Autore Ethan Zuckerman
Titolo Rewire
SottotitoloCosmopoliti digitali nell'era della globalità
EdizioneEgea, Milano, 2014, Cultura e società , pag. 258, cop.fle., dim. 15,2x23x2 cm , Isbn 978-88-238-3422-4
OriginaleRewire. Digital Cosmopolitans in the Age of Connection
EdizioneNorton, New York, 2013
TraduttoreBernardo Parrella
LettoreCorrado Leonardo, 2015
Classe informatica: sociologia , informatica: reti , sociologia , media , psicologia












 

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Indice


    Introduzione. Segreti e misteri                      XI


    SCOLLEGATI

1.  Connessioni, infezioni, ispirazioni                   3
2.  Cosmopolitismo immaginario                           31
3.  Ouel che sappiamo dipende da chi conosciamo          69


    RICOLLEGATI

4.  Global Voices                                       113
5.  Traduzione, la parola chiave                        123
6.  L'importanza del contesto                           155
7.  Dalla città alla serendipità                        191


    APERTI AL MONDO

8.  Il futuro appartiene a chi è connesso               229


    Ringraziamenti                                      253


 

 

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Pagina 10

Che si tratti di fronteggiare epidemie come quella della SARS oppure di reagire a cambiamenti geopolitici quali la primavera araba, c'è bisogno di avere un quadro ampio e globale in modo da poter anticipare le minacce, afferrare le opportunità e attivare le necessarie connessioni. L'esistenza della telefonia mobile, della televisione via satellite e della stessa Rete garantiscono pieno accesso alle notizie da ogni parte del mondo come mai prima d'ora. Eppure il paradosso primario di quest'era dell'iperconnessione sta nel fatto che, pur potendo facilmente condividere informazioni e prospettive da diverse parti del globo, spesso finiamo per avere una visione più ristretta del mondo rispetto a quando eravamo meno connessi.

Quattro decenni fa, all'epoca della guerra in Vietnam, per riportare le notizie dal fronte bisognava trasportare pellicole e negativi in aereo, svilupparli e prepararli negli Stati Uniti prima di poterli trasmettere e pubblicare a vari giorni di distanza. Ai nostri giorni è possibile dare informazioni in diretta su ogni crisi in atto, che si tratti di un disastro naturale o di un improvviso golpe militare. Eppure, nonostante l'abbassamento di queste barriere, negli USA i notiziari televisivi informano su meno della metà delle vicende internazionali rispetto agli anni Settanta.

Con oltre due miliardi di persone che hanno accesso a Internet e sei miliardi alla telefonia mobile, oggi è semplicissimo conoscere le condizioni meteorologiche delle zone rurali in Mali oppure la situazione politica in Bihar. Il problema non è l'accesso alle informazioni, bensì la mancanza di attenzione. Una sfida resa ancora più ardua dalla tendenza innata di concentrarsi eccessivamente su quanto accade nelle vicinanze e riguarda direttamente noi, la nostra famiglia, i nostri amici.

Nel libro Six Degrees, indagine sui fenomeni interconnessi quali le epidemie, le mode passeggere e le crisi economiche, il matematico Duncan Watts sostiene che la nostra vita sia influenzata da eventi che avvengono in luoghi geograficamente lontani:

Solo perché qualcosa ci appare assai distante, e solo perché accade in una lingua che non comprendiamo, non vuol dire affatto che sia irrilevante. Fraintendere questo punto significa non saper cogliere la prima grande lezione dell'era dell'iperconnessione: pur dovendo affrontare i nostri problemi quotidiani, che ci piaccia o meno, dobbiamo farci carico anche dei problemi altrui.

Quest'impegno reciproco a farsi carico dei fardelli altrui ci porta a riconsiderare il modo tramite cui arriviamo a conoscere il resto del mondo, a pianificare le strategie e il processo decisionale, a stabilire le basi su cui poggiano l'imprenditoria, i governi e le nazioni, nonché il tipo di istruzione che offriamo ai giovani. Non si tratta certo di cambiamenti facili, ma tutto parte da una semplice premessa. Dobbiamo iniziare a considerarci non soltanto cittadini di un determinato paese, bensì anche cittadini del mondo. Un'idea tutt'altro che nuova, ovviamente: ne parlava già un filosofo greco vissuto nel quarto secolo a.C.

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Pagina 17

Ma non doveva essere tutto così facile?

Nel 1993, Howard Rheingold pubblicava cor The Virtual Community, riflessioni sulla sua esperienza nei primi forum di discussione online quali l'Internet Relay Chat (IRC), sistema di chat in formato testo creato nel 1988 ma ancora in auge nei circoli più tecnologici. Il libro sintetizzava la speranza di un futuro fatto di conversazioni online più civili, inclusive e globali di quelle sviluppatesi fino ad allora. Spiega Rheingold:

Migliaia di persone in Australia, Austria, Canada, Corea, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Israele, Italia, Olanda, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera sono soliti ritrovarsi allo stesso momento in un calderone interculturale di conversazioni scritte noto come IRC. Quali sono le culture che emergono una volta rimossi dal discorso umano tutti gli artefatti culturali eccetto la parola scritta?

Rheingold non è certo il primo a sperare nelle potenzialità di una tecnologia emergente per trasformare le relazioni tra estranei divisi dallo spazio geografico. Nel libro The Victorian Internet, Tom Standage, responsabile del settore tecnologia per l' Economist, offre un compendio di previsioni ottimistiche per il telegrafo, «l'autostrada del pensiero», come la definiva uno dei contemporanei di allora. In uno dei tanti esempi proposti da Standage, la messa in opera di un cavo sottomarino per collegare gli Stati Uniti e la Gran Bretagna spinse gli storici Charles Briggs e Augustus Maverick ad affermare: «È impossibile che vecchi pregiudizi e ostilità possano resistere di fronte a questi strumenti creati per favorire lo scambio del pensiero tra le nazioni del mondo».

Analoghi toni entusiastici accompagnarono l'arrivo dell'aeroplano. Commentando l'attraversamento della Manica da parte di Louis Blériot nel 1909, il quotidiano londinese Independent azzardò che i viaggi aerei avrebbero portato la pace perché l'aeroplano «crea vicinanza, e la vicinanza induce amore anziché odio». Una logica simile spinse Philander Knox, segretario di Stato USA sotto la presidenza di Howard Taft, a ipotizzare che l'aereo avrebbe «avvicinato tra loro le nazioni a tal punto da eliminare ogni guerra».

In un'intervista del 1912, il pioniere della radiofonia Guglielmo Marconi dichiarava: «L'avvento dell'era del senza fili renderà impossibili i conflitti bellici, perché sembreranno ridicoli». Sebbene la prima guerra mondiale avesse rivelato l'assurdità di tale affermazione, l'inventore Nikola Tesla dipingeva un futuro perfino più grandioso per la radio: «Una volta applicato in maniera diffusa, il wireless trasformerà l'intero pianeta in un enorme cervello... Riusciremo a comunicare istantaneamente gli uni con gli altri, superando ogni distanza».

Come si addice a un uomo del suo ingegno, certi elementi della visione espressa nel 1926 da Tesla si rivelarono sorprendentemente accurati:

Grazie alla televisione e alla telefonia potremo parlarci e vederci come se fossimo uno di fronte all'altro, pur se separati da migliaia di chilometri; e gli strumenti che ci consentiranno di farlo saranno incredibilmente semplici rispetto al telefono odierno. Se ne potrà portare uno nel taschino del gilè.

Queste e analoghe osservazioni appariranno familiari a chiunque abbia seguito la nascita di Internet. Come puntualizza lo storico e studioso di tecnologia Langdon Winner:

L'avvento di ogni nuova tecnologia che riveste notevole importanza e potenzialità pratiche porta sempre con sé un'ondata di entusiasmo visionario che dà luogo all'emergere di un quadro sociale utopistico.

Le tecnologie che accorciano le distanze tra gli individui — come l'aereo, il telegrafo, la radio — si rivelano particolarmente potenti da farci immaginare un mondo più piccolo e interconnesso. Vista attraverso queste lenti, l'architettura su cui poggia Internet — né più né meno che una rete telematica che collega altre reti — e l'enorme mole di scritti sul tema prodotti nello scorso decennio hanno garantito che la Rete venisse posta al centro delle visioni di un mondo migliore grazie a queste connessioni. Visioni talmente copiose da dare origine a un neologismo: cyber-utopismo.

Il conseguente termine cyber-utopista tende a comparire soltanto nel contesto di posizioni critiche, per indicare qualcuno con una concezione esageratamente irreale e semplicistica dell'effettiva portata della tecnologia, associata alla scarsa comprensione delle forze che governano la società. Vale la pena notare le connotazioni meno pesanti implicate dal termine opposto — a indicare l'idea che le tecnologie di Internet indeboliscono il tessuto sociale, rendono triviale il discorso e incrementano la conflittualità: cyber-scetticismo. Al di là dell'utilità o meno di simili definizioni all'interno del dibattitto, consideriamo brevemente l'attrazione e i meriti della cyber-utopia.

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Pagina 36

In questo capitolo affronteremo prima la globalizzazione degli atomi per capire il modo in cui la visibilità dei bit mobili in ambito internazionale finisca per accecarci rispetto alle dinamiche locali di buona parte degli oggetti che ci circondano. Passeremo poi a considerare i flussi migratori, dove spesso basta anche una mobilità ridotta per provocare feroci dibattiti politici. La comune tendenza a sovrastimare il movimento degli atomi e degli individui andrebbe messa da parte nelle riflessioni relative al mondo dell'informazione, analizzando l'idea per cui i bit possono rivelarsi di fatto meno mobili degli atomi.

Riguardo alle infrastrutture che favoriscono la globalizzazione (porti e depositi per la spedizione dei container, aeroporti e snodi nei viaggi aerei, router e cavi di Internet), è facile immaginare un livello di connessione superiore a quello effettivo sul campo. Comprendere il modo in cui gli atomi, le persone e i bit tendono a fluire - oppure a bloccarsi - nel mondo richiede minore speculazione e maggior capacità di osservazione, ancor più rispetto ai percorsi tramite cui i bit si spostano all'interno del computer e della mente umana.

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Pagina 40

Le complessità dei flussi migratori

In base alla logica economica dovremmo aspettarci un mondo dove gli atomi sono soggetti a un'estrema mobilità. Sono invece le preferenze culturali e le regolamentazioni statali a modellare un mondo di atomi dalle sembianze più locali che globali, pur se una simile realtà inizialmente risulta difficile da vedere. Mentre gli artefatti della globalizzazione possono accecarci rispetto alle realtà più complesse presenti sul campo, tendiamo a riservare le emozioni più intense alle discussioni sugli spostamenti degli esseri umani. Se ci riesce difficile considerare la globalizzazione incompleta degli atomi, ancora più arduo è riuscire a comprendere le realtà della mobilità umana. Quel che ne emerge non è una tendenza univoca bensì uno schema complesso che si nasconde dietro a un resoconto stridente e popolare in cui l'immigrazione appare come una crisi squisitamente moderna. Quando è solo questo resoconto semplicistico a dominare, finiamo per ignorare la lampante verità che le nazioni sviluppate necessitano di un flusso migratorio più ampio anziché più ristretto.

In alcuni paesi europei va diffondendosi l'ostilità contro i migranti. Partiti anti-immigrazione, come il Fronte Nazionale francese e l'Alba Dorata greca, emergono come attori politici influenti e membri delle coalizioni governative. In altre nazioni vengono riviste le politiche liberali in tema d'immigrazione a fronte della nuova ondata di musulmani che, questo il timore dei cittadini europei, non vorranno integrarsi completamente nella società a differenza dei migranti precedenti. Negli Stati Uniti, la prolungata recessione ha spinto alcuni a speculare che l'assenza di posti di lavoro per i locali sia dovuta all'immigrazione illegale. Le campagne per vietare il burqa in pubblico in Francia e per sancire l'inglese come lingua ufficiale negli USA sembrano suggerire che la gente non si sente a proprio agio sia con immagini e interventi che offrono testimonianze del flusso migratorio sia vivendo a contatto con gli stessi migranti.

Il sostegno a queste e analoghe iniziative, abbinato alla popolarità di politici dichiaratamente anti-immigrazione, sembrerebbe implicare un livello di migranti senza precedenti. In realtà, il flusso è decisamente ridotto rispetto a un secolo fa. Con l'approssimarsi della Grande Guerra, circa il 10 per cento della popolazione mondiale viveva in paesi diversi da quelli di origine. Le migrazioni di massa partite da Italia, Irlanda, Norvegia e Germania avevano trasformato Stati Uniti, Canada e Argentina, accogliendo 27 milioni di europei nei tre decenni precedenti la guerra del '15-18. Prima di queste ondate volontarie, la servitù a contratto spinse i lavoratori cinesi e indiani verso l'Africa e i Caraibi, e quelli africani verso il continente americano. Oggi molti di noi considerano elevato il flusso migratorio soltanto perché la mobilità globale è andata rallentando fino quasi a bloccarsi dopo la seconda guerra mondiale, e rimane tuttora ben al di sotto delle massime punte storiche.

Un contadino tedesco che emigrava in Minnesota nel 1910 si trovava ad affrontare un viaggio lungo e pericoloso, un futuro incerto e rischioso, l'ostilità e il risentimento dei nuovi vicini e la rottura quasi totale dei legami sociali. Grazie alle trasformazioni tecnologiche degli ultimi decenni, il migrante odierno ha davanti a sé prospettive ben diverse. Il trasporto aereo significa un viaggio (legale) sostanzialmente privo di rischi e immediato rispetto alle traversate transoceaniche di una volta. Un nigeriano immigrato a Houston può chiamare a casa per pochi centesimi al minuto, oppure via Skype virtualmente a costo zero, oltre a leggere online i giornali di Lagos e scaricare le ultime pellicole di Nollywood. E costa relativamente poco tornare a casa in visita o emigrare nella direzione opposta. Secondo alcuni teorici sociali, le preoccupazioni riguardano la possibilità di migrare fisicamente ma non culturalmente, portando a mo' di esempio le comunità pakistane e turche dell'Europa settentrionale dove l'urdu e il turco restano le lingue predominanti e i cui residenti seguono più la televisione via satellite che i media locali. È questo fenomeno, la mobilità fisica affiancata dalla stasi culturale, a istigare quei politici che sostengono il divieto di indossare il burqa o l'obbligatorietà dell'istruzione scolastica in inglese.

Pur essendo possibile rimanere in stretto contatto con il proprio luogo d'origine come mai prima d'ora, questi sviluppi tecnologici hanno inciso assai poco sul livello dei flussi internazionali. Secondo l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, a livello globale i migranti si aggirano sui 214 milioni, ovvero il 3,1 per cento della popolazione mondiale al 2010. Percentuale in leggera crescita rispetto al minimo storico del dopoguerra, visto che fino al 2000 si era fermi al 2,9 per cento, mentre molta più gente vorrebbe emigrare di quanti poi ci riescono per via delle restrizioni normative.

L'emergere dell'outsourcing è una delle conseguenze di un mondo dove è il lavoro a essere mobile anziché gli individui. Tanti fra gli impiegati indiani che da Bangalore rispondono alle telefonate di clienti di ogni parte del mondo sarebbero propensi a vivere in Europa oppure negli Stati Uniti. Possono lavorare a distanza perché le forze che ne limitano gli spostamenti non si applicano ai bit che viaggiano attraverso i computer e le linee telefoniche. Se venissero ridotte o eliminate le attuali restrizioni normative, è probabile che milioni di persone si riverserebbero in quei luoghi dove ritengono che esistano migliori condizioni economiche e politiche, approfittando di tecnologie globalizzanti come i viaggi aerei e le telecomunicazioni a basso costo. Ma questi possibili spostamenti sono tenuti sotto controllo da leggi finalizzate a prevenire il collasso di culture, economie e sistemi di previdenza sociale.

Ne consegue un mondo caratterizzato da flussi migratori profondamente sbilanciati. In alcune nazioni che dipendono in maniera notevole dai «lavoratori ospiti», questi vi risiedono per lunghi periodi senza però avere gli stessi diritti dei cittadini e finiscono per costituire la maggioranza della popolazione: l'87 per cento in Qatar, il 70 per cento negli Emirati Arabi Uniti, il 69 per cento in Kuwait. In altri paesi l'immigrazione è minima o nulla per l'assenza di opportunità economiche (Indonesia, 0,1%; Romania, 0,6%) oppure a causa di barriere legali o culturali (Giappone, 1,7%; Sudafrica, 3,7%). Ovviamente il flusso migratorio verso il Nord America e l'Europa occidentale è superiore alla media globale, perché i migranti tendono ad abbandonare i paesi più poveri in favore di quelli più ricchi. Nell'Unione Europea, circa il 9,39 per cento dei residenti vive in nazioni diverse dal proprio luogo d'origine, come anche il 13,9 della popolazione statunitense e il 21,3 per cento dei canadesi.

Non esiste una soglia precisa oltre la quale le migrazioni finiscono per far scoppiare tensioni e dibattiti sociali. In Sudafrica sono emerse violenze anti-immigrati pur se oltre il 96 per cento della popolazione è nativa, mentre il Canada promuove la rilevanza dell'identità multiculturale visto che oggi gli immigrati superano il 21 per cento del totale. Più che le cifre o le percentuali assolute, acquista maggiore importanza la percezione del modo in cui i migranti stanno trasformando la società.

In Europa, la retorica sui temi dell'immigrazione include l'idea della «bomba a orologeria» incarnata dai migranti musulmani, spesso accompagnata da proiezioni secondo cui nel 2050 questi ultimi rappresenteranno il 20 per cento della popolazione totale dell'Unione. Il dato è una proiezione rispetto agli attuali livelli di natalità e flussi migratori. La supposizione per cui un europeo su cinque sarà musulmano è lo scenario «semplicistico» postulato in un articolo controverso firmato da un accademico ungherese semisconosciuto; modelli più sofisticati (dove si prevede la riduzione della natalità nelle famiglie musulmane in Europa di pari passo all'aumento del livello di istruzione, un fenomeno demografico ben documentato) rivelano invece un incremento decisamente minore.

È inoltre il caso di sottolineare la forte penetrazione globale dell'islamismo nel corso degli ultimi 50 anni. Secondo le proiezioni del Forum sulla religione e la vita pubblica del Pew Research Center, entro il 2030 il 26,4 per cento della popolazione mondiale sarà di fede musulmana, suggerendo che anche se dovesse rivelarsi accurata la predizione della «bomba a orologeria» in Europa, quest'ultima ospiterebbe comunque una percentuale di musulmani minore rispetto al resto del mondo — appena l'8 per cento dell'intera popolazione europea. Invece la percentuale di musulmani residenti negli USA supererà quella di ogni paese europeo con l'eccezione di Russia e Francia.

Il flusso migratorio è cresciuto notevolmente rispetto a 40 anni addietro, avendo superato l'isolamento del dopoguerra e avvicinandosi a livelli globali simili a quelli del 1900 — fenomeno che indubbiamente crea problemi a governi e società. Occorre però ribadire che certe illusioni sulla mobilità degli individui possono accecarci riguardo alle sfide concrete che si trovano ad affrontare le nazioni interessate. Uno dei motivi per cui i paesi europei sono riluttanti a imporre restrizioni severe sull'immigrazione è l'invecchiamento della popolazione nazionale. Senza l'iniezione economica fornita dai contribuenti più giovani, il sistema previdenziale potrebbe non farcela a sostenere la crescente fetta di pensionati anziani. Concentrare l'attenzione sull'inesistente invasione dei musulmani in Europa, oppure sull'illusione di un mondo piatto dove la manodopera sarebbe altamente mobile, rende assai difficile considerare e affrontare problemi come il mantenimento di una proporzione vivibile tra lavoratori e pensionati. In un mondo piatto, gli indiani che lavorano nei call center potrebbero emigrare in Giappone per prendersi cura degli anziani. Nel nostro pianeta semiglobalizzato, vengono invece tenuti a freno grazie a restrizioni normative e barriere culturali.

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Pagina 75

L'unico fattore che poteva spiegare la disparità di attenzione mediatica che avevo riscontrato nel periodo 2003-07 — in alcuni casi fino al 60 per cento — era il prodotto interno lordo. Il Giappone è la terza economia al mondo, mentre la Nigeria si trova al quarantunesimo posto, dietro paesi ben più piccoli come Finlandia e Danimarca. Pur sollevato dal fatto che esista una spiegazione più quantificabile del razzismo o dell'afrofobia, è sconcertante dover concludere che i media statunitensi hanno un'idolatria economica così pronunciata e un interesse così scarso rispetto alle nazioni povere.

L'altro fattore determinante per l'attenzione delle testate USA è il coinvolgimento del suo apparato militare. Negli anni della mia ricerca, Iraq e Afghanistan, entrambi paesi poveri, ottengono ampio spazio. E nazioni raramente citate salgono alla ribalta con il coinvolgimento delle truppe americane. Quando nell'agosto 2003 un gruppo di marine atterrò a Monrovia, in Liberia, per aiutare a porre fine alla seconda guerra civile locale, quel paese fino a quel momento invisibile sulle mie mappe per circa due settimane balzò al primo posto nell'attenzione mediatica, per poi sparire nuovamente.

Il modello «PIL + truppe USA» non è però universale. Per esempio, il profilo della BBC trova migliore spiegazione nel connubio tra PIL e status di ex colonia. Paesi quali Kenya, Zimbabwe, Sudafrica e India conquistano maggiore attenzione sul network britannico che sulle testate americane, mentre sono assai meno seguite le regioni in cui il passato coloniale è pressoché inesistente, come il Sud America. Analogamente a quanto riportava la ricerca di William Adams, emerge un forte interesse verso i paesi limitrofi, con un discreto spazio anche per quelli rivali: il Times of India pubblica molte notizie su Pakistan e Cina, rispettivamente il principale avversario militare e il primo competitor economico dell'India. Non è certo che queste due ultime posizioni siano più corrette della tendenza a favorire la ricchezza nazionale, ma le predisposizioni e gli assunti sottostanti sono sicuramente chiarissimi.

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Agenda setting

Perché mai è importante che i media si occupino più del Giappone che della Nigeria o degli interventi militari americani anziché dei passi avanti compiuti dalle democrazie africane? Nel 1963, lo studioso di scienze politiche Bernard Cohen azzardò una risposta: «Non sempre la stampa riesce a dire alla gente cosa pensare, ma è straodinariamente brava nello spiegare come pensarlo». Gli studiosi di giornalismo Maxwell McCombs e Donald Shaw hanno definito agenda setting questo concetto di Cohen, per indicare la possibile influenza dei mass media sul pubblico in base alla scelta e all'amplificazione di eventi considerati «notiziabili». Per verificare sul campo quest'ipotesi, decisero di seguire da vicino l'andamento delle elezioni presidenziali USA del 1968, analizzando i programmi televisivi e i giornali più seguiti. Rilevarono un forte legame tra i temi ritenuti di primaria importanza dagli stessi elettori e quelli che ricevevano maggior attenzione dai media locali e nazionali. È anche possibile che i giornali reagiscano agli interessi dei lettori, ma è uno scenario che non può essere veramente preso in considerazione visto che è praticamente impossibile determinare gli articoli più letti rispetto a quelli ignorati. Sembra quindi plausibile che nel 1968 siano state le testate d'informazione a promuovere la centralità di certe questioni rispetto ad altre, spingendo così gli elettori a ritenerle importanti.

Come per altri concetti di una certa rilevanza, l' agenda setting appare ovvia con il senno di poi. L'informazione comunica quello che è importante. Vista la mole praticamente infinita di eventi giornalieri, potremmo ritrovarci sommersi da un torrente di storie nient'affatto degne di nota: le riunioni del consiglio comunale, tutti i dibattiti parlamentari, qualsiasi piccolo reato comune. C'è bisogno di qualcuno o di qualcosa che ci dica cosa merita di diventare notizia, e chiunque si assume questa scelta ha un potere enorme. È arduo indignarsi su decisioni di una giunta regionale di cui non sappiamo niente, o lanciare una campagna per porre fine a un'ingiustizia di cui non abbiamo mai sentito parlare. Chiunque sceglie le notizie ha il potere di influenzare il nostro livello cognitivo, di modellare le cose a cui pensare e quelle da ignorare.

In un libro che esamina la copertura dei media statunitensi sulla guerra in Vietnam, Daniel Hallin illustra con un diagramma apparentemente semplice le implicazioni dell' agenda setting. Il grafico, noto anche come le «sfere di Hallin», presenta un cerchio all'interno di un altro, in pratica una ciambella il cui buco è la «sfera del consenso», definita dall'autore come «il territorio "dell'amore materno e della torta alle mele", dove vi sono gli argomenti sociali che i giornalisti o gran parte della società non considera controversi». L'area di mezzo, più ampia, è la «sfera del legittimo dibattito», in cui convergono i temi su cui è risaputo che «gli esseri pensanti» avranno punti di vista differenti.

Negli Stati Uniti, rientra nella sfera del consenso il concetto per cui democrazia rappresentativa e capitalismo sono i principi organizzativi corretti per la società moderna. È raro imbattersi in articoli che invitino gli USA a intraprendere una redistribuzione della ricchezza di stampo socialista oppure a diventare parte del califfato islamico globale. La sfera del legittimo dibattito comprende temi quali il diritto all'aborto, le limitazioni al possesso di armi o le aliquote fiscali. Discostandosi dalle questioni che raccolgono il consenso generale, oppure un consenso con dibattito, ci si trova nella «sfera della devianza», la parte esterna all'intera ciambella, dove finiscono i punti di vista che non vengono neppure presi in considerazione dal dialogo mediatico. Come osserva Hallin, la «dottrina della parità di trattamento», norma della Federal Communications Commission (FCC) in vigore tra il 1949 e 1987 che imponeva alle emittenti radiotelevisive di dedicare un'ampia fetta del palinsesto a questioni di pubblico interesse e di assicurare la par condicio, stabiliva esplicitamente il divieto di concedere spazi ai comunisti.

Alla stampa, prosegue lo studioso, spetta il ruolo di «esporre, condannare oppure escludere dall'agenda pubblica» ogni posizione deviante; riportando determinati punti di vista e non altri, la stampa «definisce e difende i limiti della condotta politica accettabile». Nonostante l'impatto umano sul clima sia oggi entrato nella sfera del consenso all'interno della comunità scientifica, fintanto che i media americani continueranno a proporre posizioni contrastanti, la questione rimarrà nella sfera del legittimo dibattito. Pubblicando le accuse contro il presidente Obama sull'erroneità del suo certificato di nascita è stata la stampa a spostare un'idea dalla sfera della devianza a quella della controversia legittima, trasformando così una teoria complottistica in un grande dibattito politico.

Non c'è bisogno che i punti di vista divengano particolarmente offensivi o sgradevoli per rientrare nella sfera della devianza; basta che siano sufficientemente estranei al mainstream da non essere presi in considerazione dalle «persone serie». Il fumettista politico Ted Rall propone un semplice test per identificare la possibile devianza:

Quando le «persone serie» dicono qualcosa, chi è in disaccordo diventa banale e insignificante per definizione, quindi immeritevole di considerazione. «Nessuno può pensarlo seriamente» diventa una battuta finanche orwelliana: chiunque si azzarda a esprimere quell'opinione finisce letteralmente per scomparire, è una non-persona.

L'espressione «persone serie» rivela altresì il tentativo di proteggere la concezione giornalistica della sfera del legittimo dibattito rispetto a quella della devianza.

Secondo Jay Rosen, docente di giornalismo presso la New York University, la concezione delle sfere proposta da Hallin contribuisce a spiegare l'insoddisfazione del pubblico per il giornalismo odierno: «Qualsiasi posizione al di fuori della sfera del consenso viene percepita dalla stampa come ferocemente preconcetta». Se crediamo che la separazione tra Stato e Chiesa sia un'idea inopportuna oppure che il governo debba essere il fornitore primario dei servizi di assistenza sanitaria, ci troveremo nettamente esclusi dalla sfera del legittimo dibattito statunitense — al punto che le nostre opinioni non verranno mai prese in seria considerazione dalle testate mainstream, portandoci così all'alienazione e all'ostilità e spingendoci a cercare fonti d'informazione alternative.

La sfera della devianza è anche quella dell'oblio. Negli Stati Uniti pensare che la Nigeria sia «notiziabile» alla stessa stregua del Giappone non rientra nella sfera del legittimo dibattito, come del resto l'idea che lo Stato debba farsi carico dell'assistenza sanitaria. Rosen sottolinea come in realtà si tratti di sfere politiche, non nel senso di destra/sinistra, repubblicani/democratici, bensì rispetto alla decisione su cosa merita o meno l'attenzione e il tempo dell'opinione pubblica. L'onere di convincere le «persone serie» a occuparsi di un certo argomento — che si tratti degli interventi contro la carestia nel Corno d'Africa oppure dei dubbi sulla cittadinanza americana del presidente Obama — non è altro che lotta politica per tirar fuori dall'oblio un certo tema e trasformarlo in un valido tema di discussione.

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Talebani, McDonald's e capra al curry

Cosa succede quando ci avviciniamo a un'altra cultura per la prima volta? Troviamo forse qualche figura ponte che ci aiuti a navigarne i percorsi? Quanto spesso accogliamo da xenofili gli ambiti sconosciuti, oppure tendiamo a rinchiuderci e a diventare «remissivi», come notava Robert Putnam?

È una questione antica come l' Odissea, dove gli incontri di Ulisse con gli abitanti di terre lontane rammentano ai lettori che il suo nome, in greco, vuol dire «l'irritato, colui che causa dolore o rabbia negli altri». Mentre da un parte abbiamo i cortesi feaci che trasportano Ulisse a Itaca, dall'altra abbiamo i ciclopi che mangiano la gente e distruggono le navi. Quando ci avviciniamo a culture nuove, dovremmo attenderci collaborazione o conflitto?

Pippa Norris e Ronald Inglehart affrontano quest'annosa questione tramite le lenti dei media. Nel loro libro Cosmopolitan Communications studiano cosa accade quando ci imbattiamo in culture altre tramite la televisione, i film, Internet e altri media. La loro disamina si apre con l'arrivo della televisione nella piccola e isolata nazione buddhista del Bhutan nel 1999 — prima di allora illegale, pur se qualcuno aveva degli apparecchi tv e noleggiava videocassette in hindi da guardare a casa. Nel giugno 1999, il re Jigme Singye Wangchuck consentì al popolo di guardare la televisione e collegarsi a Internet: due imprenditori locali si affrettarono a lanciare la Sigma Cable, che nel maggio 2002 portò 45 canali indiani e americani nelle case di circa 4.000 famiglie.

Quasi immediatamente dopo questo passo, i giornalisti locali iniziarono a trasmettere resoconti su un'apparente ondata di criminalità, tra cui reati connessi a droga, truffe e omicidi. Gli studenti più giovani presero a guardare gli incontri di lotta e a praticarla poi nei cortili scolastici. La situazione sfociò in un panico diffuso, con cittadini e giornalisti ad argomentare che la moralità della televisione avrebbe spazzato via i valori e le tradizioni bhutanesi.

Le autorità avevano sperato che il canale televisivo pubblico, responsabile della produzione di contenuti educativi sulla cultura locale, sarebbe riuscito a contrastare l'influenza dei programmi stranieri. Ma il palinsesto pubblico fu lento a diventare operativo, mentre le soap opera in hindi e i telegiornali britannici diffusi tramite il via cavo si diffusero rapidamente. Nel 2006, il governo creò un nuovo dicastero per regolamentare i media, con l'immediata chiusura dei canali di sport e moda, oltre che di MTV, sostenendo che «non contribuivano ad alleviare la sofferenza». Temendo che la televisione potesse indurre i giovani a starsene in casa per guardare le soap opera, il ministro per l'Istruzione e la Salute intraprese un viaggio di 15 giorni e 560 kilometri in tutto il paese per mettere in guardia i cittadini contro i pericoli dell'indolenza: «Prima non ci lasciavamo impensierire da una camminata di tre giorni per andare in visita dai suoceri. Oggi non riusciamo neppure a raggiungere la fine della strada principale Norzin Lam».

L'apparente trasformazione di questa Shangri-la in un paese di sedentari violenti e criminali rivela una serie di timori associati con certi contatti interculturali. I media occidentali sono talmente potenti e insidiosi, così recita questa tesi, che una cultura fragile come quella del Bhutan non ha alcuna possibilità di tener loro testa. Con l'arrivo di American Idol, Coca-Cola e McDonald's, la cultura locale è destinata a capitolare di fronte a quella dominante dell'Occidente, a meno che il governo non intervenga in maniera aggressiva.

Secondo Norris e Inglehart esistono invece almeno altri tre possibili esiti per questo tipo di situazioni: resistenza, sintesi e disimpegno. Possiamo avere una cultura che ne rifiuta violentemente un'altra, il cosiddetto «effetto talebani». Il divieto imposto su musica e film occidentali nelle zone dell'Afghanistan sotto il controllo dei talebani e la violenta opposizione all'istruzione laica nella Nigeria settentrionale da parte del gruppo Boko Haram sono entrambi esempi di come l'incontro con un'altra cultura possa portare alla polarizzazione, anziché all'estinzione per mano di quella dominante. Anche quest'ultima può cristallizzarsi di fronte alla percezione di un'invasione o di una minaccia, come quando la città di Nashville, in Tennessee, cercò di vietare l'uso di lingue diverse dall'inglese, rinunciando all'approccio tollerante davanti alla presunta minaccia degli immigrati.

Esistono soluzioni più felici. Possiamo immaginare un «miscuglio di diversi repertori culturali tramite lo scambio reciproco di informazioni locali e globali che generano una fertilizzazione oltre ogni confine, mescolando usanze indigene con prodotti importati». Prendiamo il curry, dove l'incontro tra i piatti del subcontinente indiano e il resto del mondo ha portato a soluzioni sincretiche, come il giapponese kare-pan (pane al curry), la capra al curry rinomata a Trinidad o anche una delle delizie della cucina britannica, la patata ripiena al curry. Gli incontri culturali possono aprire le porte a fusioni creative che onorano entrambe le culture, creando al contempo qualcosa di nuovo e imprevisto.

È altresì possibile avvicinarsi a un'altra cultura, scrollare le spalle e concludere: «Non fa per noi». Nella definizione di Norris e Inglehart, si tratta della «teoria del firewall», suggerendo che certi valori e attitudini culturali profondamente radicati si rivelano piuttosto resistenti di fronte ad altre culture giunte tramite il flusso dei media e della comunicazione. Questi valori agiscono come dei «firewall online», facendo passare alcune influenze ma lasciandone fuori altre. Secondo i ricercatori, non mancano certo le prove che i valori culturali – misurati da strumenti tipo il World Values Survey – mutino assai lentamente, anche quando i paesi coinvolti vantano una solida infrastruttura in tecnologie dell'informazione. Il Sudafrica, per esempio, ha sviluppato ampie connessioni con i media e le economie globali dopo la fine dell'apartheid, ma la documentazione del World Values Survey testimonia la sopravvivenza di valori sociali conservatori proprio in questa fase di grande trasformazione.

Questa rilevazione è positiva per chiunque sia interessato ai giovani del Bhutan, oltre a dimostrarsi in linea con gli effetti dell' homophily sull'informazione professionale e condivisa. Il fatto di essere connessi con i flussi dell'informazione globale non garantisce di per sé che ne subiremo l'influenza a scapito di quella locale o delle preferenze di amici e familiari. Ma pone un problema per quanti ritengono che l'incontro culturale possa portare a esiti banali come il rilancio della carriera di qualche artista pop e migliori ricette culinarie, oppure a soluzioni significative e innovative a problemi globali come il cambiamento climatico. L'integrazione creativa può avvenire per caso, ma è tutt'altro che garantita. Se vogliamo concretizzare i benefici derivanti dalla condivisione delle idee al di là dei confini, dobbiamo impegnarci affinché accada.

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7. Dalla città alla serendipità


In Neuromancer , il libro di William Gibson del 1984, Internet veniva proposto come uno spazio fisico, una città grande e colorata con edifici che rappresentavano i server di proprietà delle multinazionali. Solo i «cow-boy della console», gli eroi hacker dell'autore, riuscivano ad avere accesso a quest'ambiente immaginario, mettendo a punto un hardware personalizzato per «penetrare» nella Rete — che comunque rimaneva qualcosa di enorme, intricato e reale al pari di una metropoli odierna. Otto anni dopo, Snow Crash di Neal Stephenson ci invitava a considerare Internet come «il metaverso», un mondo avviluppante in 3D, popolato da avatar digitali controllati da utenti muniti di occhialoni e guanti. Il suo metaverso è un pianeta grande, scuro e quasi completamente disabitato, dove l'unico ambiente popolato è «la Strada», una città lineare tutt'intorno al globo, dove gli utenti si ritrovano per guardare gli altri e per farsi notare.

Qual è la molla che ci porta a considerare Internet come una città? Non ci sono motivi specifici che ne impediscono la visualizzazione come una foresta oppure un oceano di bit o una scrivania senza fine sepolta di documenti. Quella della città è una maniera un po' folle di visualizzare i dati: perché mai costringere gli individui a pigiarsi gli uni contro gli altri quando stiamo costruendo «spazi» che possono essere infiniti?

Per comprendere il fascino della città digitale, dobbiamo prima prendere in considerazione l'attrazione di quella materiale.


Limiti e scelte della vita in città

Makoko, nota come la «Venezia della Nigeria», è un labirinto di case, negozi e chiese collegate da ponti piatti che coprono la laguna di Lagos. Le piroghe di legno che solcano le acque tra gli edifici di questo affollato slum non trasportano turisti e gondolieri, bensì pesce appena pescato in zona e tavole di legno dalle segherie che costeggiano la laguna, oppure portano le mercanzie al mercato e i bambini a scuola.

Nato come piccolo villaggio di pescatori alla periferia della capitale commerciale nigeriana, Lagos, si è trasformato in uno dei quartieri più densamente popolati di una città notoriamente super affollata. Pur se tra stime variabili, perlopiù si ritiene che siano almeno 100.000 le persone che vivono in un'area che oggi si estende per quasi un kilometro nell'omonima laguna. Quel che attira la gente non è certo il luogo prestigioso, trattandosi di una delle zone più pericolose di Lagos, né il panorama lagunare o le amenità locali. Manca l'acqua corrente e le fognature scaricano direttamente nell'acqua; quando c'è, l'elettricità, piratata dalle linee interne, è un bene prezioso e pericoloso; il colera e altre malattie sono tutt'altro che rare. Nel luglio 2012, il governatore dello Stato di Lagos ordinò la distruzione di migliaia di capanne costruite illegalmente, demolendone a decine e lasciando senza casa gli occupanti.

La gente si sposta a Makoko perché Lagos continua a espandersi e non ci sono altri posti dove andare. Si stima che ogni anno vi si trasferiscono 275.000 persone, circa lo stesso numero di residenti totali del 1950 e, secondo altre fonti, oggi la popolazione arriva a 7,9 milioni, superando quella di Londra. Le isolette di cui è composta la capitale ufficiale e commerciale della Nigeria sono assai sviluppate, e gli ingorghi di traffico da incubo rendono poco affascinante la vita in periferia. Alcuni nuovi arrivati a Makoko si costruiscono letteralmente la propria fetta di Lagos, alternando strati di rifiuti portati dalla discarica (costano circa cinquanta centesimi di dollari a camion) con segatura dalle vicine segherie (per cercare di camuffare la puzza), per poi coprire il nuovo territorio così creato con della sabbia e piazzarci sopra strutture di legno con un tetto di plastica.

I residenti di Makoko seguono il trend globale verso l'urbanizzazione: fin dal 2008 la maggioranza della popolazione mondiale vive in città. Ciò vale per il 77 per cento nei paesi più sviluppati (i membri dell'OCSE) e per il 29 per cento in quelli meno sviluppati (secondo la classificazione dell'ONU). Pur rischiando un'eccessiva semplificazione, lo sviluppo economico del XIX e XX secolo può essere sintetizzato nel passaggio dalla popolazione rurale, che viveva di agricoltura, a quella urbana impegnata nell'industria manifatturiera e nel terziario, nutrita da una ridotta percentuale di persone tutt'ora coinvolte in attività agricole. Con l'avanzare del processo di industrializzazione, questo passaggio si è fatto costante e oggi assistiamo a una continua migrazione dal mondo rurale a quello urbano.

Nel 1800, appena il 3 per cento della popolazione mondiale preferiva le aree urbanizzate, perlopiù in capitali europee quali Londra e Amsterdam. La maggioranza preferiva le zone rurali: circa l'80 per cento in Inghilterra e il 75 per cento in Olanda. Trascorso un secolo, la percentuale di quanti vivevano in città era salita al 14 per cento e a partire dal 1950 la crescita urbana ha registrato ritmi ben più sostenuti di quella rurale. Secondo un rapporto dell'ONU, la tendenza proseguirà nel prossimo futuro, portando così a un pianeta fatto di tante metropoli circondate da terra arabile, prima nei paesi sviluppati e poi in quelli in via di sviluppo.

Forse per chi vive nell'emisfero sviluppato non è così ovvio, ma una città come Lagos è estremamente affascinante per i nigeriani che vivono in aree rurali, pur con gli evidenti lati negativi. Nella maggioranza delle città dei paesi in via di sviluppo, scuole e ospedali funzionano molto meglio dei corrispettivi disseminati sul territorio. E anche a fronte di alti livelli di disoccupazione, le opportunità economiche nelle aree urbane superano di gran lunga l'offerta di quelle rurali.

Ma c'è un'altra ragione ancor più importante che spiega il fascino metropolitano: è un ambiente eccitante. Chi vive in città ha un'ampia gamma di scelte su dove andare, cosa fare e vedere. L'idea per cui ci si trasferisce in città per evitare di annoiarsi viene liquidata come banale – ma non è così. Come spiega Amartya Sen nel suo Development as Freedom, non vogliamo soltanto provare a superare la povertà, bensì anche ad avere maggiori opportunità, libertà e possibilità di vivere una vita migliore. La città promette una varietà di opzioni e occasioni, e spesso funziona.

In retrospettiva, è più difficile capire perché tutti decisero di trasferirsi a Londra tra il 1500 e il 1800, quando una crescita rapida e costante la trasformò nella principale metropoli dell'Ottocento. C'erano carenze di una certa gravità, non ultima la malaugurata tendenza a prendere fuoco. Il Grande Incendio del 1666, che lasciò senza casa 200.000 persone, fu soltanto il più ampio di una serie di incendi alquanto gravi da differenziarsi da quelli locali, che quotidianamente minacciavano le case di legno e paglia, attaccate una all'altra e riscaldate con fuochi aperti alimentati a carbone o legna. È probabile che quell'episodio avrebbe colpito un numero maggiore di abitanti, se l'anno precedente circa 100.000 persone (un quinto della popolazione cittadina) non fossero già morte per via della peste bubbonica, propagata rapidamente dai ratti che infestavano la città.

All'epoca di Charles Dickens, la minaccia non era tanto gli incendi quanto il sistema idrico. Le fognature all'aperto, dove confluivano i rifiuti umani solidi e liquidi insieme a quelli di migliaia di cavalli usati per trainare autobus e taxi, scaricavano direttamente nel Tamigi, principale fonte di approvvigionamento idrico per gran parte della città. Il colera fu una malattia assai comune dal 1840 al 1870, e nell'estate 1858 il fetore si fece talmente pestilenziale da suscitare una serie di interrogazioni parlamentari. Alla fine «La grande puzza», come gli storici bollarono l'evento, portò alla costruzione del primo sistema fognario cittadino nel 1859.

Nel XVIII e XIX secolo la gente accorreva in città non certo per questioni salutistiche. Nel 1850, l'aspettativa di vita per un uomo nato a Liverpool era di 26 anni, mentre in una cittadina rurale arrivava a 57 anni. Eppure città come Londra esercitavano un'attrazione non dissimile da quella dell'attuale Lagos. Vi erano maggiori opportunità economiche, soprattutto per i poveri senza terra, e il commercio internazionale dell'area portuale creava un'ampia domanda di lavoro. Alcuni erano attratti dal maggior bacino intellettuale offerto da università e ritrovi pubblici, mentre altri vedevano nella possibilità di sposarsi al di fuori della ristretta comunità rurale un motivo per trasferirsi.

La spinta generale era comunque quella di conoscere gente impossibile da incontrare vivendo in zone remote e isolate: persone con cui fare affari, sposarsi, imparare, pregare. Si andava in città per diventare cittadini del mondo, per essere cosmopoliti.

Proprio come Diogene il cinico si era trasferito ad Atene per potersi confrontare con gli insigni pensatori dell'epoca, la città ha sempre esercitato una forte attrazione su chi è alla ricerca di stimoli intellettuali. Per avvicinarsi a punti di vista radicalmente diversi, prima dell'era delle telecomunicazioni l'opzione migliore era trasferirsi in qualche città. Queste si affermavano come potente tecnologia di comunicazione, consentendo gli scambi in tempo reale tra individui e gruppi eterogenei e la rapida diffusione di idee e pratiche innovative a livello diffuso. Anche oggi, nell'epoca delle comunicazioni digitali istantanee, l'ambito urbano offre contatti diretti con situazioni insolite, strane e variegate.

Considerare la città una tecnologia di comunicazione contribuisce a chiarire perché Gibson e Stephenson l'abbiano scelta come metafora del ciberspazio: erano entrambi interessati alle modalità tramite cui Internet poteva far emergere cose strane, pericolose e inattese (oltre a quelle banali, mondane e sicure) in competizione tra loro per conquistare la nostra attenzione.

I due autori volevano esplorare gli ambienti virtuali, luoghi dove la gente era costretta a interagire mentre procedeva in massa verso una destinazione comune. Immaginavano che l'interazione nel ciberspazio sarebbe stata simile a quella metropolitana, dove si sperimentava un sovraccarico di sensazioni, la compressione della dimensione, una sfida continua nel separare il segnale dal rumore nel magma di informazioni dirette a conquistare l'attenzione dei presenti.

Tendiamo a sperare che la città possa rivelarsi un motore di serendipità. Mettendo insieme persone e cose diverse tra loro all'interno di uno spazio circoscritto, aumentano le possibilità di imbattersi in qualcosa d'imprevisto. L'infrastruttura cittadina dovrebbe stimolare la serendipità, ma le ricerche sui sistemi e sui flussi rivelano che raramente tali infrastrutture vengono utilizzate al meglio. È proprio vero che la città porta a un maggior livello di serendipità?

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La serendipità

Robert Merton ha dedicato un intero libro, con la collaborazione di Elinor Barber e pubblicato postumo, al tema della serendipità. Potrebbe sembrare una strana esplorazione per un sociologo affermato, ma è anche vero che uno dei suoi maggiori contributi è stata la disamina delle «conseguenze indesiderate». Conseguenze che sono spesso un effetto collaterale di un intervento riuscito; per esempio, l'introduzione dei conigli in Australia fornì il cibo necessario ai primi colonizzatori bianchi, creando però inavvertitamente una piaga per gli agricoltori talmente grave da costringere poi il governo australiano a costruire una recinzione a prova di conigli lunga oltre 3.000 kilometri onde prevenire la distruzione dei raccolti.

A una prima occhiata la serendipità sembra il lato positivo delle conseguenze indesiderate, un felice incidente. Ma non è questo il significato preciso del termine, almeno quello originale, coniato da Horace Walpole, aristocratico britannico del XVIII secolo, oltre che quarto conte di Orford, romanziere, architetto e pettegolo. Viene ricordato soprattutto per le sue lettere, raccolte in 48 volumi, da cui emerge il modo di vedere il mondo con gli occhi di un privilegiato.

In una lettera del 1754 destinata a Horace Mann, Walpole racconta di aver fatto una scoperta inattesa e vantaggiosa, dovuta alla sua profonda conoscenza della scienza araldica. Per illustrare l'esperienza, rimanda a una fiaba persiana, I tre principi di Serendip, i cui personaggi principali «andavano continuamente scoprendo, tra casualità e sagacia, cose che non stavano affatto cercando». Il neologismo di Walpole è come una pacca sulle spalle: si congratula con se stesso per la bella scoperta e per l'acume che l'ha favorita.

Per quanto concetto utile, il termine serendipità è divenuto di uso corrente soltanto nell'ultimo ventennio, e, aggiunge Merton, era apparso appena 135 volte nei libri pubblicati fino al 1958. Nei quattro decenni successivi, lo si trova nei titoli di 57 volumi e poi 13.000 volte sui quotidiani dagli anni Novanta. Una ricerca su Google elenca 11 milioni di pagine (e oltre) che includono il termine, compresi ristoranti, film e negozi di regali che si chiamano Serendipity – ma ben poche centrate su scoperte inattese intrise di sagacia.

Merton, uno dei maggiori fautori del termine, nel 1946 scriveva riguardo il «modello della serendipità» come veicolo per arrivare a rivelazioni scientifiche impreviste. La scoperta della penicillina da parte di Sir Alexander Fleming nel 1928 fu innescata da una spora del fungo Penicillium che aveva contaminato una piastra di Petri dove stavano crescendo i batteri dello Staphylococcus. Mentre le spore furono una casualità, la scoperta è dovuta alla serendipità: se Fleming non avesse avviato quella coltura, non avrebbe mai notato le spore ammuffite. E se non avesse avuto una profonda conoscenza del processo di sviluppo dei batteri (elemento che ne rivela l'acume), è probabile che non si sarebbe accorto delle proprietà antibiotiche del Penicillium e quindi non avrebbe compiuto il passo più importante della medicina della prima metà del Novecento.

Come puntualizzò Louis Pasteur: «Nel campo dell'osservazione il caso favorisce soltanto la mente predisposta». Per Merton la serendipità può emergere solo grazie all'incontro tra una mente preparata e circostanze e strutture propizie alla scoperta. Nel libro The Travels and Adventures of Serendipity, Merton e Barber studiano le attività di un laboratorio della General Electric diretto dal chimico Willis Whitney, che promuoveva un ambiente di lavoro tanto rilassato quanto focalizzato alla scoperta. Un sano miscuglio tra anarchia e struttura era quello che ci voleva per arrivare a delle scoperte, e la pianificazione eccessiva era un anatema poiché la «pratica di non lasciare nulla al caso è inesorabilmente condannata al fallimento».

Il concetto per cui la serendipità è il prodotto della combinazione tra una mente predisposta e aperta e le circostanze propizie va fatto risalire alla fiaba menzionata da Walpole nel 1754. I tre principi erano assai eruditi sulle «questioni morali, politiche e dell'istruzione cortese in generale», ma non si erano ancora imbattuti in qualche scoperta imprevista finché il padre, l'imperatore Jafer, non ordinò loro di lasciare il regno per «viaggiare in tutto il mondo, allo scopo di apprendere usi e costumi di ogni nazione». Quando quei principi ben preparati incapparono in circostanze favorevoli, emersero scoperte inattese e importanti: l'identità di una persona che voleva avvelenare il re, la strategia per sconfiggere un misterioso gigante che minacciava il regno.

Oggi con il termine «serendipità» generalmente s'intende qualcosa tipo «felice incidente», mentre passano in secondo piano, almeno parzialmente, i riferimenti all'acume, alla preparazione e all'ossatura sottostante. Con questa modifica del significato abbiamo perso l'idea che occorre prepararsi, a livello sia personale che strutturale. Ho il sospetto che un po' tutti, perfino Merton, non prendano troppo seriamente questa fase preparatoria. E come sottolineava l'amica Wendy Seltzer, studiosa di diritto, se non afferriamo il senso della struttura insita nella serendipità, questa ci appare nient'altro che una pura casualità.

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La strada verso il futuro

Tempo fa il critico Evgeny Morozov dedicò la sua feroce analisi alle conferenze TED, sostenendo fra l'altro:

Visto che ogni significativa discussione a livello politico è fuori luogo a TED, le soluzioni sostenute dai suoi tecno-umanitari non possono andare oltre gli strumenti disponibili a ricercatori, sviluppatori e ingegneri.

Questo libro prende in esame gli strumenti della tecnologia, i media (compresi quelli nuovi e i social media), l'ambito artistico e culturale. Si tratta di sistemi che plasmano la nostra visione del mondo, in particolare l'esperienza di quel mondo che esiste di là degli scambi personali. Come per ogni tecnologia, questi strumenti mediatici riflettono i presupposti politici di chi li crea, al di là del fatto che questi ne sia cosciente o meno. Facebook privilegia i legami con le persone che già conosciamo rispetto a quelle che potremmo incontrare; un giornale online risponde al nostro interesse per l'attualità online anziché per le notizie inaspettate di cui un giornalista potrebbe renderci partecipi.

Riconoscere le inclinazioni politiche incorporate nelle odierne tecnologie dei media e impegnarsi a cambiarle non garantisce di per sé che le multinazionali sapranno valorizzare i diversi punti di vista dei loro dipendenti o che gli Stati decideranno di rivedere le loro politiche sull'immigrazione o le strategie diplomatiche. Scegliere un mondo dove si tenda ad avvicinare, anziché allontanare, le persone innesca una serie di battaglie politiche, piccole e grandi, da combattere a ogni livello, dalla politica istituzionale alle decisioni individuali quando navighiamo sul web.

Gli esperti criticati da Morozov perché cercano scorciatoie tecnologiche ai problemi dal cambiamento climatico sono degli opportunisti, nel senso letterale del termine. Sanno che i nuovi sistemi per sfruttare l'energia solare o per produrre biocombustili dalle alghe possono aiutare governi e singoli a portare avanti trasformazioni cruciali di ampie proporzioni e politicamente difficili da mettere in pratica. Approfittare delle opportunità tecnologiche non vuol dire ignorare o evitare le questioni politiche: spesso è un modo per spostare gli equilibri di potere su un tema specifico.

I media tradizionali hanno centinaia o decine di anni alle spalle, ma oggi si trovano in mezzo a trasformazioni rapide e dirompenti. Ciò offre un'opportunità a quanti vogliono ricalibrare l'informazione in modo che sia più rappresentativa, più globale e perfino più sorprendente. Un analogo rinnovamento sta interessando il settore cinematografico e musicale, con ricadute in altri ambiti culturali. I social media che plasmano ciò che vediamo e ciò cui prestiamo attenzione hanno pochi anni di vita, e cambiano ogni settimana, non ogni anno. Se ci attira la possibilità di creare media capaci di esporci a un'ampia gamma di punti di vista, non sono certo le opportunità di mettere a punto gli strumenti di cui abbiamo bisogno a mancare.

È sbagliato dare per scontato che Internet aprirà inesorabilmente le porte a un futuro interconnesso. Ma non ha neppure senso liquidare le ambizioni di ottimisti tecnologici come Rheingold, Marconi e Tesla semplicemente perché il futuro che auspicavano non si è ancora concretizzato. Proviamo piuttosto a interpretare le loro parole come una profezia. Il rabbino Abraham Heschel, noto studioso di religioni e leader dei diritti civili, iniziò la carriera con un'articolata ricerca sulle profezie bibliche. Mentre nel linguaggio odierno «profezia» sta a indicare la predizione del futuro, all'epoca della Bibbia i profeti erano coloro che portavano la parola di Dio tra la gente per incoraggiarli a cambiare:

Il profeta era qualcuno che diceva No alla società del tempo, condannandone le abitudini e i preconcetti, la compiacenza, la follia e il sincretismo.

Lette come delle predizioni, le speranze di Marconi, Tesla e Rheingold sono chiaramente sbagliate, ma viste come profezie ci sfidano ad assumere il controllo della tecnologia e a usarla per costruire il mondo che ci sta a cuore anziché un universo da temere.

Se vogliamo un mondo che valorizzi la diversità di prospettive rispetto alla certezza di una credenza univoca, un mondo dove le voci di molti possano opporsi a quelle di pochi privilegiati, dove punti di vista eterogenei rendano più articolate le questioni e ci spingano verso soluzioni innovative, non possiamo far altro che costruirlo. Per citare un altro rabbino del primo secolo e.v., Rabbi Tarfon: «Non tocca a noi completare l'opera, ma neppure possiamo esimerci dall'iniziarla». Sia che decidiamo di trasformare il nostro comportamento, gli strumenti che incontriamo oppure la società nel suo insieme, oggi abbiamo di fronte l'opportunità di avviare il processo per ricalibrare il mondo.

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