Autore Slavoj Žižek
Titolo Problemi in paradiso
SottotitoloIl comunismo dopo la fine della storia
EdizionePonte alle Grazie, Milano, 2015, Saggi , pag. 266, cop.fle., dim. 14x20,5x2,2 cm , Isbn 978-88-6833-283-9
OriginaleTrouble in Paradise [2014]
TraduttoreCarlo Salzani
LettoreGiangiacomo Pisa, 2015
Classe filosofia , politica , economia , psicanalisi , movimenti , globalizzazione , beni comuni , storia contemporanea












 

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Indice


Introduzione. Divisi si vince!                            7

1.  Diagnosi. Hors d'oeuvre?                             25

    - Crisi, quale crisi?, 25
    – Rompere le uova senza fare la frittata, 34
    – Ora sappiamo chi è John Galt!, 41
    – Essere-per-il-debito come stile di vita, 51

2.  Cardiognosi. Du jambon cru?                          61

    - Libertà tra le nuvole, 61
    – Vampiri contro zombie, 72
    – L'ingenuità del cinico, 78
    – L'osceno lato nascosto della legge, 82
    – Il Super-io o la proibizione proibita, 90

3.  Prognosi. Un faux filet, peut-κtre?                 103

    - Assassinio sul Nilo, 110
    – Rivendicazioni... e molto di più, 120
    – Il fascino della sofferenza, 135
    – Rabbia e depressione nel villaggio globale, 138
    – Mamihlapinatapei, 144
    – Lenin in Ucraina, 147

4.  Epignosi. J'ai hβte de vous servir!                 161

    - Ritorno all'economia del dono, 164
    – La ferita dell'eurocentrismo, 180
    – La, non sol bemolle, 192
    – Verso un nuovo padrone, 199
    – «Il diritto di necessità», 207

Conclusione. Nota bene!                                 215

    - Batman, Joker, Bane, 218
    – Tracce di utopia, 224
    – Violenza, quale violenza?, 227
    – I valori familiari dei Weathermen, 233
    – Uscire dal malttukbakgi, 237

Note                                                    241


 

 

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Pagina 7

Introduzione


Divisi si vince!



Trouble in Paradise, il capolavoro di Ernst Lubitsch del 1932, è la storia di Gaston e Lily, un'allegra coppia di scassinatori che ruba solo ai ricchi. La loro relazione si complica quando Gaston si innamora di una delle sue facoltose vittime, Mariette. Il testo della canzone che accompagna i titoli di testa ci dà una definizione del «problema» a cui qui si allude: prima appaiono le parole «trouble in» («problemi in»), quindi, sotto le stesse, un letto matrimoniale, e infine la parola «paradise». Il «paradiso» in questione corrisponde dunque a un rapporto sessuale appagante: «That's paradise / while arms entwine and lips are kissing / but if there's something missing / that signifies / trouble in paradise» («Questo è il paradiso / quando braccia si intrecciano e labbra si baciano / ma se manca qualcosa / allora sono / problemi in paradiso»). Per dirla in termini brutalmente diretti, «problema in paradiso» è il modo in cui Lubitsch parafrasa la massima lacaniana il n'y a pas de rapport sexuel.

[...]

Gilbert K. Chesterton ha notato che il racconto giallo

mette in un certo senso sotto gli occhi il fatto che la civiltà stessa è la più sensazionale delle deviazioni e la più romanzesca delle ribellioni. [...] Quando in un poliziesco avventuroso l'investigatore si mette in evidenza e con una certa fatuità si mostra impavido tra pugni e coltelli nel covo di un ladro, di sicuro sta facendo di tutto per ricordarci che la figura originale e poetica è l'agente della giustizia sociale, mentre scassinatori e grassatori sono appena dei placidi e antichi conservatori cosmici, paghi della ancestrale rispettabilità degli scimmioni e dei lupi. Il romanzo avventuroso della polizia [...] è basato sul fatto che la moralità è la più oscura e ardita delle cospirazioni.

[...]

Il risultato complessivo può essere espresso parafrasando la precedente citazione di Chesterton:

il matrimonio è la più sensazionale delle deviazioni e la più romanzesca delle ribellioni. Quando una coppia di amanti pronuncia i voti matrimoniali e con una certa fatuità si mostra impavida tra molteplici tentazioni di piaceri promiscui, di sicuro sta facendo di tutto per ricordarci che la figura originale e poetica è il matrimonio, mentre gli infedeli e quelli che si abbandonano alle orge sessuali sono appena dei placidi e antichi conservatori cosmici, paghi della ancestrale rispettabilità degli scimmioni e dei lupi promiscui. Il patto matrimoniale è basato sul fatto che il matrimonio è il più oscuro e ardito degli eccessi sessuali.

Un'analoga ambiguità è presente nella prospettiva politica con cui dobbiamo oggi confrontarci. Il conformismo cinico ci suggerisce che gli ideali emancipativi di uguaglianza, democrazia e solidarietà siano noiosi e perfino pericolosi, in quanto condurrebbero alla formazione di una società grigia e iper-regolamentata, e che quindi il paradiso a cui dovremmo aspirare è incarnato dall'attuale e «corrotto» ordine capitalistico. La lotta per l'emancipazione radicale muove invece dalla premessa opposta: sono le dinamiche capitalistiche a risultare noiose, giacché non offrono che la ripetizione dell'identico sotto le spoglie di una incessante trasformazione; la lotta per l'emancipazione è ancora oggi la più audace delle imprese. Di seguito, cercheremo di portare argomenti a favore di questa seconda interpretazione.

C'è un delizioso aneddoto riguardante uno snob britannico che pretende di conoscere il francese. Va a mangiare in un ristorante di lusso nel Quartiere Latino di Parigi, e quando il cameriere gli chiede «Hors d'oeuvre?», lui risponde: «Non sono disoccupato, guadagno abbastanza da potermi permettere di mangiare qui! Cosa suggerisce come antipasto?» Il cameriere gli propone del prosciutto crudo: «Du jambon cru?» Lo snob risponde: «Non credo di aver ordinato del prosciutto l'ultima volta che sono stato qui. Ma va bene, me lo porti – e per la portata principale?» «Un faux-filet, peut-κtre?» Lo snob esplode di rabbia: «Mi porti quello vero, le già ho detto che i soldi non sono un problema! E faccia in fretta per cortesia!» Il cameriere lo rassicura: «J'ai hβte de vous servir!», al che lo snob replica stizzito: «Perché mai detesterebbe [hate] servirmi? Le darò una mancia sostanziosa!» Alla fine, lo snob capisce che la sua padronanza del francese è piuttosto scarsa; così, per salvare la faccia e dimostrare che è uomo di cultura, decide, al momento di andarsene, di augurare la buona notte in latino (dato che si trova nel Quartiere Latino), esclamando «Nota bene!»


Questo libro è diviso in cinque atti, che ripercorrono le cantonate del povero snob inglese. Cominceremo con la diagnosi delle coordinate essenziali del sistema capitalistico; quindi passeremo alla cardiognosi, la «conoscenza del cuore» di questo sistema, e cioè l'ideologia che lo fa apparire desiderabile. Seguirà quindi la prognosi, la previsione del futuro che ci attende qualora le cose dovessero rimanere come sono, oltre che l'individuazione delle possibili aperture o vie d'uscita. Concluderemo con l' epignosi (termine teologico che designa una conoscenza assunta soggettivamente e che informa di sé le azioni del credente), delineando cioè le soggettività e le forme organizzative corrispondenti alla nuova fase della lotta per l'emancipazione. L'appendice affronterà le impasse di questa lotta attraverso una disamina dell'ultimo film della serie Il cavaliere oscuro.

Il «paradiso» del titolo si riferisce alla Fine della Storia di Francis Fukuyama (il capitalismo liberal-democratico come il migliore degli ordini sociali possibili), e il «guaio» è, naturalmente, l'attuale crisi, che ha costretto perfino lo stesso Fukuyama a rivedere le sue posizioni. Ritengo che ciò che Alain Badiou definisce l'«ipotesi comunista» debba essere la cornice di riferimento entra la quale tentare una diagnosi della crisi.

[...]

Secondo Badiou, lo spazio sociale odierno viene sempre più percepito come privo di mondo. Perfino l'antisemitismo nazista, per quanto fosse agghiacciante, era in grado di dischiudere un mondo: postulava un nemico, il «complotto giudaico», responsabile della crisi; individuava un obiettivo e i mezzi per raggiungerlo. Il nazismo presentava la realtà in modo tale che i soggetti che ne facevano parte potessero acquisire una «mappatura cognitiva» globale in grado di prevedere un loro coinvolgimento significativo.

Forse è qui che dovremmo individuare uno dei maggiori pericoli del capitalismo: malgrado esso abbracci il mondo intero, sostiene una costellazione ideologica, stricto sensu, priva di mondo, che fa sì che la maggior parte delle persone sia sprovvista di una mappatura cognitiva. Il capitalismo è il primo ordine socio-economico che detotalizza il significato: esso non è globale al livello del significato. Dopo tutto, non esiste una «visione del mondo capitalista», o una «civiltà capitalista» vera e propria: la lezione fondamentale della globalizzazione è precisamente che il capitalismo può adattarsi a tutte le civiltà, da quella cristiana a quella induista o buddhista, dall'Occidente all'Oriente. La dimensione globale del capitalismo può essere formulata unicamente al livello della verità-senza-significato, come il Reale della dinamica del mercato mondiale.

In Europa, la modernizzazione è avvenuta in un arco temporale di secoli, e dunque è stato possibile adattarsi alla stessa, ammorbidire il suo impatto dirompente, attraverso il Kulturarbeit, vale a dire la formazione di nuove narrazioni e miti sociali; in altri contesti, invece – in modo esemplare nelle società musulmane –, l'impatto della modernizzazione è stato diretto, senza schermi o differimenti, determinando il collasso del loro universo simbolico: queste società hanno perso il loro fondamento (simbolico) senza avere il tempo di stabilire un nuovo equilibrio (simbolico). Non stupisce allora che, in alcuni casi, sia stato necessario levare lo scudo del «fondamentalismo», la riaffermazione psicotico-delirante-incestuosa della religione quale accesso diretto al Reale divino; il che ha prodotto effetti disastrosi, in particolare la rivincita dell'oscena divinità superegotica che esige tributi di sangue. Il dominio del Super-io è uno degli aspetti che accomuna la permissività postmoderna e il nuovo fondamentalismo. Ciò che li distingue è il luogo del godimento: nel primo caso, a dover godere siamo noi; nel fondamentalismo, a godere è Dio.

Forse il simbolo supremo di questa devastata Corea post-storica è l'evento musicale dell'estate 2012: Gangnam Style di Psy.

[...]

Per tornare alla Corea, questa analisi sembra essere confermata da Propaganda, un documentario del 2012 (facilmente reperibile in rete) sul capitalismo, l'imperialismo e la mercificazione della cultura di massa in Occidente, in particolare sugli effetti pervasivi di questi fattori in ogni aspetto della vita delle moltitudini beatamente istupidite e zombificate. Si tratta di un mockumentary, una parodia che finge di essere nordcoreana, mentre in realtà è stata girata da un gruppo di neozelandesi – ma, come si dice in Italia, «se non è vero è ben trovato». Vengono illustrati l'uso della paura e della religione per manipolare le masse e il ruolo dei media nel distogliere l'attenzione dai problemi cruciali attraverso una varietà di diversivi. Uno dei pregi del film è il modo in cui demolisce il culto della celebrità: affermando che Madonna o Brad e Angelina «vanno a fare shopping di bambini nei paesi del Terzo mondo»; analizzando l'ossessione occidentale per la vita «glamour» dei VIP e l'individualismo, unitamente all'indifferenza per le condizioni di vita dei senza tetto e in generale di chi soffre; raffigurando i VIP come strumenti di mercificazione, anche inconsapevoli, ruolo che spesso li conduce sull'orlo della follia – tutto questo è trattato in modo talmente puntuale da risultare spaventoso: è il mondo attorno a noi. Il documentario, in particolare la parte dedicata a Michael Jackson – uno sguardo su «cosa ha fatto l'America a quest'uomo» –, sa raccontare verità difficili da digerire.

Se cancellassimo quegli spezzoni in cui si esalta la saggezza del grande e amato leader ecc., Propaganda verrebbe a coincidere con una classica critica del consumismo, della mercificazione e della Kulturindustrie – specificamente nello stile del marxismo occidentale della Scuola di Francoforte. Ma si deve prestare attenzione a un'avvertenza all'inizio del film: la voce narrante rivela agli spettatori che, per quanto ciò che vedranno potrebbe imbarazzarli e scíoccarli, il grande e amato Leader confida sul fatto che siano abbastanza maturi da sopportare l'orribile verità sul mondo esterno – parole che un'autorità benevola, protettrice e materna userebbe per comunicare a un bambino un evento spiacevole.

[...]

Un bambino, dopo aver ascoltato una favolosa e antica leggenda da un rabbino, chiede impaziente: «Ma è accaduta realmente? Θ vera?» Il rabbino risponde: «Non è accaduta realmente, ma è vera». Questa affermazione di una verità simbolica «più profonda» che contraddice quella fattuale deve essere integrata dal suo contrario – la reazione più appropriata a molti «eventi» spettacolari dovrebbe essere: «Θ accaduto realmente, ma non è vero».

Occorre quindi rallegrarsi in presenza di qualunque segnale di speranza, per quanto piccolo possa apparire, come il Café Photo di San Paolo del Brasile. Pubblicizzato come «intrattenimento con un tocco speciale», è – così mi hanno detto – un luogo d'incontro tra prostitute d'alto bordo e potenziali clienti. Nonostante sia ben nota al pubblico, questa informazione non è riportata ufficialmente sul sito Internet del locale; al suo posto possiamo leggere semplicemente che il Café Photo è «il luogo in cui puoi incontrare la migliore compagnia per la tua serata». Qui le cose si svolgono davvero con un tocco speciale: le prostitute – per la maggior parte studentesse di materie umanistiche – sono libere di selezionare attentamente i propri clienti. Gli uomini (i potenziali clienti) entrano, si siedono a un tavolo, ordinano un drink, e aspettano, mentre le donne li esaminano con calma. Quando una di queste individua un tipo di suo gradimento, si siede al tavolo, lascia che lui le ordini un drink, e inizia a parlare di un argomento intellettuale, di norma un tema di vita culturale, a volte perfino di teoria dell'arte. Se trova l'uomo sufficientemente intelligente e attraente, gli chiede se vuole pagare per andare a letto con lei. Insomma, si tratta di un genere di prostituzione di taglio femminista, se una cosa del genere è possibile. Tuttavia, come spesso accade, il taglio femminista è accompagnato da una limitazione di classe: sia le prostitute che i clienti appartengono infatti a classi alte o medio-alte.

Dedico umilmente questo libro alle prostitute del Café Photo di San Paolo.

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Pagina 25

Capitolo primo


Diagnosi. Hors d'oeuvre?



Crisi, quale crisi?

L'attuale situazione della Corea del Sud non può che evocare il celebre incipit di Le due città di Dickens: «[era] la primavera della speranza e l'inverno della disperazione. Avevamo tutto dinnanzi a noi, non avevamo nulla dinnanzi a noi; eravamo tutti diretti al cielo, eravamo tutti diretti a quell'altra parte». Allo stesso modo, in Corea del Sud troviamo performance economiche d'eccellenza combinate a un forsennato ritmo di lavoro; il paradiso di un consumismo senza freni permeato dall'inferno della solitudine e della disperazione; ricchezza materiale sovrabbondante pagata con la desertificazione del paesaggio; riscoperta delle antiche tradizioni unitamente al più alto tasso di suicidi del mondo. Questa radicale ambiguità turba l'immagine di una Corea del Sud quale suprema storia di successo dei nostri giorni — successo, va bene, ma di che tipo?

[...]

I mass-media, in particolare quelli non europei, propinano spesso una versione più modesta di quest'ottimismo, incentrata sull'economia: crisi, quale crisi? Nei paesi BRIC (Brasile, Russia, India, Cina), o in Polonia, in Corea del Sud, a Singapore, in Peru, o in molti Stati dell'Africa subsahariana, si registrano unicamente segnali di progresso. Il declino investe solo l'Europa occidentale e, fino a un certo punto, gli Stati Uniti. Non si avrebbe dunque a che fare con una crisi globale, ma semplicemente con il trasferimento delle dinamiche della crescita lontano dall'Occidente. Il fatto che molti portoghesi, a causa della stagnazione economica, si stiano trasferendo in Mozambico e Angola, ex colonie del Portogallo – ma questa volta da immigrati e non da colonizzatori – non costituisce forse un potente simbolo di questo mutamento? La tanto lamentata crisi mondiale è davvero tale se si produce solo localmente e all'interno di un quadro complessivo segnato dal progresso? Anche sul versante dei diritti umani, la situazione (per esempio in Cina e Russia) non è forse più rosea rispetto a cinquant'anni fa? Considerare l'attuale crisi come un fenomeno globale sarebbe quindi la tipica conseguenza di una visione eurocentrica – per di più, una visione agitata da una sinistra che di norma si compiace del proprio anti-eurocentrismo.

Con molte riserve, saremmo anche disposti a riconoscere i dati cui si riferiscono questi «razionalisti». Certamente, le condizioni materiali d'esistenza dell'uomo contemporaneo e quelle di un abitante dell'Età della pietra sono imparagonabili, e perfino un prigioniero comune a Dachau (il campo di lavoro nazista, non Auschwitz, che era il campo di sterminio) se la passava relativamente bene se confrontato con uno schiavo dei mongoli. Ma c'è qualcosa che questa teoria non coglie.

Primo – e in proposito dobbiamo frenare il nostro impeto anticoloniale –, si deve porre la seguente domanda: se l'Europa sta attraversando una fase di progressivo declino, cosa sta rimpiazzando la sua egemonia? La risposta è: «il capitalismo con valori asiatici» (che, ovviamente, nulla ha a che vedere con le popolazioni asiatiche e tutto a che vedere con la chiara e presente tendenza del capitalismo contemporaneo a sospendere la democrazia). Da Marx in poi, la sinistra autenticamente radicale non è mai stata semplicemente «progressista». Una domanda l'ha sempre ossessionata: qual è il prezzo del progresso? Marx era affascinato dalla potenza del capitalismo, dalla forza produttiva senza precedenti che esso è in grado di scatenare; al contempo, insisteva sul fatto che questo stessa potenza genera antagonismi. Altrettanto dovremmo fare noi di fronte al progresso del capitalismo globale: non perdere mai di vista il suo lato oscuro, che alimenta le rivolte.

Tutto questo implica che i conservatori odierni siano dei falsi conservatori. Infatti, se da un lato vedono con favore l'incessante auto-rivoluzionamento del capitalismo, dall'altro pretendono di rendere più efficiente quest'ultimo mediante l'integrazione di alcune istituzioni tradizionali (per esempio, la religione), per mitigarne gli effetti distruttivi e favorire la coesione sociale. Oggi, un vero conservatore è chi, al contrario, ammette pienamente l'esistenza degli antagonismi e delle impasse del capitalismo globale, chi rifiuta l'imperativo del progressismo, chi pone l'accento sul rovescio oscuro del progresso. In questo senso, solo la sinistra radicale può costituirsi oggi come un'autentica forza conservatrice.

La gente non si ribella quando «le cose vanno davvero male», ma quando le sue aspettative vengono deluse. La Rivoluzione francese fu possibile perché il re e i nobili avevano per decenni perso gradualmente terreno nel governo della società; la rivolta anticomunista del 1956 in Ungheria esplose dopo due mandati presidenziali di Imre Nagy, che avevano favorito il (relativamente) libero dibattito tra gli intellettuali; la rivolta egiziana del 2011 scoppiò grazie ai progressi economici avvenuti sotto il regime di Mubarak, i quali avevano determinato l'ascesa di una nuova classe di giovani istruiti con accesso alla cultura digitale. Ecco perché la preoccupazione dei comunisti cinesi è tutt'altro che infondata: il benessere in Cina è considerevolmente aumentato negli ultimi quarant'anni, ma proprio per questo le aspettative delle masse sono più elevate, il che favorisce l'accendersi del conflitto sociale (tra i nuovi ricchi e il resto della popolazione). Lo sviluppo e il progresso sono sempre ineguali, creano sempre nuove instabilità e antagonismi, generano sempre nuove attese che non possono essere soddisfatte. In Tunisia o in Egitto, poco prima dell'inizio della Primavera araba, la maggioranza delle persone viveva probabilmente meglio rispetto ai decenni precedenti, ma contestualmente anche gli standard con cui queste persone misuravano la propria (in)soddisfazione si erano elevati.

[...]

L'errore di fondo non è difficile da identificare: è lo stesso rilevabile nella nota battuta: «La mia fidanzata non arriva mai tardi a un appuntamento, perché, non appena è in ritardo, non è più la mia fidanzata!» Θ così che gli apologeti del libero mercato spiegano la crisi del 2008: non è stato il fallimento del libero mercato a provocarla, ma l'eccessiva regolamentazione statale, e cioè il fatto che la nostra non era una vera economia di mercato, a causa delle restrizioni poste dal Welfare State. Quando ci si appella alla purezza del capitalismo di mercato, liquidando i suoi insuccessi come incidenti di percorso, di fatto si sta facendo appello a un progressismo ingenuo che ignora la folle danza degli opposti.

Uno dei casi più eclatanti di questa folle danza è, nella sfera economica, la paradossale coesistenza di lavoro intensivo e disoccupazione: tanto più intensamente lavorano coloro che hanno un impiego quanto più viene generalizzata la minaccia della disoccupazione. La situazione di oggi ci obbliga quindi a rileggere il Capitale di Marx spostando l'accento dal tema di fondo della riproduzione capitalista a quella che Fredric Jameson ha definito la «centralità strutturale della disoccupazione nel testo del Capitale stesso»: «la disoccupazione è strutturalmente inseparabile dalla dinamica di accumulazione ed espansione che costituisce la natura del capitalismo in quanto tale». In ciò che si prospetta come la suprema «unità degli opposti» nella sfera dell'economia, è lo stesso sviluppo del capitalismo (alta produttività, ecc.) a generare la disoccupazione (rendendo superflue quote sempre maggiori di lavoratori): quella che dovrebbe essere una benedizione (riduzione del lavoro vivo) si traduce in una maledizione. Il mercato mondiale è allora, nella sua dinamica immanente, «uno spazio in cui ciascuno è stato un lavoratore produttivo, e in cui il lavoro è ovunque estromesso dal sistema». Ciò significa che, nell'attuale processo di globalizzazione, la categoria di disoccupato acquista una nuova qualità, sopravanzando la classica nozione di «esercito industriale di riserva». La categoria dovrebbe attualmente includere «le massicce popolazioni che sono state, per così dire, 'espulse dalla storia', che sono state deliberatamente escluse dai progetti di modernizzazione del capitalismo del Primo mondo e classificate come casi terminali o senza speranza». I cosiddetti «Stati falliti» (Congo, Somalia), vittime di carestie o disastri ecologici, prigionieri di «odi etnici» pseudo-arcaici, oggetto della filantropia delle ONG o (spesso contemporaneamente) della «guerra al terrorismo». La categoria di disoccupato abbraccerebbe quindi un'ampia fetta di popolazione mondiale, a partire dai disoccupati temporanei, passando per i non più occupabili e i disoccupati permanenti, fino agli abitanti degli slum e in generale dei ghetti (cioè tutti quelli liquidati da Marx stesso come «Lumpenproletariat»), nonché tutte le aree, popolazioni e Stati esclusi, come gli spazi bianchi presenti nelle antiche mappe, dal processo capitalistico globale. Questa estensione del cerchio dei «disoccupati» non ci fa retrocedere da Marx a Hegel? La «plebe» è tornata, emergendo nel cuore stesso delle lotte di emancipazione. E questa ri-categorizzazione modifica l'intera «mappatura cognitiva» della situazione: ciò che una volta giaceva inerte sullo sfondo della Storia si riafferma oggi come agente potenziale della lotta di emancipazione.

Dobbiamo nondimeno aggiungere tre precisazioni al discorso di Jameson. Innanzitutto, il quadrato semiotico da lui proposto – i cui termini sono (1) i lavoratori, (2) l'esercito di riserva dei (temporaneamente) disoccupati, (3) gli inoccupabili (disoccupati permanenti) e (4) i «precedentemente occupati», attualmente inoccupabili – necessità di una leggera rettifica: non sarebbe più appropriato sostituire la quarta categoria con quella degli occupati illegalmente, che comprenderebbe quanti sono mobilitati dal mercato nero e dall'economia degli slum fino alle molteplici forme di nuova schiavitù?

In secondo luogo, Jameson manca di sottolineare il fatto che gli «esclusi» sono spesso inclusi nel mercato mondiale. Per esempio, nel caso del Congo, dietro la facciata delle «passioni etniche primitive» che esplodono ancora nel «cuore di tenebra» africano, è facile rilevare il profilo del capitalismo globale. Dopo la caduta di Mobutu, il Congo non esiste più come Stato unitario e operativo; specialmente la sua parte orientale è ora costituita da una molteplicità di territori governati dai signori della guerra, ciascuno dei quali dispone di un esercito (che di regola include bambini drogati) e ha legami d'affari con compagnie e multinazionali straniere che sfruttano le ricchezze (in gran parte) minerarie della regione. Questo accordo soddisfa entrambi i contraenti: le grandi compagnie ottengono i diritti minerari senza pagare le tasse ecc., i signori della guerra ricevono denaro. L'ironia è che molti di questi minerali sono utilizzati nella fabbricazione di prodotti ad alto contenuto tecnologico, come computer e telefoni cellulari. In breve, dimenticate i costumi selvaggi delle popolazioni locali: se sottraete dall'equazione le multinazionali, l'intera dinamica delle guerre etniche alimentate da passioni ancestrali scomparirà.

Infine, la categoria dei «precedentemente occupati» dev'essere integrata con il suo opposto, i disoccupati istruiti: un'intera generazione di studenti non ha quasi alcuna chance di trovare un impiego adeguato (di qui le proteste massicce). Il modo peggiore di risolvere questa contraddizione è subordinare l'istruzione alle esigenze del mercato, non fosse altro perché è la stessa dinamica del mercato a rendere «obsoleta» l'istruzione fornita dalle università. Questi studenti inoccupabili sono destinati a giocare una parte decisiva nell'organizzazione dei futuri movimenti di emancipazione (come è già accaduto in Egitto e nelle proteste scoppiate in Europa, dalla Grecia al Regno Unito). Le trasformazioni radicali non sono mai innescate solo dai poveri. Il contributo di una generazione di giovani istruiti e inoccupabili (unitamente al più ampio accesso alla moderna tecnologia digitale) è ciò che prospetta una situazione autenticamente rivoluzionaria.

Jameson fa un passo ulteriore (paradossale, ma ampiamente giustificato) caratterizzando la nuova disoccupazione strutturale come una forma di sfruttamento. Sfruttati oggi non sono solo i lavoratori che producono plusvalore di cui il capitale si appropria, ma anche coloro ai quali viene sistematicamente impedito di entrare nel vortice del lavoro salariato, e ci riferiamo a intere aree geografiche quando non a Stati nazionali. Come dovremmo ripensare il concetto di sfruttamento? Θ necessaria una svolta autenticamente dialettica, capace di integrare lo sfruttamento con la sua stessa negazione: sfruttato non è solo l'individuo che produce o «crea» valore, ma anche (e in misura persino maggiore) chi è condannato a non «creare» valore. Non si ripropone qui la struttura di una nota storiella risalente all'ultimo decennio di vita dell'Unione Sovietica? Rabinovitch è un ebreo russo che vuole emigrare. Un funzionario dell'ufficio emigrazioni gli chiede perché, e Rabinovitch risponde: «Ci sono due ragioni. Primo, temo che í comunisti perdano il potere, e che, di conseguenza, addossino la responsabilità dei loro crimini a noi ebrei – ci saranno nuovamente pogrom antisemiti...» «Ma è assurdo», lo interrompe il funzionario, «nulla può cambiare in Unione Sovietica, il potere dei comunisti durerà per sempre!» Rabinovitch ribatte serenamente: «Questa è la seconda ragione». Possiamo facilmente immaginare un funzionario statale che chiede a un disoccupato: «Perché pensi di essere sfruttato?» «Per due ragioni. Primo, quando lavoro il capitalista si appropria del plusvalore che creo». «Ma sei disoccupato; nessuno si appropria del tuo plusvalore perché non ne crei affatto!» «Questa è la seconda ragione...» Tutto dipende dal fatto che il modo di produzione capitalistico ha bisogno di lavoratori e al contempo deve generare l'«esercito di riserva» di quelli che non riescono a trovare lavoro: questi ultimi non stanno semplicemente ai margini della circolazione del capitale; essi sono prodotti direttamente come non-lavoratori dalla stessa circolazione.

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Questo divario è riflesso dalle due leggende che si raccontano su Cipro, le quali ricalcano altrettante leggende relative alla Grecia. C'è quella che può essere definita la leggenda tedesca: la spesa senza limiti, l'indebitamento e il riciclaggio di denaro non possono proseguire indefinitamente. E poi c'è la leggenda cipriota: le brutali misure della UE equivalgono a una nuova occupazione tedesca che sta privando Cipro della sua sovranità nazionale. In entrambi i casi, si tratta di storie prive di fondamento, poiché muovono da presupposti insensati: Cipro, per definizione, non può ripagare il suo debito, così come la Germania e la UE non possono continuare a gettare denaro nel pozzo senza fondo delle finanze cipriote. Queste leggende offuscano il problema della sostenibilità di un sistema in cui le speculazioni bancarie possono determinare il fallimento di interi paesi. La crisi di Cipro non è una tempesta nel bicchiere d'acqua di una nazione piccola e marginale; al contrario, essa è il sintomo di ciò che non funziona nel sistema Europa. La soluzione non può discendere da regole più stringenti atte a impedire il riciclaggio di denaro ecc., ma da un rivolgimento radicale dell'intero sistema bancario – per dire l'indicibile, da una qualche forma di socializzazione delle banche. La lezione dei crolli susseguitisi a partire dal 2008 (Wall Strett, Islanda, ecc.) è chiara: l'intera rete dei fondi d'investimento e delle transazioni finanziarie (dai depositi individuali e dai fondi pensione fino ai derivati) dovrà essere in qualche modo ricondotta al controllo sociale, dovrà essere ottimizzata e regolamentata. Potrà sembrare utopistico, ma la vera utopia è ritenere che si possa sopravvivere grazie a piccoli interventi cosmetici.

Tuttavia, qui si annida una trappola fatale: la socializzazione delle banche di cui avremmo bisogno non può derivare da un'alleanza tra lavoro salariato e capitale produttivo contro il potere della finanza. Le crisi e i tracolli finanziari ci rammentano che la circolazione del Capitale non è un movimento in grado di sostenersi da sé: essa deve poggiare sulla produzione e la vendita di beni reali che soddisfino i bisogni di persone reali. Θ altrettanto vero però che non è possibile alcun ritorno a questa realtà – tutta la retorica relativa alla necessità di «abbandonare lo spazio virtuale della speculazione finanziaria per tornare alle persone reali che producono e consumano» è profondamente fuorviante; di più, è ideologia allo stato puro. Il paradosso del capitalismo è che non si può gettar via l'acqua sporca delle speculazioni finanziarie senza perdere il bambino dell'economia reale: l'acqua sporca costituisce la «linea di sangue» del bambino.

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Una delle bizzarre conseguenze del tracollo finanziario del 2008 e delle misure adottate per contrastarlo (finanziamenti giganteschi a favore delle banche) è stato il revival dell'opera di Ayn Rand, l'espressione ideologica più compiuta del capitalismo radicale, sintetizzabile nel motto greed is good, «l'avidità è un bene»: le vendite del suo opus magnum, La rivolta di Atlante, sono andate alle stelle. Secondo alcuni, ci sono segnali che rivelerebbero che lo scenario descritto in La rivolta di Atlante – i «capitalisti creativi» che si mettono a scioperare – si stia traducendo in realtà. Eppure, questa tendenza falsifica la verità dei fatti: la maggior parte delle enormi somme di denaro destinate al salvataggio del sistema bancario è stata incamerata da quei «titani» deregolamentati di tipo randiano i cui progetti «creativi», una volta falliti, hanno provocato il tracollo dell'economia. Non sono i geni creativi a sostenere il popolo scansafatiche; al contrario, sono i contribuenti comuni a doversi fare carico di quei falliti dei «geni creativi». Si tenga presente che il padre ideologico-politico del lungo processo economico che ha portato al crollo del 2008 è stato Alan Greenspan, uno dei paladini dell'«oggettivismo» randiano. Finalmente, sappiamo chi è John Galt – l'idiota a cui si deve attribuire la responsabilità della crisi e, di conseguenza, della minaccia dello shutdown statunitense.

Per ridestarci dal «sonno dogmatico» (come avrebbe detto Kant) del capitalismo randiano, dovremmo applicare alla nostra situazione lo spirito della già citata battuta di Brecht: «Cos'è mai svaligiare una banca in confronto a fondare una banca?» Cos'è mai rubare un paio di migliaia di dollari, reato per cui si finisce in prigione, in confronto alle speculazioni finanziarie che privano decine di milioni di persone della loro casa e dei loro risparmi, ma i cui responsabili sono in seguito premiati con aiuti statali di sublime grandeur? Forse José Saramago aveva ragione quando propose di trattare i manager delle grandi banche corresponsabili del collasso finanziario globale come i colpevoli di crimini contro l'umanità, il cui posto è davanti al Tribunale dell'Aia; non dovremmo considerare questa proposta come una esagerazione poetica alla Jonathan Swift; al contrario essa va presa assolutamente sul serio. Tuttavia, ciò non accadrà mai, considerato che la dottrina della banca troppo grande per fallire (in virtù delle conseguenze catastrofiche per l'intera economia) è stata sostituita dalla dottrina della banca troppo grande per essere incriminata (questa prospettiva sortirebbe effetti disastrosi sullo status finanziario e morale delle élite).

I membri di queste élite, dopo aver prodotto il tracollo del 2008, si accreditano ora come esperti, i soli in grado di guidarci sulla via dolorosa della ripresa economica, tanto che i loro suggerimenti dovrebbero surclassare le politiche parlamentari; o, come ha detto Mario Monti: «I governi non si facciano vincolare del tutto dai loro parlamenti». Quale mai sarebbe questa forza superiore la cui autorità può sospendere le decisioni dei rappresentanti del popolo democraticamente eletti? La risposta l'ha già fornita nel 1998 Hans Tietmeyer, allora governatore della Deutsche Bundesbank, elogiando i governi nazionali per la loro tendenza a preferire «'il permanente plebiscito dei mercati mondiali', rispetto al più ovvio, e incompetente, 'plebiscito delle urne' ». Si noti la retorica implicita in questa oscena affermazione: i mercati sono più democratici delle elezioni parlamentari; infatti, nei mercati il processo elettorale si verifica costantemente (attraverso le incessanti fluttuazioni borsistiche) e a livello globale, anziché ogni quattro anni ed entro i confini di uno Stato-nazione. L'idea di fondo è che, svincolate da questo controllo superiore dei mercati (e degli esperti), le decisioni democratico-parlamentari siano «irresponsabili».

[...]

E se questa sfiducia fosse giustificata? Se fosse vero che solo gli esperti sono in grado di salvarci? Il meno che possiamo dire è che l'attuale crisi dimostra ampiamente che sono proprio gli esperti, anziché le persone comuni, a non avere idea di ciò che stanno facendo. Nell'Europa occidentale, l'inettitudine delle classi dirigenti si fa sempre più palese. Si consideri come la UE sta affrontando la crisi greca: fa pressione sulla Grecia affinché ripaghi i debiti, ma al contempo manda a rotoli l'economia di questo Paese attraverso misure di austerità che renderanno impossibile proprio ciò che essa richiede. Alla fine di dicembre del 2012, l'FMI pubblicò una ricerca che dimostrava come il danno economico causato dall' austerity fosse tre volte maggiore di quanto si era ipotizzato in precedenza, contraddicendo in tal modo le sue stesse disposizioni riguardo alla crisi dell'eurozona. Soltanto ora, l'FMI ammette che costringere la Grecia e altri paesi indebitati a ridurre i propri deficit drasticamente è un'azione controproducente – solo ora, dopo che centinaia di migliaia di lavoratori sono finiti sul lastrico a causa di questi «errori di calcolo». Qui riposa l'autentico messaggio delle «irrazionali» proteste popolari che attraversano l'Europa intera. I dimostranti sanno benissimo di non sapere: non fingono di avere a disposizione ricette semplici ed efficaci, ma ciò che l'istinto consiglia loro è che nemmeno quelli che stanno al potere dispongono di tali ricette.

Oggi, in Europa, i ciechi guidano i ciechi. Le politiche di austerità non hanno nulla di scientifico, neppure in un senso minimalista. Esse costituiscono piuttosto una forma contemporanea di superstizione – una specie di risposta viscerale a una situazione impenetrabilmente complessa, una risposta del senso comune che muove da premesse come queste: «Se le cose sono andate storte, in qualche modo è anche colpa nostra, ragion per cui dobbiamo pagarne il prezzo. Decidiamoci dunque a compiere sacrifici e a spendere meno». L'austerità non è «troppo radicale», come sostengono alcuni critici di sinistra, ma, al contrario, è troppo superficiale: è il gesto di evitare il contatto con le vere radici della crisi.

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Essere-per-il-debito come stile di vita

Uno spettro ossessiona il capitalismo – lo spettro del debito. Tutti i poteri del capitalismo hanno stretto una santa alleanza per esorcizzare questo spettro. Ma è proprio vero che vogliono liberarsene? Maurizio Lazzarato propone un'analisi puntuale del modo in cui, nel capitalismo globale contemporaneo, il debito opera attraverso un'intera gamma di pratiche e livelli sociali, dagli Stati-nazione fino agli individui. L'ideologia neoliberale prova a estendere la logica della concorrenza mercantile a ogni area della vita sociale: quindi, per esempio, la sanità e l'istruzione – o perfino le decisioni politiche (le elezioni) – si traducono in ambiti di investimento dei capitali individuali; l'operaio non è più semplicemente forza lavoro, ma capitale personale che effettua buoni o cattivi «investimenti» quando passa da un impiego all'altro aumentando o diminuendo il proprio valore. Questa riconcettualizzazione dell'individuo come «imprenditore-di-sé» comporta un mutamento significativo della natura della governance: l'abbandono della relativa passività e chiusura dei regimi disciplinari (la scuola, la fabbrica, la prigione), come anche della manipolazione biopolitica della popolazione (attraverso lo Stato sociale). Com'è possibile governare individui che si rappresentano come attori che operano in autonomia nel libero mercato, ossia come «imprenditori-di-sé»? La governance deve essere pertanto esercitata all'interno dell'ambiente in cui gli individui assumono decisioni apparentemente autonome, attraverso l'esternalizzazione (outsourcing) dei rischi di investimento da parte di aziende e Stati. L'individualizzazione delle politiche sociali e la privatizzazione di quelle previdenziali, mediante l'uniformazione delle stesse alle regole del mercato, implicano che la protezione sia un fattore condizionale (e non più un diritto), direttamente connesso all'agire individuale e di conseguenza passibile di valutazione. Per la maggior parte delle persone essere un «imprenditore-di-sé» si riferisce alla capacità dell'individuo di affrontare i rischi esternalizzati senza disporre delle risorse o del potere necessari per farlo adeguatamente:

le politiche neoliberiste contemporanee producono un capitale umano o un «imprenditore di sé» più o meno indebitato e più o meno povero, ma comunque ancora precario. Per la maggior parte della popolazione, diventare imprenditore di sé significa limitarsi alla gestione, secondo i criteri dell'impresa e della concorrenza, della propria occupabilità, dei propri debiti, della diminuzione del proprio salario e dei propri redditi, della riduzione dei propri servizi sociali.

Quando gli individui impoveriscono a causa della contrazione dei salari e dell'eliminazione della previdenza sociale, il neoliberismo offre loro una compensazione attraverso il debito e la promozione della partecipazione azionaria. In questo modo, la remunerazione salariale, tanto immediata quanto differita (la pensione), non aumenta, ma, in compenso, la gente ha accesso al credito al consumo e viene incoraggiata a finanziare il proprio pensionamento mediante un portafoglio azionario. Analogamente, il diritto alla casa è sostituito dall'accesso a crediti immobiliari/ipotecari; il diritto all'istruzione superiore è sostituito dall'accesso ai prestiti d'onore. Infine, la protezione mutua e collettiva contro í rischi viene smantellata, ma, in compenso, le persone sono incoraggiate a stipulare assicurazioni private. Ecco che, mentre i rapporti sociali esistenti rimangono immutati, il nesso creditore-debito finisce per sovrapporsi agli stessi: i lavoratori diventano lavoratori indebitati (giacché devono ripagare gli azionisti dell'azienda che li ha assunti per il semplice fatto di essere stati assunti); i consumatori diventano consumatori indebitati; i cittadini diventano cittadini indebitati, giacché devono farsi carico di una quota del debito del proprio Paese.

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[...] E lo stesso vale per il capitalismo odierno. Peter Buffett (il figlio di Warren) ha recentemente pubblicato un articolo nel New York Times in cui spiega la natura del «colonialismo filantropico»:

In ogni importante meeting filantropico, si assiste all'incontro tra capi di Stato, vertici della finanza e grandi leader aziendali. Tutti cercano di dare risposte con la mano destra a problemi che gli altri individui nella stanza hanno creato con la mano sinistra [...]. La filantropia è diventata il mezzo per mettere tutti nelle stesse condizioni, dando luogo a un numero crescente di riunioni, workshop e gruppi di affinità.

Tante più vite e comunità vengono annientate da un sistema che concentra grandi quantità di ricchezza nelle mani di pochi, quanto più la «restituzione» appare come un gesto eroico. Ma si tratta piuttosto di ciò che definirei «lavaggio della coscienza» – riuscire a convivere con il fatto di accumulare più ricchezza di quanta una sola persona potrebbe mai necessitare per vivere spargendone un po' in giro come atto di beneficenza. Ciò non fa che mantenere in piedi l'attuale struttura della disuguaglianza. I ricchi dormono meglio la notte, mentre gli altri ricevono il minimo indispensabile per evitare che il vaso trabocchi.

Mentre un numero crescente di uomini d'affari si dedicano a queste attività, i principi del mercato vengono vantati come importante elemento da integrare nel settore filantropico. [...] Microprestito e alfabetizzazione finanziaria (ora farò arrabbiare alcune persone meravigliose e anche qualche caro amico) – di che cosa si tratta veramente? La gente imparerà a integrarsi nel nostro sistema di debito e rimborso con interessi. La gente apprenderà il metodo per guadagnare più di due dollari al giorno, entrando così nel nostro mondo di beni e servizi dove potrà espandere i suoi consumi. Ma tutto questo non finisce forse per alimentare la bestia?

Per quanto la sua critica sia caratterizzata dalla semplice preoccupazione per le condizioni di vita delle masse, evitando di affrontare la questione del cambiamento strutturale del sistema («Non sto certo invocando la fine del capitalismo; invoco invece l'umanismo»), Buffet offre una descrizione appropriata del ruolo essenziale giocato dall'ideologia (e la pratica) della beneficenza all'interno del capitalismo globale.

[...]

O, per citare il vecchio proverbio latino, velle bonum alicui: la beneficienza (compiere buone azioni) è il passatempo (l'hobby, il diletto) di coloro che sono indifferenti.

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Nella lotta delle idee, l'ascesa della modernità borghese era incarnata dall' Encyclopédie francese (1751-1772), un'impresa titanica che ha sistematizzato tutto il sapere disponibile all'epoca. Il destinatario di questo sapere non era lo Stato, ma il pubblico in quanto tale. Potrebbe sembrare che Wikipedia sia l' Encyclopédie dei nostri giorni, ma in essa manca qualcosa: le informazioni, ignorate e rimosse dallo spazio pubblico, relative al modo in cui gli organismi statali controllano e disciplinano noi tutti. L'obiettivo di WikiLeaks è rendere questo sapere accessibile a chiunque con un semplice click. Assange è il d'Alembert dei nostri giorni, il curatore di una nuova Encyclopédie, la vera enciclopedia popolare del ventunesimo secolo. Perché?

I commons dell'informazione si sono recentemente affermati come uno dei terreni decisivi della lotta di classe sotto il profilo economico, in senso stretto, e socio-politico. Da un lato, i nuovi media digitali ci pongono di fronte all'impasse della «proprietà intellettuale». La natura stessa del World Wide Web sembra essere comunista, in quanto esso tende alla libera circolazione dei dati – i CD e i DVD stanno progressivamente scomparendo, milioni di persone possono scaricare musica e video perlopiù gratuitamente. Ecco perché i grandi gruppi del settore hanno ingaggiato una lotta disperata per ristabilire la forma della proprietà privata, applicando a questi flussi di dati le leggi della proprietà intellettuale. La libera circolazione di informazioni e idee, tuttavia, presenta dei pericoli, come ha fatto notare Jaron Lanier. Egli ravvisa in questa dimensione dello spazio digitale, che di solito viene celebrata come una grande conquista sociale, l'origine dell'espansione di provider non creativi (Google, Facebook ecc.) che esercitano un potere quasi monopolistico di regolamentazione dei flussi di dati, laddove i produttori di contenuti sono dispersi nell'anonimato della rete. La soluzione di Lanier punta verso una sostanziale riaffermazione della proprietà privata: tutto ciò che circola sul web, inclusi i dati personali (per esempio, l'elenco dei siti visitati o dei titoli consultati su Amazon), dovrebbe essere trattato come una merce dotata di valore e remunerato di conseguenza, oltre che chiaramente attribuito a una fonte umana individuale. Se Laníer ha ragione quando afferma che l'anarchia della libera circolazione dei dati genera i propri dispositivi di potere, la soluzione da lui proposta è del tutto insoddisfacente: la privatizzazione/mercificazione globale è davvero l'unica strada percorribile? Non sono possibili altre forme di regolamentazione?

D'altro canto, i media digitali hanno aperto, per milioni di persone comuni, nuove vie per entrare in connessione e coordinare le loro attività collettive, ma hanno anche offerto a organismi statali e aziende private possibilità inimmaginabili di monitorare la vita pubblica e privata degli individui. Θ in questa contraddizione che WikiLeaks è intervenuto in modo così esplosivo.

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Nel 1843 il giovane Karl Marx sostenne che l'ancien régime tedesco «si immagina ancora di credere in sé stesso e pretende dal mondo la stessa immaginazione». In una tale situazione, smascherare i potenti è un'arma – o, come spiega Marx, «bisogna rendere ancor più oppressiva l'oppressione reale con l'aggiungervi la consapevolezza dell'oppressione, ancor più vergognosa la vergogna, dandole pubblicità». Ed è, esattamente, ciò che sta accadendo oggi: ci troviamo di fronte al cinismo spudorato dell'ordine globale esistente, i cui agenti immaginano di credere nelle idee di democrazia, diritti umani ecc., e, grazie a WikiLeaks, che la fa riverberare nella sfera pubblica, la vergogna (la nostra vergogna derivante dal fatto che tolleriamo un simile potere su di noi) è resa ancor più vergognosa. Ciò di cui dovremmo vergognarci è il processo planetario di graduale limitazione dell'uso pubblico della ragione. Quando San Paolo dichiara che, da un punto di vista cristiano, «Non c'è più giudeo né greco; [...] non c'è più uomo né donna» (Gal. 3, 28), sta affermando che le radici etniche, l'identità nazionale e di genere non sono categorie di verità; o, per dirla in precisi termini kantiani, quando riflettiamo sulle nostre radici etniche, facciamo un uso privato della ragione, che è limitato da presupposti contingenti e dogmatici, e cioè agiamo da individui «immaturi», e non da esseri umani liberi che credono nell'universalità della ragione. Lo spazio pubblico della «società civile mondiale» designa il paradosso della singolarità universale, di un soggetto singolare che, in una sorta di cortocircuito, aggirando la mediazione del particolare, partecipa direttamente all'Universale. Questo è ciò che, in un celebre passo del saggio Che cos'è l'illuminismo?, Kant intende per «pubblico» in opposizione a «privato». Con «privato» egli non si riferisce ai legami individuali in quanto opposti a quelli comunitari, ma allo stesso ordine comunitario-istituzionale che determina l'identificazione particolare; mentre con «pubblico» Kant indica l'universalità transnazionale dell'esercizio della Ragione. Vediamo bene in cosa Kant si distingue dal nostro senso comune liberale: l'ambito dello Stato è, a suo modo, «privato», nel preciso senso kantiano dell'«uso privato della Ragione» realizzato dagli apparati amministrativi e ideologici, mentre gli individui che riflettono sulle questioni generali fanno un uso «pubblico» della stessa.

Questa distinzione kantiana è particolarmente pertinente nel caso di Internet e altri nuovi media divisi tra il loro «uso pubblico» libero e un crescente controllo «privato». La nostra lotta deve allora focalizzarsi su ciò che minaccia la sfera pubblica transnazionale, come la recente tendenza a organizzare il cyberspazio in clouds, in «nuvole»: in questo modo, i dettagli vengono «separati» dai consumatori, che non hanno più bisogno di competenza o capacità di controllo sull'infrastruttura tecnologica «nella nuvola» che supporta la loro attività. Qui ci sono due termini assai rivelatori: separazione e controllo – affinché si possa gestire un cloud, ci dev'essere un sistema di monitoraggio che ne controlla il funzionamento, un sistema che, per definizione, è celato agli utenti. Quindi, il paradosso è il seguente: più l'oggetto (smartphone o iPad) che tengo in mano è personalizzato, di facile utilizzo, «trasparente» nel suo funzionamento, più l'intero sistema deve basarsi sul fatto che il lavoro viene svolto altrove, nei vasti circuiti di macchine che coordinano l'esperienza dell'utente. Più la nostra esperienza è non alienata, spontanea, trasparente, più è regolata e controllata da una rete invisibile di organi statali e grandi imprese private che perseguono i loro disegni occulti.

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I whistleblowers, i delatori interni, giocano un ruolo cruciale nel mantenere viva la «ragione pubblica». Assange, Manning, Snowden: questi sono gli eroi della nostra epoca, casi esemplari dell'etica corrispondente all'era digitale. Non si tratta semplicemente di delatori che denunciano le pratiche illegali di aziende private (banche, produttori di tabacco o di petrolio, ecc.) o di autorità pubbliche; essi denunciano queste stesse autorità pubbliche nel momento in cui fanno un «uso privato della ragione». Abbiamo bisogno di più Manning e Snowden anche in Cina, in Russia, ovunque. Paesi come la Cina e la Russia sono ovviamente molto più oppressivi rispetto agli Stati Uniti – proviamo solo a immaginare cosa sarebbe successo a una persona come Chelsea Manning in un tribunale russo o cinese (probabilmente non ci sarebbe stato alcun processo pubblico; una Manning cinese sarebbe semplicemente scomparsa). Tuttavia, non dobbiamo esagerare la mitezza degli Stati Uniti: certo, gli USA non trattano i prigionieri con la stessa brutalità della Cina o della Russia – grazie alla loro superiorità tecnologica, non hanno bisogno di un trattamento così spudoratamente brutale (che sono più che disposti ad applicare quando è necessario). In questo senso gli Stati Uniti sono ancora più pericolosi della Cina, in quanto le loro misure di controllo non vengono percepite come tali, mentre la brutalità cinese è mostrata apertamente. Vale a dire: mentre in un Paese come la Cina le limitazioni della libertà sono evidenti a tutti – non ci si fa alcuna illusione, lo Stato è un organo apertamente oppressivo –, negli Stati Uniti, invece, le libertà formali sono garantite, cosicché la maggior parte delle persone ritiene di essere libera, non è consapevole del controllo esercitato dagli apparati statali. Si provi solo a immaginare quanto è possibile apprendere su ciascuno di noi controllando il nostro conto corrente, quali libri compriamo su Amazon, le nostre email, e così via. I whisleblowers fanno qualcosa di assai più importante che affermare l'ovvio denunciando i regimi apertamente oppressivi: rendono pubblica l'illibertà che è alla base della situazione stessa in cui ci sentiamo e consideriamo liberi.

Questa caratteristica non è limitata allo spazio digitale. Pervade intimamente la forma di soggettività che caratterizza la società liberale «permissiva». Dal momento che la libera scelta viene elevata a valore supremo, il controllo e il dominio sociale non possono più apertamente violare la libertà del soggetto; essi devono apparire come (ed essere sostenuti da) la stessa esperienza di sé in quanto individui liberi. Questa mancanza di libertà si presenta spesso nella forma del suo opposto: quando siamo privati dell'assistenza sanitaria universale, ci viene detto che abbiamo una nuova libertà di scelta (quella di scegliere un'assicurazione privata); quando non possiamo più fare assegnamento su un impiego a lungo termine e siamo costretti a cercare un nuovo lavoro precario ogni due anni o perfino ogni due settimane, ci viene detto che abbiamo l'opportunità di reinventarci e di scoprire in noi un inatteso potenziale creativo; quando dobbiamo pagare per l'istruzione dei nostri figli, ci viene detto che siamo diventati «imprenditori-di-sé», capitalisti che scelgono liberamente come investire le risorse che possiedono (o hanno preso in prestito) – in istruzione, salute, viaggi. Costantemente bombardati da queste «libere scelte» imposte, costretti a prendere decisioni per le quali non siamo adeguatamente qualificati (o sulle quali non possediamo sufficienti informazioni), sempre più viviamo la nostra libertà come un peso che provoca un'angoscia insopportabile.

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Vampiri contro zombie

La lotta per il controllo del ciberspazio è in fondo una questione di classe, e dimostra che la lotta di classe è viva e vegeta. Quando Obama fu accusato di aver irresponsabilmente introdotto in politica la «guerra di classe», Warren Buffett gongolò: «C'è la guerra di classe, è vero, ma è la mia classe, quella ricca, che fa la guerra, e stiamo vincendo noi». Se la guerra di classe è ancora un tabù nel discorso pubblico americano, questo tema represso ritorna con desiderio di vendetta a Hollywood. Qui non occorre cercare a lungo per trovare la guerra di classe – ci piaccia o no, la troviamo subito e dove meno ce l'aspetteremmo. Pensiamo semplicemente ai blockbuster (e perfino ai video-game) post-apocalittici come Elysium di Neill Blomkamp (2013), ambientato nel 2154: i ricchi vivono su una gigantesca stazione spaziale artificiale, mentre il resto della popolazione abita su una terra devastata, una sorta di favela latino-americana estesa a tutto il pianeta. Questo film è l'ultimo di una serie inaugurata da Zardoz (1974), di John Boorman, in cui si immagina una Terra post-apocalittica – siamo nell'anno 2293 – abitata per lo più da «Bruti», esseri umani comuni che vivono in condizioni miserabili e violente. Essi sono governati dagli «Immortali», i quali usano un gruppo privilegiato di Bruti, chiamati «Sterminatori» per tenere sotto controllo il resto della popolazione. Gli Sterminatori venerano il dio Zardoz, un'immensa testa di pietra volante il cui comandamento è: «Il fucile è il bene, il pene è il male. Il pene spara il seme, e procura nuova vita per avvelenare la Terra con la piaga dell'uomo, com'era un tempo, ma il fucile spara morte, e purifica la Terra dalla sozzura dei Bruti. Avanti... uccidete!». La testa divina di Zardoz fornisce armi agli Sterminatori; in cambio questi ultimi le offrono il grano necessario a nutrire gli Immortali che vivono nel Vortex, una comunità isolata di esseri civilizzati, protetta da un invisibile campo di forza. Gli Immortali conducono un'esistenza gradevole ma, in definitiva, opprimente. Di qui il finale scontato: lo scudo viene infranto e gli Immortali possono riscoprire le gioie del sesso e più in generale i vantaggi della mortalità.

Questi film sono ambientati in società radicalmente divise lungo linee di classe, come descritto da Peter Sloterdijk in Il mondo dentro il capitale, una spudorata celebrazione della grande narrazione della modernità global-capitalista.

[...]

Il primo dicembre 2013, almeno sette persone sono morte nell'incendio scoppiato in una fabbrica di abbigliamento di proprietà cinese, situata in una zona industriale della cittadina italiana di Prato, a dieci chilometri dal centro di Firenze; il fuoco ha ucciso i lavoratori intrappolati in un improvvisato dormitorio di cartone allestito nello stabilimento. L'incidente è avvenuto nel distretto industriale cittadino Macrolotto 1, noto per il gran numero di fabbriche di abbigliamento. Roberto Pistonina, segretario della CISL locale, ha commentato: «Nessuno può dire che questo evento sia stato una sorpresa, perché tutti sanno da anni che nell'area tra Firenze e Prato centinaia e forse migliaia di persone vivono e lavorano in condizioni molto vicine alla schiavitù». La sola Prato conta almeno quindicimila immigrati regolarmente registrati (su una popolazione totale di circa duecentomila persone), e più di quattromila aziende di proprietà cinese. Si ritiene che migliaia di altri immigrati cinesi vivano illegalmente in città, lavorando fino a sedici ore al giorno per una rete di grossisti e botteghe che producono abbigliamento a basso prezzo. Quindi, non dobbiamo cercare condizioni di vita miserabili lontano da noi, fuori dalla «cupola globale», nei sobborghi di Shanghai (o a Dubai o in Qatar) e poi criticare, ipocritamente, la Cina. Foxconn è proprio qui, a casa nostra, anche se non la vediamo (o, piuttosto, fingiamo di non vederla).

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Una serie di tematiche ricorrenti nella società odierna esemplificano perfettamente questo tipo di individualizzazione superegotica: l'ecologia, il politically correct e la povertà. Il discorso ecologista dominante che ci chiama in causa considerandoci a priori colpevoli, in debito con madre natura, sotto la costante pressione dell'ente ecologico superegotico, ci interpella in quanto individui: «Cos'hai fatto oggi per ripagare il tuo debito con la natura? Hai gettato i giornali nell'apposito cestino della carta? E le bottiglie di birra o le lattine di Coca-Cola? Hai usato la bicicletta o i trasporti pubblici anziché l'automobile? Hai aperto la finestra anziché azionare l'aria condizionata?» La posta ideologica di una tale individualizzazione è facilmente identificabile: ci si perde nell'autoesame invece di porsi domande assai più pertinenti sulla civiltà industriale globale.

Lo stesso vale per l'infinito autoesame del politically correct: ho guardato in modo troppo indiscreto o offensivo la hostess sull'aereo? Ho usato termini con una connotazione sessista quando le ho parlato? Il piacere o addirittura l'eccitazione derivanti da un tale autoesame sono evidenti – si consideri come il rimorso si mescoli al divertimento quando scopriamo che una nostra battuta innocente non era dopotutto così innocente, ma aveva una connotazione razzista. Per quel che riguarda la beneficienza, pensiamo a come siamo di continuo bombardati da messaggi destinati a farci sentire in colpa per il nostro stile di vita agiato, mentre tanti bambini in Somalia muoiono di fame o per malattie facilmente curabili – messaggi che allo stesso tempo offrono una facile via d'uscita («Tu puoi fare la differenza! Dona dieci curo al mese e renderai felice un orfano africano!»). Di nuovo, qui il supporto ideologico è facilmente identificabile. Il concetto, elaborato da Lazzarato, di «uomo indebitato» ci fornisce la struttura generale di questa soggettività per la quale la pressione superegotica dell'essere indebitato è costitutiva – per parafrasare Cartesio, sono indebitato, dunque esisto come soggetto integrato nell'ordine sociale.

E non vale forse lo stesso anche per la patologica preoccupazione di molti esponenti della sinistra liberal occidentale di non figurare come islamofobi. Per questi falsi progressisti, qualsiasi critica all'Islam è sempre espressione dell'islamofobia occidentale: Salman Rushdie fu accusato di aver provocato inutilmente i musulmani e dunque (almeno in parte) di aver meritato la fatwa che lo condannava a morte, ecc. Il risultato di una posizione del genere è del tutto prevedibile: tanto più i liberal occidentali rovistano nel loro senso di colpa, quanto più questi sforzi sono additati dai fondamentalisti islamici come ipocriti tentativi di celare l'odio verso l'Islam. Di nuovo, questa costellazione riproduce perfettamente il paradosso del Super-io: più si assecondano le richieste dell'Altro, più si è colpevoli. Nel caso in oggetto, più ci dimostriamo tolleranti verso l'Islam, più è forte la pressione su di noi.

Questo comporta che i fondamentalisti, che siano cristiani o musulmani, non lo siano nel vero senso del termine. Ciò che a loro fa difetto è una caratteristica facilmente individuabile in tutti i fondamentalisti autentici, dai buddhisti tibetani agli Amish statunitensi: l'assenza di risentimento e invidia, l'assoluta indifferenza riguardo allo stile di vita dei non credenti. Se i cosiddetti fondamentalisti di oggi credessero veramente di stare percorrendo la via della Verità, perché mai dovrebbero percepire i non credenti come una minaccia, perché mai dovrebbero invidiarli? Quando un buddhista incontra un edonista occidentale, non lo condanna affatto. Si limita a notare benevolmente che il modo in cui l'edonista ricerca la felicità è controproducente. Contrariamente ai veri fondamentalisti, i terroristi pseudo-fondamentalisti sono profondamente turbati, intrigati e affascinati dalla vita peccaminosa dei non credenti. Si intuisce che, nel peccatore, essi combattono la loro stessa tentazione.

L'intensità passionale dei terroristi testimonia della mancanza di una vera convinzione. Quanto fragile dev'essere la fede di un musulmano se può essere minacciata da una stupida caricatura di un settimanale satirico? Il terrore del fondamentalista non si radica nella convinzione di una presunta superiorità e nel desiderio di proteggere la propria identità culturale e religiosa dall'assalto della civiltà consumistica globale. Il problema dei fondamentalisti è che sono loro stessi, per primi, a considerarsi inferiori a noi. Ecco perché il nostro atteggiamento paternalistico, politicamente corretto, consistente nell'assicurare che non avanziamo alcuna pretesa di superiorità nei loro confronti, non fa altro che indispettirli ulteriormente e alimentare il loro risentimento. Il problema non è la differenza culturale (lo sforzo di preservare la propria identità), ma, all'opposto, il fatto che i fondamentalisti sono già come noi, che, segretamente, hanno già interiorizzato i nostri valori, e giudicano sé stessi a partire da questi stessi valori. Paradossalmente, ciò che manca ai fondamentalisti è una buona dose di vera convinzione «razzista», la certezza della propria superiorità.

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cor Assassinio sul Nilo

Come si può sgombrare il campo dalle false divisioni per cogliere la divisione reale (reale nel preciso senso lacaniano)? Si consideri il caso dell'Egitto. Nell'estate del 2013, l'esercito egiziano decise che era arrivato il momento di spezzare la situazione di stallo facendo piazza pulita dei manifestanti islamisti (furono uccisi centinaia, o addirittura migliaia, di persone). Si immagini il putiferio che si sarebbe scatenato se la stessa carneficina fosse avvenuta in un Paese come l'Iran. Tuttavia, è più interessante fare un passo indietro e concentrarsi sul terzo partito che è assente nel conflitto attuale: dove sono finiti quelli che parteciparono alle proteste di piazza Tahrir? Il loro ruolo non è curiosamente simile a quello svolto dai Fratelli Musulmani durante la primavera araba del 2011, i quali furono spettatori impassibili e perplessi dell'evento in questione? Nel giugno del 2013, l'esercito egiziano, in un primo momento con il favore dei manifestanti che rovesciarono il regime di Mubarak, ha deposto il governo eletto democraticamente. Quegli stessi contestatori che chiedevano democrazia hanno finito per sostenere passivamente un colpo di Stato che ha abolito la democrazia. Com'è possibile?

L'interpretazione più accreditata, in consonanza con l'ideologia egemonica, è stata proposta, tra gli altri, da Fukuyama: il movimento di protesta che fece cadere Mubarak era costituito prevalentemente da esponenti della classe media istruita; i lavoratori poveri e i contadini furono semplicemente ridotti al ruolo di osservatori (solidali). Ma, una volta che le porte della democrazia furono spalancate, i Fratelli Musulmani, la cui base sociale è rappresenta dalla maggioranza di poveri, hanno democraticamente vinto le elezioni formando un governo dominato dai fondamentalisti islamici; cosicché, comprensibilmente, il nucleo originario di dimostranti laici si è rivoltato contro di loro ed è stato disposto a sostenere perfino un colpo di Stato militare. Tuttavia, un'interpretazione tanto semplicistica ignora una dimensione essenziale del movimento di protesta: le organizzazioni eterogenee (di studenti, di donne lavoratrici, ecc.) che hanno permesso alla società egiziana di articolare i suoi interessi al di fuori dell'ambito delle istituzioni statali e religiose. Questa vasta rete di nuove forme sociali, ben più della caduta di Mubarak, costituisce la principale vittoria della Primavera araba. Θ un processo che continua, indipendentemente dai grandi mutamenti politici come il colpo di Stato contro il governo dei Fratelli Musulmani; e va più a fondo della divisione religioso/liberale.

L'antagonismo tra l'esercito e i Fratelli Musulmani non rappresenta quindi l'antagonismo supremo della società egiziana. Lungi dall'essere un mediatore neutrale e benevolo e dal garantire la stabilità sociale, l'esercito incarna un determinato programma socio-politico – grosso modo, l'integrazione nel mercato globale, l'apertura all'Occidente e l'instaurazione di un capitalismo autoritario. Stando così le cose, il protagonismo dell'esercito è necessario nella misura in cui la maggioranza non è pronta ad accettare «democraticamente» il capitalismo. Contrariamente alla visione secolare dell'esercito, i Fratelli Musulmani cercano di imporre un governo teocratico. Entrambe queste visioni ideologiche escludono in realtà ciò che i dimostranti sostenevano: emancipazione sociale e politica universale.

Gli eventi egiziani ci danno un ulteriore saggio della dinamica di base delle rivolte sociali, che consiste di due fasi principali, designate tradizionalmente da accoppiamenti come «1789/1793» (nel caso della Rivoluzione francese) o «febbraio/ottobre» (nel caso della Rivoluzione russa). La prima fase, che Badiou ha recentemente definito la «rinascita della storia», culmina con la sollevazione di tutto il popolo contro l'odiato tiranno (Mubarak in Egitto, o lo scià in Iran). Individui di ogni estrazione sociale si impongono come attore collettivo, mentre il sistema di potere perde rapidamente la legittimazione di cui ha goduto fino a quel momento. Si assiste allora a quei momenti magici di unità estatica in cui centinaia di migliaia di persone si radunano per giorni e giorni nelle piazze pubbliche promettendo di non andarsene finché il tiranno non si sarà dimesso. Questi momenti realizzano una sublime totalità immaginaria: ogni differenza, ogni conflitto d'interessi viene temporaneamente accantonato nell'apparente unione dell'intera società contro l'odiato tiranno.

Alla fine degli anni Ottanta, avvenne qualcosa di analogo durante la disintegrazione dei regimi socialisti: tutti i settori della società erano legati dal rifiuto dei partiti comunisti, quantunque per ragioni differenti e perfino contradditorie: chi era religioso odiava i comunisti a causa del loro ateismo; i liberali gli rinfacciavano il loro dogmatismo ideologico; i lavoratori comuni gli contestavano le miserabili condizioni in cui erano costretti a vivere; i potenziali capitalisti il fatto che la proprietà privata fosse proibita; gli intellettuali la mancanza di libertà personale, i nazionalisti il tradimento delle radici etniche in nome dell'internazionalismo proletario, i cosmopoliti le frontiere chiuse e l'assenza di scambi culturali con altri paesi, i giovani il rifiuto della cultura popolare occidentale, gli artisti i limiti imposti alla libertà di espressione, ecc. Tuttavia, dopo il crollo di questi regimi, l'unità immaginaria del popolo si sarebbe presto frantumata, e vecchi conflitti fino a quel momento repressi sarebbero riapparsi con rinnovata forza: i fondamentalisti religiosi e i nazionalisti contro i modernizzatori laici, un gruppo etnico contro l'altro, gli anticomunisti contro i presunti simpatizzanti del vecchio sistema.

Questa serie di antagonismi tende a cristallizzarsi attorno a un antagonismo politico principale, nella maggior parte dei casi lungo l'asse dei tradizionalisti religiosi contro i capitalisti secolari filo-occidentali, multi-culturalisti e liberai-democratici, per quanto il suo contenuto possa variare a seconda delle specifiche circostanze (in Turchia, gli islamisti sono più favorevoli all'integrazione nel capitalismo globale rispetto ai kemalisti secolar-nazionalisti; gli ex comunisti possono essere alleati dei «progressisti» secolari – come in Ungheria o in Polonia – o dei nazionalisti religiosi – come in Russia). Proviamo a chiarire questo punto cruciale con un parallelo, forse inatteso, con l'idea paolina del passaggio dalla Legge all'amore.

[...]

Questa è la vera, infausta lezione della rivolta egiziana: se le forze liberali moderate continueranno a ignorare la sinistra radicale, genereranno un'insormontabile ondata fondamentalista. Affinché il loro fondamentale patrimonio di valori possa conservarsi, i liberali hanno bisogno dell'aiuto fraterno della sinistra radicale. Malgrado (quasi) tutti abbiano salutato con entusiasmo queste esplosioni democratiche, è in atto una lotta sotterranea per la loro appropriazione. I circoli intellettuali ufficiali e la maggior parte dei media occidentali le celebrano come se fossero, essenzialmente, l'equivalente arabo delle rivoluzioni «filo-democratiche» dell'Europa dell'Est: manifestazioni del desiderio di democrazia liberale. Ecco perché si avverte un certo disagio quando si è costretti ad ammettere che esiste un'ulteriore dimensione che anima le proteste, una dimensione cui di solito si fa riferimento con la formula «richiesta di giustizia sociale». Questa lotta per l'appropriazione «morale» non coinvolge solo la sfera interpretativa, in quanto ha conseguenze pratiche fondamentali. Non dobbiamo lasciarci abbagliare dalle sublimi dimostrazioni di unità nazionale, poiché la domanda che dovremmo sempre porci in questi casi è: cosa succederà dopo? In che modo questa carica emancipativa si tradurrà in un nuovo ordine sociale? Negli ultimi decenni, abbiamo assistito a una serie di sollevazioni popolari il cui carattere progressivo è stato riassorbito all'interno dell'ordine capitalistico globale, nella sua forma liberale (dal Sudafrica alle Filippine) o nella sua forma fondamentalista (l'Iran). Non dobbiamo dimenticare che nessuno dei paesi interessati dalla Primavera araba era formalmente democratico: erano tutti, più o meno, autoritari, per cui la richiesta di giustizia sociale ed economica non poteva che essere spontaneamente associata alla domanda di democrazia, come se la povertà fosse semplicemente il risultato della cupidigia e della corruzione di coloro che detengono potere, cosicché sarebbe bastato liberarsi di questi ultimi per risolvere ogni problema. Ma, se si ottiene la democrazia senza superare povertà, cosa accade dopo?

Il che ci riporta all'interrogativo di fondo: l'unità estatica del popolo in piazza Tahrir era solo un'illusione immaginaria, subito dopo brutalmente dissolta? Gli eventi egiziani non confermano forse l'intuizione di Hegel secondo cui la vittoria di un movimento politico è sempre pagata con la sua scissione in fazioni antagoniste? L'opposizione unitaria a Mubarak era semplicemente una finzione atta a celare l'autentico antagonismo di fondo tra modernizzatori secolari e filo-occidentali (i membri della crescente classe media) e i fondamentalisti islamici sostenuti prevalentemente dai ceti più poveri? In altre parole, stiamo assistendo a una nuova versione della lotta di classe?

Nella fase ascendente della rivolta, quando tutti i gruppi sono compattati dal rifiuto del tiranno, non si realizza solamente un'unità ideologica immaginaria. Infatti, ogni rivolta radicale, per definizione, contiene sempre una dimensione comunista, un sogno di solidarietà ed equità che si estende oltre la sfera politica per includere l'economia, la vita privata e la cultura, diffondendosi nell'intero edificio sociale. Si attua qui un vero e proprio rovesciamento dialettico. Nella fase iniziale della rivolta, si stabilisce l'unità assoluta del popolo, ma già a questa altezza entra in campo la divisione (quella tra il popolo e i fiancheggiatori del tiranno). Θ solo quando il tiranno è stato deposto che comincia il vero lavoro, ossia la trasformazione radicale della società. In questo periodo, tutti sono in linea di principio favorevoli alla rivoluzione, ma il partito di coloro che vogliono una «rivoluzione senza la rivoluzione» (Robespierre) cerca di convincere il popolo che la rivoluzione è finita, che, una volta deposto il tiranno, la vita può tornare alla normalità (il ruolo che l'esercito sta svolgendo in Egitto). Θ in momenti come questi che è necessario insistere sulla rigorosa divisione tra quelli che vogliono davvero la rivoluzione e quelli che vogliono una «rivoluzione senza la rivoluzione». Torniamo a Martin Luther King: per dirla nei termini di Badiou, King ha svolto l'«assioma dell'eguaglianza» ben oltre il tema della segregazione razziale, e questa sua disponibilità a perseguire tale scopo è ciò che lo rende un autentico combattente per la causa dell'emancipazione. Ecco cosa intende Badiou quando dice che un'Idea vera è qualcosa che divide, che permette di tracciare una linea di divisione: in un'Idea vera, l'universalità e la divisione rappresentano le due facce di una stessa medaglia.

Il comunismo è una di queste idee che dividono. Nei paesi governati dalle destre autoritarie, tutti quelli che si battevano (per quanto pacificamente) a favore della democrazia, della libertà e della giustizia venivano un tempo (e in qualche caso vengono ancora) accusati di essere dei comunisti o degli ingenui manipolati dai comunisti, ossia dagli acerrimi nemici dello Stato. La reazione più elementare dei liberali a tali accuse consisteva nel negare: «Noi lottiamo sinceramente per la libertà e la democrazia, ma voi (che siete al potere) non ammetterete mai pubblicamente di essere contro la libertà e la democrazia, e dunque vi conviene accusarci ingiustamente di essere comunisti». E se in questo caso avessero ragione quelli che insinuano che i partigiani della libertà perseguono segretamente un progetto comunista? E se, all'apice della lotta per l'emancipazione, quando gli opportunisti, temendo l'esplosione della rabbia popolare, cercano di scendere a compromessi con la destra governativa, i comunisti fossero i soli a difendere incondizionatamente la libertà e la giustizia contro il potere autoritario? Allora, dopo aver respinto le accuse al mittente («Io comunista? Sei pazzo? Sono semplicemente coerente con i miei valori liberali!»), arriva un momento in cui la sola reazione appropriata è rivendicare ciò di cui si viene accusati: «Sì, sono comunista, ma siete stati voi che mi avete fatto diventare tale!» Inoltre, chi opera in condizioni in cui è impossibile (a causa della censura) dichiararsi apertamente «comunisti» non dovrebbe considerare questi slittamenti semantici («vera democrazia», «giustizia», ecc., al posto di «comunismo») come un pericoloso compromesso che offusca la vera linea della lotta: le rimozioni in questione sono utili nella misura in cui estendono il terreno del conflitto permettendo di attrarre/egemonizzare entro lo stesso le lotte per la giustizia, la libertà e l'uguaglianza.

Ecco perché ogni rivoluzione dev'essere ripetuta. Θ solo dopo che l'iniziale entusiasmo si è dissolto che è possibile formulare la vera universalità, una universalità non più sostenuta da illusioni immaginarie. Θ solo dopo che l'unità del popolo si è frantumata che comincia il duro lavoro consistente nell'assumere tutte le conseguenze della lotta per una società giusta ed egalitaria. Non basta liberarsi semplicemente del tiranno; la stessa società che ha dato origine al tiranno dev'essere interamente trasformata. Solo chi è disposto a impegnarsi a fondo su questo percorso rimane fedele all'originario e radicale nucleo dell'unità del popolo. Tale fedeltà è un processo che divide, che traccia una linea di separazione tra l'Idea di comunismo e le illusioni di solidarietà e concordia che rimangono all'interno dei confini ideologici dell'ordine esistente.

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Rivendicazioni... e molto di più

Nei suoi scritti giovanili, Marx descrive quella tedesca come una situazione in cui l'unica risposta possibile ai problemi particolari sarebbe stata una soluzione universale: la rivoluzione globale. Abbiamo qui l'espressione condensata della differenza tra un periodo riformista e un periodo rivoluzionario: in un periodo riformista, la rivoluzione globale rimane un sogno che nel migliore dei casi serve a valorizzare i tentativi di cambiare qualcosa a livello locale (e nel peggiore impedisce la messa in atto di cambiamenti reali); in un periodo rivoluzionario, invece, appare con evidenza che solo un cambiamento globale può risolvere i problemi particolari. In questo senso puramente formale, il 1990 è stato un anno rivoluzionario: era chiaro a tutti che le riforme parziali degli Stati comunisti non sarebbero bastate, che era necessaria una rottura radicale anche solo per risolvere i problemi particolari, come quello di sfamare le masse.

In che modo si manifesta oggi questa differenza? Il dilemma di fondo è semplice e crudo: le proteste che hanno avuto luogo negli ultimi anni segnalano di una crisi globale che gradualmente, ma inesorabilmente, si avvicina, o costituiscono semplicemente degli ostacoli minori che possono essere arginati, se non risolti, da interventi mirati? Rappresentano solo delle piccole scosse di assestamento che preludono a una nuova epoca di progresso?

L'aspetto più inusuale e inquietante di queste proteste è che esse non esplodono solo nei punti deboli del sistema, ma anche in contesti che, fino a poco tempo fa, erano percepiti come casi di successo. Θ comprensibile che ci siano problemi all'inferno – sappiamo perché la gente sta protestando in Grecia e in Spagna; meno comprensibile è che ci siano problemi in paradiso, in paesi caratterizzati dal benessere o quantomeno interessati da un rapido sviluppo, come la Turchia, il Brasile, e perfino la Svezia (dove abbiamo assistito, recentemente, a violente proteste da parte degli immigrati che vivono in periferia). Col senno di poi, si può ora riconoscere che l'originale «problema in paradiso» fu la rivoluzione di Khomeini in Iran, una nazione che procedeva a rapidi passi verso la modernizzazione filo-occidentale e figurava come il più fedele alleato dell'Occidente nella regione. Forse c'è qualcosa di sbagliato nella nostra idea di paradiso.

Prima dell'attuale ondata di proteste, la Turchia era un Paese corteggiato, per il fatto di combinare il liberismo a un islamismo moderato e dal volto umano. Essa era pronta per l'Europa, in quanto gradita antitesi della più «europea» Grecia intrappolata in un labirinto ideologico e incamminata verso l'autodistruzione economica. Θ vero, c'erano alcuni cattivi presagi qua e là (la persistente negazione dell'olocausto armeno, l'incarcerazione di centinaia di giornalisti, la situazione irrisolta dei curdi, gli appelli a una Grande Turchia che riesumasse la tradizione dell'impero ottomano, l'occasionale imposizione di leggi religiose). Ma tutto questo era ignorato come un dettaglio insignificante che non era in grado di compromettere l'immagine d'insieme. Si trattava di un Paese in cui l'ultima cosa che ci si sarebbe aspettati era la diffusione di una rivolta.

Poi è accaduto l'imprevisto: sono scoppiate le proteste in piazza Taksim, nel centro di Istanbul. Tutti sanno che il progetto di trasformare un parco confinante con questa piazza in un centro commerciale non era la vera causa delle proteste, che, sotto la superficie, un malessere ben più profondo si stava consolidando. Lo stesso vale per le proteste scoppiate in Brasile a metà di giugno 2013: ciò che le scatenò fu un leggero aumento del prezzo del trasporto pubblico, ma esse continuarono anche dopo la revoca della misura in questione. Anche qui, le proteste scoppiarono in un Paese che – almeno secondo i media – era in pieno boom economico e poteva confidare in un futuro radioso. A infittire il mistero fu l'immediato sostegno espresso dalla presidente Dilma Rousseff, che disse di sentirsi «rallegrata» da quanto stava accadendo. Quali erano allora le vere origini del malessere di chi protestava contro la corruzione e la disintegrazione dei servizi pubblici?

In breve, la Turchia è passata improvvisamente dalle stelle alle stalle. Θ cruciale che si eviti di interpretare quello turco come uno scenario in cui la società civile laica è insorta contro un governo autoritario sostenuto dalla maggioranza silenziosa musulmana. Ciò che complica il quadro è la spinta anticapitalista delle proteste, le quali erano infatti rivolte alla privatizzazione dello spazio pubblico. Il loro asse di riferimento era il legame tra l'islamismo autoritario e la privatizzazione dello spazio pubblico secondo l'ideologia del libero mercato. Questo legame è ciò che rende il caso della Turchia tanto interessante e di vasta portata: i dimostranti avvertirono che la libertà del mercato e il fondamentalismo religioso non si escludono vicendevolmente, che esse possono procedere di concerto – un chiaro segnale che il matrimonio «per l'eternità» tra democrazia e capitalismo si sta ormai avviando verso il divorzio.

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A questo punto, occorre rievocare il buon vecchio concetto marxiano di totalità, in questo caso la totalità capitalistica. Il capitalismo globale è un processo complesso che interessa paesi diversi in modi diversi. Ciò che accomuna la varietà delle proteste è che ciascuna di esse reagisce a un aspetto della globalizzazione capitalistica. La tendenza generale del capitalismo globale è l'ulteriore espansione del dominio del mercato, connessa alla progressiva riduzione e privatizzazione dello spazio pubblico, alla diminuzione dei servizi pubblici (sanità, istruzione, cultura) e a un crescente autoritarismo. Θ all'interno di questo quadro globale che i greci protestano contro i1 dominio del capitale finanziario transnazionale e contro il loro Stato corrotto e inefficiente, sempre meno capace di fornire i servizi sociali di base; o che i turchi protestano contro la mercificazione dello spazio pubblico e contro l'autoritarismo religioso; che gli egiziani hanno protestato contro un regime autoritario sostenuto dalle potenze occidentali; che gli iraniani hanno protestato contro il fondamentalismo di Stato, e così via. Ciò che associa queste espressioni di dissenso è che nessuna di esse può essere ridotta a una singola questione: tutte hanno a che fare con una specifica combinazione di (almeno) due problemi, uno più o meno radicalmente economico (dalla corruzione e dall'inefficienza fino al capitalismo in quanto tale) e uno politico-ideologico (dalle generiche rivendicazioni democratiche al progetto di rovesciamento del tradizionale sistema dei partiti). E non vale forse lo stesso per Occupy Wall Street? Al di là della profusione di dichiarazioni (spesso poco chiare), questo movimento ha saputo cogliere due dimensioni fondamentali: (1) il malcontento nei confronti del capitalismo in quanto sistema; e (2) che la democrazia rappresentativa pluripartitica non ha i mezzi per combattere gli eccessi del capitalismo; in altre parole, che la democrazia deve essere reinventata.

Il capitalismo globale tende a ridurre i commons a res nullius, termine che nel diritto romano indicava tutto ciò che può essere posseduto, compreso uno schiavo (in quanto opposto a un cittadino), ma che non è ancora l'oggetto dei diritti di un qualche soggetto specifico — queste cose sono considerate proprietà senza proprietario e «libere di essere appropriate». L'espressione paradossale «proprietà senza proprietario» rivela l'operazione ideologica che sta alla base del concetto di res nullius: è come se le cose che non hanno ancora un proprietario fossero già, potenzialmente, proprietà di qualcuno, come se la proprietà fosse iscritta nella loro esistenza (esattamente come, nell'ideologia patriarcale, una donna non sposata è una specie di «proprietà senza proprietario» che attende di «diventare la proprietà» di un uomo). Nel diritto internazionale, la res nullius è chiamata terra nullius: uno Stato può esercitare il controllo su un territorio libero quando uno dei suoi cittadini (spesso nell'ambito di una spedizione esplorativa e/o militare) lo occupa. Questo concetto ha, prevedibilmente, fornito la giustificazione ideologica del processo coloniale: già nel sedicesimo secolo, la Chiesa proclamò gran parte delle Americhe e dell'Africa terra nullius, sostenendo che, malgrado le popolazioni indigene, le nazioni cristiane e civilizzate avevano il diritto di occupare le terre di recente scoperta e farne buon uso.

Questo non significa, ovviamente, che, se la causa effettiva delle proteste è il capitalismo globale, la soluzione dovrebbe consistere nel suo rovesciamento. L'alternativa tra l'affrontare pragmaticamente un problema particolare («in Ruanda la gente sta morendo, quindi mettiamo da parte la lotta anti-imperialista e facciamo qualcosa per impedire questo massacro») e l'attendere pazientemente una trasformazione radicale è una falsa alternativa, perché ignora il fatto che il capitalismo globale è necessariamente contraddittorio: negli Stati Uniti, la libertà del mercato procede parallelamente al protezionismo agricolo e predicare la democrazia è compatibile con il sostegno all'Arabia Saudita. Tuttavia, questa incoerenza dischiude lo spazio per interventi politici autentici: dal momento che essa è necessaria e che il sistema capitalistico deve costantemente violare le sue regole (la concorrenza del libero mercato, la democrazia), affermare strategicamente i principi fondativi di questo sistema, lì dove l'incoerenza è massima, equivale a sfidarlo sul suo stesso terreno. In altre parole, l'arte della politica sta nell'insistere su una richiesta particolare che, malgrado la sua assoluta sensatezza e realizzabilità, è di fatto impossibile e perciò turba il nucleo stesso dell'ideologia egemonica implicando un cambiamento ben più radicale.

Nella proposta obamiana di un'assistenza sanitaria universale ha operato la medesima logica: nonostante fosse una proposta modesta e attuabile, ha ovviamente turbato il nucleo dell'ideologia americana. Nella Turchia di oggi, rivendicare la tolleranza culturale (principio scontato nella maggior parte dell'Europa occidentale) ha un potenziale esplosivo. In Grecia, un ragionevole appello all'efficienza e all'onestà, se inteso seriamente, implica una totale ristrutturazione dello Stato. Ecco perché non c'è alcun valore analitico nell'attribuire al neoliberismo la fonte di tutti i nostri problemi particolari: l'ordine mondiale esistente è una totalità concreta all'interno della quale situazioni specifiche richiedono azioni specifiche. Una misura (per esempio, la difesa dei diritti umani) che è generalmente banale nel mondo liberale, può portare a sviluppi esplosivi in un determinato contesto.

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Il fascino della sofferenza

Un modo di risolvere (o almeno neutralizzare) questa confusione è confrontarsi direttamente con il problema della sofferenza: di certo possiamo fare qualcosa per alleviarla?! Ciò che è inautentico nell'idea e nella pratica degli interventi umanitari è stato messo a nudo dal caso della Siria. Θ vero, la Siria è governata da un dittatore malvagio che utilizza le armi chimiche contro il suo stesso popolo, ma chi sono quelli che si oppongono al regime? Sembra che quanto restava della resistenza democratica e laica stia annegando nella marea montante dei gruppi islamici finanziati dalla Turchia e dall'Arabia Saudita, con una forte presenza di Al-Qaeda, che agisce dietro le quinte. (Si ricordi che, nel 2013, una delle più alte autorità religiose dell'Arabia Saudita esortò le ragazze musulmane a recarsi in Siria per sostenere i ribelli concedendosi agli stupri di gruppo!).

Per quel che riguarda Assad, la sua Siria almeno ha finto di essere uno Stato laico, ragion per cui non sorprende che i cristiani e le altre minoranze religiose siano in questo momento schierati dalla sua parte, contro i ribelli sunniti. In breve, abbiamo a che fare con un conflitto oscuro, che ricorda vagamente la rivolta libica contro Gheddafi – la posta politica dello scontro è incerta e non c'è traccia di un'ampia coalizione democratica; a dominare la scena è una complessa rete di alleanze religiose ed etniche condizionata dalle manovre delle superpotenze (gli Stati Uniti e l'Europa occidentale da una parte, la Russia e la Cina dall'altra). In tali condizioni, qualsiasi intervento militare sarebbe politicamente folle: cosa succederebbe se, dopo la caduta di Assad, fossero gli islamisti radicali a prendere il potere? Gli Stati Uniti possono permettersi di ripetere l'errore commesso in Afghanistan, quando armarono i futuri quadri di Al-Qaeda e dei talebani? In una situazione tanto caotica, l'intervento militare sarebbe il frutto di una politica opportunistica di corto respiro, oltre che autodistruttiva. L'indignazione che potrebbe fornire una copertura ideologica all'intervento («Non si può permettere l'uso di armi chimiche contro la popolazione civile!») è chiaramente fasulla, tanto che non la prendono sul serio nemmeno quelli che se ne fanno interpreti. (Come ormai sappiamo, gli Stati Uniti hanno tollerato abbondantemente l'uso di armi chimiche contro l'esercito iraniano da parte di Saddam Hussein; essi hanno perfino fornito al dittatore le immagini satellitari delle postazioni nemiche: dov'erano allora le riserve di ordine morale?) Di fronte alla paradossale etica che giustifica la scelta di schierarsi a fianco di un gruppo criminale contro un altro gruppo ugualmente criminale, non possiamo che simpatizzare con la reazione di Ron Paul all'interventismo promosso da John McCain: «Con politici come questi, chi ha bisogno di terroristi?»

Perciò, quella che ha luogo in Siria è, in definitiva, una pseudo-lotta che dovrebbe lasciarci indifferenti. A patto di tenere a mente che questa pseudo-lotta imperversa a causa del Terzo assente, vale a dire di quella opposizione democratica radicale chiaramente riconoscibile nel caso dell'Egitto. In Siria non sta accadendo nulla di particolarmente rilevante, a parte il fatto che la Cina si è avvicinata ulteriormente all'obiettivo di costituirsi come nuova superpotenza mondiale, dal momento che i suoi concorrenti ce la mettono tutta a indebolirsi vicendevolmente.

Che dire allora dell'aspetto umanitario, ossia della sofferenza di milioni di persone? Spesso non possiamo che rimanere sconcertati di fronte al disinteresse riservato a questa sofferenza, specialmente quando la stessa è ampiamente mostrata e condannata dai media: è come se l'indignazione ci trasformasse in spettatori immobilizzati e affascinati. Si pensi all'assedio di Sarajevo dei primi anni Novanta, che ridusse la popolazione, sottoposta al fuoco costante dell'artiglieria e dei cecchini, allo stremo. Come mai, malgrado i media riportassero incessantemente le immagini e i resoconti di quanto stava accadendo, le forze dell'ONU, della NATO o degli Stati Uniti non accennarono nemmeno il tentativo di spezzare l'assedio di Sarajevo, di imporre un corridoio umanitario attraverso il quale persone e rifornimenti alimentari potessero circolare liberamente? Non sarebbe costato nulla: con una leggera pressione sulle forze serbe, lo spettacolo di una Sarajevo circondata, sottoposta allo stillicidio quotidiano del terrore, sarebbe presto terminato.

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Mamihlapinatapei

Dovremmo seguire Timothy J. Clark quando rigetta il concetto escatologico di Futuro, che il marxismo ha ereditato dalla tradizione cristiana e la cui espressione più sintetica è rintracciabile nei celebri versi di Hφlderlin: «Ma dove è il pericolo, cresce / Anche ciò che dà salvezza». Forse va rinvenuta in questi versi la lezione dei disastrosi esperimenti della sinistra nel ventesimo secolo, i quali impongono che si retroceda da Marx a Hegel, e cioè dall'escatologia rivoluzionaria marxiana alla tragica visione hegeliana di una storia che è sempre radicalmente indecidibile, dal momento che il suo processo assume direzioni che non siamo mai in grado di prevedere. La sinistra dovrebbe imparare ad assumere pienamente l'«alienazione» del processo storico: non possiamo controllare le conseguenze delle nostre azioni, e questo non perché siamo manovrati da un Padrone o da un Fato che tira i fili della storia, ma per la ragione opposta: non c'è nessun grande Altro, nessun agente in grado di tenere conto delle conseguenze delle nostre azioni. Accettare l'«alienazione» non comporta in alcun modo che si assuma una distanza cinica; comporta piuttosto che si assuma una posizione caratterizzata da un impegno totale, consapevoli dei rischi implicati – non c'è alcuna suprema Necessità storica, di cui noi saremmo gli strumenti, in grado di garantire l'esito ultimo dei nostri interventi. Da questo punto di vista, la disperazione suscitata dalle impasse del presente appare sotto una nuova luce: dobbiamo rinunciare precisamente allo schema escatologico su cui essa si fonda. Non ci sarà mai una sinistra capace di tradurre magicamente rivendicazioni e proteste caotiche in un grande e coerente Progetto di Salvezza; tutto ciò che abbiamo è il nostro agire, aperto ai rischi della contingenza storica. Franco Berardi conferma acutamente questa tesi a proposito della Grecia: «Rifiuto di esprimere qualsiasi considerazione sugli attuali eventi. In un certo senso rifiuto coscientemente la possibilità che il mondo presente possa essere migliorato, dal momento che occorre perdere ogni speranza per poter riconoscere nuove possibilità».

Questo significa forse che dovremmo semplicemente abbandonare il tema (e l'esperienza) di «vivere alla fine dei tempi», dell'avvicinamento all'apocalittico punto di non ritorno, quando «le cose non possono più andare avanti così»? Che dovremmo assumere la gaia, liberal-progressista e «postmetafisica» visione che ci suggerisce di compiere interventi modesti, rischiosi ma prudentemente pragmatici? No, occorre invece separare l'esperienza apocalittica dall'escatologia: ci stiamo avvicinando a un grado zero – sotto il profilo ecologico, economico, sociale – oltre il quale le cose dovranno necessariamente cambiare, e il mutamento sarà tanto più radicale se non faremo nulla; tuttavia, non ci troviamo di fronte a una svolta escatologica che procede nella direzione della Salvezza globale. In politica, il vero Evento non è quello che attendono i marxisti tradizionali (il grande Risveglio del Soggetto rivoluzionario), ma qualcosa che si presenta inaspettatamente, collateralmente, a latere. Si ricordi che, pochi mesi prima della rivoluzione del 1917, Lenin pronunciò un discorso indirizzato alla gioventù socialista svizzera, in cui disse che la loro generazione sarebbe potuta essere la prima ad assistere a una rivoluzione socialista... entro venti anni.

Allora concludiamo tornando alle proteste che si svolgono in due paesi confinanti, la Grecia e la Turchia. A prima vista, potrebbero sembrare due casi completamente diversi: la Grecia è prigioniera delle disastrose politiche dell'austerità, mentre la Turchia attraversa una fase di crescita economica straordinaria che la sta facendo emergere come superpotenza regionale. Ma se ogni Turchia generasse e contenesse la propria Grecia, la propria isola di miseria? In una delle sue Elegie di Hollywood, Brecht scrisse:

    Il villaggio di Hollywood è ideato secondo l'immagine
    Che da queste parti si ha del cielo. Da queste parti
    Si è calcolato che Dio,
    avendo bisogno di cielo e d'inferno, non ebbe bisogno
    di ideare due insediamenti, ma
    uno solo, il cielo. Questo,
    per chi non ha successo,
    serve da inferno.

Non vale forse lo stesso per il villaggio globale di oggi, in modo esemplare per il Qatar o Dubai, villaggi pieni di attrattive per i ricchi e situazioni di semi-schiavitù per i lavoratori immigrati? Non sorprende allora che un esame più attento riveli la somiglianza di fondo tra la Turchia e la Grecia: privatizzazione, recinzione degli spazi pubblici, smantellamento dei servizi sociali, ascesa di politiche autoritarie (si confrontino la minaccia di chiudere la TV pubblica in Grecia e i segnali di censura in Turchia). A questo livello elementare, i dimostranti greci e turchi sono impegnati nella stessa lotta. Un vero evento sarebbe quindi consistito nel coordinare le due lotte, rigettando le tentazioni «patriottiche», rifiutando di occuparsi delle preoccupazioni altrui (il fatto che la Grecia e la Turchia siano nemiche storiche), e organizzando manifestazioni comuni di solidarietà. Forse lo stesso futuro delle proteste dipenderà dalla capacità di articolare questa solidarietà globale.

La lingua Fuengian, parlata in alcune regioni del Cile, ha la meravigliosa parola mamihlapinatapei: essa indica uno sguardo scambiato tra due persone – per esempio, nel nostro caso, tra un manifestante greco e uno turco – che desiderano stabilire un contatto, ma nessuna delle due vuole fare il primo passo. Qualcuno dovrà prima o poi correre il rischio di compiere questo passo. E anche gli eventi attuali in Ucraina devono essere interpretati sotto questa luce.

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Il populismo anti-immigrazione ha sostituito una barbarie diretta con una barbarie dal volto umano. Si tratta di una involuzione dall'amore cristiano verso il prossimo alla fedeltà pagana verso la propria tribù (greci, romani), contro l'Altro barbarico. Anche se si trincera dietro la difesa dei valori cristiani, questo populismo costituisce in verità la più grande minaccia per l'eredità del cristianesimo. Un secolo fa, Gilbert K. Chesterton ha formulato la contraddizione di fondo dei contestatori della religione: «Uomini che cominciano a combattere la Chiesa per amore della libertà e della umanità finiscono col combattere anche la libertà e l'umanità pur di combattere la Chiesa. [...] Il laicismo non ha distrutto le cose divine: ha distrutto le cose non divine – se questo può essere un conforto per esso». Non potremmo dire lo stesso dei difensori della religione? Quanti fanatici protettori della fede hanno cominciato con l'attaccare ferocemente la cultura laica contemporanea e hanno finito col rinunciare a qualsiasi esperienza religiosa significativa? Analogamente, molti partigiani della causa liberale sono così impazienti di lottare contro il fondamentalismo antidemocratico che finiranno per gettar via proprio la libertà e la democrazia, così da poter combattere meglio il terrorismo. Se i «terroristi» sono pronti a distruggere questo mondo per amore dell'altro mondo, i nostri guerrieri antiterrorismo sono pronti a distruggere il loro mondo democratico per odio dell'altro mondo musulmano. Alcuni di loro amano a tal punto la dignità umana da essere pronti a legalizzare la tortura, e cioè la somma degradazione di questa dignità. E non vale forse lo stesso anche per quelli che hanno aderito alla recente crociata europea contro la «minaccia dell'immigrazione»? Nel loro zelo di proteggere l'eredità giudaico-cristiana, i nuovi zeloti sono pronti a sacrificare il vero nucleo di questa eredità. Sono questi difensori dell'Europa contro l'immigrazione, e non le folle di immigrati che apparentemente sono in attesa di invaderla, a costituire la vera minaccia per l'Europa stessa.

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