Autore Riccardo Bellofiore
Titolo Smith Ricardo Marx Sraffa
SottotitoloIl lavoro nella riflessione economico-politica
EdizioneRosenberg & Sellier, Torino, 2020, La critica sociale 15 , pag. 388, cop.fle., dim. 15x21x2,5 cm , Isbn 978-88-7885-844-2
LettoreRenato di Stefano, 2021
Classe lavoro , economia politica , storia economica












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  7  Premessa

 13  1. A mo' di Introduzione.
        Il lavoro nel capitalismo: tra teoria e storia

 33  2. Migliorare la propria posizione.
        Adam Smith e la missione «civilizzatrice» del capitale

 65  3. Cambiare la natura umana.
        Variazioni su un tema smithiano,
        da John Stuart Mill a Keynes e oltre

101  4. David Ricardo oltre l'interpretazione sraffiana

141  5. Il capitale come Cosa, e la sua «costituzione».
        Sulla (dis}continuità Marx-Hegel

209  6. Karl Marx e il «rapporto di capitale».
        La teoria macromonetaria della produzione capitalistica

253  7. La solitudine del maratoneta.
        Sraffa, Marx e la critica della teoria economica

333  8. Invece di una conclusione.
        Keynes e le ambiguità della liberazione dal lavoro


359  Appendice 1
     L'ecomarxismo di James O'Connor:
     centralità del lavoro e questione della natura

365  Appendice 2
     «Continental Divide»:
     centralità del lavoro e questione di genere

381  Fonti
383  Indice dei nomi


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

1. A MO' DI INTRODUZIONE

Il lavoro nel capitalismo: tra teoria e storia


In questo capitolo, e in fondo in tutto il libro, il tema è il lavoro nel sistema economico-sociale attuale, con uno sguardo dal punto di vista della storia dell'analisi economica.

Lasciamo pure stare l'ambiguità del termine «lavoro». Il riferimento al sistema economico-sociale attuale può essere inteso come «capitalismo» dal suo stabilirsi come, appunto, «sistema». Ma il riferimento è anche al «nuovo capitalismo»: il cosiddetto neoliberismo, dai primi anni Ottanta del Novecento. In fondo si tratta di ragionare del destino di una dimensione che molti proclamano destinata a una fine imminente. Mi piacciono però le sfide, e proverò a tenere insieme questi livelli multipli dell'interrogazione.




Il lavoro nel capitalismo: uno sguardo di lunga durata


Lavoro e capitalismo, dunque. Un modo, parziale ma significativo, per vedere l'evoluzione di questo rapporto è far riferimento ad alcune grandi figure del pensiero economico, a come il lavoro si configura nella loro riflessione. Conviene partire dall'inizio, da quello che molti reputano il padre dell'economia politica come disciplina autonoma, Adam Smith (che sarà l'oggetto del secondo capitolo). Smith è una figura singolare e interessante perché in lui l'elogio della libera concorrenza che sí trova nella Ricchezza delle nazioni del 1776 si fonda su questo, che essa impedisce le coalizioni dei masters, dei padroni, di solito appoggiate dallo Stato, e di conseguenza spinge all'investimento, quindi all'accumulazione del capitale. Ma l'investimento è per Smith, soprattutto, fondo salari, perciò aumento della domanda di lavoro: il che da un lato porta all'aumento dell'occupazione e, dall'altro, a un'accresciuta pressione della domanda sull'offerta di lavoro e così a un salario di mercato più alto del salario di sussistenza.

Entrambe le circostanze, dice Smith, sono favorevoli ai lavoratori e alle lavoratrici che prestano quel lavoro, che è e rimane toil and trouble, fatica dell'uomo che strappa alla natura le cose comode e utili della vita. Perché? Perché l'aumento dell'occupazione fa diventare i mendicanti «poveri che lavorano»: il capitalismo di libera concorrenza li immette nella democrazia (in un senso tutto diverso da quello che l'espressione ha preso recentemente). E perché lo scarto continuo verso l'alto del salario di mercato rispetto a quello di sussistenza fa diventare in realtà lavoratori e lavoratrici sempre meno poveri. La concorrenza e la disuguaglianza tipiche del capitalismo da lui prediletto, quello della «mano invisibile», sono giustificati in fondo soltanto perché favoriscono il mondo del lavoro. Discorso che fa una certa impressione quando si sia visto come, da fine Novecento, il capitalismo cosiddetto neoliberista non garantisca affatto, anche quando aumenti l'investimento, una crescita dell'occupazione; e tutto fa meno che aumentare il salario reale. Abbiamo qui una sorta di progressiva «filosofia della storia», che porta con sé un'idea particolare di «natura umana», che verrà sviluppata e contestata nei due secoli successivi (al dipanarsi di questo filo dall'originaria ispirazione smithiana è dedicato il terzo capitolo di questo libro).

Quaranta-cinquant'anni dopo sarà tutto cambiato. Con Malthus e con lo stesso Ricardo (a cui è dedicato il quarto capitolo) la sussistenza, una sussistenza alquanto «biologica», ovvero la riduzione della forza-lavoro a strumento di produzione da alimentare come le macchine, è diventata una trappola molto più rigida, da cui è difficile se non impossibile scappare. Non soltanto il discorso di Smith - dove l'accumulazione del capitale si fa mezzo per l'inclusione nella cittadinanza dei soggetti, e migliora la condizione di quelli che stanno in fondo alla scala sociale - recede sullo sfondo. Lavoratrici e lavoratori sono ora - e devono rimanere - soggetto puramente «passivo». Ovviamente Ricardo riconosce il conflitto tra le classi con un rigore analitico che in Smith non c'è: non soltanto vede il conflitto tra profitto (industriale) e rendita (dei proprietari fondiari), ma anche, almeno in parte, quello tra capitale e lavoro per quel che riguarda la relazione tra progresso tecnico e occupazione. Ma, appunto, l'idea che chi presta lavoro possa essere soggetto attivo sul terreno del conflitto distributivo o sul terreno della produzione non lo sfiora nemmeno.

Ciò che sta in mezzo tra la Ricchezza delle nazioni del 1776 e i Principi di economia politica del 1817-1821 è l'attacco a quella «economia morale» del mondo del lavoro, come l'ha chiamata E.P. Thompson: la distruzione di qualsiasi retroterra che nel vecchio sistema consentisse a lavoratori e lavoratrici una parziale possibilità d'indipendenza dal meccanismo capitalistico; la promulgazione delle leggi sui poveri; la violenta riduzione del mondo del lavoro a pura e semplice forza-lavoro sfruttabile a piacimento, non soltanto prolungando nella misura più estesa possibile la giornata lavorativa, ma anche immettendo nel mulinello della produzione capitalistica donne e bambini. Ogni resistenza dentro i processi di produzione poteva e doveva essere stroncata: per il bene di chi lavora, ovviamente... Qualsiasi intralcio al meccanismo economico avrebbe comunque peggiorato, non migliorato, le loro condizioni. A ben vedere, è l'idea «selvaggia» di capitalismo che si è di nuovo imposta ai nostri giorni.

Cos'è successo nei cinquant'anni che separano dalla prima edizione (1867) del primo libro del Capitale di Marx (autore a cui saranno dedicati il quinto e il sesto capitolo) è noto. L'idea di Marx - consegnata in pagine che occupano almeno un terzo del volume, e che male si farebbe a relegare a contorno sociologico-storico della sua teoria economica - è che il capitale non può fare nemmeno un passo senza un corpo a corpo con quell'«antagonismo» che si trova dentro la propria costituzione, e che è in potenza agito dagli esseri umani che dovrebbero invece essere meri portatori di quella forza-lavoro da cui l'attività lavorativa dev'essere «estratta» se si vuole produrre valore, plusvalore, e dunque capitale. Il capitale, che è fatto tutto di lavoro morto - moneta, macchine, mezzi di produzione, edifici, beni intermedi, beni di consumo -, non si può valorizzare se non è in grado di immettere e plasmare un «altro» da sé, quella capacità lavorativa che sola può erogare lavoro vivo. Questo qualcosa, che è una alterità che va resa «interna», va anche controllato: non può però mai esserlo fino in fondo, così che diventi l'equivalente di una macchina. I capitalisti vivono in un mondo di incertezza: acquistano una forza-lavoro che potrebbe resistere. Non è tutto: anche se questo controllo si desse con successo, come di norma avviene, essi producono merci che potrebbero non vendere.

C'è cui un doppio paradosso di cui Marx si rende conto per primo. È proprio il conflitto dei lavoratori e delle lavoratrici che si è rivelato la spinta più potente all'innovazione capitalistica, e tanto più quanto più non ci si accontenta delle compatibilità presenti nella situazione data.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 19

Il lavoro nel nuovo capitalismo: dopo la svolta neoliberista


Il quadro appare oggi completamente mutato. Il nesso tra crescita degli investimenti e crescita dell'occupazione, e tra progresso economico e progresso sociale, appare molto meno scontato. Tanto più quando la grande impresa si snellisce e diviene sempre meno grande, e la piccola impresa diviene una galassia che copre realtà diversissime, dai sistemi locali di produzione e ai distretti, al decentramento e all'economia sommersa. Il pieno impiego non è più sinonimo di occupazione stabile e garantita, e può convivere tranquillamente con una ricaduta sotto la povertà di chi ottiene un lavoro.

La destrutturazione del mondo del lavoro procede sempre più veloce ovunque, nel manifatturiero come nei servizi, dove la prestazione lavorativa è poco qualificata così come dove è in atto una parziale riqualificazione. L'incertezza e la flessibilità della condizione lavorativa appaiono i caratteri distintivi del nuovo ordine produttivo, il cui senso però muta a seconda dello stato del ciclo: nelle fasi discendenti, di recessione o stagnazione, le assunzioni a tempo determinato, il lavoro a tempo parziale, il lavoro atipico, e così via, configurano una precarizzazione pura e semplice; nelle fasi ascendenti, di ripresa o di boom, sono invece il prezzo da pagare a una selezione prolungata che può forse sfociare poi in una stabilizzazione a tempo indeterminato. Qualcosa che però diviene sempre più improbabile dopo l'ultima grande crisi globale.

È sicuro che questa realtà è stata fraintesa gravemente da chi ha avanzato la tesi della fine del lavoro: una tesi che poteva non apparire destituita di fondamento nell'Europa di metà anni Novanta del secolo scorso, ma che si mostra in tutta la sua inconsistenza negli anni successivi. Chi la sostituisce con l'idea di una fine del lavoro salariato, intendendo una crisi di questo rapporto sociale, pare non avere il senso dell'evoluzione dei rapporti di forza. Assistiamo a un'esplosione totalizzante del lavoro, che è anche allungamento e intensificazione del tempo di lavoro: un lavoro sempre più subordinato, quale che sia la sua caratterizzazione giuridica di lavoro subordinato o lavoro autonomo; un lavoro che è sempre più muto, e tale deve rimanere. Gli spazi di libertà possono essere agiti solo nel consumo (nella misura in cui lo consenta la distribuzione ineguale o il basso salario); o, nel caso di quelle prestazioni cui è concesso un limitato controllo, sui modi con cui realizzare obiettivi definiti da un processo estraneo. Una condizione, è bene ribadirlo, che segna tutto il mondo del lavoro, indipendentemente dalla sua qualificazione, autonomia, retribuzione; ed è perfettamente compatibile, anzi la richiede, con la dilatazione centrifuga delle mille individualizzazioni del rapporto lavorativo. Un lavoro sempre più centrale nella vita delle persone, anche se sempre meno costitutivo delle identità soggettive.

È questa presumibilmente la vera novità della globalizzazione di fine Novecento: l'evento inatteso di un'accumulazione del capitale senza la contemporanea crescita di una classe lavoratrice, non dico massificata, ma riunificata e omogenea. La tendenza naturale dello sviluppo capitalistico sembra portare spontaneamente alla divisione e alla frammentazione. La riunificazione non può dunque che essere il portato di una controtendenza, che però non può cadere «dall'alto», da un sapere politico o economico che troverebbe la sua garanzia nell'avanzata lineare delle forze produttive. Essa dev'essere «costruita», e costruita «dal basso», rimettendo al centro - in una corretta dialettica che rimanda i rappresentanti ai rappresentati - un lavoro che si riconosce e si riunifica processualmente come soggetto politico centrale nella trasformazione sociale: paradossalmente, a un tempo, per ridurre il «peso» del lavoro, e per liberarne la «qualità».

Se l'accumulazione del capitale nel mondo della globalizzazione tutto fa meno che riunificare il mondo del lavoro, Smith e Keynes non stanno molto bene: ma anche Marx ha i suoi problemi. Da dove nasce tutto ciò? È molto facile vederne la nascita nella crisi del keynesismo, o se si vuole di quell'epoca che è stata chiamata fordista-keynesiana, e nella risposta neoliberista a questa crisi. Cercherò di dire qualche cosa su entrambi i punti, partendo da ciò che sappiamo o, meglio, da ciò che crediamo di sapere. Ovviamente, anche qui, in modo molto impressionistico.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 25

Il capitalismo predatore è dunque anche il capitalismo cosiddetto «flessibile», il capitalismo «patrimoniale». Il lavoro, in tutto questo, diviene forzatamente una variabile dipendente, in un senso ben più forte di quanto già non fosse nell'epoca keynesiana. È però un lavoro da cui si pretende più qualità, più partecipazione, più autonomia. Non vi è contraddizione tra i due aspetti. L'autonomia viene concessa perché è un'autonomia automaticamente «limitata» dai processi macroeconomici che ho sommariamente ricordato. La «qualità» del lavoro può rivelarsi talvolta un requisito reale e prezioso rispetto all'esigenza di vendere su mercati in cui la domanda è molto instabile, ma ciò spesso non contrasta con un lavoro più flessibile, e con il fatto che il salario, che sia alto o più spesso basso, deve divenire sempre più qualcosa contrattato in maniera totalmente decentrata e individuale. Il che non toglie che la flessibilità o l'individualizzazione del rapporto di lavoro possano talora davvero favorire fasce particolari di lavoratori.

In tutto questo si inserisce quella che altrove ho definito la «sussunzione reale del lavoro alla finanza», che coinvolge sia i mercati delle attività sia il debito. Il riferimento è qui a quei «fondi» di cui ci hanno parlato autori statunitensi come Minsky , italiani come Gallino , francesi come Aglietta od Orléan: questi ultimi parlano di un nuovo «capitalismo patrimoniale», intendendo quel capitalismo in cui le risorse dei piccoli azionisti sono concentrate e manovrate speculativamente da «gestori», i quali ricercano - e non possono non ricercare, perché così pretendono gli individui atomizzati e spaventati che confidano loro i risparmi vitali: un controllo sindacale non potrebbe cambiare la natura dei processi - il massimo del rendimento nel lungo periodo. È l'orizzonte di una finanza che concresce con le imprese, l'unico «lungo periodo» che ormai conti. Il capitalismo col denaro degli altri, il capitalismo dei gestori finanziari. Il capitalismo dei fondi pensione.

È un capitalismo questo - mi si consenta un ossimoro - coerente e a un tempo contraddittorio. Coerente perché, per un verso, la situazione macroeconomica, il primato della finanza, la diffusione della logica del mercato, la ridefinizione delle strategie d'impresa, tutto congiura a rendere garantita e massima la soggezione dei lavoratori in carne e ossa attraverso un comando impersonale e tale da favorire l'estrazione massima possibile sia del plusvalore assoluto (aumento della giornata lavorativa sociale) sia di quello relativo (intensità del lavoro e aumento della forza produttiva) di cui ragionava Marx. È però anche contraddittorio, non soltanto perché sul terreno della domanda tutto ciò produce una forte spinta alla stagnazione, come è nella logica di Keynes, ma anche perché è un capitalismo in cui la corsa alla flessibilità del lavoro, con il suo corredo di precarietà e licenziamenti, fa perdere all'impresa competenze e saperi che invece essa dovrebbe accumulare nel lungo periodo. Il lavoro «usa e getta» determina nel medio-lungo termine una flessione, non un aumento, della produttività.

Però, vorrei che fosse chiaro, qui siamo di fronte, sì, a un capitalismo dell'accumulazione flessibile, che è anche un capitalismo patrimoniale e predatore, dove la finanza predomina: ma questo non è un capitalismo puramente e semplicemente «parassitario». Non è nemmeno un capitalismo in cui la tendenza alla stagnazione di cui dicevo si sia mai dispiegata compiutamente. Lo hanno impedito politiche economiche, e spesso il paradosso di politiche economiche keynesiane a loro modo, gestite da presidenti degli Stati Uniti aggressivamente conservatori e ideologicamente iperliberisti, come appunto Reagan e Bush jr. È un capitalismo che, a suo modo, produce sviluppo: uno sviluppo disegualitario, instabile, periodicamente insostenibile; e che però include qualcuno, distribuisce della ricchezza.

Vanno per questo contestate le tesi, tanto degli apologeti quanto dei critici di sinistra di questa nuova economia globalizzata e postfordista, che la vedono come un sistema di nuova estrazione stabile di plusvalore, perché è invece massimamente instabile. Come va anche contestata la tesi che a questo nuovo capitalismo attribuisce un'interruzione dello sviluppo, il prelievo della rendita, la scarsità della moneta, perché un certo sviluppo lo produce, e perché sotto la crisi si celano la ristrutturazione e una gestione politica delle dinamiche economiche. Il momento centrale della critica al capitalismo non può limitarsi alla distribuzione o all'insufficienza della domanda, ma deve investire, e sempre di più, l'organizzazione della produzione, la qualità della composizione del prodotto, il controllo sociale sulla struttura dell'economia.




Prospettive: la ri-formazione della classe lavoratrice


È possibile uscire da una condizione del genere? Qui vale la pena di riandare un po' indietro nel tempo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 30

Il quadro che ho tracciato è un quadro cupo, in cui il lavoro è una categoria ambigua. Per un verso, è il lavoro totalizzante di cui i lavoratori e le lavoratrici in carne e ossa sono ridotti a portatori, ad appendice, soggetti a dinamiche che sfuggono al loro controllo. Per l'altro verso è il lavoro come attività dentro un limite, che trasforma la realtà secondo un fine, e in cui gli esseri umani entrano in relazione sociale, affermando i propri bisogni anche attraverso il conflitto, contestando i modi di organizzazione della produzione e la qualità di ciò che ne risulta a partire da una idea alternativa di economia e di società in un percorso di costruzione processuale. Bisogna liberarsi dal lavoro sfruttato e salariato, ma non lo si può fare se non si libera anche il lavoro - meglio, i lavoratori. Il conflitto sociale non deve necessariamente «partire» dal lavoro né deve «chiudersi» nel lavoro: ma non può non attraversare il momento centrale del lavoro. A meno di immaginarsi una società signorile in cui il lavoro ritorna a una condizione «servile», che magari colonizza gran parte di noi, mentre ci si illude di poter essere liberi altrove.

[...]

Personalmente sono convinto che siamo, nel mondo del lavoro, ma dunque nella nostra società, davvero a una svolta di civiltà. Non va mai dimenticato che l'esistenza di una democrazia degna di questo nome nasce dentro le lotte del lavoro: da una classe lavoratrice che rivendica la sua natura non di mera rotella del meccanismo produttivo ma di soggetto politico che, «dal basso», pone la questione del cambiamento strutturale sotto il segno dell'eguaglianza e della libertà «positiva».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 333

8. INVECE DI UNA CONCLUSIONE

Keynes e le ambiguità della liberazione dal lavoro


                        Per chi suda il pane quotidiano il tempo libero è un
                        piacere agognato: fino al momento in cui l'ottiene.

                                                                 J.M. Keynes



Non si può negare. Fa una certa impressione rileggere oggi, a novant'anni dalla sua pubblicazione, il Keynes delle Economic Possibilities far Our Grandchildren, un saggio a cui abbiamo già fatto riferimento nel terzo capitolo. Quando í nipoti siamo noi, e le prospettive che quel testo disegnava sono a un tempo, come sosterrò, confermate e smentite.

Fa impressione, certo, il riscoprire, accanto al Keynes del «breve periodo», più noto ma ormai non più rispettabile (anche se, si deve dire, al suo armamentario di politica economica, riveduto e corretto, si ricorre quando ve n'è necessità), un Keynes del «lungo periodo» dai tratti visionari. Un Keynes che si azzarda, come scrive, a librarsi nel futuro, a disegnare un mondo dove lo sviluppo tecnologico e il declino della crescita della popolazione aprono alla prospettiva di una drastica riduzione dell'orario di lavoro compatibile con il continuo aumento del tenore di vita. Un Keynes che rivaluta l'ozio contro l'utile, e si fa fautore di una radicale liberazione dal lavoro come via d'uscita dalla sempre più incombente disoccupazione tecnologica. Un Keynes che riprende una lunga tradizione del pensiero borghese e non, che va indietro sino a John Stuart Mill e si prolunga addirittura in Marcuse.

Ma fa impressione, anche, per un altro motivo. Perché questo Keynes, proprio quando dovrebbe essere più attuale, in quanto questo suo «altro capitalismo possibile» potrebbe forse presentarsi come una sponda intellettuale che risponde agli interrogativi dei movimenti recenti contro la cosiddetta «globalizzazione neoliberista»; questo Keynes, che disegna un'alternativa alla totalizzazione assorbente della dimensione lavorativa in un universo di precarizzazione che predomina nella «nuova economia» dell'informazione e dell'innovazione dei nostri giorni: questo Keynes, che se ha dei nipoti convinti della ragionevolezza del suo discorso li trova in chi oggi propone non soltanto la riduzione d'orario a parità di salario, ma anche un reddito di cittadinanza indipendentemente dal lavoro, è il più inattuale di tutti i possibili Keynes.

Nelle pagine che seguono proverò a proporre un percorso di letture che dia conto di questo esito paradossale, a partire da quelle che possono apparire le oscillazioni di Keynes stesso su alcune questioni, per poi delineare delle genealogie di questa problematica prima e dopo Keynes, e per cercare infine di decifrare l'enigma della sua scomparsa dalla discussione. Ne risulterà un Keynes non solo attuale contro tutte le apparenze ma ambiguo. Un Keynes il cui ideale di liberazione dal lavoro, contro le sue intenzioni, può e dev'essere ripreso solo dentro un simultaneo percorso di liberazione del lavoro.




Le prospettive economiche per i nostri nipoti


Economic Possibilities for Our Grandchildren è stato pubblicato nel 1930, ma risale nella sua prima versione al 1928, a una conferenza tenuta alla Essay Society del Winchester College, il 17 marzo di quell'anno. Fu poi varie volte ripresentato in altre sedi, tra cui il Political Economy Club a Cambridge, sino alla sua pubblicazione in due puntate il 17 e 18 ottobre del 1930 su "Nation and Athenaeum", nella versione utilizzata qualche mese prima, il 9 giugno, per una lecture a Madrid. Risale dunque a prima della Grande Crisi, anche se compare quando quest'ultima è scoppiata.

Il saggio è percorso da una strana mescolanza di ottimismo e pessimismo. Il problema della possibile insufficienza della domanda effettiva a realizzare il reddito di pieno impiego non è qui in primo piano, anche se corre sotto traccia. L'ottimismo riguarda le possibilità che la tecnica apre per la soluzione dei problemi economici - e, in fondo, l'uscita dalla scarsità e l'avvento di una economia dell'abbondanza. L'accumulazione del capitale - una volta messa in moto nel XVI secolo, per circostanze anche accidentali, pregne non solo di politica ma anche di violenza - è stata, grazie al miracolo dell'interesse composto, e assieme al crescente flusso di invenzioni scientifiche e innovazioni tecniche, che ha avuto un'accelerazione inedita dal XVIII secolo, all'origine di una sempre maggiore efficacia dei processi produttivi. Una dinamica che, stima Keynes, non si interromperà nei decenni successivi, e, al contrario, si estenderà, tracimando dall'industria all'agricoltura. In un contesto di popolazione decrescente, e scartando l'ipotesi di conflitti bellici, il balzo nell'efficienza tecnica del capitale e nella produttività del lavoro consentirebbe, nell'arco di un solo secolo, di dare per risolta la «lotta per la sussistenza». Finalmente l'uomo si troverà davanti alla vera difficoltà: superato il problema economico, come impiegare il tempo libero, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza.

Il pessimismo riguarda la transizione, come anche l'inadeguatezza dei valori, delle abitudini, degli istinti in cui l'essere umano è stato educato per molto, troppo tempo al fine di affrontare al meglio quella lotta. La transizione: perché la rapidità del progresso tecnico si traduce in quella nuova malattia che è la disoccupazione tecnologica, dovuta al fatto che gli strumenti per risparmiare lavoro saranno introdotti più rapidamente della scoperta dei nuovi impieghi che potrebbero dar lavoro alla manodopera resa eccedente da quell'aumento di produttività. L'inadeguatezza di valori, abitudini e istinti: perché sta in questi ultimi il vero ostacolo alla soluzione più ovvia e naturale della difficoltà, consistente in un sostanziale esodo dalla dimensione del lavoro. Afferma provocatoriamente Keynes: il lavoro dovrà rimanere per qualche tempo, con turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici, soltanto per poter tenere a bada l'istinto del vecchio Adamo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 351

La crisi del keynesismo


Cosa ci dicono queste suggestioni, suscitate dal testo di Keynes, sul mondo in cui viviamo? Per rispondere occorre fare un ultimo passo: risolvere l'ambiguità tra il Keynes del 1930, il Keynes per il quale l'amore per il denaro è affezione patologica ormai in via di obsolescenza, e quello del 1936, per il quale l'amore per il denaro può ancora svolgere un ruolo nel dirottare in modo socialmente non distruttivo pulsioni aggressive; e chiarire però anche i limiti e le aporie in cui sfocia il secondo.

A me pare che quanto si è detto sin qui dia ragione al Keynes della General Theory rispetto a quello delle Economic Possibilities almeno in questo: che per una lunga fase, di cui non si vede ancora la fine, la lotta, non solo alla povertà, ma anche alla disoccupazione e all'ineguaglianza nella distribuzione del reddito, passa per la strada della creazione di opportunità di lavoro piuttosto che attraverso quella di una redistribuzione degli impieghi. Ciò non vuol dire che la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario (come, per altri versi, quella dell'istituzione di un reddito minimo di esistenza incondizionato) non sia obiettivo da perseguire, e da subito. Significa però che quelle proposte non possono essere viste come alternative, semmai come complementari, all'incremento del reddito e dell'occupazione. Anzi, per esser più precisi, quest'ultimo è condizione necessaria (anche se non sufficiente) perché quelle misure redistributive siano praticabili, e abbiano un segno economico e politico progressivo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 356

È una prospettiva tutto meno che ingenua: e ovviamente è una prospettiva che davvero consentirebbe una crescita della conoscenza e delle qualificazioni nella società nel suo complesso. Liberando la scuola e l'università da una funzionalizzazione immediata e di corto termine al mercato del lavoro così com'è (spacciandola per giunta come un modo di mettere meglio in comunicazione offerta e domanda di lavoro), e dando ai lavoratori come cittadini l'accesso a una formazione e a un sapere generalisti e critici - gli unici davvero adeguati a un mondo in rapido mutamento - prima di dar loro, com'è giusto, una formazione professionalizzante. È questa una riforma cruciale che avrebbe nel mondo del lavoro un protagonista attivo e non passivo: dove viceversa l'altra prospettiva di per sé finisce, secondo la critica di Minsky, con il non far altro che redistribuire il lavoro esistente e, se va bene, con l'aumentare relativamente il salario dei più qualificati, aggravando la disuguaglianza salariale.

È una prospettiva che ben s'integrerebbe con l' Ernesto Rossi di Abolire la miseria, che propone l'istituzione di un «esercito del lavoro» in cui andrebbero arruolati tutti i cittadini per svolgere i lavori meno piacevoli tra quelli ineliminabili in una logica di condivisione, come si è detto alla fine del paragrafo precedente; ma anche, più in generale, lavori socialmente utili. Muoversi in questa direzione si è sinora rivelato incompatibile con il sistema capitalistico realmente esistente. Per quanto generosa, l'esclamazione in varie forme e in vari tempi ripetuta almeno Keynes! appare non tener conto di questa dura replica della storia, che ha nelle aporie dell'economista inglese la sua origine. E però non si può non rilevare come la sinistra riconciliata con l'esistente, invece di andare oltre Keynes, sia sempre più regredita a prima di Keynes - saltando, beninteso, Marx.

Tiriamo le fila. La controrivoluzione neoliberista e la nuova economia globalizzata degli ultimi venticinque anni hanno prodotto una realtà all'insegna di una cifra ben diversa da quella dei testi qui discussi. Non viviamo certo la «fine del lavoro», semmai la sua totalizzazione: l'espansione abnorme e mostruosa di un lavoro precarizzato, senza voce, mero fattore di produzione da attivare alla bisogna: pseudo-merce disponibile just-in-time. Paradossalmente, nel mondo dopo il fordismo la tendenza secolare alla riduzione dell'orario di lavoro si è bloccata e rovesciata nel suo contrario. Così, le prospettive economiche dei nipoti di Keynes si sono trasformate in un incubo: unico protagonista sembra il dominio totalitario di quel fantasma trasformatosi in vampiro protagonista del discorso di Marx, che succhia sempre più lavoro vivo, a dispetto di tutte le rivoluzioni nella scienza e nella tecnica.

Che in questo mondo la profezia del Keynes delle Prospettive economiche per i nostri nipoti appaia lontana e sfocata non stupisce. La reazione del sistema alle lotte per un lavoro, non solo meno invadente, ma anche più ricco e protagonista, e per una composizione della produzione socialmente decisa e sottratta all'arbitrio della finanza e degli interessi imprenditoriali, è stata tanto più devastante quanto più è stata efficace nell'indebolire quel soggetto sociale essenziale e centrale che avrebbe potuto, e potrebbe, far scendere sulla terra l'utopia di una liberazione dal lavoro che sia anche e necessariamente liberazione del lavoro. Quell'utopia che solo dentro un forte e differente orientamento strutturale della domanda e dell'offerta, e solo contemporaneamente a una ripresa di protagonismo conflittuale nel processo di produzione, diviene praticabile e realistica, prende carne e sostanza.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 358

APPENDICE 1

L'ecomarxismo di James O'Connor:

centralità del lavoro e questione della natura


Nel libro di James O'Connor (sociologo ed economista statunitense largamente tradotto in italiano) L'ecomarxismo. Introduzione a una teoria, vi fu certamente un grande merito: quello di proporre, tempestivamente e allora controcorrente, una «conciliazione» tra marxismo e pensiero ecologista. Due corpi teorici e due esperienze politiche che molti vedevano invece fieramente contrapposti, e così è ancora oggi in larga misura. L'obiettivo del saggio è duplice. Ai marxisti, che spesso snobbano con sufficienza la «parzialità» della questione della natura o criticano il troppo tiepido anticapitalismo degli ecologisti, O'Connor vuole mostrare che la difesa della natura è parte integrante dell'apparato categoriale marxiano, e non qualcosa che le è estraneo. Ai «verdi», O'Connor vuole mostrare come un ecologismo coerente non possa che investire globalmente i processi economici e politici su scala planetaria, segnati irrimediabilmente dal dominio del capitale. La tesi centrale è, molto in breve, che l'ecologismo (ma anche i «nuovi movimenti», e perciò anche il femminismo) punta l'attenzione su questioni che sono qualcosa di più, e non di meno, della lotta di classe.




Marxismo ecologista


Il tentativo di O'Connor si svolge in quattro mosse.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 375

Nel Sessantotto si era affermata una nozione di eguaglianza diversa tanto dalla eguaglianza formale, l'eguaglianza dei diritti, e dunque dei punti di partenza e delle opportunità, tipica del pensiero liberaldemocratico, quanto dalla eguaglianza sostanziale, livellatrice, uniformante del modello vetero-comunista, e dunque dei punti di arrivo. Si trattava del riconoscimento della pari dignità dei soggetti, pari dignità che è invece negata realmente da un processo sociale che è profondamente disegualitario. È una eguaglianza tutta da costruire, rompendo le diseguaglianze di potere e di sapere che realmente instaurano e riproducono gerarchie ed eteronomia.

Questa nozione di eguaglianza, lungi dall'essere negatrice delle differenze, dà loro spazio affinché si manifestino. È critica e negazione tanto dell'eguaglianza intesa come massificazione e conformismo quanto della differenza intesa come gerarchia e come destino imposto e non scelto. Nei momenti più alti dell'autocoscienza teorica del Sessantotto (si pensi, per fare un nome soltanto, a Hans Jürgen Krahl ) la lotta all'eteronomia, il partire da sé, l'essere dentro e contro sono inseriti in una analisi della «totalità» capitalistica. Contro cui si lotta, ma cui non si può non riconoscere sul piano conoscitivo e reale (di una realtà che si vuole rovesciare) un primato. Affermare la propria autonomia è mettere in crisi il sistema presente, non separarsene. Quando i movimenti prenderanno invece questa seconda via, negando l'universalismo del momento iniziale - quando cioè ognuno andrà per conto proprio - ciò sarà effetto (e in parte causa) della sconfitta dei movimenti.

È diffusa l'opinione secondo cui il Sessantotto, antiautoritario e movimentista, sarebbe poi stato sopraffatto e soffocato da un Sessantanove operaista e dallo sciagurato politicismo degli anni Settanta, dei gruppi prima e del terrorismo poi. Eppure il legame tra Sessantotto e Sessantanove è forte e interno. Nelle lotte operaie del ciclo 1969-1973 al centro è ancora il tema dell'eguaglianza, ed è comune al movimento degli studenti e all'autunno caldo la rivendicazione dell'autonomia e dell'autodeterminazione. Il conflitto nei luoghi di lavoro non si limitava alle classiche lotte distributive ma diveniva in primo luogo lotta allo sfruttamento: le lotte sul salario vengono affiancate da lotte sulla produttività, le lotte sull'orario dalle lotte sulla gerarchia nel processo di lavoro. Se le lotte di quegli anni non possono essere semplicisticamente viste come lotte per l'ottenimento di più valori d'uso, di più merci, di maggiore consumo reale, ciò non significa che in esse la dimensione del valore d'uso sia irrilevante. Le lotte di quegli anni sono, anzi, lotte sul valore d'uso della forza-lavoro.

Il valore d'uso della forza-lavoro non è separabile da lavoratrici e lavoratori come individui concreti. Il capitale per ottenere lavoro e pluslavoro deve «comandare» l'operaio in quanto essere umano, deve sfruttarlo in quanto corpo, in quanto essere naturale [se ne è parlato nella prima Appendice, in questo volume]. Riemerge qui un tema che abbiamo visto essere tipico del Sessantotto, e si anticipa in un certo senso una tematica ecologista: basti pensare alle lotte per la salute, e dentro la fabbrica alla parola d'ordine - tutt'altro che scontata, come mostra la storia prima e dopo di allora - «la salute non si vende». È presente anche, del Sessantotto, la tensione tra eguaglianza e differenze: l'egualitarismo di quegli anni si accompagna difatti non alla negazione delle diverse culture presenti con diverso peso nella composizione della classe lavoratrice di allora - dall'operaio di mestiere all'operaio-massa, dall'etica del lavoro al rifiuto del lavoro - ma al loro comunicare e riconoscersi pari dignità ed efficacia, nel rifiuto di un meccanismo omologante.

Se questi sono alcuni dei caratteri di quel ciclo di lotte, si può dire a ragione che esse erano anche lotte contro il primato della produzione. Ma, dall'altro lato, le forme che assumevano tali lotte (nesso eguaglianza-differenze, autonomia dei movimenti della composizione di classe, primato dei bisogni concreti di lavoratrici e lavoratori contro il meccanismo astratto della valorizzazione) costituivano una critica pratica di straordinaria forza alla tesi del primato delle ragioni dell'economia su quella delle altre sfere della connessione sociale.

L'accusa di buona parte del pensiero femminista, ma anche verde, è quella secondo cui la centralità del lavoro comporterebbe una ideologia dell'«uomo produttore». In quanto predicata su una generica, non sessuata, nozione di «uomo», tale ideologia altro non sarebbe che una falsa universalizzazione, che attribuisce un indebito primato nell'agire umano alla dimensione del lavoro e della produzione di beni, cioè a una dimensione che storicamente è stata solo, o prevalentemente, maschile. Di conseguenza, si sostiene, si finirebbe con l'attribuire a entrambi i sessi ciò che è proprio solo di uno di essi, e con il negare valore ad altre sfere dell'attività umana come quella della riproduzione, storicamente delegata al genere femminile. In quanto ideologia dell'uomo produttore, tale posizione sarebbe solidale rispetto a un atteggiamento di dominio illimitato dell'uomo sulla natura, con tutte le conseguenze distruttive dell'equilibrio ambientale che abbiamo tragicamente sotto gli occhi.

Una parte significativa del femminismo si è sentita estranea rispetto al conflitto di classe: indifferente, quando non ostile, all'idea di eguaglianza. Vi sono, certamente, delle posizioni femministe che accentuano la fondazione biologica della differenza sessuale: il passo verso l'affermazione della differenza come diseguaglianza naturale e originaria è qui breve, e pericoloso. Si tratta però di posizioni poco interessanti. Più interessanti sono le posizioni che riconducono il femminismo alla differenza di «genere», cioè a una differenza tra maschile e femminile che trova origine in un impasto di natura e cultura, in cui il secondo termine ha la prevalenza sul primo, gli dà forma. All'interno di questo modo di impostare la questione, tanto la ricerca quanto il movimento delle donne hanno avuto certamente il merito di dare peso, scientifico e politico, a temi non a caso a lungo disattesi dalla ricerca «maschile»: dalla maternità al lavoro domestico; dalla finta neutralità asessuata del linguaggio alla tutt'altro che «naturale» formazione psicologica delle personalità maschile e femminile; dalla critica del prometeismo della scienza e della tecnica attuali alla accettazione della logica del rischio come costo del progresso tecnico. E si potrebbe continuare.

Quando il femminismo si è posto sulla scia del postmodernismo e del pensiero debole il problema è stato il non rendersi conto che la pluralità irrelata dei soggetti sociali non è che l'altra faccia del medesimo processo di ristrutturazione sociale ed economica che ha segnato in permanenza l'ultimo capitalismo. La «debolezza» delle pretese, conoscitive e trasformative, dei nuovi soggetti, è il risultato di un potere sistemico capillarmente diffuso e invisibile, ma proprio per questo «fortissimo», e in questo senso del tutto «maschile». L'atteggiamento che, almeno da noi, ha egemonizzato la discussione femminista è stato però un altro, il pensiero forte della differenza sessuale, che non annega la differenza di genere nelle altre differenze. Qui, d'altronde, il richiamo all'identità rischia di scivolare nell'essenzialismo: è l'essere donna, esperito come un fatto, a dover trovare una significazione, nella costruzione separata di un linguaggio, di un pensiero, di una cultura, di un immaginario. L'affermazione - che condivido - secondo cui la duplicità di genere dà luogo a punti di vista differenti si prolunga nella tesi, che mi pare invece inaccettabile, secondo cui non avrebbe senso l'universalismo (l'affermazione della presenza di caratteri comuni ai generi: caratteri certo sempre da costruire, e sempre transitori, ma nondimeno tali da poter parlare, appunto, di «un» genere umano); e trascolora quindi da differenza di genere a differenza di specie.

| << |  <  |