Copertina
Autore Nicholas Wade
Titolo All'alba dell'uomo
SottotitoloViaggio nelle origini della nostra specie
EdizioneCairo, Milano, 2007 , pag. 396, ill., cop.fle.sov., dim. 15x21x2,6 cm , Isbn 978-88-6052-074-6
OriginaleBefore the Dawn. Recovering the Lost History of Our Ancestors [2006]
TraduttoreAdria Tissoni
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe evoluzione , biologia , genetica , storia , medicina , inizio-fine
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Indice


 1. Genetica e genesi             7

 2. La metamorfosi               20

 3. Le prime parole              49

 4. L'Eden                       69

 5. L'esodo                      96

 6. La stasi                    129

 7. Lo stanzialismo             157

 8. La socialità                175

 9. La razza                    228

10. Il linguaggio               254

11. La storia                   292

12. L'evoluzione                330

Note                            351
Ringraziamenti                  377
Fonti delle illustrazioni       379
Indice analitico                381


 

 

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1
Genetica e genesi



Si è spesso e fidentemente asserito che l'origine dell'uomo non può essere conosciuta: ma l'ignoranza più frequentemente ingenera fiducia che non il sapere: son quelli che sanno poco, e non quelli che sanno molto, i quali affermano positivamente che questo o quel problema non sarà mai risolto dalla scienza.

CHARLES DARWIN, L'origine dell'uomo


Se viaggiamo a ritroso nel passato dell'umanità, nei primi duecento anni le prove storiche abbondano per poi diminuire rapidamente. Superato il limite temporale dei cinquemila anni, non ritroviamo più alcun documento scritto, ma solo la muta testimonianza dei siti archeologici; se andiamo ancor più indietro, nel corso dei successivi diecimila anni persino questi divengono sempre più rari per scomparire quasi del tutto quindicimila anni fa, epoca a cui risalgono i primi insediamenti umani. Prima di allora l'uomo conduceva un'esistenza nomade, basata sulla caccia e sulla raccolta di prodotti della natura; non costruiva nulla e quindi non ha lasciato pressoché nessuna traccia permanente, fatta eccezione per pochi utensili di pietra e le straordinarie pitture parietali nelle grotte d'Europa.

Se andiamo indietro di altri trentacinquemila anni, arriviamo a cinquantamila anni fa, periodo in cui la popolazione ancestrale viveva ancora confinata nella terra d'origine, una regione dell'Africa nordorientale, ma presentava già i primi indizi di un comportamento moderno. Se questo è il momento che segna l'inizio della storia dell'uomo moderno, allora disponiamo di una documentazione scritta solo per l'ultimo 10 per cento di essa mentre il 90 per cento ci sembra irrimediabilmente perduto.

Continuando a viaggiare a ritroso fino agli albori della storia dell'umanità, giungiamo all'epoca in cui, cinque milioni di anni fa, i nostri progenitori, dalle fattezze ancora scimmiesche, si sono separati da quelli degli scimpanzé. Le uniche testimonianze concrete di questo lungo periodo di tempo che ha visto l'evoluzione da scimmia antropomorfa a uomo, sono una piccola quantità di crani danneggiati e alcuni utensili di pietra.

A prima vista non sembrerebbe possibile acquisire una conoscenza approfondita di questi due periodi misteriosi, i cinque milioni di anni di evoluzione dell'uomo e i quarantacinquemila anni di preistoria; tuttavia, da qualche tempo gli studiosi dell'evoluzione, della natura e della storia umane dispongono allo scopo di una nuova, incredibile risorsa: i dati codificati nel DNA del genoma umano e nelle varianti geniche presenti nella popolazione mondiale. Da anni i genetisti contribuiscono allo studio del passato dell'uomo e vi riescono con particolare successo da quando, nel 2003, è stata individuata la sequenza completa del DNA.

Perché il genoma umano, specificamente strutturato per garantire la sopravvivenza nel mondo attuale, ci può rivelare molto del nostro passato? Dato che contiene informazioni ereditarie in continuo mutamento, il genoma può essere paragonato a un documento sottoposto a una costante revisione. Tuttavia, i suoi meccanismi di cambiamento prevedono che le tracce delle versioni precedenti vengano conservate e, pur non essendo facili da interpretare, esse costituiscono una guida in grado di condurci nel lontano passato. Il genoma può quindi essere analizzato in diverse fasce temporali: esso può fornire risposte a questioni risalenti a oltre cinquantamila anni fa, per esempio all'Adamo genetico il cui cromosoma Y è presente in tutti gli esseri umani oggi in vita; oppure può essere impiegato per studiare eventi di un paio di secoli fa soltanto, per esempio per scoprire se Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Stati Uniti, avesse davvero una famiglia segreta con Sally Hemings, la schiava divenuta la sua amante.

Da Adamo a Jefferson, il genoma aiuta i ricercatori a creare un quadro nuovo e assai più dettagliato dell'evoluzione, della natura e della storia dell'uomo. Dal buio più profondo stanno emergendo testimonianze incredibilmente esaurienti che ci permettono di acquisire un'immagine innovativa del passato, basata sui dati affidabili forniti da paleoantropologi, archeologi, antropologi e da numerosi altri specialisti: innovativa perché le informazioni genetiche danno il loro apporto a tutte queste discipline tradizionali e contribuiscono al loro avvicinamento.

Questo libro descrive per l'appunto gli aspetti dell'evoluzione, della natura e della preistoria dell'umanità, scoperti negli ultimi anni grazie alla genetica. Il lettore che non s'interessi abitualmente di tali discipline resterà forse sorpreso dalla messe di informazioni raccolte. Non esistono filmati che illustrino la lenta evoluzione dalla scimmia all'uomo, ma oggi è possibile ricostruire gran parte degli eventi principali che l'hanno caratterizzata. Non esiste una mappa che documenti la migrazione dei nuovi uomini dall'antica terra natale, ma oggi i ricercatori sono in grado di ripercorrerne il cammino dall'Africa e i loro spostamenti nel mondo. È perfino possibile individuare alcune istituzioni sociali create dall'uomo nella fase di transizione dalla vita nomade, basata sulla caccia e la raccolta, alle società complesse della nostra epoca.

Grazie alle informazioni ricavate dal genoma, i paleoantropologi sono riusciti a stabilire il momento in cui l'uomo ha perduto il pelo corporeo e acquisito la facoltà del linguaggio; gli archeologi, invece, hanno potuto fare luce su un'annosa questione: accertare se uomini di Neanderthal e uomini moderni si siano incrociati pacificamente tra loro o si siano combattuti fino all'estinzione dei primi; gli antropologi, infine, hanno acquisito dati sull'adattamento dell'uomo a pratiche culturali quali l'allevamento del bestiame e il cannibalismo. La quantità di informazioni ottenuta dal DNA è utile persino, seppure indirettamente, ai linguisti storici, dato che alcuni biologi stanno cercando di ricostruire l'evoluzione del linguaggio mediante gli alberi filogenetici.

Per quanto concerne il problema della popolazione ancestrale, la comunità da cui discendono tutti gli esseri umani oggi in vita, le tecniche paleoantropologiche e archeologiche non sono in grado di dirci nulla su un popolo scomparso senza lasciare traccia, ma i genetisti, curiosando qua e là nel genoma, possono rivelarci al riguardo ogni sorta di particolari: valutare le dimensioni di tale popolazione, indicare il luogo in Africa in cui probabilmente visse, stabilire una data, per quanto approssimativa, della comparsa del linguaggio e ipotizzare addirittura, come hanno fatto in un caso, le caratteristiche del primo linguaggio.


I primi abiti su misura

Pochi fatti denotano la capacità dei genetisti di fare luce su aspetti sorprendenti del passato umano meglio della data, stimata di recente, in cui l'uomo iniziò a cucire i suoi primi vestiti. Per milioni di anni gli esseri umani hanno probabilmente usato pelli di animali per coprirsi, forse indossavano un mantello per proteggersi dal freddo, ma la creazione di vestiti è un'invenzione assai più recente. Gli archeologi non sono mai stati in grado di stabilire quando siano comparsi i primi abiti, perché sia i materiali sia gli aghi d'osso impiegati per cucirli sono molto deteriorabili.

Un giorno, nell'autunno del 1999, il figlio di Mark Stoneking tornò a casa da scuola a Lipsia, in Germania, con una nota che avvertiva che un compagno di classe aveva i pidocchi. Stoneking, ricercatore americano presso l'Istituto Max Planck per l'antropologia evoluzionistica, la lesse con attenzione come avrebbe fatto qualsiasi genitore apprensivo ma, in qualità di genetista che da tempo si occupava delle origini dell'uomo, fu colpito in particolare dalle parole di rassicurazione contenute nel biglietto: i pidocchi non possono sopravvivere per più di ventiquattro ore lontano dal calore del corpo. Se fosse stato vero, pensò Stoneking, i pidocchi avrebbero dovuto diffondersi nel mondo con le migrazioni umane, e se avesse potuto provarlo avrebbe trovato conferma del modello migratorio implicato dal DNA dell'uomo. Dopo lunghe ricerche in biblioteca, Stoneking scoprì che i pidocchi contenevano nel loro DNA un'informazione ancor più interessante: la data in cui per la prima volta l'uomo indossò un vestito.

Gli autori del libro della Genesi erano così turbati dal problema della nudità che vi inserirono non uno, bensì due racconti per spiegare come attraverso i vestiti l'uomo sia giunto a sviluppare il senso del pudore. Nel primo Adamo ed Eva, resisi conto di essere nudi, si cuciono un gonnellino di foglie di fico; nel secondo il Creatore stesso, prima di cacciarli dall'Eden, prepara ai peccatori una veste di pelli di capra. Tuttavia nessuna delle due narrazioni attribuisce il giusto peso al terzo personaggio coinvolto nella storia dell'abbigliamento: il pidocchio. In fondo, quando i nostri avi erano interamente ricoperti di pelo come qualsiasi altro primate o scimmia, i pidocchi scorrazzavano liberi sul loro corpo, dalla testa ai piedi.

Quando gli esseri umani persero il pelo, il regno del pidocchio si ridusse all'unica, ridicola area pelosa rimasta, la testa. Ciononostante, seppe attendere il momento buono e molti millenni dopo, quando l'uomo cominciò a usare i vestiti, colse l'occasione per riconquistare il territorio perduto evolvendosi in una nuova varietà, il pidocchio del corpo, in grado di sopravvivere sugli abiti. Il pidocchio del corpo e quello della testa si assomigliano molto, tranne per il fatto che il primo è più grande ed è dotato di uncini specializzati per afferrare i tessuti, non i capelli. Stoneking concluse che, se dalle variazioni del DNA fosse riuscito a individuare il momento in cui il pidocchio del corpo iniziò a evolversi da quello della testa, avrebbe potuto datare l'invenzione del vestiario.

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Il genoma umano conserva dunque memoria di un lungo periodo del nostro passato e completa i dati raccolti dalle discipline tradizionali. Queste sono le principali tematiche, che tratteremo più estesamente in seguito, in merito alle quali il DNA ha permesso di acquisire nuove conoscenze:

* C'è un'evidente continuità fra il mondo delle scimmie antropomorfe di cinque milioni di anni fa e il mondo dell'uomo da esso derivato. Il filo che li collega è visibile soprattutto a livello di DNA; i genomi di uomini e scimpanzé sono identici al 99 per cento, il che si manifesta con particolare evidenza nella somiglianza fisica tra le due specie. Forse però la forma di continuità più interessante è quella esistente fra le istituzioni sociali delle scimmie e quelle dell'uomo.

Gli antenati dello scimpanzé e dell'uomo vivevano probabilmente in piccoli gruppi formati da individui imparentati fra loro, che difendevano il territorio d'origine spesso sferrando attacchi letali ai nemici. Presentavano gerarchie separate fra maschi e femmine e gran parte dei piccoli venivano generati dal maschio dominante della comunità o dai suoi alleati. All'inizio anche la discendenza umana era territoriale, ma con il tempo diede vita a una nuova struttura sociale basata sul legame di coppia, sulla relazione stabile tra un maschio e una o più femmine. Questo cambiamento determinante conferì a tutti i maschi la possibilità di riprodursi e di conseguenza un maggior interesse per il bene del gruppo, il che rese le società umane più grandi e coese.

* Una delle forze primarie che hanno influenzato l'evoluzione dell'uomo è stata la natura della società umana. Dopo la separazione dalle scimmie, i primi uomini acquisirono la postura eretta e una pelle scura al posto del pelo corporeo, ma il cambiamento più significativo, cioè l'aumento costante delle dimensioni cerebrali, si verificò con molta probabilità in risposta all'aspetto più rilevante dell'ambiente: la società in cui vivevano. Stabilire di chi fidarsi, formare alleanze, tenere il conto dei favori fatti e ricevuti erano tutte funzioni necessarie, che lo sviluppo di maggiori capacità cognitive semplificò non poco. Cinquantamila anni fa i benefici sociali di una comunicazione più efficace favorirono la nascita di una nuova facoltà che nessun'altra specie sociale presentava: il linguaggio.

* Prima l'uomo ha acquisito la sua forma corporea, poi ha avuto inizio l'evoluzione del comportamento. Gli uomini anatomicamente moderni, i cui resti ricordano quelli degli uomini odierni, esistevano già centomila anni fa anche se non presentavano segni dei comportamenti avanzati che sarebbero comparsi cinquantamila anni dopo, probabilmente grazie all'evoluzione del linguaggio. In virtù di questa nuova facoltà e della maggiore coesione sociale che essa garantiva, i primi uomini comportamentalmente moderni furono in grado di lasciare l'Africa e di soppiantare esseri più arcaici, quali gli uomini di Neanderthal, che avevano lasciato l'Africa molte migliaia di anni prima.

* Parte della preistoria umana coincide con l'ultima era glaciale, da cui è stata influenzata. I primi uomini moderni a lasciare l'Africa attraversarono con molta probabilità l'estremità meridionale del Mar Rosso e approdarono nella penisola arabica. Raggiunta l'India, seguirono percorsi diversi: un gruppo si incamminò lungo le coste del Sudest asiatico per arrivare infine, quarantaseimila anni fa, in Australia. Un altro seguì la pista terrestre che dall'India conduceva a nordovest, raggiungendo l'Europa e scalzando a poco a poco l'uomo di Neanderthal dalla sua antica terra natale. La colonizzazione dei freddi territori settentrionali dell'Eurasia richiese probabilmente innovazioni tecniche e adattamenti genetici. Poi, una catastrofe climatica, il ritorno dei ghiacci ventimila anni fa, spopolò l'Europa e la Siberia. Molte migliaia di anni dopo, verso la fine dell'era glaciale pleistocenica, i discendenti dei sopravvissuti migrarono di nuovo verso nord. Ad alcuni di essi, i siberiani nella parte orientale dell'Eurasia, si deve il primo caso di addomesticamento di un animale, il cane, e la scoperta del continente – la Beringia, oggi completamente sommersa – che a quel tempo univa la Siberia all'Alaska e alle Americhe.

* Gli adattamenti a tre istituzioni sociali fondamentali (la guerra, la religione e il commercio) si erano già verificati cinquantamila anni fa. La popolazione ancestrale, la prima a possedere un linguaggio moderno, era composta forse da cinquemila individui che vivevano confinati nel loro territorio d'origine, nella parte nordorientale dell'Africa. Sebbene meno avanzati dal punto di vista cognitivo rispetto all'uomo odierno, questi soggetti possedevano tutte le caratteristiche distintive della natura umana e avevano sviluppato, almeno in forma rudimentale le istituzioni caratteristiche delle società di tutto il mondo, tra cui la guerra dettata dalla difesa del territorio, le cerimonie religiose quale strumento di coesione sociale, il senso di reciprocità che regolava le relazioni sociali all'interno del gruppo e i commerci con quanti non ne facevano parte.

* Gli uomini arcaici dovevano superare un grosso limite: erano troppo aggressivi per vivere in comunità stabili. Le prime società umane erano organizzate in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori e la loro esistenza era segnata da scontri incessanti. Dopo aver lasciato la terra natale, per trentacinquemila anni queste popolazioni nomadi non riuscirono a mettere radici. Solo gradualmente l'uomo divenne meno aggressivo. Il tempo della guerra volse infine al termine e nelle varie popolazioni del mondo comparvero individui di costituzione più gracile, con ossa più sottili. Nel Medio Oriente, circa quindicimila anni fa, l'uomo compì infine il passo decisivo a livello sociale: fondò le prime comunità stanziali. Al posto dell'egualitarismo e della mancanza di beni tipici dei cacciatori-raccoglitori, i soggetti che vivevano nelle società stabili svilupparono una nuova struttura caratterizzata da un'élite, dalla specializzazione dei ruoli e dalla proprietà. Le comunità iniziarono ad accumulare scorte di cibo e altri prodotti conservabili, il che condusse alla nascita di società più complesse e a un incremento dei commerci tra i gruppi.

* L'evoluzione umana non si è fermata nel lontano passato ma è continuata fino a oggi. La popolazione ancestrale di cinquantamila anni fa era anatomicamente molto diversa da quella moderna di centomila anni fa, e l'uomo di oggi ha avuto a sua disposizione altrettanti anni per evolversi da essa. Il genoma umano reca numerose tracce di un'evoluzione recente, stimolata dagli adattamenti a eventi quali i cambiamenti culturali o la comparsa di nuove malattie.

Prova ancor più tangibile della recente evoluzione umana è l'esistenza delle razze. Dopo l'abbandono dell'Africa da parte della popolazione ancestrale, cinquantamila anni fa, l'evoluzione umana è continuata in modo indipendente in ogni continente. Le popolazioni delle principali regioni geografiche del mondo crebbero per diverse migliaia di anni in condizioni di sostanziale isolamento e iniziarono a sviluppare tratti distintivi, ossia una differenziazione genetica che avrebbe infine dato origine alle razze moderne. Tra i loro cammini evolutivi si nota tuttavia un certo parallelismo, dato che nei diversi continenti le comunità si ritrovavano ad affrontare le stesse sfide. Non a caso, il processo di gracilizzazione corporea si verificò in tutto il mondo. La tolleranza al lattosio, cioè la capacità genetica di digerire il latte nell'età adulta, si sviluppò cinquemila anni fa tra gli allevatori dell'Europa, ma anche tra i pastori dell'Africa e del Medio Oriente.

* Probabilmente un tempo gli uomini parlavano una sola lingua da cui sono derivate tutte le lingue odierne. Così come la popolazione ancestrale, una volta abbandonata l'Africa, si divise in razze e gruppi etnici diversi, l'antica lingua diede vita a una famiglia sempre più numerosa di lingue diverse, alcune delle quali si svilupparono per effetto di fattori quali la guerra o l'agricoltura: ciò ha fatto sì che alcune famiglie linguistiche, come quella indoeuropea, siano oggi parlate in vaste aree, e altre, esistenti per esempio in America Latina o in Nuova Guinea, lo siano in un raggio di pochi chilometri soltanto. Dato che la divisione delle lingue è successiva a quella della popolazione, la genealogia linguistica rispecchia in una certa misura quella delle popolazioni. Alcuni biologi sperano di poter ricostruire la prima fino al lontano passato, addirittura fin quasi alle origini, alla lingua madre della popolazione ancestrale.

* Il genoma umano contiene tracce perfette del nostro recente passato e rappresenta una sorta di testimonianza parallela a quella scritta. Il genoma evolve tanto rapidamente che ogniqualvolta una comunità inizia, per motivi religiosi, geografici o linguistici, a svilupparsi in condizioni di isolamento, nell'arco di alcuni secoli assume un tratto genetico specifico. Il DNA ha gettato nuova luce sulla storia di popoli quali gli ebrei, gli islandesi, i britannici e reca memoria dell'impatto genetico di dinastie maschili quali quelle mongola e manciù. E a chi sa porre le domande giuste rivela la storia famigliare segreta di personaggi come Thomas Jefferson.


Gli autori della Genesi fecero del loro meglio per elaborare, in base ai miti e alle leggende del tempo, un resoconto coerente delle origini dell'uomo e cercarono di spiegare diverse questioni: l'esistenza di tante lingue, la ragione della sofferenza legata al parto, l'usanza di coprire la propria nudità con i vestiti. Oggi le origini dell'uomo possono essere spiegate in altro modo. Poiché del nostro lontano passato si è conservato ben poco, è sorprendente quanto di esso siamo riusciti a ricostruire; molti dei dati qui illustrati sono stati peraltro raccolti solo negli ultimi anni. Sebbene le frontiere della scienza siano in costante mutamento, visto che le tesi vengono spesso confutate e riviste alla luce delle nuove scoperte, i dati riportati nelle pagine seguenti costituiscono in molti casi un inequivocabile progresso in tale ambito. Si sta delineando con straordinaria chiarezza la componente biologica delle origini e della natura dell'uomo e, grazie alle informazioni ricavate dalla sequenza del genoma umano, disponiamo oggi di una nuova ottica con cui analizzarle. Nell'antica impresa di arrivare a comprendere noi stessi, le nostre origini oscure, la nostra natura strana e contraddittoria e la famiglia umana, un tempo unita e ora divisa in razze diverse e in culture in conflitto che parlano una miriade di lingue differenti, siamo quanto meno in grado di conoscere il lungo periodo di buio che ha preceduto l'alba.

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La razza



Quantunque le razze umane attuali differiscano fra loro per molti rispetti, come nel colorito, nei capelli, nella forma del cranio, nelle proporzioni del corpo, ecc., tuttavia se tutta la loro organizzazione fosse presa in considerazione, si troverebbe che rassomigliano fra loro strettamente in moltissimi punti. Molti di questi punti hanno così poca importanza, o sono di una natura tanto singolare, che è sommamente improbabile che essi siano stati acquistati indipendentemente da specie o razze in origine ben distinte. La stessa osservazione può esser mantenuta con pari o maggiore riguardo ai numerosi punti di rassomiglianze mentali fra le razze umane più distinte. Gli aborigeni Americani, i Neri e gli Europei differiscono fra loro nelle facoltà mentali come qualunque delle altre tre razze che possano venire citate; tuttavia io ero continuamente colpito, mentre vivevo cogli indigeni della Terra del Fuoco a bordo della Bearle, da molti piccoli tratti di carattere, che dimostravano quanto le loro menti siano simili alle nostre; e ciò seguiva pure con un Nero puro sangue, col quale ebbi occasione di essere in intimità.

CHARLES DARWIN, L'origine dell'uomo


Dopo l'esodo dalla terra natale nell'Africa nordorientale, la popolazione ancestrale, ormai non più unita, si frammentò in numerosi gruppi. L'evoluzione umana continuò in modo indipendente negli angoli più remoti del pianeta, tanto che nel corso di molte generazioni i popoli dei vari continenti si trasformarono in razze diverse.

Il che non sorprende. Un'ampia gamma di fattori indusse ogni popolazione a intraprendere un cammino evolutivo autonomo, e l'unica forza che avrebbe potuto mantenerle identiche – l'attenta mescolanza dei geni grazie a matrimoni tra gruppi diversi – venne meno, date le distanze fra le comunità e il fatto che, molto probabilmente, le tribù in guerra fra loro uccidevano chiunque attraversasse il loro territorio ritenendolo una spia. Le genealogie del cromosoma Y e del DNA mitocondriale, i cui rami principali restano ancora ampiamente circoscritti a continenti diversi, dimostrano che ovunque nel mondo l'uomo ha sempre manifestato la spiccata tendenza a vivere, sposarsi e morire nel luogo in cui è nato, almeno fino all'epoca moderna.

La differenziazione genetica della popolazione umana in razze ed etnie è da tempo oggetto di controversie, e costituisce un argomento a tutt'oggi poco conosciuto. Dalla discriminazione al genocidio, il razzismo è sempre stato responsabile di crimini orribili, per cui gli studiosi hanno generalmente cercato di minimizzare l'esistenza delle razze. Alcuni scienziati sociali hanno persino affermato che la razza sia un concetto sociale privo di fondamento biologico.

Il concetto di razza non è molto chiaro, in parte perché il tema – anche per ragioni dettate dalla prudenza – non è stato ritenuto un valido argomento di studio. Il problema delle razze non sembrava suscitare un grande interesse scientifico, era di per sé fonte di contrasti ed era stato gravemente inquinato dalla serie di classificazioni finalizzate a dimostrare che determinate razze erano superiori ad altre. Tuttavia, di recente sono emersi due validi motivi per studiarlo con attenzione; inoltre, i progressi tecnici compiuti nel sequenziamento del DNA hanno finalmente permesso di esaminare la misteriosa questione della razza da un punto di vista scientifico.

C'è una ragione di carattere storico per riconsiderare la razza: i popoli di razze differenti potrebbero presentare, nel loro patrimonio genetico, indizi utili a conoscere la storia dell'uomo dopo la diaspora della popolazione ancestrale, cinquantamila anni fa. A quanto si presume, le razze si sono evolute in parte in risposta alle pressioni a cui erano sottoposte le varie popolazioni, e le variazioni genetiche presenti in ciascuna potrebbero consentirci di individuare tali pressioni. I diversi rami della famiglia umana hanno una storia che non potrà essere studiata né narrata in dettaglio finché essi non verranno identificati con certezza e analizzati a livello genetico.

Un'altra ragione per definire il concetto di razza è invece di carattere medico. Numerose malattie hanno una componente genetica, che varia spesso con la razza o l'etnia. L'emocromatosi, una condizione genetica che pare sia stata diffusa dai vichinghi, colpisce perlopiù gli europei. Gli indiani pima sono particolarmente inclini a sviluppare diabete, gli abitanti delle isole del Pacifico l'obesità. Il morbo di Crohn è presente sia fra gli europei sia fra i giapponesi, ma le tre varianti geniche responsabili della malattia fra gli europei sono assenti in Giappone, dove con molta probabilità gli stessi sintomi sono determinati da una mutazione diversa.

Soggetti di razze differenti possono inoltre presentare una risposta diversa ai farmaci, spesso perché in alcune di esse gli enzimi in grado di scomporli sono andati perduti in percentuali diverse. (Il ruolo originario degli enzimi era quello di scomporre le tossine naturali delle piante selvatiche; dato che non servono più a tale scopo, sono stati inattivati a caso da mutazioni che la selezione naturale non elimina più.) Gli individui possono inoltre presentare versioni differenti della proteina su cui il farmaco agisce. Un farmaco per il cuore, l'enalapril, riduce la pressione sanguigna e il rischio di ricovero per insufficienza cardiaca nei pazienti bianchi, ma ha scarsi effetti nei neri.

Il fatto che le razze possano rispondere in modo diverso ai farmaci è stato dimostrato con particolare chiarezza nel caso del BiDil, una combinazione di due principi attivi elaborata da Jay Cohn, cardiologo presso l'Università del Minnesota. Nel primo studio clinico, condotto sulla popolazione generale, il BiDil non è risultato particolarmente efficace. Dopo un'ulteriore analisi Cohn ha tuttavia notato che in un sottogruppo composto da afroamericani aveva dato boni risultati. In un nuovo studio clinico effettuato solo su afroamericani il farmaco si è rivelato tanto valido che la ricerca è stata interrotta affinché il BiDil potesse essere somministrato anche ai pazienti del gruppo di controllo, che non lo stavano assumendo. (Il BiDil è efficace nei soggetti di origini africane perché, per conservare i sali nei climi caldi, questi presentano geneticamente bassi livelli di una sostanza chimica che il farmaco aumenta.)

La presenza di un modello geneticamente diverso di malattia e di risposta ai farmaci nelle popolazioni ha sollevato il discusso problema di istituire una medicina orientata alla razza. Secondo alcuni medici la razza del paziente non rientra – e non deve rientrare – nell'ambito di competenza della medicina, mentre diversi genetisti sono di parere diametralmente opposto: oggi la sequenza del genoma umano consente di mirare diagnosi e trattamento a seconda delle esigenze specifiche di ogni popolazione e sarebbe una follia ignorare le differenze razziali quando, come nel caso del BiDil, la razza costituisce il fattore chiave per giungere a una terapia efficace.

Neil Risch, genetista di spicco dell'Università di San Francisco, fu il primo a dichiarare in uno studio che il quadro che stava emergendo della struttura della popolazione umana presentava importanti affinità con il concetto di razza comunemente inteso. Nell'articolo esprimeva tutta la sua irritazione nei confronti del dogma sociologico, secondo cui la razza non avrebbe avuto alcun fondamento biologico, che permeava, fra le tante sedi di dibattito, anche le pagine di una prestigiosa rivista medica, il New England Journal of Medicine. «La razza è un costrutto sociale, non una classificazione scientifica» dichiarava in un editoriale Robert Schwartz, vicedirettore della rivista, e dato che «non ha rilevanza dal punto di vista biologico», continuava Schwartz, non dovrebbe rientrare tra gli interessi del medico. Un editoriale simile, anche se dai toni meno assolutistici, comparve su Nature Genetics.

Confutando i due editoriali, Risch scrisse che l'argomentazione in buona parte non si fondava «su un'ottica scientifica obiettiva» (parole di fuoco, queste, nel gergo moderato della letteratura scientifica). Numerosi studi genetici della popolazione umana hanno scoperto che le differenze sono massime fra i continenti e, per Risch, «riassumono la definizione classica di razza fondata sul lignaggio del continente». Aggiornando tali definizioni, Risch e colleghi hanno suggerito che i gruppi razziali siano definiti in base al continente di origine e che il concetto di etnia venga usato per descrivere le ulteriori suddivisioni all'interno delle singole razze.

A suo parere le cinque razze definite in base ai continenti sono: 1) gli africani, cioè i discendenti della stirpe dell'Africa subsahariana, che comprende anche gli afroamericani e gli afrocaraibici; 2) i caucasici, vale a dire i popoli dell'Eurasia occidentale (Europa, Medioriente, Nord Africa e subcontinente indiano, cioè India e Pakistan); 3) gli asiatici, cioè i popoli dell'Eurasia orientale (Cina, Giappone, Indocina, Filippine e Siberia); 4) gli abitanti delle isole del Pacifico, cioè gli aborigeni australiani e i popoli di Nuova Guinea, Melanesia e Micronesia; e infine 5) i nativi americani, vale a dire gli abitanti originari del Nord e del Sud America.

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Genotipo e fenotipo tra le razze

Anche se i genetisti rilevano una differenza tra le razze a livello di DNA, che cosa comporta tutto ciò nella pratica, in relazione alla persona fisica? I biologi distinguono fra genotipo e fenotipo di un organismo. Il genotipo altro non è che il genoma o l'insieme delle informazioni ereditarie, il fenotipo è l'essere generato dal genotipo.

Dato che buona parte del genoma è costituito da DNA inattivo non codificante, è possibile che il genotipo vari senza causare grandi modificazioni nel fenotipo. Gli islandesi, il cui genotipo è legato alle undici regioni dell'isola, non differiscono probabilmente molto gli uni dagli altri per aspetto; si sta però verificando se presentino un modello lievemente diverso di malattia.

Le ricerche di Risch e Feldman, in base a cui agli individui può essere geneticamente attribuito un continente di origine, ovvero una razza, si fondano sul genotipo e non indicano di per sé in che misura soggetti di genotipi razziali diversi varino per fenotipo. Tuttavia, i siti del genoma che essi hanno esaminato si spostano durante la ricombinazione (la mescolanza delle porzioni di DNA tra le generazioni) in modo analogo ai geni. Pertanto, alcuni di essi, soprattutto quelli che si trovano vicino ai geni, agiranno, per così dire, in nome dei geni stessi.

Di conseguenza, il fatto che un soggetto possa essere assegnato a un gruppo razziale in base alla campionatura di alcune centinaia soltanto di siti del genoma, suggerisce che un numero molto elevato di geni possa variare da razza a razza, come del resto il fenotipo da essi influenzato. Le razze differiscono sicuramente per aspetto fisico e le discrepanze non sono solo apparenti: ci sono anche variazioni nella propensione a sviluppare malattie e nella risposta ai farmaci.

Che vi sia un'affinità generale fra tutte le razze è logico alla luce del fatto che la popolazione ancestrale comparve solo cinquantamila anni fa e che la natura umana era già in gran parte strutturata prima della diaspora, visto che se ne ritrovano i tratti principali nel mondo intero. La prova dell'unità costante della famiglia umana è che soggetti di razze diverse non hanno difficoltà a incrociarsi tra loro e che i membri di una cultura possono, in assenza di discriminazioni, vivere e operare in qualsiasi altra.

L'esistenza di una variazione notevole tra le razze non deve però sorprendere, visto che la famiglia umana è da tempo divisa in rami distinti, ognuno dei quali si è evoluto indipendentemente per cinquantamila anni o più in balia delle forze casuali del drift genetico e delle pressioni selettive di climi, malattie e società diversi.

Le variazioni razziali non sono ancora oggetto di studio da parte degli accademici, se non nell'ambito della medicina, e anche in questo campo le controversie non mancano. I medici che si occupano delle disparità razziali sono perfettamente consapevoli che molti attributi sociali, quali la povertà o un minore accesso all'assistenza sanitaria, sono legati alla razza. Tali fattori potrebbero, proprio come la genetica, spiegare perché, per esempio, gli afroamericani contraggano maggiormente determinate malattie rispetto al bianchi. Ignorare completamente la razza, come secondo alcuni bisognerebbe fare, significherebbe privare i ricercatori di numerosi dati preziosi, di natura sia sociale sia genetica. Un medico non può stabilire se i suoi pazienti di colore ricevano un trattamento peggiore dei bianchi, a meno che non accerti a quale razza appartengano.

Per quanto riguarda il contributo dato dalla genetica, il BiDil non sarebbe mai stato scoperto se Jay Cohn non avesse analizzato la risposta dei pazienti afroamericani al farmaco. La scoperta di un preparato importante per una comunità male assistita è un'ottima notizia. Ciononostante, alcuni afroamericani hanno accolto il BiDil con ben poco entusiasmo, preoccupati per una questione di portata più vasta: a loro parere, se gli afroamericani vengono individuati geneticamente, anche se a scopi benevoli, per ragioni mediche, l'opinione pubblica potrebbe associarli ad attributi meno pregevoli come la tendenza al comportamento criminale. «Se si ragiona in termini di tassonomia delle razze, si trae la pericolosa conclusione che la razza spieghi la violenza» afferma Troy Duster, sociologo alla New York University, contestando la medicina a orientamento razziale.

È comprensibile che qualsiasi ipotesi a sostegno dell'origine genetica delle differenze razziali scateni forti sentimenti. I test di intelligenza, che oggi rivelano differenze tra le varie razze degli Stati Uniti, sono stati a lungo motivo di accese polemiche. In linea di massima tutte le popolazioni sono piuttosto simili, ma in termini di punteggio medio gli asiatici americani si sono classificati prima dei soggetti di origine europea, mentre gli afroamericani hanno ottenuto un punteggio inferiore. Se tali risultati sono generalmente accettati, sulle loro cause i pareri discordano. Alcuni psicologi sostengono che i test del QI valutino l'intelligenza in generale, che ritengono in gran parte ereditata, e siano predittivi della performance del soggetto in una fase successiva della vita. Altri li intendono solo come prova delle differenze di istruzione e di altri vantaggi culturali, negando che in tale ambito rientrino componenti genetiche. Il dibattito, che esula dalle finalità del presente libro, ha condotto a tutte le annose polemiche sullo studio delle razze.

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La storia



Il fatto che gli Inglesi sono, come colonizzatori, tanto superiori alle altre nazioni europee, ciò che è bene dimostrato dal confronto fra i Canadesi di razza inglese e quelli di razza francese, è stato attribuito alla loro «ardimentosa e persistente energia»; ma chi può dire il modo in cui gli inglesi abbiano acquistata la loro energia? Vi è maggiore apparenza di verità nel credere che il progresso meraviglioso degli Stati Uniti, come pure il carattere del popolo, siano l'effetto della scelta naturale; mentre gli uomini più energici, più irrequieti e più coraggiosi, da tutte le parti d'Europa hanno emigrato durante le ultime dieci o dodici generazioni verso quel grande paese, e si sono colà bene propagati [...]. Per quanto sia oscuro il problema del progresso dello incivilimento, possiamo almeno vedere che quella nazione la quale durante un lungo periodo produce un numero maggiore d'uomini intelligentissimi, energici, coraggiosi, patriottici e benevoli, avrà generalmente la prevalenza sopra le nazioni meno favorite. La scelta naturale segue dalla lotta per la vita; e questa dà un rapido grado di accrescimento. Non si può fare a meno di rimpiangere amaramente, ma se ciò sia giusto è un'altra questione, il grado in cui l'uomo tende ad aumentare di numero; perché questo nelle nazioni barbare mena all'infanticidio e a molti altri mali, e nelle nazioni civili alla povertà abbietta, al celibato, e ai matrimoni tardivi dei prudenti. Ma siccome l'uomo soffre gli stessi mali fisici degli animali sottostanti, egli non ha il diritto di credersi esente dai danni che vengono in conseguenza della lotta per la vita. Se non fosse stato soggetto alla scelta naturale, certamente non sarebbe mai giunto al posto che occupa ora di uomo.

CHARLES DARWIN, L'origine dell'uomo


Con lo stanzialismo e l'invenzione dell'agricoltura le società umane intrapresero un cammino molto diverso dalla vita nomade, che fino a quel tempo costituiva l'unica scelta di vita nota. I nuovi comportamenti che si manifestarono consentirono lo sviluppo di società complesse e civiltà urbane.

L'uomo imparò a trattare gli estranei come consanguinei, almeno nel contesto degli scambi reciproci e del commercio, e a coordinare le sue attività mediante i riti religiosi. Difendeva il territorio dalle tribù vicine o le attaccava nel momento propizio. Lo stanzialismo portò alla specializzazione dei ruoli: gli amministratori si incaricarono di gestire le risorse eccedenti, i sacerdoti di organizzare le cerimonie religiose, i capi e i re si occuparono del commercio e della difesa.

Le prime città sorsero nella Mesopotamia meridionale circa seimila anni fa. Uruk, nell'odierno Iraq, si estendeva per circa duecento ettari e aveva grandi palazzi pubblici. La città richiedeva legioni di operai e un sistema amministrativo che li reclutasse e li sfamasse. A mano a mano che le società divenivano più complesse, l'uomo doveva sviluppare capacità sempre più sofisticate e facoltà cognitive sempre più specializzate o quanto meno ben diverse da quelle appropriate per i popoli nomadi. L'invenzione della scrittura, risalente al 3400 a.C., segnò l'inizio della storia scritta. Con le prime grandi civiltà urbane formatesi in Egitto, Mesopotamia, India e Cina cominciò una nuova fase dell'esperimento umano.

La genetica, che si è rivelata utile per far luce su diversi aspetti della preistoria, fornisce risultati ancor più significativi quando viene applicata alla storia, perché può essere correlata con personaggi o eventi noti. Il DNA può essere impiegato per studiare le popolazioni, per stabilirne la provenienza, il che contribuisce a spiegare le mescolanze di popoli come quelle avvenute nelle isole britanniche. Esso registra fedelmente le discendenze nel corso delle varie epoche, fatto che ha rilevanza storica nei casi in cui esistono famiglie segrete, per esempio in quello di Thomas Jefferson. Per quanto riguarda le popolazioni i cui membri per secoli si sono sposati tra di loro, come gli ebrei, il DNA può risalire fino al tempo dei patriarchi.

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L'evoluzione



Mi fa rincrescimento pensare che la principale conclusione a cui sono giunto in quest'opera, cioè che l'uomo sia disceso da qualche forma bassamente organizzata, riescirà gradevolissima a molte persone. Ma non vi può essere quasi dubbio che noi discendiamo dai barbari. Non dimenticherò mai la meraviglia che provai nel vedere la prima volta un gruppo di indigeni della Terra del Fuoco raccolti sopra una selvaggia e scoscesa spiaggia; ma mi venne subito alla mente che tali furono i nostri antenati. Quegli uomini erano al tutto nudi, e imbrattati di pitture; i loro lunghi capelli erano tutti intricati, la loro bocca era contorta dall'eccitamento, ed il loro aspetto era selvaggio, sgomentato e sgradevole. Non avevano quasi nessuna arte, e come gli animali selvatici vivevano di quello di cui potevano impadronirsi; non avevano alcun governo, ed erano senza misericordia per chiunque non fosse stato della loro piccola tribù [...]. L'uomo va scusato di sentire un certo orgoglio per essersi elevato, sebbene non per propria spinta, all'apice della scala organica; ed il fatto di essere in tal modo salito, invece di esservi stato collocato in origine, può dargli speranza per un destino ancor più elevato in un lontano avvenire. Ma non si tratta qui né di speranze, né di timori, ma solo del vero, fin dove la nostra ragione ci permette di scoprirlo. Ho fatto del mio meglio per addurre prove; e dobbiamo riconoscere, per quanto mi sembra, che l'uomo con tutte le sue nobili prerogative, colla simpatia che sente per gli esseri più degradati, colla benevolenza che estende non solo agli altri uomini, ma anche verso la più umile delle creature viventi, col suo intelletto quasi divino che ha penetrato nei movimenti e nella costituzione del sistema solare — con tutte queste forze — l'Uomo conserva ancora nella sua corporale impalcatura lo stampo indelebile della sua bassa origine.

CHARLES DARWIN, L'origine dell'uomo


Consideriamo i 5 milioni di anni trascorsi da quando la stirpe umana si separò dalle scimmie antropomorfe. Grazie all'efficacia della genetica, oggi possiamo ricostruire la sua storia con maggiore dovizia di particolari e confermare pienamente la straordinaria intuizione accennata da Darwin nell' Origine delle specie del 1859 e descritta in modo più esplicito nell' Origine dell'uomo nel 1871. L'uomo è solo uno dei molteplici rami dell'albero della vita: con tutte le altre specie viventi condivide alcuni meccanismi genetici fondamentali ed è plasmato dalle stesse forze evolutive. Questa è la verità, fin dove la nostra ragione ci permette di scoprirla. Tutti gli altri resoconti delle origini dell'uomo, pur considerati dogmi religiosi da buona parte della storia documentata e tuttora ampiamente accettati, rientrano nel mito.

L'intuizione di Darwin appare tanto più sorprendente perché questi non aveva idea di che cosa fossero i geni, per non parlare del DNA, la struttura chimica in cui sono contenute le informazioni genetiche. Solo nel 1953 si è scoperto che il DNA contiene il nostro patrimonio ereditario, e solo dal 2003 si è iniziato a interpretare il genoma umano completamente decodificato.

Con questo materiale oggi possiamo cominciare a ricostruire i complessi meccanismi di quel grande processo che Darwin poté solo intuire a grandi linee. Il quadro è tutt'altro che completo ma, come evidenziato nei capitoli precedenti, abbiamo già ricavato una gran quantità di informazioni: sappiamo in che modo la conformazione fisica umana si sia evoluta a poco a poco da quella scimmiesca, perdendo il pelo e acquisendo una pelle scura, come indicano i geni responsabili del colore cutaneo. Il comportamento umano dimostra, per ragioni di vantaggio riproduttivo o di difesa del territorio, una chiara continuità con quello delle scimmie antropomorfe, ma ha anche assunto un modello caratteristico in due momenti cruciali: con la comparsa di un legame duraturo fra uomo e donna circa 1,7 milioni di anni fa e con l'evoluzione del linguaggio cinquantamila anni fa. Il linguaggio, una facoltà nuova, evolutiva, che consentiva agli individui di condividere simbolicamente una sequenza di pensieri precisi, gettò le basi per un nuovo tipo di interazioni sociali. I primi gruppi umani svilupparono quelle istituzioni che ancor oggi contraddistinguono le società urbane più grandi e complesse, tra cui la guerra organizzata, la reciprocità e l'altruismo, lo scambio e il commercio, la religione. Tutte erano presenti in embrione nelle società di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico superiore, ma fu necessario un ulteriore sviluppo, la diminuzione dell'aggressività e forse l'acquisizione di nuove facoltà cognitive, perché a partire da quindicimila anni fa si creassero le prime comunità stanziali. Fu proprio nel contesto delle società stabili che la guerra, il commercio e la religione raggiunsero un livello più complesso e sofisticato.

La natura umana è la serie di comportamenti adattativi evolutisi nel genoma per consentirci di vivere nella società attuale. Abbiamo sviluppato, e li possiamo attuare istintivamente, i comportamenti necessari per fare la guerra, per operare scambi e commerci, per aiutare gli altri come se fossero nostri consanguinei, per individuare gli estranei e gli impostori e per conciliare la nostra indipendenza con la religione della comunità.

Le informazioni contenute nel genoma spiegano le nostre origini, la nostra storia e la nostra natura, anche se molte delle loro implicazioni non sono gradite a tutti. «La mente umana si è evoluta per credere nelle divinità, non per credere nella biologia» scrive Edward O. Wilson. La religione non è l'unico ambito in cui l'evoluzione ci presenta un quadro diverso del mondo. La genetica probabilmente arriverà a spiegare in modo ancora più dettagliato la variabilità fra individui, la presenza di interessi e di capacità diversi in uomini e donne e le differenze esistenti fra le razze. Gli scienziati che studiano il genoma potrebbero un giorno concludere che numerose motivazioni umane, dal comportamento dell'accoppiamento ai tratti della personalità, siano geneticamente determinate da circuiti neurali, mettendo quindi in dubbio l'autonomia dell'agire umano. Per quanto sconfortanti possano apparire tali dati, indugiare a proseguire nell'indagine scientifica significherebbe ripiombare nel buio.

Una delle implicazioni più sconcertanti della teoria darwiniana è che l'essere umano sia il prodotto imprevisto di un processo cieco e casuale. Paragonati ai nostri cugini, gli scimpanzé, sembriamo molto più avanzati, quasi fossimo stati creati per uno scopo superiore, il che è in parte un'illusione che i nostri avi hanno contribuito ad alimentare eliminando tutte le specie concorrenti. Quante più conoscenze acquisiamo sugli scimpanzé, tanto più emergono con chiarezza le affinità con l'uomo: essi sono stati plasmati con la stessa argilla, il pool genico dell'antenato comune: il 99 per cento circa della loro sequenza del DNA corrisponde quasi esattamente alla nostra. Lo scimpanzé è molto intelligente, prova empatia per gli altri, sa fabbricare numerosi attrezzi e conduce una vita sociale complessa, ma per via del caso o delle circostanze ha imboccato un cammino evolutivo diverso da quello seguito dall'uomo. Forse quel cammino non ha imposto grandi cambiamenti, mentre l'uomo, alla ricerca di una vita diversa da quella sugli alberi, si è diversificato tanto proprio perché costretto continuamente a perseguire l'innovazione.

La ricerca incessante di nuove soluzioni portò alla nascita non di una sola specie ominide ma di un gruppo di specie, di cui almeno tre – l'uomo di Neanderthal, Homo erectus e Homo floresiensis – sono sopravvissute fino all'abbandono dell'Africa da parte dell'uomo moderno. Se questi popoli arcaici fossero sopravvissuti fino a oggi, la nostra specie ci apparirebbe meno speciale, solo una delle tante varianti in cui l'evoluzione ha saputo trasformare la stirpe originaria delle scimmie antropomorfe.

Ma se l'evoluzione genera nuove specie con meccanismi in parte casuali, l'esistenza umana può essere attribuita soltanto a una lunga sequenza di eventi casuali? Nel passo sopraccitato che conclude L'origine dell'uomo, Darwin fornisce una risposta tipicamente cauta, un sì con riserva. L'uomo era giunto al vertice della piramide organica «sebbene non per propria spinta». Eppure. «un certo orgoglio» per il risultato sarebbe perdonabile. Perché allora, se non c'è stato alcuno sforzo da parte dell'uomo? Il riferimento, poche righe dopo, alla capacità umana di provare empatia e benevolenza e alle sue facoltà intellettive è probabilmente la risposta che Darwin fornisce al problema, e forse oggi iniziamo a capire che cosa intendesse.

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