Autore James D. Watson
Titolo La doppia elica
EdizioneGarzanti, Milano, 2004 [1982], Gli elefanti saggi , pag. 332, cop.fle., dim. 120x190x25 mm , Isbn 978-88-11-67595-2
OriginaleThe Double Helix. A Personal Account of the Discovery of the Structure of DNA [1968]
CuratoreGunther S. Stent
PrefazioneLucio Luzzatto
TraduttoreBruno Vitale, Maria Attardo Magrini
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe storia della scienza , biologia , biografie , chimica












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice

Prefazione                                                 5
Presentazione all'edizione italiana                        7

Introduzione                                              11

Gunther S. Stent: La doppia elica del DNA e
    la nascita della biologia molecolare                  13
Gunther S. Stent: L'autore e la pubblicazione de
    La doppia elica                                       27
Walter Sullivan: Un libro che non andò ad Harvard (1968)  29

La doppia elica: il testo originale                       33

Prefazione di sir Lawrence Bragg                          35
Introduzione                                              37
La doppia elica                                           41

Tre punti di vista diversi                               185

Francis Crick: La doppia elica:
    un'opinione personale (1974)                         188
Linus Pauling: Le basi molecolari
    della specificità biologica (1974)                   199
Aaron K1ug: Rosalind Franklin e la scoperta
    della struttura del DNA (1968)                       209

Le recensioni                                            217

Gunther S. Stent: Rassegna delle recensioni              219
Philip Morrison: L'importanza del fattore umano
    nella scienza (1968)                                 241
F.X.S.: Osservazioni di un non-Watson (1968)             244
Richard C. Lewontin: Il grande giallo
    dell'«onesto Jim» Watson e del DNA (1968)            254
Mary Ellmann: Lo scienziato racconta (1968)              257
Robert L. Sinsheimer: La doppia elica (1968)             263
John Lear: Atti sull'ereditarietà (1968)                 266
Alex Comfort: Basta con le due culture (1968)            272
Jacob Bronowski: «L'onesto Jim» e
    i modellini rompicapo (1968)                         275
Conrad H. Waddington: A cavallo di una spirale (1968)    280
M.F. Perutz, M.H. Wilkins e J.D. Watson:
    Tre lettere alla redazione di «Science» (1969)       285
Robert K. Merton: Riuscirci scientificamente (1968)      292
Peter B. Medawar: Jim il fortunato                       299
André Lwoff: Verità, verità, cos'è la verità?
    (A proposito del modo in cui è stata scoperta
    la struttura del DNA) (1968)                         308
Brevi notizie sugli scienziati più noti nominati ne
    La doppia elica                                      321
Fonti degli articoli                                     325
Indice dei nomi                                          327

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 5

Prefazione



Il progresso incredibilmente rapido della ricerca scientifica negli ultimi decenni ha determinato un effetto collaterale culturalmente importante, anche se non ancora completamente apprezzato: sono vivi, tra noi, molti scienziati che possono guardare al loro lavoro e a quello dei loro contemporanei da una profondità di giudizio storico che ha potuto svilupparsi - per settori scientifici apertisi molto tempo fa - soltanto quando tutti i testimoni delle loro fasi di formazione erano già da tempo scomparsi. Ora, per esempio, basta essere un biologo molecolare di mezza età per avere una visione retrospettiva del proprio campo di ricerca di un'ampiezza confrontabile con quella che avrebbe potuto avere un collega di Joseph Priestley o di Antoine Lavoisier che, per qualche miracolo, fosse stato attivo in ricerche e insegnamento nel campo della chimica dalla fine del XVIII secolo fino agli anni intorno al 1930 - dopo che fossero state esplorate sia la struttura dell'atomo che la natura del legame chimico.

Questo punto di vista più profondo ha portato con sé una dimensione esistenziale nella storia della scienza; grazie a essa, sentimenti, interazioni sociali e attitudini irrazionali sono ritenuti molto più rilevanti nello sviluppo delle conoscenze di quanto si credesse prima. È vero che il ruolo della "ispirazione" nella scoperta scientifica - così come, per esempio, la visione di Kékulé, nel caminetto della sua abitazione, della formula dell'anello del benzene come un serpente che si morde la coda - è stato da molto tempo correttamente riconosciuto. Ma è un fenomeno più recente il riconoscimento del fatto che quanto c'è di essenziale da spiegare nell'attività scientifica - cioè i suoi "fatti" - non è oggettivo ma è piuttosto la creazione di quelli che Ludwig Pleck ha chiamato "collettivi del pensiero".

Per quanto Fleck abbia sviluppato questo nuovo punto di vista sulla storia della scienza verso il 1930, esso ha toccato un pubblico più ampio solo verso il 1960 attraverso gli scritti di Thomas Kuhn e di Paul Feyerabend. Ma è stato La doppia elica - la descrizione personale della scoperta della struttura del DNA, fatta da James D. Watson - il libro che probabilmente più ha contribuito all'abbandono del punto di vista tradizionale, secondo il quale l'attività scientifica è descritta come un esercizio autonomo di ragione pura da parte di menti incorporee e generose, mosse inesorabilmente verso una conoscenza vera della natura. Il libro, pubblicato per la prima volta nel 1968, è stato letto da più di un milione di persone e tradotto in più di diciassette lingue.

Niente può essere più lontano da un trattato sulla filosofia o sulla sociologia della scienza dei ricordi autobiografici di Watson; eppure - in uno stile scorrevole e piacevole - è un libro che ha reso chiare alcune importanti intuizione sul come, in realtà, opera il processo di scoperta scientifica. Ormai La doppia elica è entrato in molti insegnamenti, come lettura complementare a corsi di biologia generale, biochimica, biologia molecolare, genetica, sociologia e storia. È per questo che - per accrescere il suo valore in questo tipo di contesto accademico - ho proposto a Watson di pubblicare la presente «edizione critica» del suo libro; in essa il testo originale è accompagnato da una rassegna del contesto scientifico e storico degli eventi narrati, da descrizioni retrospettive degli stessi eventi da parte di due dei protagonisti della storia (Francis Crick e Linus Pauling) e da una selezione delle più interessanti recensioni del libro - in cui altri scienziati commentano la storia raccontata da Watson, alla luce della loro esperienza e del loro punto di vista.

Desideriamo ringraziare gli autori e le riviste che hanno autorizzato la riproduzione dei loro articoli; siamo grati alla Athenaeum Press per averci concesso l'autorizzazione a ristampare La doppia elica.

GUNTHER S. STENT dell'Università della California

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

I . GUNTHER S. STENT
La doppia elica del DNA e
la nascita della biologia molecolare



Al liceo, durante le lezioni di storia - alla Hyde Park High School di Chicago - mi avevano insegnato che il Rinascimento iniziò il 29 maggio 1453, il giorno in cui Costantinopoli venne occupata dai Turchi. In quel giorno, pensavo, tutti realizzarono improvvisamente che il Medioevo era finito ed era venuto il momento di riscoprire le arti e le scienze della antichità classica. Poi ho capito quanto sia assurdo voler stabilire con precisione l'inizio di un'epoca storica. Eppure, sostengo ancora che l'epoca della biologia molecolare è iniziata esattamente cinquecento anni dopo la caduta di Costantinopoli, quasi lo stesso giorno. È iniziata il 25 aprile 1953, con la pubblicazione - sulla rivista scientifica inglese «Nature» - dell'articolo di due giovani scienziati, James Watson (che era stato studente del liceo South Shore High School rivale di quello di Hyde Park) e Francis Crick, nel quale si comunicava la scoperta della doppia elica del DNA. È iniziata quel giorno perché, non appena il contenuto dell'articolo fu noto, la maggior parte dei biologi interessati al meccanismo dell'eredità, si rese rapidamente conto che era venuto il momento di pensare alla genetica in termini di macromolecole portatrici di informazione ereditaria.

Così come il Rinascimento fu stimolato dal confronto tra l'Occidente cristiano e l'Oriente musulmano, la biologia molecolare fu stimolata dal confronto della genetica con la biochimica. La genetica ebbe inizio nel 1865, quando Gregor Mendel pubblicò i risultati delle sue esperienze: egli aveva effettuato degli incroci tra varietà di piselli odorosi diverse tra loro per alcuni caratteri ereditari, come la forma del seme e il colore del fiore. Mendel aveva studiato in che modo queste caratteristiche - semi rotondi o rugosi, fiori rossi o bianchi - si distribuivano tra le piante che nascevano dalle ibridazioni. In base ai risultati di queste esperienze Mendel concluse che un organismo porta in sé, e trasmette alla discendenza un insieme di elementi ereditari, i geni. Ogni gene è responsabile di un singolo carattere, cosi che l'aspetto esterno generale di un organismo è determinato dall'insieme dei geni particolari che esso ha ricevuto, per trasmissione ereditaria, dai suoi genitori.

Le intuizioni di Mendel, tuttavia, erano troppo avanzate per i suoi tempi; per più di trentacinque anni la comunità dei biologi le ignorò. Il lavoro di Mendel venne riscoperto solo nel 1900 e durante i primi vent'anni di questo secolo la genetica divenne uno dei più importanti settori di punta della ricerca biologica. Grazie soprattutto al lavoro di Thomas H. Morgan e dei suoi collaboratori, si comprese che i geni sono organizzati in un ordine lineare lungo i cromosomi. (I cromosomi sono strutture filiformi della cellula; prima di ogni divisione cellulare, ciascun cromosoma si divide in due parti che si dispongono in modo tale che ognuna delle due cellule figlie riceve un insieme completo di cromosomi). Inoltre, si scoprì che i geni possono subire dei cambiamenti permanenti, o mutazioni. Una mutazione dà luogo a una modificazione nel particolare carattere ereditario determinato dal gene, come il cambiamento dal colore rosso al bianco in un fiore.

Questi primi risultati resero possibili grandi progressi nella comprensione dei fenomeni vitali. Da un punto di vista teorico, essi furono una solida base per comprendere il meccanismo dell'evoluzione. Diventava infatti chiaro che le mutazioni genetiche, essendo la sorgente primaria di ogni novità biologica, erano il motore che fa progredire l'evoluzione. E inoltre che il meccanismo di selezione naturale proposto da Charles Darwin in realtà sceglie organismi portatori di nuovi geni (o di nuove combinazioni di geni), che li rendono più adatti alla lotta per la sopravvivenza. Da un punto di vista pratico, la genetica portò a enormi progressi in diversi campi: in agricoltura, divenne possibile programmare razionalmente degli incroci per produrre piante e animali di maggior valore economico; in medicina, il riconoscimento del ruolo dei geni in molte malattie dell'uomo permise di avere un quadro interpretativo per prevenirle o curarle.

Tuttavia, durante la prima metà del secolo, la genetica - pur essendo diventata la regina delle scienze biologiche - aveva ancora il suo concetto centrale, il gene (e la sua natura fisica), avvolto nel mistero. Nessuno sapeva di che cosa fosse fatto un gene, come riuscisse a imporre il suo carattere all'organismo che ne è portatore, come potesse riprodursi uguale a se stesso durante la divisione cellulare.

[...]

Ma il successo di Pauling, nel 1951, nella definizione della struttura di base della catena polipeptidica, e un incontro casuale con Maurice Wilkins che stava già effettuando una analisi cristallografica del DNA a Londra - ispirò James Watson (a quel tempo giovane ricercatore che lavorava sui fagi a Copenaghen) a cercare di risolvere la struttura della molecola di DNA. Per imparare le tecniche della cristallografia a raggi X, Watson raggiunse Kendrew a Cambridge, dove incontrò Francis Crick, anch'egli convinto che la conoscenza della struttura tridimensionale del DNA avrebbe potuto fornire importanti suggerimenti sulla natura dei geni. Watson e Crick iniziarono allora una collaborazione che li portò, nella primavera del 1953, alla scoperta che la molecola del DNA è una doppia elica, composta di due catene polinucleotidiche intrecciate. La doppia elica del DNA è autocomplementare, nel senso che a ogni nucleotide adenina su una catena corrisponde un nucleotide timina sull'altra, e a ogni nucleotide guanina su una catena corrisponde un nucleotide citosina sull'altra. La specificità di questa relazione di complementarità deriva da legami a idrogeno tra i due nucleotidi opposti, adenina-timina e guanina- citosina, a ogni passo della molecola a doppia elica.

A prima vista, la scoperta della doppia elica da parte di Watson e Crick e della sua struttura autocomplementare rassomiglia alla scoperta dell'elica-alfa compiuta due anni prima da Pauling; in particolare, perché la formazione di legami a idrogeno specifici ha un ruolo importante anche nella struttura proposta da Pauling. Tuttavia, pensandoci meglio, ci si accorge che la scoperta della doppia elica del DNA è stata un evento di natura qualitativamente differente. In primo luogo, nel risolvere la struttura a doppia elica, Watson e Crick avevano introdotto per la prima volta, nel campo delle determinazioni di struttura, un argomento genetico: essi avevano richiesto che la struttura del DNA - altamente regolare - potesse accomodare l'aspetto informazionale dato dalla sequenza arbitraria di basi nucleotidiche lungo le due catene polinucleotidiche. In secondo luogo, a differenza di quanto era accaduto con la scoperta dell'elica-alfa, la scoperta della doppia elica del DNA fornì enormi prospettive alla immaginazione: essa apri la strada alla conoscenza del funzionamento del materiale genetico.

Questa brillante fusione di considerazioni strutturali e genetiche, realizzata con la scoperta della doppia elica, inaugurò l'epoca della biologia molecolare. Ma Watson e Crick non hanno soltanto questo merito: essi hanno anche dominato il decennio successivo di ricerche nel campo della biologia molecolare. Ancora più importante è il fatto che essi furono tra i principali responsabili della formulazione del dogma centrale della biologia molecolare: il dogma che ha, da allora, guidato la maggior parte degli studi sulla natura dei geni. È l'esistenza di questo dogma centrale che contraddistingue nettamente l'atmosfera della biologia molecolare attuale da quella dell'epoca precedente. Mentre il Gruppo Fago, prima del 1953, aveva dovuto cercare nel buio, ora all'ordine del giorno c'erano la verifica e la elaborazione di un dogma centrale chiaramente definito.

Il dogma centrale è costituito da una serie di convinzioni che spiegano coerentemente i meccanismi per mezzo dei quali il DNA riesce a svolgere le sue due funzioni fondamentali: quella autocatalitica e quella eterocatalitica. In sintesi, il dogma afferma che la funzione autocatalitica è un processo che ha luogo in un solo stadio durante il quale la molecola di DNA serve direttamente da stampo per la sintesi di una molecola di DNA identica a se stessa (replica). La funzione eterocatalitica, invece, è un processo a due stadi, nel quale interviene il secondo tipo di acido nucleico, l'RNA. Nel primo stadio, la molecola di DNA serve da stampo per la sintesi di una catena polinucleotidica di RNA sulla quale viene trascritta la sequenza di nucleotidi presente nel DNA. Nel secondo, la catena dell'RNA è tradotta dai meccanismi cellulari che regolano la sintesi proteica in catene polipeptidiche aventi la struttura richiesta. Va notato che una caratteristica essenziale del dogma centrale è il flusso, in un unico senso, di informazione dal DNA alla proteina; questa direzione non può essere mai invertita.

Questo punto di vista sulla funzione eterocatalitica del DNA è basato su un dogma secondario, per il quale, quando esso venne formulato, non esisteva alcuna prova. Questo dogma secondario - o ipotesi sequenziale - afferma che l'esatta configurazione spaziale di una molecola di proteina - e quindi la specificità della sua funzione biologica - è determinata completamente dalla particolare sequenza dei venti tipi di aminoacidi che costituiscono la sua catena polipeptidica. Quindi il significato di una particolare sequenza dei quattro tipi di nucleotidi presente in un segmento della molecola di DNA (corrispondente a un gene) non può essere altro che una specificazione della sequenza di aminoacidi in una catena polipeptidica.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 37

La doppia elica


Introduzione



In queste pagine ho voluto raccontare a modo mio come venne scoperta la struttura del DNA, cercando di cogliere il clima particolare di quel primo dopoguerra in Gran Bretagna dove si svolsero quasi tutti gli avvenimenti più importanti di questa storia. La scienza, come spero dimostrerà questo libro, raramente procede col metodo rigorosamente logico che i profani si immaginano. Al contrario, i suoi passi avanti (e talvolta indietro!) sono spesso vicende molto umane, in cui hanno parte essenziale la personalità dei protagonisti e le tradizioni culturali. Per questo ho cercato di rievocare le mie prime impressioni delle vicende e delle persone a esse legate, piuttosto che passare in rassegna e analizzare i molti fatti di cui abbiamo avuto notizia dopo la scoperta della nota struttura. Forse quest'ultima impostazione potrebbe sembrare più obiettiva; ma non riuscirebbe a comunicare lo spirito e l'eccitamento di un'avventura che è stata caratterizzata insieme da giovanile baldanza e dalla convinzione che la verità, una volta scoperta, sarebbe stata semplice oltre che bella. Così, molte delle cose che dirò potranno sembrare unilaterali o un po' parziali; ma questo è già implicito nella maniera incompleta e frettolosa con cui gli esseri umani decidono spesso di abbracciare o di respingere un'idea o una scoperta nuova.

In ogni caso, questo racconto riflette il modo in cui allora, nel 1951-53, io vedevo le cose: le idee, gli uomini e me stesso.

So benissimo che altri protagonisti di questa storia la racconterebbero in modo diverso in alcuni punti, perché il loro ricordo degli avvenimenti differisce dal mio, ma più spesso forse perché due persone non vedono mai lo stesso fatto esattamente nella stessa luce. In questo senso, nessuno sarà mai in grado di scrivere una storia definitiva del processo che condusse a scoprire la struttura del DNA. Ma mi sembra che valga egualmente la pena di raccontare questa storia, anche perché a molti dei miei amici scienziati interessava sapere come si era arrivati a determinare la doppia elica, e per loro una versione incompleta è sempre preferibile a nulla. Ma soprattutto, credo, perché la gente ignora, per lo più, come «si fa» la scienza. Non voglio dire con questo che la scienza si faccia nel modo qui descritto. Tutt'altro: le vie della ricerca scientifica sono varie quasi quanto i caratteri degli uomini. D'altra parte non credo che la scoperta del DNA costituisca una eccezione, in un mondo scientifico dominato dagli impulsi contraddittori dell'ambizione e della lealtà professionale.

Ho sentito di dover scrivere questo libro fin quasi dal giorno in cui la doppia elica venne alla luce. Per questo il ricordo di molti momenti importanti di questa scoperta è più completo che non quello di molti altri episodi della mia vita. Ho anche utilizzato ampi passi delle lettere che scrivevo a casa circa una volta alla settimana e che mi sono servite soprattutto per datare con esattezza alcuni avvenimenti. Altrettanto utili mi sono stati i commenti preziosi di amici che cortesemente hanno letto stesure precedenti e hanno precisato a volte particolari di avvenimenti che io avevo riferito in forma incompleta. Naturalmente in alcuni casi i miei ricordi differiscono dai loro: questo libro riflette quindi il mio modo di vedere le cose.

[...]

J.D.W. - Harvard University, Cambridge, Massachusetts - novembre 1967

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 43

Nell'estate del 1955 decisi di unirmi a un gruppo di amici che andavano a passare una vacanza nelle Alpi svizzere. Alfred Tissieres, allora professore incaricato al King's College, aveva promesso di condurmi sulla cima del Rothorn; e benché soffra terribilmente di vertigini non mi sembrava il momento di mostrarmi vigliacco. Così, dopo essermi messo un po' in forma facendomi portare da una guida sull'Allinin, presi la corriera che sale in due ore a Zinal, sperando vivamente che l'autista non fosse preso dal mal d'auto mentre faceva rollare e beccheggiare il grosso pullman su per la stretta strada che serpeggia su strapiombi rocciosi. Finalmente vidi Alfred, davanti all'albergo, intento a chiacchierare con un baffuto professore del Trinity che era stato in India durante la guerra.

Poiché Alfred non si sentiva ancora abbastanza allenato, decidemmo di dedicare il pomeriggio a una camminata fino a un piccolo ristorante, ai piedi dell'immenso ghiacciaio che scende dall'Obergabelhorn che ci proponevamo di attraversare il giorno dopo. Ci eravamo lasciati l'albergo alle spalle solo da pochi minuti quando vedemmo una comitiva venirci incontro, e subito riconobbi uno degli alpinisti. Era Willy Seeds, uno scienziato che parecchi anni prima aveva lavorato al King's College di Londra, insieme con Maurice Wilkins, sulle proprietà ottiche dei filamenti di DNA. Willy mi riconobbe subito, rallentò e per un momento ebbi l'impressione che volesse deporre lo zaino e fermarsi a far due chiacchiere. Ma poi disse soltanto: «Come va l'onesto Jim?», e affrettando il passo, continuò a scendere giù per il sentiero.

Più tardi, mentre arrancavo su per la salita, pensai ai vecchi tempi e ai nostri incontri a Londra. Allora il DNA era ancora un mistero, in attesa che qualcuno strappasse il velo; e non si sapeva chi sarebbe stato il primo e se avrebbe meritato la vittoria, ammesso che la scoperta fosse davvero emozionante come ognuno credeva in cuor suo. Ma ora la gara era finita, e io, uno dei vincitori, sapevo bene che la storia non era così semplice, e certo non come la raccontavano i giornali. Era stata soprattutto opera di cinque persone, Maurice Wilkins, Rosalind Franklin, Linus Pauling, Francis Crick e io. E poiché fu soprattutto Francis a decidere la parte che io vi ebbi, comincerò da lui la mia narrazione.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 45

Capitolo primo



In vita mia non ho mai visto Francis Crick in vena di modestia. Sarà modesto forse con altri, non lo so: ma io personalmente non ho mai avuto ragione di giudicarlo tale. Non voglio affatto riferirmi alla sua fama attuale. Oggi si parla molto di lui, di solito con sommo rispetto, e un giorno verrà probabilmente considerato all'altezza di un Rutherford o di un Bohr. Ma non era così quando, nell'autunno del 1951, giunsi al laboratorio Cavendish dell'università di Cambridge entrando a far parte di quel gruppetto di fisici e di chimici che lavoravano alle strutture tridimensionali delle proteine. Francis aveva allora trentacinque anni ed era ancora un illustre ignoto o quasi. Anche se alcuni dei colleghi che gli erano più vicini avevano intuito il valore del suo acuto e penetrante ingegno, e spesso chiedevano il suo consiglio, non era in genere apprezzato, e molti gli rimproveravano di parlare un po' troppo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 52

Capitolo terzo



Wilkins era stato il primo a suscitare in me l'interesse per la diffrazione dei raggi X applicata allo studio del DNA. Eravamo a Napoli, dove si teneva un piccolo congresso sulle strutture delle grandi molecole trovate nelle cellule viventi. Era la primavera del 1951, e non conoscevo ancora Francis Crick, ma già da tempo mi occupavo del DNA: ero venuto appunto in Europa, con una borsa di studio, per studiarne la biochimica. E questo mio interesse era nato dal desiderio - che risaliva agli ultimi anni d'università - di scoprire che cosa è il gene. Più tardi, durante gli anni di specializzazione all'università dell'Indiana, avevo sperato di poter risolvere il mistero del gene senza dover mettermi a studiare chimica. Era soprattutto una ragione di pigrizia, poiché quando frequentavo l'università di Chicago, mi ero occupato soprattutto di ornitologia e avevo evitato accuratamente di seguire i corsi di fisica o chimica che presentassero anche una media difficoltà. In seguito i biochimici dell'Indiana mi avevano spinto a studiare la chimica organica: ma dopo che ebbi usato un becco Bunsen per far scaldare del benzene, mi esonerarono dall'obbligo di seguire altri corsi di chimica. Era meno pericoloso dare la laurea a un ignorante che rischiare un'altra esplosione.

Così non mi trovai nella necessità di assimilare la chimica finché non andai a Copenaghen a specializzarmi col biochimico Herman Kalckar. Viaggiare all'estero sembrò all'inizio la soluzione ideale per la mia assoluta mancanza di cognizioni chimiche, del resto incoraggiata in me dal relatore della mia tesi, il microbiologo Salvatore Luria, il quale aveva studiato in Italia. Luria detestava cordialmente quasi tutti i chimici, soprattutto quella varietà aggressiva che prospera nelle giungle di New York. Ma Kalckar aveva anche una grande cultura, e Luria sperava che al fianco di quel dotto esponente della civiltà europea mi sarei impadronito degli strumenti necessari alla ricerca chimica senza trovarmi alle prese con i chimici organici ormai legati all'industria.

Gli esperimenti di Luria riguardavano allora in gran parte la moltiplicazione dei virus batterici (batteriofagi, detti confidenzialmente «fagi»). Da qualche anno i genetisti più brillanti sospettavano che i virus fossero una forma di geni nudi. Nel qual caso, la via migliore per scoprire che cosa fosse un gene e come si duplicasse era quella di studiare le proprietà dei virus. E, poiché i virus più semplici erano i «fagi», fra il 1940 e il 1950 un numero crescente di scienziati (il cosiddetto «Gruppo Fago») si era messo a studiare i fagi nella speranza di scoprire come i geni controllassero l'ereditarietà cellulare. Alla testa di questo gruppo erano Luria e un suo amico di origine tedesca, il fisico teorico Max Delbrück, allora professore al Cal Tech. Mentre Delbrück continuava a sperare che il problema si potesse risolvere con espedienti puramente genetici, Luria si domandava sempre più spesso se non si dovesse prima sviscerare la struttura chimica di un virus (di un gene). Nel suo intimo, sapeva che non si può descrivere il comportamento di una cosa se non se ne conosce prima l'essenza. Così, sapendo che non si sarebbe mai messo personalmente a studiare chimica, Luria pensò bene di spedire me, il suo primo studente che faceva sul serio, a lavorare da un chimico.

Fra un chimico esperto di proteine e uno studioso di acidi nucleici, scelse logicamente quest'ultimo. Benché solo una metà circa della massa di un virus batterico sia costituita da DNA (l'altra metà è fatta di molecole proteiche), l'esperimento di Avery faceva pensare al DNA come al materiale genetico per eccellenza. Così scoprire la struttura chimica del DNA poteva essere il passo fondamentale per apprendere come si riproducono i geni. Ma, contrariamente a quanto avveniva per le proteine, erano pochissimi i dati chimici concreti che si conoscevano sul DNA. Solo un piccolo numero di chimici se ne occupava e, oltre alla certezza che gli acidi nucleici erano grossissime molecole formate a loro volta da «mattoni» più piccoli, i nucleotidi, i genetisti non avevano altri dati chimici sicuri a cui attenersi. Inoltre gli studiosi che lavoravano sul DNA erano quasi sempre chimici organici, che non si interessavano di genetica. Kalckar era una brillante eccezione. Nell'estate del 1945 era venuto al laboratorio di Cold Spring Harbor (New York), per seguire il corso di Delbrück sui virus batterici. Perciò Luria e Delbrück speravano che il laboratorio di Copenaghen fosse il posto ideale per raccogliere dalle tecniche combinate della chimica e della genetica frutti biologici di grande interesse.

Ma il loro progetto doveva fallire miseramente. Herman non ebbe il potere di suscitare in me un briciolo di enstusiasmo. Nel suo laboratorio, la chimica nucleica mi rimase altrettanto ostica che negli Stati Uniti. Forse anche perché non vedevo come il genere di problema di cui si occupava allora (il metabolismo dei nucleotidi) potesse portare a risultati di interesse immediato per la genetica. E poi c'era il fatto che Herman, pur essendo evidentemente un uomo molto colto, parlava in modo incomprensibile.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 141

Capitolo ventitreesimo



Maurice era occupato quando, poco prima delle quattro, entrai al King's per portare la notizia che il modello di Pauling non quadrava. Perciò proseguii fino alla stanza di Rosy, sperando che almeno lei fosse libera. Poiché la porta era socchiusa, la spinsi e vidi Rosy china su un negatoscopio, intenta a misurare una fotografia. Trasalì, vedendomi entrare, ma riprese subito il suo contegno, e guardandomi dritto in faccia mi fece capire con un'occhiata eloquente che gli ospiti non invitati potevano avere la cortesia di bussare.

Esordii dicendo che Maurice era occupato, e ancora prima che aprisse la bocca per aggredirmi, le chiesi se le interessava vedere la copia del manoscritto che Linus aveva mandato al figlio. Ero curioso di vedere in quanto tempo avrebbe individuato l'errore: ma Rosy non era dell'umore adatto per giocare a nascondarello. Così le spiegai subito dove Linus era uscito di strada: e intanto non potei trattenermi dal farle notare la rassomiglianza superficiale che esisteva fra l'elica a tre catene di Pauling e il modello che Francis e io le avevamo mostrato quindici mesi prima. Avrebbe dovuto divertirla il fatto che le deduzioni di Pauling sulla simmetria non fossero più indovinate del nostro infelice tentativo dell'anno prima. Mi sbagliavo di grosso. Le mie continue allusioni alla struttura elicoidale la irritarono ancora di più; seccamente mi fece notare che neppure la più lontana traccia di prova sperimentale consentiva a Linus o a chiunque altro di postulare una struttura elicoidale per il DNA. La maggior parte dei miei argomenti erano quindi superflui, perché si era convinta che Pauling aveva torto non appena io avevo menzionato l'elica.

Interruppi la sua arringa per replicare che la forma più semplice, per ogni molecola polimerica regolare, era quella elicoidale. E poiché, a questo punto, Rosy poteva facilmente ribattere che con tutta probabilità la sequenza delle basi non era regolare, volli farle presente che, dal momento che le molecole del DNA formano cristalli, l'ordine dei nucleotidi non doveva influire sulla struttura generale. Ormai Rosy non riusciva più a padroneggiarsi, e con voce stridula mi disse che la stupidità delle mie osservazioni sarebbe risultata lampante se solo l'avessi piantata di blaterare e avessi dato invece un'occhiata ai suoi dati sperimentali.

Io ero più al corrente dei suoi esperimenti di quanto lei non credesse. Parecchi mesi prima Maurice mi aveva illustrato la natura dei suoi cosiddetti risultati antielica. Poiché Francis mi aveva assicurato che si trattava di un'argomentazione speciosa, chiusi gli occhi e mi buttai, sostenendo che a lei mancava la competenza necessaria per interpretare esattamente le fotografie ai raggi X. Se solo avesse studiato un po' di teoria, si sarebbe resa conto che quei tratti considerati una sicura prova antielica derivavano da lievi distorsioni, rese inevitabili dalla necessità di inserire un'elica regolare in un reticolo cristallino.

D'improvviso Rosy uscì di dietro il bancone che ci separava e mosse alcuni passi verso di me. Temendo che accecata dalla collera arrivasse a schiaffeggiarmi, afferrai il manoscritto di Pauling e mi affrettai verso la porta aperta. La mia ritirata fu bloccata da Maurice, che era venuto a cercarmi e stava appunto affacciandosi alla soglia. Mentre i due si guardavano in faccia, al di sopra della mia persona, io spiegai debolmente a Maurice che avevo appunto finito di parlare con Rosy e che ero diretto nella saletta da tè in cerca di lui. Al tempo stesso tentavo di togliermi di mezzo e di lasciare i due faccia a faccia. Vedendo che Maurice non mi seguiva subito, temetti per un istante che per pura cortesia egli invitasse Rosy a prendere il tè con noi. Ma lei risolse la situazione voltandoci le spalle e sbattendoci la porta in faccia.

Mentre percorrevamo il corridoio dissi a Maurice che la sua inattesa comparsa mi aveva forse salvato da un paio di schiaffi. Lui mi guardò e mi disse lentamente che la cosa non lo avrebbe sorpreso. Qualche mese prima anche lui si era trovato in una situazione simile: erano quasi venuti alle mani mentre discutevano nel suo ufficio. Quando lui aveva fatto per andarsene Rosy aveva bloccato la porta e si era tirata da parte solo all'ultimo momento. Ma nessuno allora gli era venuto in soccorso.

Il mio scontro con Rosy indusse Maurice ad aprirsi con me come mai era accaduto prima. Ora che avevo potuto rendermi conto personalmente dell'inferno che sopportava da due anni, poteva trattarmi come un compagno, un collaboratore e non come un lontano conoscente, con cui può essere pericoloso confidarsi. Restai di stucco quando mi confessò che con l'aiuto del suo assistente Wilson aveva fatto di nascosto delle copie di alcune fotografie prese con i raggi X da Rosy e da Gosling. Avrebbe così potuto riprendere in pieno il lavoro con un minimo di svantaggio. Finalmente saltò fuori la notizia più grossa: fin dalla metà dell'estate Rosy aveva ottenuto la prova di una nuova forma tridimensionale del DNA. Essa compariva ogni volta che le molecole di DNA erano circondate da una forte quantità di acqua. Quando chiesi a che cosa somigliasse lo schema, Maurice andò nella stanza vicina a prendere una riproduzione della nuova forma che essi chiamavano struttura «B».

Come vidi la fotografia rimasi a bocca aperta e sentii il cuore battermi più forte. Questa nuova forma era incredibilmente più semplice di quelle ottenute in precedenza (struttura «A»). Inoltre la croce nera delle riflessioni al centro della foto poteva nascere soltanto da una struttura elicoidale. La struttura «A» non dava la certezza assoluta di una struttura elicoidale, né la possibilità di stabilire con sicurezza quale tipo di simmetria elicoidale comparisse. Con la struttura «B», invece, bastava guardare la fotografia per individuare alcuni dei parametri elicoidali fondamentali. Probabilmente sarebbero bastati pochi minuti di calcolo per stabilire il numero delle catene nella molecola. Chiesi a Maurice se avessero già sfruttato le rivelazioni della foto «B», e seppi che il suo collega, R.D.B. Fraser, aveva già fatto in precedenza qualche tentativo di costruire modelli a tre catene, ma finora senza risultati importanti. Benché Maurice ammettesse ora che le prove dell'esistenza di una forma a elica erano schiaccianti - la teoria Stokes-Cochran-Crick indicava chiaramente che doveva esserci un'elica - non era tanto questo che importava; del resto anche lui aveva sempre pensato che ne sarebbe risultata un'elica. La vera difficoltà era l'assenza di qualsiasi ipotesi strutturale che permettesse loro di inserire le basi con regolarità nell'interno dell'elica. Sempre, naturalmente, che Rosy avesse visto giusto nell'immaginare le basi al centro e il supporto all'esterno. Maurice mi confidò di essere quasi convinto che Rosy avesse ragione, ma io restavo scettico, perché né Francis né io eravamo ancora riusciti a vedere con i nostri occhi le prove sperimentali che lei portava.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 161

Quando la mattina dopo entrai nello studio ancora vuoto, spazzai via tutte le carte dalla scrivania, in modo da avere un'ampia superficie libera su cui formare coppie di basi tenute insieme da legami a idrogeno. Da principio mi intestardii con la formula del «simile con simile», ma poi mi accorsi che non mi avrebbe veramente mai condotto in porto. Quando entrò Jerry, alzai la testa, vidi che non era Francis e cominciai a spostare le basi avanti e indietro, secondo altre possibilità di accoppiamento. Improvvisamente notai che una coppia adenina-timina, tenuta insieme da due legami a idrogeno, era identica nella forma a una coppia guanina-citosina tenuta insieme da almeno due legami a idrogeno. Tutti i legami sembravano formarsi spontaneamente; non occorrevano artifici per ottenere i due tipi di coppie nella stessa forma. Subito chiamai Jerry per chiedergli se avesse obiezioni da muovere alle nuove coppie di basi.

Quando mi rispose di no, il mio morale balzò alle stelle: ora mi sembrava di avere finalmente afferrato la ragione del perché il numero dei residui di purina eguagliasse esattamente il numero dei residui di pirimidina. Due sequenze irregolari di basi potevano inserirsi regolarmente al centro di un'elica, se ogni purina si legava sempre mediante l'idrogeno con una pirimidina. Inoltre, la necessità del legame a idrogeno significava che l'adenina si sarebbe sempre accoppiata alla timina, mentre la guanina poteva accoppiarsi solo con la citosina. Di colpo le regole di Chargaff mi apparvero la conseguenza logica di una struttura a doppia elica. Ma soprattutto, questo tipo di doppia elica suggeriva uno schema di duplicazione molto più soddisfacente dell'accoppiamento «simile con simile». L'appaiamento costante dell'adenina con la timina e della guanina con la citosina significava che le sequenze delle basi delle due catene intrecciate erano complementari l'una all'altra. Data la sequenza di una catena, risultava automaticamente determinata quella dell'altra. Era quindi facile immaginare concettualmente come ogni singola catena potesse essere lo stampo per la sintesi di una catena con la sequenza complementare.

Francis non era ancora entrato dalla porta che mi precipitai ad annunciargli la vittoria. Per principio rimase scettico ancora qualche minuto, ma poi l'analogia formale delle coppie A-T e G-C travolse i suoi ultimi dubbi. Si mise subito a spostare e a riunire le basi in diversi modi, senza però scoprire un'altra via di soddisfare alle regole di Chargaff. Pochi minuti dopo individuò il fatto che due legami glicosidici di ogni coppia di basi venivano sistematicamente correlati da un asse diadico perpendicolare all'asse elicoidale. Perciò le due coppie potevano venire ribaltate eppure mantenere i legami glicosidici rivolti nella stessa direzione. Ne derivava l'importante conseguenza che una data catena poteva contenere sia purine sia pirimidine. Al tempo stesso veniva fatto di pensare che i supporti delle due catene corressero in direzioni opposte.

A questo punto restava da vedere se le coppie A-T e G-C si sarebbero inserite facilmente nel supporto che avevamo progettato durante le due settimane precedenti. A un primo sguardo sembrava assai probabile, poiché avevo lasciato libera al centro un'ampia zona per le basi. Tuttavia sapevamo entrambi che non avremmo potuto dire nulla di preciso finché non si fosse costruito un modello completo in cui tutti i contatti stereochimici fossero soddisfacenti. Inoltre le implicazioni di questa scoperta erano troppo importanti per rischiare di gettare l'allarme anzi tempo. Per questo sentii un crampo allo stomaco quando a colazione Francis irruppe nella sala dell'Eagle annunciando a chiunque si trovasse a portata di voce che avevamo scoperto il segreto della vita.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 244

F. X. S.
Osservazioni di un non-Watson (1968)



Anch'io ho un sogno. Immaginare una classe di numeri trascendenti che, sommati in un certo spazio n-dimensionale, danno un risultato maggiore della loro sola somma naturale (a + b = a + b + x). Essere nominato professore ordinario di matematica; pronunciare la mia dissertazione inaugurale in silenzio totale, semplicemente scrivendo sulla lavagna - su un insieme di lavagne disposte a mezzaluna intorno all'aula - una dimostrazione del cosiddetto ultimo teorema di Fermat: è impossibile trovare tre numeri interi x, y e z, che soddisfino l'equazione x^n+y^n=z^n, dove n è un intero maggiore di 2. Un teorema che, finora, ha sfidato tutti i tentativi di giungere a una soluzione completa.

Oppure, in uno di quei caldi pomeriggi all'Institute for Advanced Study di Princeton - mentre il fantasma di von Neumann passeggia (la sua è stata probabilmente l'intelligenza più poderosa del secolo) - dimostrare la congettura di Goldbach: ogni numero pari, ogni numero pari fino all'ultimo limite dell'universo, è la somma di due numeri primi. Oppure, avere uno spazio chiamato con il mio nome come è accaduto a Banach, non una piccola strada maleodorante o una squallida piazzetta, ma proprio uno spazio.

Dopo di che, me ne andrei da qualche parte su un'alta montagna incontaminata, nascondendo la mia fama mondana, ma pubblicando di tanto in tanto - sugli «Acta Mathematica» o sugli «Annalen» di Gottinga - un brevissimo lavoro. Breve ma terribile nella sua bellezza: come il lavoro di Gödel del 1931 «Sulle proposizioni formalmente indecidibili», nei confronti della cui pura semplicità, della cui pura tensione di intelligenza e sensibilità, l'insieme di tutta l'arte del XX secolo e quello che passa per letteratura dopo Valéry è davvero ben poca cosa; o il breve enunciato, breve ma ricco come del plasma intrappolato, del problema di Steiner e della sua generalizzazione al campo complesso (trovare la retta più breve che connetta un insieme di punti prefissati). I miei lavori verrebbero pubblicati anonimi, spediti alle riviste in una anonima busta da qualche villaggio di vacanze autunnali del Ticino, ma ognuno di essi verrebbe immediatamente identificato. Per il rigore totale dei teoremi e dei lemmi, per la chiara concisione delle dimostrazioni. Dopo averli imbucati, sapendo che generazioni di matematici, logici e fisici si dedicheranno a essi - così come ora fanno con gli appunti di Galois o le note di Eulero - cercherei una donna. Un essere semplice, pulito, del tutto ignaro della mia fama.

Dato che questo è il mio sogno - io, un mediocre algebrista, io, uno scienziato affermato ma anche non famoso (ce ne sono più di quattrocento nella Royal Society, troppi di essi scelti per amicizia o per quel sottile meccanismo di adulazione che fa sì che un uomo favorisca i suoi imitatori e i suoi colleghi minori) - dato che questo è il mio sogno e, talvolta, mi arrendo davanti alla sua incredibile precisione di dettagli, posso, nella mia mente-beta, letteralmente udire il fruscio della busta, mentre apro il telegramma da Stoccolma; posso sentire l'odore di pelle e velluto della scatola blu nella quale giace la medaglia Nobel. Bene, poiché non sono più di quello che sono, e sono un po' meno di quello che avrei sperato, penso a lungo, penso intensamente a coloro che sono la realtà, i cui nomi resteranno nei recessi dello spirito. Leggo di loro, avidamente. Mi immagino nella loro pelle gloriosa - perché questo è il fatto: una pelle nell'interno della quale le loro vite sono state trasformate, sono diventate luminose. (Può un uomo ricordarsi, ricordarsi esattamente, i cinque minuti, i due minuti e mezzo, prima che il telefono abbia suonato, prima che la centralinista o un giornalista abbia gridato «Qui è Stoccolma che chiama!»?) Io ho sentito quel telefono suonare nello studio attiguo al mio; ho visto la porta spalancarsi di colpo.

È così che ho letto La doppia elica di Watson. E l'ho riletto. Per cercare di ritrovarmi nel sistema nervoso di un uomo che, a ventiquattro anni, è riuscito a realizzare uno dei colpi maestri dell'intelligenza umana, un uomo dalla percezione esatta e creativa. Al quale la fama è giunta in una folata accecante, non in modo ovvio (dopo tutto, ci sono sei o più premi Nobel ogni dicembre) ma con una sensazione rara e assoluta. Il lavoro di Watson e Crick sulla struttura del DNA, spedito a «Nature» il 2 aprile 1953, appartiene a una classe molto ristretta. Una classe che include, per esempio, la lettera di Galileo a Paolo Sarpi del 16 ottobre 1604, sulla legge di caduta dei gravi; i lavori di Einstein del 1905; la teoria dell'elettrone di Dirac; l'articolo di Lee e Yang sulla violazione della parità nelle cosiddette interazioni deboli (per quanto non sia molto sicuro dell'importanza di quest'ultimo: non mi sembra che ne sia nata gran cosa in seguito). In ogni modo, una classe fantasticamente ristretta di proposte scientifiche, non solo per risolvere alcuni problemi di importanza primaria, ma per farlo in un modo che è allo stesso tempo esauriente e «aperto».

Questa congruenza paradossale è il segno del genio. Watson e Crick sono riusciti a costiuire un modello della molecola del DNA, un modello che soddisfa a tutte le condizioni chimiche necessarie e che è allo stesso tempo, in se stesso, qualcosa di bello e di armonioso. Ma le frasi iniziali e finali del loro articolo di sole novecento parole (quante parole pesanti, sprecate, vuote ci sono nei «nuovi romanzi» di questa stagione o nei Cantos di Pound o nei fulmini o nelle sdolcinatezze dei critici letterari?) dicono molto di più.

«Questa struttura ha caratteristiche inedite che rivestono un considerevole interesse biologico.»

Questa modesta proposta diventa l'esultante affermazione di Crick: «Non ci è sfuggito che lo specifico accoppiamento che abbiamo postulato fa subito pensare a un possibile meccanismo di riproduzione del materiale genetico.» Nella nostra storia piuttosto noiosa non ci sono molte frasi come queste. Si può pensare alla semplice frase di Giordano Bruno: «con la terra dunque si muovano tutte le cose, che si trovano in terra» (con le sue formidabili implicazioni sull'infinità celeste); o alla lettera di Freud a Fliess della tarda estate del 1897: «Ho trovato che, anche nel mio caso, amore per la madre e gelosia per il padre...» Frasi che marcano un'alterazione nella struttura della realtà dell'uomo, che chiudono porte che sembrano improvvisamente piccole, familiari, déjà vu, e spalancano nuove, grandissime finestre. Cosa deve significare aver scritto una frase di questo tipo, e ottenere per essa - con una rapidità e con una brillantezza di omaggi maggiore che in tutta la storia della scienza, a causa dei mass media, a causa della tendenza post-romantica a personalizzare - il riconoscimento degli scienziati e di tutto il mondo? Con l'impertinenza scherzosa che caratterizza le sue maniere, Watson chiude così il suo libro:

«Ma ora ero solo e guardavo le fanciulle dai lunghi capelli di Saint Germain-des-Prés, sapendo che non erano per me. Avevo venticinque anni ed ero troppo vecchio, ormai, per permettermi di fare l'eccentrico.»

Una delle grandi frasi chiave nella prosa contemporanea. Ma così falsa! Non avrebbe più potuto essere solo. Qualcosa della biologia molecolare, ogni giorno, è suo; e molto della nuova biochimica della genetica. Quando Watson entra in una stanza... o vede uno studente, o sfoglia un indice di una storia della scienza del XX secolo... Ho insinuato i miei sogni nella sua realtà, o almeno ho cercato.

| << |  <  |