Copertina
Autore Eyal Weizman
Titolo Il male minore
Edizionenottetempo, Roma, 2009, gransasso 16 , pag. 100, cop.fle., dim. 10,5x14,8x0,7 cm , Isbn 978-88-7452-207-1
CuratoreNicola Perugini
LettoreGiorgia Pezzali, 2009
Classe filosofia , politica , etica , paesi: Israele , paesi: Palestina , guerra-pace
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Indice


Il male minore                       5

Attacco legislativo                 43


Note                                83


 

 

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Pagina 5

Il male minore



Nel contesto della filosofia etica che Hannah Arendt ha sviluppato con le sue considerazioni sul processo Eichmann, l'argomento contro il "male minore" è stato forse il piú controverso. Esso è riuscito a spiegare il modo in cui i "buoni cittadini" possano essere resi partecipi di politiche del male. Ovviamente, il problema del male minore riguarda la necessità di scegliere, come in quelle situazioni in cui le opzioni disponibili sono, o sembrano essere, limitate e vincolate da un grande potere. Il dilemma implica un sistema chiuso in cui le opzioni disponibili per la scelta, insieme a coloro che le rendono disponibili, non possono essere messe in discussione.

Il problema del male minore ha origine nella filosofia morale classica e nella prima teologia cristiana. In quest'ultima il problema è stato articolato attraverso il concetto del "peccato tollerato". Ma la questione ha ancora le sue ripercussioni sul presente. Infatti, nella nostra postutopica cultura politica contemporanea, il termine è cosí profondamente naturalizzato e invocato in una serie di contesti incredibilmente diversi tra loro – dalla morale individuale situazionale alle relazioni internazionali, passando dai tentativi di governare le economie della violenza nel contesto della "guerra al terrore" a quelli degli attivisti umanitari e dei diritti umani di destreggiarsi in mezzo ai paradossi dell'assistenza – che esso sembra aver completamente preso il posto che precedentemente era riservato al termine "bene".


Il racconto di Arendt della collaborazione forzata dei Consigli Ebraici con il regime nazista intendeva segnare il limite della logica della questione. La controversia era stata causata, come oggi è risaputo, dall'idea di Arendt che i Consigli Ebraici, optando ogni volta per il male minore della mitigazione degli orrori nazisti, avessero inconsapevolmente lavorato alla distruzione della loro stessa comunità. Sosteneva che ogni volta in cui i perseguitati non fossero scesi a compromessi, si fossero organizzati e non avessero cooperato con i nazisti nel tentativo di moderare le loro politiche, essi avrebbero avuto nettamente maggiori chance di sopravvivenza. Nel contesto della collaborazione dei tedeschi qualunque, soprattutto di quelli impegnati nel servizio civile, Arendt ha cercato di mostrare come "l'argomento del male minore" fosse diventato il piú importante "armamentario terrorista e criminale", e come esso fosse stato usato "per abituare i funzionari e la popolazione ad accettare in generale il male in sé", a un punto tale per cui "chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male".

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Pagina 33

Gli esecutori del male minore

Nella "guerra al terrore" i termini della questione del male minore sono stati recentemente articolati nel libro Il male minore di Michael Ignatieff, studioso di diritti umani e ora vicesegretario del Partito Liberale Canadese. Ignatieff propone che gli stati liberali stabiliscano meccanismi che regolino la violazione di alcuni diritti e consentano ai loro servizi di sicurezza di impegnarsi in forme di violenza extra-giuridica – vale a dire "mali minori" – al fine di evitare o limitare potenziali "mali maggiori". Questi esecutori postmoderni dovrebbero dunque calcolare vari generi di misure distruttive in maniera utilitaristica, non in relazione al male che producono ma a quello che prevengono. Questo dovrebbe essere sufficiente a domandarci se il "male minore" non sostituisca la "banalità del male" come forma contemporanea di esecuzione.


L'economia della violenza di Ignatieff presuppone la possibilità di mezzi meno violenti e il rischio di maggiore violenza, ma le questioni di violenza sono sempre imprevedibili. Il presunto male minore potrebbe essere piú violento della violenza a cui si oppone e potrebbe non esserci fine alle sfide che derivano dall'impossibilità del calcolo. Ma anche secondo i termini della stessa economia da lui proposta, la concezione del male minore potrebbe essere paradossale: una misura meno brutale è anche una misura facilmente naturalizzabile, accettabile, tollerabile. Quando misure eccezionali vengono normalizzate, possono venire applicate piú frequentemente. Per esempio, elevando gli omicidi mirati (Ignatieff ritiene che gli omicidi mirati rientrino "nel legittimo contesto del male minore" poiché si spiegano come alternativa alla punizione collettiva) a standard legali e morali accettabili, essi diventano parte delle azioni legali dello Stato, parte di una lista di tecniche di controterrorismo, con la conseguenza che qualsiasi senso dell'orrore verso l'atto dell'omicidio viene perso. Quanto piú la soglia di violenza attribuita a un certo mezzo e la soglia di orrore che il suo utilizzo implica sono basse, tanto piú la loro applicazione potrebbe diventare frequente. Visto che esse aiutano a normalizzare il conflitto a bassa intensità, la durata complessiva di questo conflitto potrebbe allungarsi e, alla fine, potrebbero essere commessi piú mali minori, con il risultato di un grande male raggiunto cumulativamente.

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Pagina 38

In realtà, la critica urgente e importante che le "organizzazioni per la pace" lanciano contro gli eserciti occidentali, per il fatto che essi deumanizzano i loro nemici, nasconde un altro processo attraverso il quale il militare incorpora nelle sue operazioni la logica delle stesse organizzazioni umanitarie e per i diritti umani che gli si oppongono, cercando persino di cooperare direttamente con queste ultime.


Al centro dei paradossi del male minore vi è il compromesso tattico che spesso degenera in un'impossibilità strutturale – un'impossibilità che intrappola lo Stato e la sua opposizione in un'accettazione reciproca, rendendo de facto le organizzazioni non statali partecipi di un sistema diffuso di governo in cui lo Stato esternalizza la propria autocoscienza etica a un'agenzia non governativa etica, e questa agenzia delega allo Stato la sua pretesa di efficienza.


Ovviamente, l'argomento che il principio del male minore sia pericoloso perché potrebbe produrre ulteriore male è come dire che è un male minore a evitare la questione del male minore. Tra il rifiuto e l'accettazione tattica, la difficoltà del problema del male minore resta comunque quella dell'affrontarlo o evitarlo. Non sto per questo suggerendo che la scelta dovrebbe andare verso l'altra direzione e che dovremmo evitare la scelta optando per il male maggiore; o che gli orribili spettacoli di "mali maggiori" andrebbero preferiti al male incrementale di mali minori; o che la violenza degli attuali conflitti debba essere resa ancor più brutale al fine di provocare con forza la resistenza di una popolazione compiaciuta. Piuttosto, sto dicendo che dobbiamo avere il coraggio di pensare oltre l'economia e i calcoli della violenza e della sofferenza, oltre l'ordine aritmetico "del piú e del meno" che regola lo scambio dei beni e della sofferenza umana, oltre le interminabili negoziazioni, complessità, contingenze e complicità del pragmatismo miope della "politica del male minore", di quella politica immanente che resta all'interno dei parametri dell'ordine costituito e in cui – come se l'accumulazione antecedente di ingiustizia non avesse avuto luogo – ogni calcolo etico viene trattato come nuovo, e in cui le implicazioni future sono rigidamente delimitate.

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Pagina 43

Attacco legislativo



Se, quindi, può essere tratta una conclusione dalla violenza militare, è che [...] c'è un carattere legislativo a essa intrinseco. Walter Benjamin


L'attacco di ventidue giorni di Israele su Gaza, tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009, rivela un paradosso: non solo esso è stato uno dei piú violenti e distruttivi nella storia delle guerre israeliane contro il popolo palestinese, ma anche quello in cui gli esperti israeliani di diritto umanitario internazionale (DUI) – la sfera del diritto che regola la condotta di guerra — sono stati coinvolti piú da vicino. È possibile che questi due fatti siano connessi?

L'uccisione di circa 1400 persone e il danneggiamento e la distruzione di circa 20.000 edifici — il 15% della totalità degli edifici di Gaza — hanno sollevato contro Israele accuse internazionali diffuse di violazione delle leggi di guerra. A bombardamento concluso, la battaglia si è spostata sul piano legale. Le critiche si sono affidate al linguaggio del diritto internazionale per designare una parte della condotta di guerra delle forze militari israeliane come crimini di guerra e come crimini contro l'umanità. Le testimonianze dei militari israeliani e le inchieste delle organizzazioni internazionali hanno messo in luce che le morti civili su larga scala e la distruzione potrebbero essere state intenzionali. Un gruppo di sedici investigatori e giudici di caratura mondiale ha esortato le Nazioni Unite a lanciare un'inchiesta esaustiva sulle presunte, ingenti violazioni delle leggi di guerra. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, si è unito alla richiesta di un'inchiesta e di una potenziale valutazione delle responsabilità. Un pubblico ministero della Corte Penale Internazionale dell'Aia è stato convinto a iniziare a prendere in considerazione la petizione di un gruppo palestinese che chiede l'incriminazione dei comandanti israeliani.

Israele ha rifiutato di cooperare e i suoi ufficiali hanno descritto l'attacco come un atto di "autodifesa" e hanno sostenuto che gli ingenti danni inflitti alla popolazione civile non sono, in sé e per sé, una prova della violazione delle leggi di guerra. Il governo israeliano ha successivamente lanciato una campagna internazionale per sostenere la sua posizione legale: Hamas ha utilizzato i cittadini di Gaza come scudi umani e ha sparato indistintamente contro le città e i centri urbani israeliani. Il governo vorrebbe convincere la comunità internazionale che le operazioni militari israeliane e gli altri meccanismi del suo assedio e della sua occupazione siano istituzioni legali, nel senso che essi sarebbero definiti dal diritto umanitario internazionale. Allo stesso tempo, e significativamente, i censori di Israele hanno iniziato a cancellare i nomi presenti nei rapporti scritti, e a nascondere i volti nelle fotografie del personale militare impegnato nell'attacco.

Il DUI – il corpo di leggi a cui il termine "crimini di guerra" si riferisce – è fatto di consuetudini e convenzioni che mirano a ridurre la sofferenza umana causata dalla guerra e a proteggere i civili dagli attacchi. Esso costituisce un regime giuridico restrittivo, che mira a contenere la tendenza della violenza a estendersi verso limiti estremi. All'interno del caos e dell'orrore della guerra, esso cerca di definire chi può essere o non essere attaccato, e in che modo. La sua funzione è quella di ridurre, piuttosto che sradicare, la sofferenza. In quanto tale, potrebbe essere interpretato come il linguaggio legale del principio del male minore.

Nell'era del dominio occidentale e del conflitto asimmetrico, le leggi di guerra sembrano, a molti, essere l'ultima barriera in grado di contenere l'azione militare. Ma comunque, dobbiamo chiederci se il diritto abbia contribuito alla proliferazione della violenza. Il caos, la morte e la distruzione sono stati perpetrati grazie alla terribile forza del diritto? "Le tecnologie della moderazione" non potrebbero in realtà essere parte della logica di perpetrazione?

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Pagina 58

Il collaterale pianificato

La logica dell'attacco israeliano su Gaza può essere compresa attraverso un confronto con l'attacco israeliano sul Libano del luglio-agosto 2006. È stato proprio in Libano che Israele ha compreso di non poter piú affrontare militarmente le guerriglie, o fermare il loro lancio di missili o basarsi su nessuna delle tattiche tradizionali che i militari amano definire "controinsurrezione". Questa lezione si riflette sulla dottrina militare israeliana di oggi (cosí come è stata delineata dall'Institute for National Security Studies), che si basa sul punire il lancio di razzi con "un bombardamento sproporzionato nel cuore del punto debole del nemico, in cui gli sforzi per colpire la capacità di lancio sono secondari". Nelle parole del capo del commando settentrionale, Gadi Eisenkot: "Eserciteremo un potere sproporzionato contro ogni villaggio da cui vengono sparati colpi su Israele, e causeremo danni e distruzioni immense... Questa non è una proposta. Questo è un piano che è già stato autorizzato". È interessante il modo in cui il linguaggio del DUI viene qui utilizzato in negazione: rompere il principio della proporzionalità è diventata la piú grande delle minacce.

La logica di questo approccio – cosí spesso articolata nel linguaggio da marketing dello "stabilire un prezzo di etichetta", o della psicologia del "marcare a fuoco le coscienze" dei palestinesi – mira a esercitare una tale paura sugli abitanti di Gaza (come quelli del Libano nel 2006) da costringerli a esercitare pressione politica su Hamas. Se il terrorismo viene definito (come dovrebbe sicuramente essere) come violenza organizzata a scopo politico indirizzata contro i non combattenti e le loro proprietà, questo attacco ne è certamente un esempio.

L'argomentazione di Israele secondo cui la distruzione e le morti causate a Gaza sono state spiacevoli effetti collaterali dei tentativi militari di colpire bersagli militanti — depositi di munizioni, "infrastrutture a doppio uso" (per esempio "infrastrutture civili"), basi dei combattenti — va attaccata alla sua radice. La distruzione di città e di campi di rifugiati, gli ospedali strapieni e la paura generale sono stati concepiti come parte dei propositi dell'attacco, piuttosto che come suoi sottoprodotti collaterali. La "morte collaterale" di civili ormai non è piú pensata come effetto collaterale dell'intervento militare, ma piuttosto come uno dei suoi obiettivi specifici. Per di piú, è attraverso questi effetti collaterali che la campagna militare diventa efficace.

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Pagina 74

I mutamenti nella politica di gestione del rischio sono stati uno dei fattori che hanno portato all'ingente aumento di vittime civili a Gaza. Durante la Prima Intifada del 1987-1991, quando Israele aveva una presenza diretta, un contatto e una qualche responsabilità nei confronti della popolazione, il rapporto tra soldati e palestinesi uccisi era di 1 a 6. Dopo il recente attacco su Gaza il rapporto è giunto a 1 israeliano ogni 100 palestinesi.

I 20.000 soldati, 200 carri armati e 100 bulldozer che hanno invaso Gaza sono avanzati in modo lento, con centinaia di piattaforme aeree che hanno creato prima di loro ciò che l'esercito chiama "una cortina di fuoco avvolgente" che ha spianato ampie zone dei campi di rifugiati, dei villaggi, dei sobborghi e di parti di città ancor prima che i soldati e i bulldozer vi entrassero. Uccidendo e distruggendo l'ambiente costruito di fronte a loro, il rischio di imboscate è stato presumibilmente ridotto. I chiari modelli geometrici della distruzione sono la testimonianza di ciò, di come essa è stata premeditata e pianificata a tavolino, piuttosto che dettata dalle contingenze della battaglia. La distruzione premeditata dell'habitat del rifugiato mira a disfarsi del rifugiato in quanto categoria politica e, dunque, del suo diritto al ritorno – un diritto, cosí crede Israele, che è mantenuto dall'apparato spaziale del campo e dalla temporaneità che esso comunica nello spazio.

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