Autore Daniele Zovi
Titolo Alberi sapienti, antiche foreste
SottotitoloCome guardare, ascoltare e avere cura del bosco
EdizioneUtet, Milano, 2018 , pag. 296, ill., cop.rig., dim. 16x23,5x3 cm , Isbn 978-88-511-5756-2
LettoreDavide Allodi, 2018
Classe natura , scienze naturali












 

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Indice


Introduzione                             13


Pionieri                                 19

Movimento                                35

Semi                                     45

Radici                                   55

Tronco                                   67

Corteccia                                85

Chioma                                   97

Resina                                  109

Come guardare un bosco                  119

La voce della foresta                   133

Il legno morto                          145

Foreste sotterranee                     155

Radure                                  163

I sensi delle piante                    169

L'intelligenza delle piante             193

Foreste (quasi) vergini in Italia       201

Foreste antiche in Europa               233

Alberi e salute                         271

Lo spirito del bosco                    281


Ringraziamenti                          289
Bibliografia                            291


 

 

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La vera novità del terzo millennio è che le relazioni tra le persone avvengono in grande misura tramite dispositivi che consentono una perenne connessione. A metà del secolo scorso, una madre italiana che assisteva alla partenza del figlio emigrante in Australia lo salutava per l'ultima volta, piangeva come se lo vedesse morire, certa che non lo avrebbe più rivisto. Ora può capitare di cenare con un amico e vedere in tavola l'iPad o il cellulare sul cui schermo appare il figlio, che dagli Stati Uniti conversa con i presenti, chiede ricette, racconta le ultime novità sul lavoro, mostra la casa e il quartiere in cui vive.

Il mondo, anche lontano, entra nelle nostre case e siamo tutti vicini.

Conosciamo meglio di un tempo anche gli animali, sia quelli di casa, quasi amici fraterni, sia quelli selvatici, dei quali ci viene raccontata la vita.

Che tipo di relazione abbiamo invece con le piante che ci circondano?

Le piante costituiscono il paesaggio nel quale viviamo o che attraversiamo, ci forniscono l'ossigeno che respiriamo, ci permettono di vivere su questo pianeta; eppure con loro non siamo connessi, ci mancano gli strumenti per creare una relazione. Anzi, spesso le percepiamo come esseri inanimati, privi di sensibilità, più che individui oggetti, da tagliare, estirpare o piantare a seconda dei nostri desideri. E siamo delusi se crescono più lentamente di quanto ci saremmo aspettati.

Quello di guardare le piante da più vicino per capirle meglio è un obiettivo molto interessante per chi si trova a vivere nel terzo millennio. Andare su Marte esercita indubbiamente un grande fascino, ma forse indagare con più impegno e, perché no, più empatia il mondo verde che ci circonda potrebbe rivelarsi un'avventura ancora più eccitante di un viaggio nel cosmo.

L'uomo, che si è autoproclamato sapiens, ha posto se stesso in cima alla piramide evolutiva. Quasi tutta la piramide, però, è fatta di foglie, legno e radici, senza i quali il vertice non esisterebbe. I vegetali rappresentano il 98 per cento della biomassa, cioè dell'insieme di tutte le forme viventi sul nostro pianeta: hanno avuto un successo strepitoso. Da loro dipende la nostra vita e quella degli altri animali.

In quarant'anni di lavoro nei boschi italiani come tecnico forestale e durante le molte escursioni nelle più antiche foreste d'Europa ho osservato da vicino gli elementi più evoluti del mondo vegetale, gli alberi, e qui li racconto. Racconto che le foreste, costituite di alberi ma anche di tante altre componenti, sono organismi complessi e sempre in trasformazione, dai quali possiamo attingere elementi importanti per la nostra salute e il nostro equilibrio psichico.

Gli alberi entrano in relazione tra loro, con gli animali e con noi; hanno consapevolezza dell'ambiente in cui vivono; comunicano inviando e ricevendo messaggi; intessono relazioni di amicizia, sono solidali; fanno sesso; competono e combattono fra esemplari della stessa specie e di specie diverse; sono dotati di vista, tatto, olfatto e non solo. Si addormentano alla sera e si risvegliano alla mattina. Elaborano strategie di vita, di conquista, di resistenza.

Ci assomigliano più di quanto siamo portati a credere.

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[...]

Faticavo un autunno di qualche anno fa sulle pendici dell'Etna. Il paesaggio aveva il fascino che emanano i luoghi aspri dove le forze della natura esprimono la loro potenza distruttrice. Le colate di lava dell'anno prima, nere e contorte, trattenevano ai bordi tronchi di pino ormai secchi e con le radici rivolte verso il cielo.

C'era una sola macchia di colore dentro alla colata: il ciuffo di foglie con i toni dell'oro e del verde smunto di una piccola betulla. Sapevo che i terreni vulcanici sono fertili, che sulle ceneri deIl'Etna, di Vulcano, del Vesuvio si coltiva ogni tipo di pianta e ortaggio; e tuttavia quel ciuffo colorato di un albero che ho sempre considerato tenero e fragile, quel cespuglietto abbarbicato a blocchi neri di lava consolidata, mi ha stupito non poco.

Come fanno le giovani radici a trovare qualcosa di buono in quell'ammasso appena vomitato dal centro della Terra? Una volta finite le scorte alimentari in dotazione al seme, le radici devono cominciare ad assorbire qualcosa di utile e nutriente, le foglie devono cominciare a trasformare l'acqua e i sali in prodotti organici, il tutto in quell'inferno nero, che d'estate deve diventare un forno caldissimo e d'inverno una ghiacciaia innevata.

La betulla sembra non curarsene: attecchisce, cresce, si riproduce e poi dissemina, come se nulla fosse. Questa dell'Etna viene chiamata aetnensis, ha un sistema vascolare adatto a sopravvivere in condizioni di caldo e freddo estremi, che le consente di colonizzare ambienti generalmente preclusi ad altre specie arboree. Ma anche le altre betulle si comportano in maniera simile: si spingono in alto, verso il limite della vegetazione e all'estremo nord del nostro emisfero, fino al Circolo polare artico, capaci di occupare aree scoperte dopo gli incendi o il taglio.

Ho ricordato la betulla dell'Etna camminando lungo le pendici di un altro vulcano, il Teide, nell'isola di Tenerife, che con i suoi 3700 metri di altezza è la più alta montagna della Spagna. Il pino delle Canarie (Pinus canariensis) sembrava quasi una nota stonata in quel paesaggio marziano di terre rosse, grigie, bluastre e prive di vegetazione. Un biologo, indicandomi un bell'esemplare alto più di 10 metri, mi ha detto che aveva l'età dell'ultima colata lavica, trent'anni, era cioè riuscito ad attecchire quando ancora il materiale eruttato non si era del tutto raffreddato. «E se non lo disturbiamo», ha aggiunto, «diventerà molto più grande. Potrebbe assomigliare a quello gigantesco che nel XVI secolo fu utilizzato per costruire il tetto della cattedrale di La Laguna, l'antica capitale dell'isola. Con il legname di un solo albero realizzarono il tetto della chiesa, lungo 20 metri e largo 12!»

Questo pino ha un'altra peculiarità: dopo l'incendio, laddove tutti gli altri alberi muoiono, riesce a sopravvivere e dal tronco annerito ricaccia i rami formando una nuova chioma. Lo fa anche una araucaria australiana, l' Araucaria columnaris, che si lascia strappare tutti i rami dall'uragano e poi li rigenera, un po' come fa la lucertola con la sua coda.

Possiamo considerare il pino delle Canarie come un riuscitissimo progetto genetico di resistenza; l'evoluzione qui, grazie all'insularità, si è presa tutto il tempo necessario per elaborare in una conifera la giusta strategia di adattamento a situazioni pedologiche e climatiche molto complesse.

Per essere buoni pionieri, oltre ad avere un forte spirito di adattamento, bisogna anche essere capaci di produrre molti semi e produrli in fretta, cioè arrivare alla maturità sessuale in giovane età.

Le specie pioniere crescono velocemente e sono eliofile, cioè difficilmente le troveremo dentro a una foresta, a un bosco ad alta densità dove l'ombra delle grandi piante impedirebbe loro di assorbire l'enorme quantità di luce di cui hanno bisogno.

Il pioppo, che della betulla è parente stretto, una specie di cugino, è in grado di produrre semi già a dieci anni di vita e questa sua precocità viene ulteriormente esaltata da un'altra caratteristica, anzi due: una singola pianta può produrre sei milioni di semi ogni anno e questi volano in ogni dove dentro a pappi bianchi e leggeri, fatti apposta per il volo a vela. Tutta questa abbondanza è una strategia per arrivare con sicurezza al risultato: ne semino sei milioni per essere sicuro che almeno qualche decina ce la farà. Perché al pioppo, come a quasi tutte le altre piante, non piace stare da solo.

Gli alberi solitari in natura non esistono; quelli che vediamo nei parchi, nelle pianure coltivate, sono stati messi dall'uomo o sono i sopravvissuti di un gruppo numeroso. Così Cechov, alla vista di un pioppo solitario nella steppa, si domanda se, condannato a vivere una vita in assoluta solitudine tra sole, vento, nebbia, neve e pioggia, possa essere felice per il solo fatto di esistere. Me lo chiedo anch'io.

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                        Che il cieìo ululi, prometta burrasca o soffi, gli aceri
                        avranno sempre l'elicottero giusto per ogni occasione.

                                       David George Haskell, La foresta nascosta



Quando si elencano le differenze tra vegetali e animali, la prima che viene citata è quella relativa al movimento: le piante "stanno ferme", uno svantaggio notevole rispetto a chi si può muovere. Sbagliato.

La singola pianta, perlomeno quella terrestre, sembra star ferma nel posto dove è nata, dove ha messo le radici. Ma se guardiamo la faccenda da una prospettiva più ampia, se ci allontaniamo dal singolo individuo e osserviamo il gruppo, possiamo notare che gli alberi non solo si muovono in piccoli spostamenti, ma volano e percorrono distanze enormi.

Lo fanno con il polline, che si disperde nell'aria al minimo soffio. Se non basta il vento, vengono ingaggiati insetti e uccelli: trasporto in cambio di nettare.

Lo fanno con i semi. Ce ne sono di microscopici, come quelli del tabacco, non più grandi della capocchia di uno spillo, quindi facilmente trasportabili dal vento; ce ne sono di grossi e pesanti, come quelli del noce, del nocciolo, del pino cembro, che dovrebbero essere destinati a rimanere sotto la chioma dell'albero che li ha generati, attanagliati dalla legge di gravità. E invece te li ritrovi a centinaia di metri dalla pianta-madre. La nocciolaia nasconde mucchietti di semi di pino cembro interrandoli un po' qua, un po' là, e poi torna a mangiarli; capita che se li dimentichi o sia costretta a fuggire o muoia, e allora qualcuno di questi semi germina e dà origine a un nuovo pino lontano dalla madre. Lo stesso capita con i topi del bosco e gli scoiattoli, che accumulano riserve a base di semi sotto terra o negli anfratti delle radici e non sempre riescono a mangiarli tutti.

I sopravvissuti possono germogliare.

Molti altri pini, l'abete rosso, l'abete bianco, gli aceri, gli ontani, gli olmi, i frassini, i carpini volano con le ali. I semi sono forniti di una o due membrane che con una elegante planata li fanno allontanare dal tronco e soprattutto dalla chioma troppo ombreggiante del genitore. In certe giornate di vento vedi le samare degli aceri girare vorticosamente nell'aria come piccoli elicotteri.

I semi dell'abete rosso atterrano sulla neve. Freddo? Per me, che sto lì a contarli e a misurare la lunghezza del volo, da pochi metri a centinaia, fa un freddo cane, ma per il seme quella ibernazione è un passaggio necessario. Si può dire che il seme quando nasce è addormentato e il freddo funziona da sveglia; se congela d'inverno, germinerà più facilmente in primavera.

Alcuni semi vengono raccolti sull'albero, presi e inghiottiti da tordi, merli e cesene e, dopo il passaggio nello stomaco e nell'intestino, vengono espulsi con un kit di letame da usare nei primi giorni di vita: polpa del frutto in cambio di un passaggio e un po' di escremento. E allora li ritrovi nei posti più impensati: nell'orto, sulla terrazza di una casa abbandonata, nelle crepe di una corteccia di un vecchio albero di un'altra specie, tanto da originare strane convivenze.

Ho visto un sorbo di quattro anni crescere tra i rami di un pino nero, vecchio di due secoli. In autunno le foglie rosse del primo - e in piena estate, forse, le sue bacche - rallegrano l'oscurità di foglie e corteccia del secondo. Il sorbo più vicino è ad almeno un chilometro di distanza.

Ho visto un ciliegio crescere rigoglioso sulla sommità di un gelso. Ora fiorisce e fa frutti, e ormai è grande come la pianta che lo ospita e lo sorregge.

Anche i mammiferi contribuiscono non poco al movimento delle piante. Il più grande di loro, l'elefante, mangia i frutti del baobab, che sono piuttosto grossi, ovali o cilindrici, con un guscio legnoso che protegge la polpa e i semi. Il risultato di una lenta digestione viene depositato da qualche parte nella savana e, con un po' di fortuna, dà origine a un nuovo esemplare.

Per milioni di anni le piante hanno escogitato e messo in atto strategie per convincere gli animali a trasportare polline e semi: uncini che si attaccano alla pelliccia degli animali, ghiande succulente per i roditori, fiori ricchi di dolcissimo nettare per le api.

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                                 L'inchiostro verde crea giardini, selve, prati,
                                               fogliami dove cantano le lettere,
                                                          parole che son alberi,
                                              frasi che son verdi costellazioni.

                                       Octavio Paz, Scritto con inchiostro verde



Un bosco non è solo un insieme di alberi. Non è solo la somma degli alberi, degli arbusti e delle erbe. Non è nemmeno la somma della componente animale e di quella vegetale, e della roccia e del suolo su cui cresce.

Un bosco è un organismo complesso. È il risultato di azioni e reazioni, di alleanze e competizioni, di simbiosi e parassitismo; è un alternarsi di vita e morte, di crescite e crolli.

Un bosco è anche un luogo dello spirito, una dimensione dentro la quale aleggiano paure e speranze, fughe e abbracci, sogni e visioni ancestrali. Proviamo, dentro al bosco, un senso di religiosità cosmica. Descriverlo non è per niente facile.

Quelli che vediamo sono boschi coltivati, usati dall'uomo da secoli e secoli o creati mediante opere di rimboschimento: il bosco incontaminato quasi non esiste e verrà raccontato più avanti. Da quando è sceso dagli alberi, l' Homo sapiens ha cominciato a sfruttare il bosco per scaldarsi, ricavare utensili, costruire armi. E quasi da subito ha cominciato a sperimentare metodi selvicolturali.

Lo Sweet Track, un camminamento in legno nell'Inghilterra sudoccidentale, databile a seimila anni fa e rimasto ben conservato in una torbiera dei Somerset Levels, ci dà informazioni sull'ambiente e le usanze della comunità neolitica che lo realizzò. I suoi quasi settemila pioli rivelano inoltre che i costruttori del camminamento praticavano una forma di selvicoltura, di cui questo è l'esempio più antico attestato al mondo. Abbattevano selettivamente noccioli, frassini, querce e ontani, per favorire la rapida crescita di molti germogli dai ceppi restanti. Questa pratica, chiamata "ceduazione", produce fusti lunghi e dritti, simili a bastoni che possono essere tagliati dopo qualche anno. Sono stati rinvenuti molti pioli con anelli di crescita che indicano uno sviluppo molto rapido e la cui forma dritta presenta le caratteristiche che si evidenziano anche nei boschi trattati a ceduo dei giorni nostri.

Dopo seimila anni di selvicoltura cosa è rimasto del bosco?

Non si può che concordare con Marx ed Engels, che nell' Ideologia tedesca scrivevano: «La storia della natura e la storia degli uomini si condizionano reciprocamente». Così sono completamente scomparse molte foreste là dove il pastore ha cercato spasmodicamente praterie per alimentare le greggi, lasciando dietro di sé, per esempio nel Centro e Sud Italia, intere montagne calve.

Quasi tutti i boschi di pianura non esistono più. Le antiche foreste di rovere e farnia, che davano perenne ombra al viandante che si fosse dovuto recare da Roma a Parigi nel Medioevo, sono state sostituite da campi coltivati, strade, fabbriche e città. Un forestale spagnolo mi raccontava che in quell'epoca una scimmia della Rocca di Gibilterra (dove sopravvive ancora l'ultima colonia in Europa) poteva risalire fino ai Pirenei senza mai scendere dagli alberi. La dorsale appenninica e i versanti di Alpi e Prealpi sono ancora coperti da boschi. Anzi, a confrontare i dati di fine Ottocento con quelli attuali, si scopre che oggi i boschi nel nostro paese coprono una superficie doppia rispetto a quella di un secolo fa.

Dicevano í tecnici una trentina di anni orsono: «Siamo ricchi di boschi poveri». Ora non è più vero o almeno non del tutto; siamo più ricchi di boschi e molti di questi si sono irrobustiti, hanno aumentato la loro biomassa e sono diventati più complessi, cioè non sono più poveri. È il risultato di un lungo cammino e di una rivoluzione culturale, che proverò a descrivere per sommi capi e con uno sguardo rivolto solo agli ultimi due secoli.

Le scuole forestali più accreditate, quella tedesca e quella francese, che hanno fortemente influenzato il pensiero forestale in Italia, nell'Ottocento hanno elaborato modelli diversi a seconda della specie forestale prevalente e delle caratteristiche geografiche ed ecologiche dell'area in esame, ma con un denominatore comune: la selvicoltura, scrive Adolfo Di Bérenger nel 1865, si proponeva di puntare alla «coltura di alberi in complesso e in massa col precipuo scopo di ritrarne migliore e più copiosa quantità di legname».

La cura dei boschi viene considerata sorella minore dell'agricoltura e da questa mutua l'imperativo categorico della massimizzazione della produzione. Dunque il bosco viene considerato una macchina per produrre legno, cioè una semplice piantagione di alberi, che trova la sua più esasperata espressione nel taglio a raso di fasce di bosco con l'eliminazione di ogni forma vegetale sopra lo strato erbaceo e il successivo reimpianto di piantine coltivate in vivaio. Queste plantule vengono poste a dimora in filari equidistanti, con il risultato di formare popolamenti strutturalmente simili a campi di mais.

Inoltre nel rimboschimento si impiegano esclusivamente conifere e tra queste prevale l'abete rosso.

Sotto la spinta della selvicoltura intensiva e dell'impostazione geometrica della coltura, le foreste naturali vengono inesorabilmente sostituite da formazioni monospecifiche, che poco hanno a che vedere con la natura complessa del bosco "vero", ma che garantiscono una produzione costante, un prodotto omogeneo e costi di esercizio più bassi; infatti è meno costoso tagliare un'intera fetta di bosco e portare i tronchi sulla strada camionabile piuttosto che prelevare una pianta qua e una là e trascinare il singolo tronco attraverso un bosco ancora in piedi.

Per lungo tempo, questo è stato un modello di successo. Dal momento che questo tipo di formazioni forestali arrivano a maturità attorno ai cento anni, ancora oggi, nella Repubblica Ceca come in Austria, in Baviera come nel Baden-Württemberg, in Veneto come in Piemonte, si possono incontrare estensioni enormi, diffuse per migliaia di ettari, di boschi puri e coetanei di abete rosso o di pino nero. Nell'entrare in queste foreste si ha un'impressione di ordine e pulizia, sembra che ogni cosa sia al proprio posto. I tronchi si succedono l'uno all'altro "allineati e coperti", come direbbe un sergente alle sue reclute schierate nel piazzale di una caserma. Il bosco, nella sua geometrica composizione, ispira sentimenti di tranquillità, di sicurezza.

A guardar bene, però, il sottobosco è una specie di deserto, un tappeto di aghi indecomposti dove l'elevata acidità rende impossibile la vita delle specie vegetali grandi e piccole, vita ostacolata anche da una quasi totale mancanza di luce, dato che i raggi del sole non riescono a penetrare la totale copertura delle chiome.

Tutto questo produce conseguenze dirette sulla evoluzione del suolo, che qui rimane in un certo senso bloccata, senza dare origine a quegli humus che, nelle foreste miste, cioè formate da una certa varietà di specie, costituiscono la ricchezza dell'ecosistema, un tesoretto per le future generazioni vegetali. Inoltre queste strutture forestali sono caratterizzate da un'accentuata fragilità: la neve e il vento provocano cadute a catena, come i birilli in una pista di bowling, e i funghi parassiti responsabili del marciume radicale si diffondono attraverso le radici, senza gli ostacoli normalmente frapposti da altre specie in un bosco misto.

[...]

Da una cinquantina d'anni però è cresciuta in tutta Europa una nuova sensibilità nei confronti del bosco. Nasce e si sviluppa una nuova linea culturale, che pone alla base di ogni azione rivolta alla gestione forestale lo studio delle condizioni ecologiche dell'ambiente esaminato e la definizione di modelli di riferimento a cui tendere in armonia con l'ambiente, modelli che tengono conto non solo delle necessità produttive, ma anche delle altre funzioni della foresta, come quella protettiva e ricreativa.

Si pensa di intervenire sul bosco con l'idea di condurlo verso forme più complesse, verso strutture più stabili e naturali, rispetto alle forme "più produttive" dei modelli precedenti.

E per la prima volta i tecnici forestali rivolgono la loro attenzione alle esigenze della fauna selvatica. Si ha cura di mantenere all'interno dei boschi, solitamente molto fitti, le radure: una volta sarebbero state rimboschite, ora sono considerate fonti alimentari decisive per gli erbivori. Si rispettano le arene di canto del gallo cedrone, evitando di tagliare gli alberi-posatoio sui quali passa l'inverno. Per la prima volta si prescrive di lasciare in piedi qualche albero morto, ospite esclusivo di insetti lignicoli che altrimenti scomparirebbero, e di rispettare gli alberi scelti dal picchio per nidificare.

Non si pensi che questo nuovo approccio sia stato accolto con favore dagli addetti ai lavori. All'invito di lasciare in piedi piante secche o scavate dal picchio, vecchi forestali, boscaioli e guardie boschive guardavano (e guardano?) al tecnico forestale, uno di questi ero io, come a un eretico, un individuo un po' strampalato che non ha troppo a cuore il bell'aspetto del bosco ordinato.

Per anni, durante la sosta per la merenda, seduti su qualche vecchia ceppaia, abbiamo discusso animatamente, ognuno accalorato a sostenere le proprie ragioni. Piano piano, però, si sta affermando una nuova visione del bosco, più simile a quello che esisterebbe in natura se l'uomo non esistesse: un bosco con un corredo di specie più in armonia con la "stazione", come si usa chiamare l'insieme dei caratteri ecologici che caratterizzano ogni singola area. Ecco, questo modello viene gradualmente accettato.

Le facoltà di Scienze forestali delle università risultano decisive nello sviluppare e far crescere questo nuovo approccio. In Selvicoltura naturalistica ed economia il professor Lucio Susmel, che a Padova, durante le lezioni, ci esortava a prediligere il bosco disetaneo, cioè con alberi di tutte le età, misto e a rinnovazione naturale, già nel 1964 sosteneva che «la selvicoltura naturalistica ha il suo credo fondamentale nella necessità di assecondare l'opera della natura e nella pericolosità di contrariarne eccessivamente le leggi con cui governa la vita del bosco».

A Firenze Orazio Ciancio promuove un nuovo approccio, chiamato "selvicoltura sistemica", tramite il quale i forestali «operano in bosco rispettandone i meccanismi di autorganizzazione e aiutandolo a mantenere un punto alto di efficienza bioecologica».

Associazioni come Pro Silva emanano "dichiarazioni" in cui sottolineano i princìpi fondamentali per promuovere una selvicoltura prossima alla natura. Si punta alla difesa della biodiversità, in termini di diversità di specie, variabilità genetica, variazione spaziale e temporale delle strutture. Si mira al mantenimento della protezione e conservazione dei suoli, del clima e dell'idrologia che caratterizzano l'ecosistema forestale. Si protegge la fertilità naturale, lo stato di salute e la produttività dell'ecosistema forestale, con l'obiettivo di tutelare la naturale abilità che le foreste hanno di andare incontro alle richieste, fisiche e spirituali, dell'uomo. Si mira a garantire una produzione forestale sostenibile ed elevata, ma prendendo come riferimento strutture e dinamiche che caratterizzano le foreste naturali, cercando entro certi limiti di imitarne i processi. In altri termini, l'arte di coltivare il bosco si allontana dagli "schematismi geometrici" e cerca ispirazione nella natura.

La rivoluzione culturale, a cui sopra accennavo, è più o meno questa e si riverbera nelle scelte gestionali dei singoli piani di riassetto forestale in giro per le montagne italiane. La disomogeneità, la complessità e, se vogliamo, il disordine non sono più difetti, ma virtù delle formazioni forestali, echi di una naturalità che si vuole concretamente evocare. Quindi l'escursionista, il fungaiolo o il cacciatore che attraversando la foresta dovessero incontrare alberi morti, cimali di piante e grovigli di rami a terra, radure dove a causa di un crollo per eventi atmosferici il bosco ha lasciato spazi vuoti, non devono pensare che siano segnali di abbandono e trascuratezza. Solo gli alberi morti ospitano decine di specie di insetti e funghi, il legno a terra si decompone e lentamente arricchisce il suolo, le radure sono la mensa a cui si rivolgono molti erbivori e la pedana di molte parate nuziali di uccelli e mammiferi.

Questo modello di bosco, che più di una volta ho sentito definire "sporco" per distinguerlo da quello "pulito" costituito dalle formazioni geometriche sopra descritte, è in realtà un sistema ad alta complessità, dove i meccanismi relazionali tra le parti che lo compongono sono in piena azione. A noi il compito di coglierne il fascino segreto.

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[...]

Ho pensato a quanto sia difficile descrivere i rumori del bosco e mi sono tornate in mente alcune pagine de Il segreto del Bosco Vecchio di Dino Buzzati , dove uno dei protagonisti è il vento Matteo, del quale «tutti avevano un grande terrore. Quando Matteo si avvicinava, gli uccelli smettevano di cantare, le lepri, gli scoiattoli, le marmotte e i conigli selvatici si rintanavano, le vacche emettevano lunghi muggiti». A un certo punto Buzzati, per descrivere la voce della foresta di notte, mette in fila quindici rumori e poi termina con una chiusura formidabile:


1. Di tanto in tanto, vaghi boati fondi, che parevano uscire di sottoterra, quasi si preparasse un terremoto.

2. Stormire di foglie.

3. Cigolio di rami piegati dal vento.

4. Fruscio di foglie secche sul suolo.

5. Rumore di rami secchi, foglie e pigne che cadevano a terra.

6. Una voce remotissima di acque correnti.

7. Rumore di un uccello grande levantesi ogni tanto a volo con alto frastuono d'ali (forse un gallo cedrone).

8. Rumori di mammiferi (scoiattoli o faine o volpi o lepri) che attraversavano la foresta.

9. Ticchettio di insetti che urtavano o camminavano sui tronchi.

10. A lunghi intervalli, il ronzio di una grossa zanzara.

11. Il fruscio presumibilmente di una grossa biscia notturna.

12. Il grido di una civetta.

13. Il dolce canto dei grilli.

14. Urla e lamenti lontani di un animale sconosciuto forse assalito da gufi o lupi.

15. Squittii del tutto misteriosi.

Ma due o tre volte, quella notte, ci fu anche il vero silenzio, il solenne silenzio degli antichi boschi, non comparabile con nessuno altro al mondo e che pochissimi uomini hanno udito.

La foresta è immersa in un silenzio fatto di mille rumori.

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                                                                        Ascolta:
                                                     ome sono vicine le campane!
                                        Vedi: i pioppi, nel viale, si protendono
                                                      per abbracciarne il suono.

                                                             Antonia Pozzi, Pace



Se si sta dentro al bosco in posizione di ascolto, prima o poi si avverte, si intuisce la presenza di un flusso di energia che circola tra i rami, le foglie, le radici. Talvolta è un sussurro, altre volte sono strepiti e grida. È come se le piante parlassero tra loro.

Parlano?

Ecco che la nostra lingua, pur essendo ricchissima di parole (secondo la Treccani il patrimonio della lingua italiana dovrebbe essere compreso tra 215 000 e 270 000 unità lessicali), appare insufficiente. O, meglio, inadeguata. Magari sappiamo un po' di tedesco, di spagnolo, di inglese; ma il "vegetese", quello proprio ci manca.

Con i milioni di individui vegetali che ci circondano non sappiamo comunicare. E quando mandano dei segnali, non sappiamo coglierli. Va detto che nel corso della storia, nel procedere del pensiero filosofico e scientifico, non si intravedono grandi sforzi in questa direzione. Così, quando gli attuali pionieri di ricerche sulla capacità delle piante di avere una vita sociale, di comunicare e di attuare strategie, si arrischiano in affermazioni tendenti a definire l'intelligenza vegetale, creano non poco scompiglio sia tra gli scienziati sia tra la gente comune.

No, nemmeno io so il "vegetese", anche se qualche volta con il mio larice dell'Ortigara... Ma se anche lo sapessi, non potrei usarlo in questo testo, perché chi sta leggendo non lo capirebbe.

Dunque meglio attenerci ai fatti e allo stato attuale della ricerca, usando la lingua che possediamo.

Già due giganti della scienza, Carl Nilsson Linnaeus nel Settecento e Charles Darwin nell'Ottocento, si erano interessati alla sensibilità delle piante. Darwin e suo figlio Francis fecero centinaia di esperimenti sul loro movimento, concludendo, fra l'altro, che il centro di comando di tutte le attività trovava sede nelle radici, anzi negli apici radicali. Solo da qualche decennio, però, con gli strumenti messi a disposizione dalle ultime scoperte legate al genoma e alla organizzazione cellulare, alcuni scienziati hanno evidenziato comportamenti, reazioni e movimenti nelle piante tali da far parlare di sensitività diffusa o, addirittura, di intelligenza. Il professor Rosario Muleo preferisce parlare di capacità propriocettiva, grazie alla quale l'organismo ha la percezione di sé in rapporto al mondo esterno e organizza risposte adeguate.

A Firenze è stato istituito il Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale dell'università, diretto da Stefano Mancuso; a Tel Aviv Daniel Chamovitz dirige il Manna Center for Plant Biosciences; negli Stati Uniti, in Australia e in India gruppi di ricercatori sviluppano esperimenti che indagano sempre più a fondo la natura delle percezioni delle piante. Ma una definizione condivisa di "quel che una pianta sa" appare ancora piuttosto lontana, perché ancora non si concorda sull'uso del termine "intelligenza". Fra le tante sue definizioni, ne cito una: la capacità di un agente di affrontare e risolvere con successo situazioni e problemi nuovi o sconosciuti. Riguardo alla capacità di risolvere problemi le piante sono bravissime, delle vere campionesse. Un dato troneggia su tutti: le piante sono diffuse in ogni ambiente terrestre e costituiscono, secondo alcuni autori, il 97 per cento della biomassa sulla Terra (secondo altri, addirittura il 99). Vi pare poco? Quantomeno significa che hanno saputo risolvere dovunque ogni tipo di problema.

Certo, non sono fatte come gli animali: non hanno un cervello che coordini le informazioni, né un sistema nervoso che trasmetta segnali ai vari organi. Tuttavia, all'interno del singolo individuo circolano notizie sulla luce, sulla composizione del terreno, sull'attacco di parassiti e, sorprendentemente, anche tra individui diversi. Le diverse parti della pianta sono strettamente collegate tra loro e le informazioni vengono costantemente scambiate.

Non hanno occhi, ma vedono.

Non hanno naso, ma sentono gli odori.

Non hanno orecchie, ma ascoltano.

Non hanno dita ma toccano.

E ricordano, dormono, amano, dimostrano simpatie e antipatie.

Ci sono molti modi di essere "intelligenti", cioè di adattarsi, comunicare, avere relazioni, riprodursi, interpretare dati e risolvere problemi. Distribuita in tutte le parti della pianta, possiamo immaginare una forma di consapevolezza dell'ambiente che la circonda.




La vista


Le piante vedono?

Non per immagini: non sanno distinguere un uomo da un cervo che passa loro accanto, ma vedono la luce, sanno da che parte proviene, sanno quanto a lungo sono rimaste accese le lampade collocate in una stanza.

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Ancora un esempio. La parte più arida della California è occupata da una formazione vegetale che ricorda la nostra macchia mediterranea e che viene chiamata chaparral (dallo spagnolo chaparra, "quercia cespugliosa"). È un arbusteto sempreverde formato per la maggior parte da querce e rhamnus non superiori a due metri di altezza. In quest'area è caratteristica la mancanza di specie arboree, determinata non dall'intervento dell'uomo, come da noi, ma da fattori climatici che ne impediscono lo sviluppo, tra i quali i numerosi incendi. Anche in questo caso la combustione libera i terpeni, che qui svolgono una funzione particolare: vengono percepiti dai semi, per esempio dalle ghiande, e ne rimuovono la dormienza in modo da farli germinare e far ripartire la vegetazione del chaparral dopo l'incendio.

Per Chamovitz, «le piante in tutto il mondo naturale reagiscono ai ferormoni proprio come noi. Rilevano la sostanza chimica volatile nell'aria e (anche se prive di nervi) convertono questo segnale in una reazione fisiologica. Questo può essere certamente considerato olfatto».




L'udito


Ho visto più di una persona parlare con le piante. La signora Maria Luisa, rivolta al banano che coltivava in un vaso, quando finalmente ha srotolato una delle sue foglione ha esclamato: «Finalmente sei sveglio! Era ora, dormiglione», e rivolta a me, che la guardavo perplesso: «È un mese che lo rimprovero per la sua pigrizia».

Personalmente non trovo niente di disdicevole nel farlo, anzi, in questo rivolgersi alle piante trovo che ci sia qualcosa di poetico. Del resto lo facciamo costantemente con gli animali, i nostri cani, gatti, canarini. Confesso di aver parlato qualche volta con un merlo, che sto ingrassando con bocconcini prelibati sul balcone di casa. Parliamo anche con qualche oggetto meccanico. Chi non ha inveito almeno una volta contro la propria auto, quando il motore si è inaspettatamente fermato?

Gli animali sentono e ci sentono, non c'è alcun dubbio, mentre il motore dell'automobile probabilmente è meno sensibile ai nostri inviti a ripartire. E le piante?

È una lunga storia. Già Charles Darwin, che era anche un buon musicista, aveva provato a suonare il suo fagotto davanti a una Mimosa pudica coltivata in serra, sperando di coglierne una reazione, che non ci fu. Lo definì lui stesso l'esperimento di un folle. E dopo di lui molti altri hanno tentato di studiare l'effetto della musica sulle piante. Il caso più clamoroso è senza dubbio il libro The sound of music and plants di Dorothy Retallack, pubblicato negli anni settanta del secolo scorso, nel pieno fermento della nascita di quei movimenti che vanno sotto il nome di New Age. Vi si sostiene che le piante coltivate in un ambiente in cui si riproduce musica classica crescono meglio rispetto a quelle immerse nella musica rock. Insomma, da gerani e violette Bach sarebbe molto più gradito di Jimi Hendrix.

Insospettisce non poco il fatto che l'autrice ritenga che il rock'n'roll sia nocivo anche per gli uomini. Sta di fatto che il libro e le idee in esso sostenute hanno avuto molta fortuna e ottenuto una notevole popolarità. Tuttavia le verifiche di laboratorio che si sono succedute negli anni successivi, condotte secondo i crismi della scienza, non hanno valutato come autentica nessuna delle affermazioni della Retallack.

Nel 1973 uscì un altro libro fortunato, La vita segreta delle piante di Peter Tompkins e Christopher Bird, i quali sostenevano che le piante reagiscono positivamente alla musica indiana del sitar e a quella classica di Mozart e Bach. Anche in questo caso, però, i protocolli scientifici applicati per convalidare queste affermazioni non diedero esiti positivi.

Chamovitz spiega che in taluni casi il calore generato dagli impianti di riproduzione della musica, non la musica stessa, aveva favorito la germinazione dei semi e la crescita delle piante, traendo in inganno i ricercatori. In altri casi l'influenza negativa del rock era da attribuire alla elevata vibrazione delle onde sonore, tanto che l'autore conclude ironicamente: «Il problema non è che alle piante non piace la musica rock; forse è solo che a loro non piace essere sballottate».

Ma questo non frena la fantasia umana e la creatività commerciale.

In Giappone si sono inventati le "banane di Mozart". Proprio così. Per un mese, un'ora al mattino e un'ora al pomeriggio, i produttori hanno fatto "ascoltare" la musica di Mozart alle banane poste in un serbatoio di acciaio inox, e hanno concluso che i frutti «hanno un profumo più ricco e un gusto più delicato». Scommetto che costano anche di più.

In Cina si stanno sperimentando gli effetti benefici della musica classica alternata al canto del grillo sulle piante di ravanello, anguria e arachide.

A pochi. chilometri da Montalcino, un produttore di vino ha collocato degli amplificatori tra i filari della sua vigna, per diffondere musica classica, e anche qui la scelta è caduta su Mozart. Sostiene che dopo poco tempo la vite appariva sorprendentemente più rigogliosa e l'uva sembrava maturare prima. Ho interpellato Ilaria Pertot, biologa della Fondazione Edmund Mach a San Michele all'Adige, che sta sperimentando la possibilità di ridurre il quantitativo di pesticidi per trattare le vigne utilizzando alternative ecocompatibili: feromoni e onde sonore. Lo studio fa parte del progetto di ricerca europeo PURE, nato per trovare soluzioni pratiche al problema dell'uso massivo di antiparassitari in agricoltura.

Pertot parte dalla constatazione che gli insetti comunicano tra loro attraverso ferormoni e vibrazioni, che noi non possiamo sentire. L'impiego nel campo di onde sonore o, meglio, di vibrazioni può generare notevoli disturbi e interferenze nella comunicazione tra maschi e femmine di insetti parassiti delle piante coltivate, soprattutto nella fase di accoppiamento. Un mancato incontro tra questi insetti si traduce in un danno minore alla coltivazione. E senza l'impiego di antiparassitari. In altre parole, "ascoltare" musica fa bene alle piante, perché tiene lontani i loro nemici.

Agli animali l'udito serve per cacciare, per ritrovare i piccoli, per rafforzare lo spirito di branco, per avvertire un pericolo, per cogliere i richiami amorosi. È probabile che le piante siano sorde, semplicemente perché a loro non serve sentire. Ma si può anche aspettare pazientemente che la scienza smentisca quest'ultima affermazione.

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Altri sensi


Non solo le piante hanno sensi simili ai nostri, ma anche ritmi di vita che ricordano quelli degli animali. In moltissimi organismi le funzioni fisiologiche si svolgono sulla base di un ciclo di circa ventiquattro ore, chiamato "ritmo circadiano", descritto in molti animali e anche nell'uomo. Si tratta di una sorta di orologio interno che permette all'organismo di adattare le proprie funzioni biologiche ai cicli di luce e di buio, e all'alternarsi delle stagioni. È il motivo per il quale alla sera viene sonno e al mattino ci si sveglia. È anche il motivo del disagio, chiamato jet lag, provato da chi fa lunghi viaggi attraversando molti fusi orari in breve tempo.

Anche nelle piante si alternano in modo ciclico diversi stati funzionali, che dipendono in gran parte dall'alternarsi del giorno e della notte. Già il celebre naturalista Linnaeus aveva costruito orologi floreali nei giardini dell'Università di Uppsala, sfruttando il diverso ritmo di fioritura delle specie impiegate. Anche Darwin aveva parlato di sonno relativamente ai movimenti di steli e foglie durante la notte.

Ai nostri giorni due gruppi di ricercatori, uno in Austria e uno in Finlandia, hanno misurato i cambiamenti che avvengono di notte nelle piante su esemplari di betulla alti 5 metri, con strumenti di altissima precisione che impiegano raggi laser: ebbene, gli alberi si rilassano, le foglie e i rami si afflosciano leggermente, cambiando posizione, l'intero albero si abbassa di 10 centimetri.

Tali movimenti, sicuramente non percepibili dall'occhio umano, sono graduali e la posizione più bassa viene raggiunta un paio d'ore prima dell'alba. All'arrivo del sole gli alberi riprendono vigore tramite il richiamo di liquidi sui rami e l'apertura degli storni, cioè si svegliano.

Un altro esempio di sonno delle piante, questa volta non legato al ritmo circadiano ma indotto da condizioni ambientali difficili, ci viene dato dal Retama raetam, un legume del deserto che, in condizioni di temperature altissime e scarse precipitazioni, fa entrare in dormienza le parti superiori esposte alla luce, che proteggono quelle inferiori con la propria ombra. I movimenti delle piante sono strettamente connessi con il bilancio idrico delle singole cellule, determinato dalla disponibilità di luce attraverso la fotosintesi.

Dunque, in definitiva è il sole che detta il ritmo della vita sulla Terra.


Le piante usano la luce per regolare il proprio sviluppo, percepiscono la presenza di sostanze gassose nell'aria, grazie agli apici radicali sentono la presenza di ostacoli e decidono come superarli, mentre con i viticci percepiscono la presenza di supporti e vi si arrampicano. Sull'ipotesi che apprezzino la musica sospendiamo il giudizio. Ma non basta.

Le piante avvertono la forza di gravità e sanno dirigere le radici in basso e il fusto verso l'alto. Come fanno? Il nostro corpo è dotato di otoliti, strutture perlopiù formate da precipitati di calcio presenti nelle nostre orecchie, che stimolano i recettori dell'equilibrio. Studi recenti hanno individuato nelle radici, in particolare nelle cuffie, la presenza di gruppi di recettori di gravità, dove strutture sferiche denominate statoliti le orientano verso il basso. Un'altra struttura cellulare, chiamata endodermide, si avvolge attorno ai tessuti vascolari e orienta lo sviluppo dello stelo verso l'alto.

Gli organismi vegetali modulano la loro crescita in risposta a condizioni sempre differenti, per esempio con le radici percepiscono la presenza nel terreno di elementi chimici: se graditi li raggiungono, se nocivi li evitano.

Le piante, come gli animali, sono inoltre dotate di propriocezione. Con questo termine, si intende l'insieme delle funzioni cerebrali che partecipano al controllo e al riconoscimento della posizione e del movimento del corpo. Provate a chiudere gli occhi e a stendere la mano in una direzione casuale; ora identificatene mentalmente l'esatta posizione, dopodiché aprite gli occhi. Il cervello può identificare la posizione della vostra mano anche se nessuno dei cinque sensi "classici" può rilevarla. Una capacità di reazione analoga appartiene ai gatti, di cui è proverbiale la capacità innata di cadere sulle zampe, anche se la caduta inizia con il corpo girato dalla parte opposta.

Questo senso aiuta i vegetali a crescere in verticale indipendentemente dalla pendenza del terreno, a organizzare la disposizione dei rami e delle foglie nello spazio, a sviluppare efficacemente la ramificazione delle radici. Anche se non hanno il cervello.

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                        Le piante sembrano stupide, ma rubano l'energia al sole,
                        il carbonio all'aria, i sali alla Terra e vivono senza
                        scannarsi a vicenda come noi.

                                              Primo Levi, Il fabbro dí se stesso



Non troveremo nelle piante un cervello che coordini l'informazione per l'intero organismo. Tuttavia le diverse parti di una pianta sono strettamente collegate fra loro, e le informazioni riguardanti l'ambiente in cui vivono vengono scambiate costantemente fra radici e foglie, fiori e steli, per far sì che il vegetale si ponga nelle migliori condizioni di vita. Per dirla con Chamovitz, le piante «sono consapevoli del luogo in cui si trovano, della direzione nella quale crescono e delle modalità con le quali si muovono».

La differenza genetica fra le piante e gli animali non è così rilevante come si credeva un tempo e si continuano a scoprire parallelismi fra la biologia dei vegetali e quella animale. Dal punto di vista biologico, noi esseri umani condividiamo con gli altri animali e con le piante organizzazioni simili a livello sia di cellule sia di tessuti. In un certo senso, oltre a essere cugini dell'orango e del cane, siamo parenti anche dell'abete e del mais.

Gli scienziati ormai concordano nell'individuare, come origine della vita, la formazione di un "brodo primordiale" derivato dalla riunione di molecole complesse originate da reazioni chimiche tra i componenti della Terra. Questo agglomerato diede origine, nel corso di milioni di anni, a un organismo chiuso in se stesso e autonomo, la cellula.

[...]

Dunque con tutti gli esseri viventi condividiamo un ancestrale comune, una cellula primigenia, che si è evoluta e trasformata in milioni di forme, ma ha conservato, seppur declinandoli in modi diversi, alcuni caratteri comuni. Deriviamo tutti da un unico progenitore (forse un proto batterio contenente un filamento di DNA O RNA), sul quale poi ci siamo differenziati in autotrofi, cioè quelli con la clorofilla, ed eterotrofi.

A livello cellulare, ma soprattutto a livello biochimico, c'è un'identità quasi totale tra uomini, animali e piante. E la struttura del DNA, ovvero dei cromosomi, è assolutamente identica. Quindi non deve stupire il fatto che le piante siano dotate di sensi simili a quelli degli animali.

[...]

Non possiamo mettere sullo stesso piano però il comportamento umano e le modalità con le quali funzionano le piante. La nostra intelligenza ci permette di provare emozioni, di elaborare astrazioni, di mettere a punto strumenti e attrezzature che ci consentono di risolvere infiniti problemi. La loro "intelligenza" le dota della sapienza necessaria per vivere ed evolversi da milioni di anni in un pianeta sul quale sono fondamentali protagoniste.

La questione è tanto affascinante quanto ancora aperta. Afferma Michael Pollan:

Le piante si sono evolute ben prima di noi, hanno inventato nuove strategie di sopravvivenza e hanno perfezionato la loro struttura tanto a lungo, che affermare che noi siamo i più "progrediti" dipende in realtà da cosa si intende con questo termine e da quale "progresso" si considera. Noi attribuiamo valore a capacità quali la consapevolezza, la fabbricazione di utensili e il linguaggio, ma solo perché sono il risultato del nostro viaggio evolutivo sino a oggi. Le piante hanno coperto una distanza ancora maggiore, soltanto che hanno viaggiato in un'altra direzione.

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                        Se ti si offrirà allo sguardo un bosco fitto per alberi
                        antichi e superiori alla comune altezza, che impedisca
                        la vista del cielo con la densità dei rami che si
                        stendono ricoprendosi a vicenda, quella selva così alta
                        e la solitudine del luogo e la meraviglia prddotta
                        dall'ombra così fitta e continua anche in luogo aperto
                        ti indurranno a credere alla presenza di una divinità.

                              Lucio Anneo Seneca, Epistulae morales ad Lucilium



Nel bosco l'uomo ha trovato il suo primo rifugio, la fonte degli strumenti che gli servivano, il materiale per le prime barche, il luogo della caccia. Inoltre in tutte le culture e in tutti i continenti, tra la foresta e gli uomini nasce e si sviluppa dall'antichità più lontana un rapporto spirituale. Molti boschi diventano sacri, molti alberi rappresentano le divinità.

Nell' Epopea di Gilgameš, che risale a tremila anni prima di Cristo, si legge: «Contemplarono la montagna dei cedri, la dimora degli dèi e il trono di Istar». Nella Bibbia (Esodo 34, 13), Mosè comanda al suo popolo: «Distruggerete i loro altari, spezzerete le loro steli e taglierete i loro alberi sacri». Per la mitologia norrena del Nord Europa un grande frassino (Yggdrasill) era il simbolo dell'intero universo. Ai suoi piedi vivevano tutti gli esseri umani, nelle sue fronde si trovava il giardino degli dèi, tra le sue radici era ubicata la fonte della memoria. Nell'Iliade, Omero racconta che i fedeli si riunivano sempre all'aperto, intorno a un altare, nei boschi sacri. In uno di questi, sotto un bel platano, Ulisse e i suoi compagni sono testimoni di un'apparizione fantastica mandata da Zeus, presagio della futura vittoria degli Achei sui Troiani. È sotto un antico fico sacro (Ficus religiosa) che Siddharta Gautama, in seguito noto come Buddha, giunge alla illuminazione. Il lucus era l'antico bosco romano, dall'oscurità insondabile; il suo silenzio gli ha conferito, fin dai tempi antichi, un carattere sacro, di cui è testimone Plinio il Vecchio: «Non meno che le statue divine dove splendono oro e avorio, adoriamo i boschi sacri e, in questi boschi, il silenzio stesso». Nel mondo celtico, all'interno di «foreste solitarie di querce», i sacerdoti celebrano cerimonie necessarie per attirare sulla collettività le benedizioni degli dèi. E dagli Annali di Tacito (XXIX, XXX) sappiamo dell'esistenza di boschi sacri nella Bretagna insulare e di come il console Gaio Svetonio Paolino ne abbia fatto distruggere uno nell'isola di Mona (Anglesey) per cancellare «riti superstiziosi e selvaggi, poiché consideravano precetto divino che i loro altari fumassero di sangue dei prigionieri». Tra i berberi i santuari sono circondati da boschetti di ulivi, querce e lentisco, che contengono anche le tombe di tutti i morti di una stessa famiglia, i cui discendenti vivono poco lontano, sotto la protezione del bosco sacro.

Tutta la storia dell'umanità è costellata di miti e leggende che legano le vicende umane a quelle delle foreste, tanto da far affermare a Chateaubriand: «Le foreste sono state i primi templi della Divinità e gli uomini hanno desunto da esse la prima idea di architettura» ( Genio del Cristianesimo, 1802).

Cosa è rimasto oggi dei miti legati alle foreste? Si va ancora in cerca, camminando nel bosco, della spiritualità che per secoli lo ha abitato? Il bosco è ancora il luogo puro, incontaminato, ombroso e senza età, dove l'animo umano si sente pieno della presenza della divinità? Ognuno di noi avverte il senso del sacro in modo diverso, per cui proverò a rispondere con un breve racconto.

Poco tempo fa sono salito lungo un ripido sentiero che percorre il bosco del Reitertal, ad Asiago. Risparmiato dalle granate della Prima guerra mondiale, è costituito da un'antica foresta di abete bianco, faggio e abete rosso, con alberi ultracentenari di grandi dimensioni e robusto vigore. Non era periodo di caccia, né stagione di funghi; ho camminato in silenzio e incontrato le orme del cervo stampate sul fango umido, gli escrementi del capriolo tra le acetoselle e le fatte cilindriche del gallo cedrone sopra una ceppaia.

Oltre la cima, quando già stavo scendendo verso la radura della Rogabisa, ho incontrato Giovanni, un mio vecchio amico. Fa il boscaiolo da molti anni, non solo da queste parti, ma anche in altre regioni d'Italia. Per due anni ha lavorato nelle foreste canadesi. È forte come un toro, lo si vede a colpo d'occhio; guardandolo mi torna in mente che da giovane correva come un treno a vapore sugli sci da fondo. Quando ci incontriamo, è inevitabile, parliamo di alberi, di martellate e del mercato del legname. Lo ascolto con piacere, perché ha un modo di esprimersi ruvido, concreto e molto diretto, senza retorica e con una certa dose di ironia. Gli ho detto che per me quello era uno dei boschi più belli. È stato un po' in silenzio; gli è sfuggito un sorriso e poi, indicandomi un grande abete poco lontano, ha detto: «Vado là ogni tanto, mi siedo sotto quella tanna (è così che sull'Altopiano chiamiamo l'abete bianco) e annuso l'aria». Non ha aggiunto altro. Mi sono girato verso la grande pianta, rivolgendo lo sguardo alla cima, come omaggio alla sua maestà.

Un boscaiolo che torna in bosco senza motosega, si siede sotto il suo albero e appoggia la schiena al tronco. Così so che lo spirito del bosco ancora ci parla, se ci fermiamo ad ascoltarlo.

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