedono le potenzialità del metodo per la determinazione della paleotemperatura (in larga misura da lui stesso inventato) e soprattutto la periodicità del fenomeno delle glaciazioni.

Accanto a questo bel libro ve n'è un altro, curato dallo stesso Cloud, uscito nel 1988 con il titolo Oasis in Space (acquistato – rammento – in una bellissima libreria con annessa sala da tè ad Aspen, in Colorado). Si tratta di uno di quei volumi che ti tranquillizza avere in casa, pubblicato 18 anni dopo il precedente con un sottotitolo simile: La storia della Terra dall'inizio. Leggendo questo testo, ci si accorge come alla fine degli anni '80 del secolo scorso le conoscenze sulla Terra si siano «stabilizzate» e, nella logica di Thomas Kuhn, seguano oramai un paradigma che richiede, almeno in apparenza, solo lavoro di routine; in effetti, ciò non è del tutto vero perché ci sono problemi irrisolti, come quelli relativi all'origine della vita e anche alle oscillazioni climatiche legate alle glaciazioni. Il libro di Cloud contiene per la prima volta considerazioni sulla nascita della vita, ma anche sulla sua possibile estinzione. È questo un segno dei tempi, e soprattutto del fatto che, insieme con le conoscenze, è aumentata la consapevolezza della fragilità del mondo in cui viviamo e di quanto le sue risorse debbano essere sfruttate in modo razionale. Questo almeno riflette il pensiero dell'élite accademica americana.

Si sovrappongono così due «storie» distinte: la vera e propria storia della Terra (come essa si origina e come si evolve) e la storia della conoscenza. È chiaro che queste due storie sono sempre distinguibili, ma sarà interessante tenere traccia dell'evoluzione delle idee che porta alla stabilizzazione della conoscenza. Questo perché, spesso, la metodologia è legata all'epoca, ai mezzi tecnologici a disposizione, ai fondi e, infine, alle persone che sviluppano le idee. Sono questi, in fin dei conti, i fattori che determinano l'affermarsi di una teoria piuttosto che di un'altra.

Il nostro percorso per quello che segue sarà piuttosto lineare. Cominceremo a spiegare come si è arrivati a valutare le dimensioni della Terra, degli altri pianeti e quindi del sistema solare.

Una volta che avremo idee più precise su come si pone la Terra nel sistema solare, vedremo come arrivare a stimare la composizione chimica dei pianeti, in modo da disporre di indizi su come si è originato il sistema solare.

Ci rivolgeremo quindi alla Terra per capire, attraverso una serie di metodologie distinte, come è fatta la sua struttura interna. Vedremo come alcuni dati siano ottenibili direttamente dalle osservazioni sul regime di rotazione, che ci porta a scoperte sorprendenti, come la precessione degli equinozi, che già Ipparco in parte conosceva. Il dato circa il periodo della precessione, insieme con osservazioni più recenti, ci consentirà una valutazione quantitativa del momento d'inerzia della Terra. Sarà questa la conferma definitiva della presenza di un nucleo ad alta densità al centro della Terra. La misura precisa del raggio del nucleo era stata comunque fatta già nei primi anni del '900 usando le onde sismiche. Questo lavoro «da detective», attraverso lo studio dei tempi di arrivo delle onde nelle varie stazioni, ci permette di ricavare un modello abbastanza preciso di come la composizione della Terra vari in funzione della profondità. Lo sviluppo più recente è quello della tomografia sismica, che ci permette di accertare l'esistenza di disuniformità nell'interno della Terra.

Una volta conosciuta la struttura del nostro pianeta, ci domandiamo come questo si sia originato, esaminando le teorie attuali della nascita della Terra e della sua differenziazione in crosta, mantello e nucleo (in particolare se tale differenziazione si sviluppa al momento dell'origine o è una conseguenza di un riscaldamento successivo). Uno degli elementi più importanti di questo quadro evolutivo è la formazione del nucleo, che quasi sicuramente è responsabile del campo magnetico della Terra.

La generazione del campo magnetico richiede energia che, nel caso della Terra, è essenzialmente quella connessa alla rotazione. Il meccanismo di generazione è simile a quello di una dinamo, però con la peculiarità di doversi dotare sia del campo magnetico, sia della corrente elettrica necessaria. Questa particolare dinamo è caotica. Per esempio, non c'è nessuna ragione per cui il campo magnetico sia preferenzialmente diretto verso un polo piuttosto che verso l'altro. Questo comporta che, a volte, il campo magnetico si inverta: l'ultima volta e successo 690.000 anni fa. Nel passato questo non ha mai comportato effetti di rilievo per la vita sul pianeta; oggi, dato che l'inversione si verifa dopo un progressivo indebolimento dell'intensità del campo magnetico, ci potrebbero essere serie conseguenze per le telecomunicazioni. In particolare, le inversioni del campo magnetico servono a datare eventi che si sviluppano lungo milioni di anni, come per esempio quello che un tempo veniva chiamato «deriva dei continenti»

La deriva dei continenti di fatto rientra attualmente nel modello chiamato tettonica delle zolle ed è una scoperta relativamente giovane. Essa è legata ai luoghi dove avvengono i terremoti, ma soprattutto è la conseguenza di un fondo oceanico in perenne stato di rinnovamento, con un'età che non va oltre i 120 milioni di anni. La tettonica a placche (così la chiameremo in seguito) è importante perché costituisce un meccanismo dinamico attraverso cui vengono riciclati i nutrienti che formano la base della catena alimentare dell'oceano.

La Terra però non è solo la parte solida: è anche un contenitore per una parte liquida, gli oceani, che con tutta probabilità si originarono insieme con essa. Gli oceani sono fondamentali per l'esistenza della vita sulla Terra e la loro interazione con l'atmosfera è un importante elemento per la dinamica del sistema Terra.

Sembra quasi impossibile pensare a un'interazione fra oceano (idrosfera), atmosfera e parte solida del pianeta (litosfera). Questa interazione invece esiste ed è un meccanismo importante attraverso il quale, per esempio, si limita l'altezza delle catene montuose. Infatti, lo scontro fra le placche determina l'altezza delle catene montuose, processo che a sua volta, consumando anidride carbonica, determina il riscaldamento o il raffreddamento della Terra.

Un ulteriore meccanismo è quello che regola, su scale temporali di varie decine di milioni di anni, la quantità di anidride carbonica (o biossido di carbonio) nell'atmosfera e quindi il clima. Se le placche tettoniche si muovono velocemente, la quantità di anidride carbonica che finisce in atmosfera è maggiore rispetto al caso in cui il movimento sia lento. Tutto ciò richiede la conoscenza del modo in cui i vari elementi chimici vengono riciclati fra le varie «sfere» (idrosfera, atmosfera e litosfera) e la «sfera» dei viventi (biosfera), che costituiscono il sistema Terra.

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La biosfera


La biosfera è l'unica componente del sistema Terra che non ha una localizzazione fissa o comunque che si identifichi con una particolare regione del nostro pianeta. Infatti, ritroviamo i costituenti della biosfera nell'oceano, nella litosfera e, anche se in minima misura, nell'atmosfera. Un parametro che fornisce una misura quantitativa della biosfera è dato dal suo contenuto di carbonio organico. Si stima che attualmente la biosfera contenga circa 5000 miliardi di tonnellate di carbonio, di cui circa il 20% fa parte delle strutture degli organismi viventi, mentre il resto è contenuto in materiali prodotti dagli stessi organismi o proviene dalle decomposizioni di materia organica. La vita media del carbonio prodotto da organismi viventi nella biosfera è di circa 10 anni sulla terraferma e di 1-2 mesi nell'oceano; i prodotti «morti» come l'humus hanno una vita media che va da poche a varie decine di anni.

Il volume della biosfera e il ritmo di rinnovamento hanno un'importanza fondamentale nel regolare le modalità di assorbimento dell'anidride carbonica che viene immessa in atmosfera.

La nozione di biosfera è abbastanza recente, in quanto fu utilizzata per la prima volta nel 1875 dal geologo austriaco Eduard Suess, anche se la sua sistemazione concettuale risale agli anni '20 del secolo scorso a opera del geochimico russo Vladimir Vernadskij. In ogni caso, il concetto di biosfera ebbe scarsa diffusione fino a quando, in tempi assai recenti, ci si è resi conto dell'importanza che aveva per la funzione svolta dagli esseri viventi.

La Terra è l'unico pianeta del sistema solare a ospitare forme di vita e questo è dovuto a una serie di ragioni tra cui la disponibilità di acqua allo stato liquido, la presenza di una sorgente di energia (il Sole), la possibilità di sfruttare condizioni favorevoli in ambienti di «interfaccia», dove coesistono le diverse fasi gassosa, liquida e solida, come avviene per esempio sul fondo degli oceani o dei laghi.

Gli organismi viventi sono costituiti da tre elementi principali: idrogeno, ossigeno e carbonio, accanto ad azoto e in certi casi zolfo (contenuti nei circa 20 amminoacidi più diffusi) e al fosforo, che è un importante nutriente. Il fosforo non è molto abbondante nella biosfera, e questo per varie ragioni: una di queste è che il fosforo è circa 100 volte più scarso di altri elementi come il silicio e lo zolfo (il fosforo è stato quasi interamente catturato nel processo di formazione del nucleo terrestre). Questa scarsità di fosforo rappresenta un fattore limitante della moltiplicazione e della crescita di molti organismi nell'oceano. Al pari del ferro, il fosforo riveste inoltre una grande importanza nelle reazioni di ossido-riduzione.

Gli organismi viventi si distinguono dagli oggetti inanimati per la presenza di processi metabolici, costituiti da un insieme di reazioni chimiche che si svolgono all'interno degli stessi organismi e ne permettono la sopravvivenza e la crescita. I processi metabolici si possono dividere in due grandi categorie: da un lato, i processi in cui vengono costruite molecole organiche, detti anabolici o biosintetici, e dall'altro, i processi in cui le molecole organiche vengono demolite per liberare energia, detti catabolici.

Certi organismi sono in grado di fabbricare da sé, a partire da sostanze inorganiche, le molecole organiche necessarie per i propri processi anabolici e sono detti autotrofi: altri organismi devono invece utilizzare molecole organiche già formate presenti nell'ambiente (rese disponibili dagli organismi autotrofi) e sono detti eterotrofi.

L'energia necessaria per sintetizzare molecole organiche a partire da sostanze inorganiche può derivare dalla luce solare, come nel caso degli organismi fotoautotrofi (come le piante) oppure può derivare da reazioni chimiche, come nel caso degli organismi chemioautotrofi (quali alcuni batteri). La nostra specie (Homo sapiens) come tutti gli altri animali fa parte degli organismi eterotrofi.

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    Tabella 7.  LE TAPPE PRINCIPALI DELL'EVOLUZIONE
                DELLA TERRA E DELLA BIOSFERA
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4,6 miliardi • Formazione della Terra.
di anni fa   • Si accumulano gli oceani e l'atmosfera.
             • L'idrogeno molecolare fuoriesce dall'interno della Terra.
             • Processi abiotici (per esempio, i fulmini producono
               l'accumulo di metano 4 miliardi di anni fa).
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4 miliardi   • Si origina la vita.
di anni fa   • Organismi simili a batteri anaerobi capaci di operare
               la fermentazione metabolizzano carbonio (C) organico
               prodotto abioticamente.
             • La biosfera è limitata dalla scarsa disponibilità
               di carbonio organico.
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3,5 miliardi • Si sviluppano organismi chemoautotrofi.
di anni fa   • I metanobatteri metanici sviluppano la capacità
               di assimilare anidride carbonica e idrogeno.
             • La popolazione dei chemioautotrofi è limitata
               dalla disponibilità di idrogeno.
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3 miliardi   • Sviluppo degli organismi fotoautotrofi.
di anni fa   • Batteri verdi-porpora eliminano la dipendenza
               dall'idrogeno e sintetizzano carbonio organico usando
               l'acido solfidrico come riducente (solfobatteri).
             • La popolazione di solfobatteri fototrofi è limitata
               dalla disponibilità di acido solfidrico.
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2,7 miliardi • Si evolvono i batteri solfati.
di anni fa   • I batteri utilizzano l'acido solforico e il carbonio
               sintetizzato dai batteri verde-porpora per creare un
               ciclo completo con la rigenerazione di acido solfidrico.
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2,5 miliardi • Si evolvono le piante verdi (quelle che utilizzano
di anni fa     la fotosintesi).
             • La fotosintesi di carbonio organico dall'acqua e anidride
               carbonica è molto più efficiente dei processi dei batteri
               verde-porpora.
             • La fotosintesi causa un aumento dell'ossigeno, che essendo
               un gas ossidante minaccia gli anaerobi, ma anche gli altri
               organismi se la concentrazione diventa troppo elevata.
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1,8 miliardi • Si evolve la respirazione aerobica.
di anni fa   • Gli aerobi utilizzano ossigeno e carbonio organico
               prodotti dalle piante verdi rigenerando l'ossigeno,
               creando in questo modo un ciclo energetico fruttuoso.
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Oggi         • La popolazione umana supera i 6 miliardi.
             • L'uso di combustibili fossili porta a un rapido aumento
               dell'anidride carbonica in atmosfera.
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Come funziona il sistema Terra


Un primo tentativo di spiegare come funziona il sistema Terra risale al 1981, quando James Walker, Paul Hays e Jim Kasting pubblicarono un lavoro in cui esponevano come il clima della Terra potesse essere regolato da un semplice meccanismo basato sull'erosione. Come punto di partenza si assume che la temperatura della Terra sia regolata dal contenuto di anidride carbonica atmosferica. A sua volta, la quantità di anidride carbonica dipende dal bilancio che si stabilisce sul lungo periodo fra le emissioni di questo gas a opera dei vulcani sulla Terra e la distruzione di anidride carbonica nel processo di erosione.

Per spiegare il raffreddamento progressivo della Terra negli ultimi 100 milioni di anni Robert Berner, Antonio Lasaga e Robert Garrels avanzarono l'ipotesi che il tasso di immissione dell'anidride carbonica fosse diminuito in atmosfera per effetto del rallentamento del moto delle placche tettoniche. Un'ipotesi, quindi, che mette in connessione diretta il clima sulla Terra con il movimento delle placche tettoniche.


Il legame tra la tettonica a placche e il clima

Secondo l'ipotesi di Berner, Lasaga e Garrels (che indicheremo come ipotesi Blag) il tasso di immissione dell'anidride carbonica in atmosfera dipende dalla velocità con cui si muovono le placche litosferiche. Un loro movimento accelerato comporta non solo una maggiore emissione di anidride carbonica, ma anche un aumento del livello della dorsale e quindi una crescita del livello del mare. Una decelerazione del moto comporta una minore immissione di anidride carbonica e quindi una diminuzione della sua concentrazione atmosferica, con una conseguente riduzione della temperatura. A questo punto si pone però un problema, connesso alla quantità di ossido di calcio, CaO, che finisce nei mari dai fiumi e che deriva dalla reazione:

CO2 + CaSiO3 --> CaCO3 + Si02

Il carbonato di calcio (CaCO3) che si forma si dissocia in anidride carbonica (CO2) e CaO. La velocità di queste reazioni dipende dalla temperatura alla superficie, nel senso che raddoppia per ogni 10°C di incremento della temperatura. Perché 100 milioni di anni fa queste reazioni avessero una velocità doppia rispetto a oggi, in modo da mantenere in perfetto equilibrio l'emissione di anidride carbonica con la sua distruzione a opera dell'erosione, la temperatura della Terra doveva essere di 10°C più alta di oggi, il che implica una concentrazione atmosferica di anidride carbonica 8 volte più elevata di quella attuale: questo significa concentrazioni di CO2 dell'ordine di 2000 ppm.

Un altro meccanismo proposto per la regolazione della quantità di anidride carbonica in atmosfera viene indicato da Wallace Broecker come l'ipotesi Galb. In questo caso si assume che la quantità di CaO che deriva dall'erosione dei silicati sia maggiore della quantità di anidride carbonica che viene immessa in atmosfera e che l'eccesso conseguente di CaCO venga incorporato nei silicati del mare profondo in sostituzione del magnesio.

Un altro punto di contatto fra il movimento delle placche e il clima ha a che fare con il progressivo raffreddamento della Terra negli ultimi 50 milioni di anni. La prima ipotesi che viene in mente di verificare riguarda la possibilità che il ritmo di formazione della crosta oceanica sia rallentato. In effetti tale ritmo è diminuito fino a 15 milioni di anni fa, per poi crescere di nuovo fino a tornare, attualmente, agli stessi livelli che si erano riscontrati 30 milioni di anni fa. Ci si aspetterebbe, pertanto, un aumento della quantità di anidride carbonica immessa in atmosfera e quindi un riscaldamento del clima, quando invece, in effetti, il clima ha continuato a raffreddarsi.

Per giustificare questo andamento è stata formulata l'ipotesi secondo cui si sarebbero sollevati durante questi anni i grandi altopiani della Terra, causando una serie di processi che hanno portato al raffreddamento del clima.

Gli altopiani che si sono sollevati negli ultimi 50 milioni di anni sono quello del Tibet, quelli a ovest del Nord America e quelli africani. La prova inconfutabile di questo sollevamento è rappresentata dall'altopiano del Tibet, che si è formato dallo scontro fra la placca asiatica e quella indiana. Si tratta di un altopiano che si estende per 2 milioni di km^2, a un'altezza media di 5 km. Gli altri altopiani (a parte quelli africani) si sono creati in seguito alla subduzione di crosta oceanica, in corrispondenza dei rispettivi margini continentali. Ciò è avvenuto nella parte centrale delle Ande e nelle Montagne Rocciose. In Africa, invece, la parte più profonda del continente si è andata scaldando, producendo in tal modo un consistente sollevamento.

Il sollevamento dei continenti comporta senza dubbio una variazione della superficie esposta all'erosione fisica. In questo caso le stime si possono basare sulla quantità di sedimenti depositati nell'Oceano Indiano, il cui ritmo di formazione subisce un'accelerazione a partire da circa 15 milioni di anni fa. Questo aumento nel ritmo di deposizione è compatibile con il fatto che il sollevamento dell'altopiano del Tibet abbia causato un'intensificazione del regime dei monsoni e delle piogge. Un aumento di quota dell'altopiano comporta un raffreddamento della superficie, in quanto si viene a trovare a quote più alte. Per il Tibet si calcola che questo raffreddamento possa essere stato di 15°C. Un aumento della quota può inoltre significare un'intensificazione delle correnti atmosferiche e di conseguenza uno scambio più vivace fra alte e basse latitudini. Una maggiore elevazione dell'altopiano comporta anche la deviazione di queste correnti verso l'alto e quindi un'aumentata condensazione del vapore e delle precipitazioni. In pratica si arriva a un'intensificazione del regime dei monsoni.

Infine, un terzo indizio a riprova del sollevamento è rappresentato dall'aumento del ritmo di erosione chimica. Questo aspetto, anche se indirettamente legato al precedente, è assai più difficile da accertare.

In conclusione, se si assume che solo l'1% della superficie terrestre si sia sollevata, questo potrebbe corrispondere a un aumento di 50 volte nel ritmo di erosione delle regioni sollevate. Questo porterebbe a una diminuzione della quantità di anidride carbonica e quindi a un raffreddamento globale. A sua volta, una temperatura più bassa comporta piogge di minore entità nelle regioni che non hanno subito il sollevamento e quindi una riduzione del ritmo di erosione chimica in quelle zone. Questo in parte potrebbe compensare la riduzione di anidride carbonica e quindi portare a una stabilità, comunque a temperature più basse.


I livelli di anidride carbonica durante le ere glaciali

Durante i periodi glaciali, la quantità di anidride carbonica è diminuita al pari della temperatura. Si va da un minimo di 190 ppm, durante le ere glaciali, a un massimo di 280 ppm, durante i periodi interglaciali.

Le condizioni climatiche al tempo delle ere glaciali erano assai diverse rispetto a quelle attuali, con temperature del mare che erano in media più basse di circa 2,5°C. La salinità dell'oceano era più alta di circa l'1,1% a causa della quantità di acqua dolce che andava a formare le calotte glaciali. Un oceano più freddo scioglie più facilmente l'anidride carbonica. Un oceano più salato scioglie meno facilmente l'anidride carbonica, per cui come risultato finale si potrebbero avere circa 10 pmm in meno di anidride carbonica nell'aria. Per arrivare a 90 ppm occorre però ricorrere a spiegazioni di altro tipo.

Un'ipotesi che è stata subito avanzata in proposito è che, durante i periodi glaciali, il livello dell'oceano si abbassi in media di 80-100 m, scoprendo larghe porzioni della piattaforma continentale e intensificando quindi l'erosione. I prodotti dell'erosione costituiscono dei validi nutrienti per i processi fotosintetici nell'ambiente marino, per cui, se l'attività di fotosintesi aumenta, la quantità di anidride carbonica in atmosfera diminuisce; la valutazione è attorno ai 25 ppm.

Un'altra ipotesi si riferisce alla fertilizzazione dell'oceano: durante un'era glaciale, aumenta in modo vistoso la quantità di polvere in atmosfera a causa del clima più arido. Uno degli elementi contenuti nella polvere è il ferro, che è uno dei nutrienti più importanti. L'aggiunta di ferro alle acque marine porterebbe pertanto a un aumento dei processi fotosintetici e quindi a una riduzione della quantità di anidride carbonica.

[...]

In definitiva, quindi, si può assumere che la riduzione del livello di anidride carbonica nell'oceano sia prodotta da una serie di fattori, e precisamente: la temperatura più bassa, l'aumento dell'erosione, la variazione della chimica dell'oceano.

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La distruzione della Terra?


Nel libro Il secolo finale pubblicato nel 2003 da Martin Rees, baronetto d'Inghilterra e astrofisico, c'è un capitolo dal titolo «Rischi estremi», che inizia con una riformulazione del principio di precauzione, facendolo risalire a una riflessione di Blaise Pascal. Quale estrema conseguenza del principio di precauzione, Rees riportava alcuni esperimenti di fisica che potevano portare alla distruzione della Terra stessa.

Nel suo libro Rees descrive i dubbi che serpeggiavano fra i fisici coinvolti nel Progetto Manhattan (che durante la Seconda guerra mondiale avrebbe portato alla costruzione della prima bomba atomica) prima che l'ordigno venisse provato a Los Alamos. Il timore era che l'esplosione atomica innescasse una reazione a catena con l'azoto atmosferico. Le stesse preoccupazioni venivano di nuovo espresse negli anni '50 del secolo scorso prima della sperimentazione della prima bomba all'idrogeno. Oggi sappiamo che questi ordigni sono «sicuri» da questo punto di vista e che l'unica preoccupazione collegata ad essi riguarda il loro uso massiccio, oppure il loro uso a scopi terroristici.

Rees richiamava però l'attenzione su un altro timore: l'eventualità che potessero essere proprio alcuni esperimenti di fisica delle particelle elementari (e quindi in ultima analisi la scienza, e non le guerre) a portare alla distruzione della Terra.

Ciononostante, in una recensione del libro pubblicata su «Nature», Don Brownlee ribadisce il suo ingenuo apprezzamento della scienza. Eppure i dubbi sollevati da Rees da questo punto di vista sono notevoli. Brownlee invece trascura completamente l'opinione di Rees secondo cui di nessun esperimento si conosce l'esito, altrimenti non ci sarebbe ragione di farlo. Bisogna dire che il pericolo paventato da Rees era vecchio di qualche anno: lui stesso nel 1984, e poi Frank Wilczek nel 1999, aveva segnalato la possibilità che esperimenti di fisica delle particelle elementari potessero distruggere la Terra.


La creazione di particelle strangelet

Nel 1999, presso il Brookhaven National Laboratory di Long Island, a New York, veniva realizzato un esperimento noto come Rhic (Relativistic Heavy Ion Collider), che prevedeva lo studio di collisioni ad alta energia di ioni di piombo e di oro. Nel luglio del 1999, sulla rivista «Scientific American» il fisico americano Frank Wilczek rispondeva alla mail di un lettore che paventava la possibilità che un esperimento di questo genere portasse alla creazione di un mini «buco nero», che avrebbe poi inghiottito il resto della materia. Nella sua risposta, Wilczek escludeva questa possibilità, presentandone però un'altra che si riferiva alla creazione di particelle «strane» (strangelet) che venivano paragonate al «ghiaccio nove», teorizzato nell'omonimo romanzo di Kurt Vonnegut del 1963: qui si parlava di una forma particolare di un cristallo d'acqua che, cadendo accidentalmente in mare, trasformava l'intero oceano in ghiaccio. Il fatto che stiamo scrivendo questo libro significa che nessuno degli eventi teorizzati si è verificato.

Nel 1999, comunque, la comunità scientifica esplorò in modo approfondito queste diverse possibilità; in particolare, la rivista «Nuclear Physics» pubblicò un articolo sul tema a opera di tre ricercatori del Cern (il Centro europeo per le ricerche nucleari di Ginevra), mentre ricerche accurate vennero condotte da una commissione di cui faceva parte lo stesso Wilczek, che pubblicò la sua relazione su Internet nel luglio del 2000.

Gli autori di questi studi concordavano sul fatto che la nascita di mini buchi neri fosse da escludersi o che, se anche si fossero creati, sarebbero stati estremamente piccoli. Veniva anche mostrato come esperimenti simili a quelli preventivati erano di fatto già compiuti dai raggi cosmici, che colpivano per esempio la superficie lunare. In conclusione si arrivava a escludere che sussistessero pericoli legati alla formazione di buchi neri.

Il pericolo della formazione di particelle «strane» veniva esaminato in maggior dettaglio. Bisogna a questo punto introdurre il concetto di quark, ovvero particelle elementari costituenti degli adroni (come il protone o il neutrone) e vengono tenuti insieme da particelle di scambio, chiamate gluoni (da glue, colla in inglese). Quando queste particelle vengono «deconfinate» costituiscono un gas che si comporta come un gas ideale, il quale è anche detto plasma quark-gluoni. La materia «strana» si può presentare quando questi quark raggiungono un'alta densità a bassa temperatura. In natura questo tipo di materia può comparire solo nel nucleo di una stella a neutroni. In questo caso la materia «strana», avendo un'energia libera più bassa, tenderà ad assorbire la materia che è al disopra di essa. In ogni caso, l'energia di questo processo è comunque minore dell'energia gravitazionale, per cui la stella non esplode.

Un articolo particolarmente importante riguardo a questo problema è stato scritto nel 2000 dal professor Franco Calogero. Come notava l'autore, affinché si potesse valutare il pericolo legato agli strangelet, si doveva dimostrare che questi esistono, che hanno carica negativa e che fossero prodotti nell'esperimento Rhic o in quello del Cern denominato Alice (A Large Ion Collider Experiment). Calogero metteva in evidenza comunque l'impossibilità di quantificare il rischio, in quanto la conoscenza delle leggi della natura a questi livelli lascia sempre dei margini ampi di incertezza.

Neanche il lavoro citato di Glashow e Wilson tranquillizza completamente quando si afferma: «Se esistono strangelet (il che è concepibile) e se formano dei grumi relativamente stabili (cosa improbabile), e se sono caricati negativamente (mentre la teoria favorisce la carica positiva), e se ancora queste particelle si possono creare nell'esperimento Rhic (che è molto improbabile), allora ci può essere un problema. Una nuova particella strangelet potrebbe catturare un nucleo atomico, crescendo in modo inesorabile e consumando infine la Terra». La parola «improbabile», anche se ripetuta più volte, non ci rassicura sulle paure di un disastro totale.

Nel gennaio del 2004 la questione è tornata di attualità con la notizia che mini buchi neri possano essere generati nel Large Hadron Collider (Lhc), un acceleratore di particelle in costruzione presso il Cern di Ginevra che sarà completato nel 2007. Nell'Lhc si potranno produrre anche 86.000 mini buchi neri al giorno, ma dovrebbero scomparire perché tenderebbero a irradiare quella che viene chiamata radiazione di Hawking, di cui nessuno ha dimostrato l'esistenza.


Le instabilità del vuoto

Un'altra questione interessante riguarda l'eventualità che le collisioni uranio-uranio (nuclei pesanti) possano innescare un altro disastro. In pratica, quello che noi consideriamo come vuoto, di fatto è un'entità che ingloba tutte le forze e le particelle. Questo stato che siamo abituati a osservare come stabile potrebbe in realtà essere metastabile, cioè in condizione di momentanea instabilità. Il paragone fatto da Martin Rees in questo caso è particolarmente interessante in quanto mette a confronto il vuoto e il congelamento dell'acqua. Questa può essere mantenuta liquida anche a temperature inferiori a 0°C, purché sia particolarmente pura. Si tratta, comunque, di uno stato metastabile, perché è sufficiente la presenza di un granello di polvere per causarne il congelamento (transizione di fase).

La stessa cosa potrebbe succedere per il vuoto, che potrebbe essere solo una fase metastabile; una collisione fra nuclei pesanti potrebbe determinare una transizione di fase verso uno stato situato a un livello di energia più basso. Proseguendo con questa analogia, potrebbe darsi che il nostro Universo si trovi in uno stato superraffreddato metastabile e che noi non stiamo vivendo «nel vero vuoto», ma in un vuoto che si trova a un livello di energia superiore. Il falso vuoto potrebbe essere separato da questo da una barriera di potenziale a tutti gli effetti impenetrabile. Può darsi che una collisione uranio-uranio possa formare una bolla in questo spazio dove c'è il vero vuoto e questa bolla si possa propagare alla velocità della luce.

Le incertezze su questo tema sono troppe perché esso sia risolvibile; a questo punto possiamo solo affermare che le collisioni più energetiche si verificano fra raggi cosmici e nucleoni (protoni e neutroni) nell'alta atmosfera della Terra. Si può calcolare che l'energia implicata in queste collisioni naturali sarà superiore di parecchi ordini di grandezza ai livelli di energia che si riescono a raggiungere negli acceleratori.


La fine naturale della Terra

Accanto a queste ipotesi molto affascinanti, quasi fantascientifiche, esiste un inesorabile destino della Terra, lontano nel tempo ed è quello legato al moto nello spazio della nostra galassia, la Via Lattea. Tra circa 3 miliardi di anni (ancor prima che il Sole diventi una gigante rossa), la nostra galassia si scontrerà con Messier M31, un'altra galassia a spirale che attualmente dista da noi 2,2 milioni di anni luce. A questo stadio ancora non sappiamo se l'urto sarà frontale, ma in fondo non si tratta di un'informazione così importante, in quanto la gravità fra i due oggetti sarà tale da rendere quasi inevitabili le più tragiche conseguenze. Tanto più incerta sarà la sorte della Terra e del sistema solare: il nostro pianeta potrebbe infatti essere separato dal resto del sistema solare, per ritrovarsi a vagare nello spazio.

Questa collisione potrebbe anche avere conseguenze meno drammatiche del previsto. Al momento attuale, infatti, la Via Lattea sta collidendo con la galassia Nana del Sagittario e sembra che nessuno se ne stia accorgendo.

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