Copertina
Autore Enrico Bellone
Titolo Molte nature
SottotitoloSaggio sull'evoluzione culturale
EdizioneCortina, Milano, 2008, Scienza e Idee 183 , pag. 174, cop.fle., dim. 14x22,4x1,5 cm , Isbn 978-88-6030-215-1
PrefazioneGiulio Giorello
LettoreCorrado Leonardo, 2009
Classe evoluzione , mente-corpo , storia della scienza , scienze cognitive , relativismo-assolutismo , astronomia
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Indice


Prefazione
Le ragioni di Gurdulù (Giulio Giorello)      XI


Avvertenza per il lettore                     3

1. I corpi celesti                            7

2. I corpi viventi                           25

3. I canarini di Nottebohm                   39

4. I segni                                   51

5. Le piccole sfere                          69

6. Le grandi sfere                           93

7. Che cosa c'è?                            111

8. Teorie                                   131

9. La finestra                              145


Letture suggerite                           165

Indice dei nomi                             171



 

 

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Pagina 3

AVVERTENZA PER IL LETTORE



L'esito di un'esposizione dipende dalle abitudini di chi ascolta. ARISTOTELE, Metafisica


In questo libro espongo una rete di collegamenti tra discipline diverse e suggerisco un punto di vista sullo sviluppo della cultura. Discipline diverse, certo: dagli studi sull'origine della scrittura all'esplorazione di ciò che accade nei nostri cervelli e nei nostri organi di senso, dagli sviluppi dell'evoluzionismo all'approccio naturalistico alla filosofia, dalle ricerche sul comportamento degli animali e dei vegetali all'analisi dei generi letterari.

La struttura della rete e il punto di vista sulla cultura sono in contrasto con una convinzione che è popolare in gran parte della filosofia e del senso comune, e che colloca gli umani in una posizione privilegiata rispetto agli altri corpi viventi. Tale convinzione è popolare soprattutto perché svolge un ruolo consolatorio. Essa sostiene, infatti, che solo gli umani possiedono una mente immateriale – una variante dell'anima – dove alloggiano le idee: la consolazione sta appunto nell'ipotesi che, essendo immateriale, la mente non deperisca come il corpo ma in qualche modo sopravviva insieme alle idee. Le idee, quindi, formerebbero quel mondo spirituale che indichiamo con il nome cultura e al quale solo gli umani possono accedere. Il linguaggio parlato e scritto sarebbe allora un mero strumento per veicolare le idee fra le menti.

Il mentalismo non è tuttavia in grado di rispondere ai quesiti più elementari che si presentano a chiunque seriamente accetti la distinzione tra mente e corpo: quali operazioni dovrebbe effettuare un mio stato mentale per impartire ordini alle dita della mia mano destra affinché io riesca a prendere un bicchiere d'acqua? Quali processi dovrebbero svolgersi in me affinché io possa accedere alla mente di un individuo che ha pubblicato un libro nel 1623 e che è morto nel 1642? Che cosa si dovrebbe fare per esibire pubblicamente un'idea dopo averla estratta dal linguaggio che la dovrebbe trasportare fra le menti? Dire che la mente è misteriosamente in grado di regolare il corpo equivale insomma a dire che un arcangelo è misteriosamente in grado di regolare l'orbita di Marte.

Il mentalismo, quindi, va lasciato ai mistici e può essere sostituito da un atteggiamento profano e tollerante, dove la tolleranza sta nel sostenere che le espressioni del tipo "Mi è venuta in mente un'idea" sono utili modi di dire che non vanno tuttavia presi troppo sul serio, perché ciò che siamo abituati a chiamare mente è solo una parte di quanto si realizza nelle nostre reti neurali e può essere osservato in un laboratorio: quella parte che ci consente di apprendere, memorizzare e coordinare i nostri comportamenti.

Nel respingere il mentalismo si abbandona anche l'illusione che l'uomo sia la misura di tutte le cose. Sotto molti aspetti, insomma, abbandonare il mentalismo che colloca l'uomo al centro della natura equivale ad abbandonare gli antichi modelli tolemaici che pongono la Terra al centro dell'universo. Ma nel negare questa illusione antropocentrica non si compie un'operazione di svilimento della nostra specie. Al contrario, si coglie la bellezza dell'attività conoscitiva che si produce negli umani e negli altri corpi viventi, tutti insieme indaffarati nelle loro specifiche azioni di adattamento all'ambiente che li ospita.

Se gli attori dei processi conoscitivi sono le reti neurali, allora la teoria della conoscenza cessa di appartenere a una filosofia prima che prescinda dalla scienza e va a collocarsi all'interno della biologia e delle altre scienze che studiano le proprietà della materia. Più in generale, i problemi relativi alla descrizione della realtà sono problemi interni alle scienze della natura e alla loro evoluzione. Le nostre descrizioni scientifiche della realtà da sempre coinvolgono elenchi di entità di vario genere: orbi celesti o fluidi magnetici, atomi indivisibili o enti matematici, e via dicendo. Ma in questo libro si mostra che tutti gli elenchi di ciò che vi è sono provvisori e mutevoli con il variare delle nostre teorie e che, di conseguenza, l'ontologia è interna all'evoluzione delle teorie e non fa parte di una filosofia disposta al di sopra delle scienze.

Ne segue, inoltre, che la storia della scienza cessa di essere un racconto documentato delle idee che hanno viaggiato fra coloro che nei secoli hanno cercato di rappresentare i fenomeni in modo più o meno ordinato, e può invece aspirare a diventare essa stessa una scienza dell'evoluzione culturale della nostra specie. Stando così le cose, è priva di senso l'opinione secondo cui ci sono state, rispettivamente nel Seicento e alla fine dell'Ottocento, una rivoluzione scientifica di tipo metodologico che avrebbe partorito una scienza moderna di tipo meccanicistico e una crisi metodologica da cui sarebbe nata la scienza contemporanea.

Un'ulteriore conseguenza riguarda la conoscenza in generale e fa evaporare le dispute sulle cosiddette due culture. Le opere umane come Il cielo di Aristotele o Ulisse di Joyce, gli esperimenti di Galilei sui piani inclinati o la serie di dipinti e disegni che Cézanne ha dedicato al Mont Sainte-Victoire, la teoria di Dirac sull'elettrone o la filosofia di Quine sono rappresentazioni culturali di aspetti diversi della natura. La cultura è una, e la sua evoluzione fa parte dell'evoluzione della specie.

Il lettore potrà facilmente notare che uso modi diversi di scrittura a seconda degli argomenti presi in esame. Nei primi due capitoli, per esempio, fingo di esporre le certezze e i dubbi di un ipotetico cittadino ateniese che nel 333 a.C. riflette su ciò che sta imparando nel Liceo di Aristotele. È una finzione, senza dubbio, e il suo scopo non è certo quello di analizzare certe pagine di Aristotele, ma quello di ricostruire una possibile – e plausibile – elaborazione di un singolo schema teorico da parte di un singolo essere umano che sta consultando schemi teorici di altre persone. Lo stesso vale per l'ultimo capitolo, dove compare un essere umano il quale sta oggi ripercorrendo una variegata famiglia di teorie.

Un chiarimento preliminare sul titolo di questo libro. Nella prospettiva in cui mi pongo è accettabile la congettura che ci sia qualcosa, là fuori: i miei organi di senso allora filtrano stimoli esterni e li traducono in segnali, e i segnali viaggiano nella mia rete neurale e sono irreggimentati da regole innate. Le varie e variabili descrizioni di quel qualcosa di esterno che tutti noi chiamiamo natura dipendono dalle operazioni attive che si effettuano nei nostri sensori e nelle nostre reti neurali, e la comunicazione di dati tra gli umani è possibile non perché ci si scambiano idee, ma perché i cervelli e i sensi degli individui della nostra specie sono simili.

Questo argomento, se è valido, vale anche per gli altri corpi viventi. Con la clausola, non marginale, per cui un'ape ha un corredo di sensori e di reti neurali diverso dal nostro — e le api comunicano fra di loro dati molto precisi. Dobbiamo di conseguenza fare i conti con una molteplicità di nature, senza ricadere nel sogno per cui solo la nostra sarebbe quella vera.

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Pagina 51

4



Sono passati più o meno 50.000 anni da quando i nostri antenati hanno cominciato a tracciare figure su pareti di roccia o su altri supporti materiali. E altre migliaia di anni sono state poi necessarie per approdare a documenti scritti definibili come "protoletterari": figure geometriche, numeri, somme e sottrazioni. L'approdo coincide con la transizione dalla caccia all'agricoltura e all'allevamento, e con la formazione delle prime città. Da dove venivano, però, le conoscenze elementari in geometria e in matematica che resero possibile la comparsa di quelle forme di comunicazione e che hanno comunque lasciato tracce profonde nei nostri odierni modi di scrivere? Che senso ha la constatazione secondo cui diecimila o dodicimila anni fa si usavano i medesimi numeri naturali che usiamo oggi? Per quali ragioni emersero di colpo sia il sistema decimale sia quello sessagesimale, che poi rimasero immutati nei millenni? Come mai furono stabilite – secoli e secoli prima che qualcuno raccogliesse insieme e mettesse in ordine qualche famiglia di problemi geometrici – delle corrispondenze precise tra enti geometrici (coni, sfere, cilindri, ecc.) ed enti materiali (pecore, vasi di orzo, ecc.)? Domande intriganti, alle quali non si trovano risposte con generici rinvii a quelle forme orali di comunicazione che precedettero la scrittura: gli ipotetici maestri che devono essere immaginati in questi rinvii devono pur avere appreso da qualcuno i rudimenti dell'aritmetica e della geometria, e così il rinvio va all'indietro senza tregua. Forse, la risposta migliore è quella che trancia il rinvio all'infinito ed esplora i territori neurali della matematica embodied. La scrittura dei testi protoletterari fu una risposta imprevedibile ai nuovi bisogni scatenatisi con la transizione dalla caccia all'agricoltura, e poté realizzarsi perché i nostri cervelli sono fatti in un certo modo. La scrittura permise di trasferire subito, su supporti materiali esterni, tutte quelle informazioni che non potevano essere accolte nelle architetture nervose dove alloggiano le nostre labili memorie biologiche. Siamo abituati a vedere la scrittura come testo letterario, e abbiamo dimenticato che la dimensione del racconto è venuta a galla dopo i computi numerici, come evento non intenzionale.

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Pagina 69

5



Che senso può mai avere un discorso evoluzionistico sulla scienza di Galilei? L'evoluzione degli organismi, infatti, è innescata dal caso ed è messa in ordine dalla selezione naturale: una miscela di bricolage e di materiali necessità varie – nulla a che vedere insomma con la fisica o l'astronomia, sembra. Eppure, sono già passati quarant'anni da quando Jacques Monod ha scritto, nel suo ormai classico Il caso e la necessità, che "le idee hanno conservato certe proprietà degli organismi. Come questi, esse tendono a perpetuare e moltiplicare la propria struttura, come questi, esse possono fondersi, ricombinarsi, segregare il loro contenuto, come questi, infine, esse si evolvono e, in quest'evoluzione, la selezione, forse, svolge una funzione fondamentale". Nella cornice – ben s'intende – in cui l'evoluzione di una struttura è possibile solo se quest'ultima è "già dotata della proprietà di invarianza, e quindi capace di 'conservare il caso' e di subordinarne gli effetti al gioco della selezione naturale". La tesi di Monod s'è poi rafforzata con la crescita delle conoscenze relative all'evoluzione culturale, ed è giusto allora riprendere fra le mani le fonti primarie che ci parlano delle mutazioni verificatesi (e documentabili) nei saperi cinquecenteschi sui movimenti osservabili: piani inclinati, pendoli, cadute libere dei corpi pesanti. Il problema centrale, negli scritti lasciatici da Galilei, non è metodologico: Galilei impara infatti, in età giovanile, che l'empirismo aristotelico è un ottimo codice per esplorare i fenomeni, grazie al connubio fra sensate esperienze e certe dimostrazioni. Con il trascorrere degli anni le fonti primarie subiscono variazioni imprevedibili e così vediamo come Galilei, conservando l'empirismo di partenza, inneschi suo malgrado una ristrutturazione molto particolare delle teorie sui movimenti dei gravi. Egli infatti produce una scienza del moto che gradualmente rigetta l'analisi delle cause prime e delle essenze, e la sostituisce con una sempre più estesa geometrizzazione degli eventi osservabili sulla superficie del nostro pianeta, nella cornice di un copernicanesimo che lega insieme l'astronomia e la fisica.

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Pagina 74

Nel mettere insieme Aristotele, Euclide e Archimede si realizza davvero, con Galilei, una sorta di bricolage i cui sviluppi non rientrano nell'ambito del prevedibile. E, nello stesso tempo, il bricolage si ristruttura cammin facendo, e genera variazioni di rilievo al proprio interno procedendo a zig zag, per tentativi. Con Galilei, infatti, le variazioni portano a incrinare un settore delicato dell'eredità aristotelica.

Un buon aristotelico elogia l'esperienza e la deduzione, ma è soprattutto convinto che si debba compiere un altro passo, e cioè scovare, grazie a una filosofia posta al di sopra delle singole scienze, le cause e le essenze che sono in gioco. Un buon seguace di Euclide e di Archimede, invece, concentra la propria attenzione sulle figure e sulle traiettorie.

Ecco allora il secondo tema, e cioè quello che attiene all'analisi dei movimenti e alla teoria del moto relativa ai corpi celesti e agli oggetti i cui spostamenti sono visibili sulla Terra. Il buon aristotelico punta a ottenere spiegazioni astronomiche e fisiche, ma non se ne accontenta. Il buon archimedeo, invece, geometrizza il mondo e si concentra su problemi per così dire locali. Egli vuole capire come funziona la leva o come mai certi corpi stanno a galla sull'acqua e altri no: si pone, in altri termini, domande che al metafisico appaiono come riferite a minuzie tecniche, estranee alla cultura sovrana del filosofo vero e proprio. Il quale pone se stesso come centro della saggezza, come misura di tutto ciò che accade nel mondo, come cultore di un sapere che aspira alla completezza e all'universalità.

Uno dei risultati del bricolage galileiano è allora quello per cui l'uomo non è la misura di tutto e non esiste alcuna possibilità di conoscenza completa:

Estrema temerità mi è parsa sempre quella di coloro che vogliono far la capacità umana misura di quanto possa e sappia operar la natura, dove che, all'incontro, e' non è effetto alcuno in natura, per minimo che e' sia, all'intera cognizion del quale possano arrivare i più specolativi ingegni. Questa così vana presunzione d'intendere il tutto non può aver principio da altro che dal non avere inteso mai nulla, perché, quando altri avesse esperimentato una volta sola a intender perfettamente una sola cosa e avesse gustato veramente come è fatto il sapere, conoscerebbe come dell'infinità dell'altre conclusioni niuna ne intende.

Un risultato, questo, che non solo è imprevedibile per gli intellettuali del primo Seicento, ma che ai loro occhi si presenta come sconcertante: esso infatti implica che ogni asserto umano basato su esperienze ripetute sia passibile di critica, e che ogni proposizione ritenuta vera possa essere falsificata. Sta insomma nascendo il punto di vista secondo cui la libera controversia è la sorgente della crescita della cultura. Non a caso si fa luce lo slogan secondo cui il sapere si fabbrica provando e riprovando (dove "riprovare" non vuol dire "provare ripetutamente", ma vuol invece dire "falsificare").

Che sia sconcertante – e da respingere – lo dice bene il Simplicio del Dialogo: "Questo modo di filosofare tende alla sovversion di tutta la filosofia naturale, e al disordinare e mettere in conquasso il cielo e la terra e tutto l'universo". Ed ecco la risposta galileiana:

La filosofia medesima non può se non ricever benefizio dalle nostre dispute, perché se i nostri pensieri saranno veri, nuovi acquisti si saranno fatti, se falsi, col ributtargli, maggiormente verranno confermate le prime dottrine. Pigliatevi più tosto pensiero di alcuni filosofi, e vedete di aiutargli e sostenerli, ché quanto alla scienza stessa, ella non può se non avanzarsi.

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8



Ci stiamo avvicinando a trarre qualche conclusione dai discorsi sino a ora messi in campo. Ben sapendo che proprio da quei discorsi si ricava che nessuna conclusione è certa: ogni asserto umano, quale che sia la sua struttura, è provvisorio e suscettibile di controversie. Relativismo? Certamente. Solo gli dei promulgano verità non negoziabili. Gli umani, invece, fabbricano teorie per meglio adattarsi al loro ambiente. Già, ma che cosa è mai una teoria? Parrebbe facile rispondere dicendo che esiste, per esempio, una teoria galileiana sulla cinematica. Eppure, s'è visto che quella teoria è una sequenza di mutevoli schemi teorici che si protrae per decenni e che poi si ferma solo perché Galilei muore. Una sequenza che assomiglia a un albero formato da rami che a volte si seccano e altre volte invece gemmano nuove diramazioni, procedendo a zig zag negli anni; e lasciando ad altri individui il compito di proseguire, così che l'albero si infoltisca e cresca. Sempre e solo individui, insomma. Sia come produttori di cultura, sia come entità culturali in evoluzione. Da questo punto di vista una teoria è una struttura individuale, e le mutazioni si verificano al suo interno. È una struttura individuale nel senso che l'espressione "Ho in mente, ora, questa teoria" descrive un singolo stato chimico-fisico della rete neurale di un individuo. Uno stato materiale che è "ora" e che, dati i processi all'opera nelle sinapsi, è labile e aperto all'irruzione di nuovi dati. In altri termini, la conoscenza è un bricolage, e le forme della conoscenza non si esauriscono nella scienza, ma si estendono a ogni manifestazione culturale. Ogni scienziato, infatti, lavora nel bricolage adoperando delle norme di traduzione che costituiscono una sorta di suo dizionario personale: al cui interno si dislocano pregiudizi di vario genere, convinzioni tratte da letture di altri testi o da conversazioni con altre persone, ecc. Il cervello di un essere umano non è un cronista, ma è un generatore di innovazioni che debbono poi sottostare al tribunale della selezione. Nelle piccole comunità di coloro che hanno forti competenze, certi stati teorici sono accettati in quanto semplificano le descrizioni dei fenomeni o le riconducono all'interno di rappresentazioni di grande generalità. Nelle più popolate comunità che tendono a conservare alcuni principi non negoziabili scattano procedure di selezione che rigettano l'innovazione. Nella sua copia personale del Dialogo, Galilei, ormai condannato, aveva fatto qualche annotazione personale. Egli riteneva che "in materia dell'introdur novità" prevalevano i poteri di "persone ignorantissime di una scienza o arte", le quali agivano come "giudici sopra gl'intelligenti".

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Suggerisco allora che l'evoluzione delle nostre descrizioni abbia la propria fonte nelle mutazioni accidentali e ampiamente inconsce che si realizzano in ciascuna di esse, e che tale fonte sia inscritta in quello stupendo bricolage neuronale che l'evoluzione ha stampato nei nostri corpi.

Qualora si ammetta questo suggerimento ci si scontra, però, con alcuni problemi che riguardano i criteri di verità e la cosiddetta realtà esterna.

Cominciamo con i criteri di verità. Nei millenni che abbiamo alle spalle due prospettive sono sempre rimaste aperte a questo proposito, e "nessuna delle due, quando è formulata in modo ingenuo, può essere presa sul serio". Per un verso, si sostiene che una proposizione è vera se è dedotta in modo coerente da determinate premesse. Il che dovrebbe spiegare come mai ci sembra ragionevole dichiarare che in matematica, in geometria e in logica possiamo approdare a forme di verità, e che queste forme di verità non hanno alcun bisogno di essere confortate da dati empirici. Molte proposizioni, per esempio, godono di questa forma di verità in schemi teorici della geometria dove si discute di spazi ad n dimensioni che non necessariamente si riferiscono alle nostre abitudinarie stimolazioni sensoriali.

D'altra parte, siamo comunque tentati di affermare che una proposizione è vera se corrisponde a un fatto accertato. E qui abbiamo enigmi di non facile soluzione. Per molti secoli, infatti, folle di studiosi hanno sostenuto che fosse un fatto accertato quello secondo cui un oggetto pesante scende lungo la verticale con velocità costante: dato questo fatto, si è emanata una legge fisica che rappresenta veritieramente la caduta libera in termini di moto uniforme con accelerazione nulla. Ma, a un certo punto, si è invece sostenuto che sia un fatto quello secondo cui un oggetto pesante che si muove liberamente nel campo gravitazionale si sposta con velocità non costante, e si è emanata una nuova legge fisica in funzione dell'accelerazione.

I fatti sono descrizioni, le descrizioni dipendono dagli schemi teorici che di volta in volta si materializzano nelle nostre assemblee neuronali, e queste ultime adottano sempre quelle modalità che nell'evoluzione sono state selezionate.

Quando si innesca questo modo di intendere i fatti, sembra anche profilarsi, soprattutto, la tentazione di negare l'esistenza di ciò che il senso comune o il realismo ingenuo chiamano "realtà esterna". Ma questa tentazione vivacchia soltanto nelle zone più retoriche di certe filosofie, e non è nemmeno indispensabile essere troppo virtuosi per non lasciarsi tentare. Un sano empirista può infatti scegliere semplicemente di dire che c'è qualcosa là fuori che irrita i nostri organi di senso. Ma quando tentiamo di spiegare, per esempio, come faccia quel qualcosa a eccitare i nostri occhi, dobbiamo fare appello a teorie: teorie che descrivono la luce in arrivo sulle nostre retine rappresentandola come onde elettromagnetiche o fasci di fotoni; altre teorie che rappresentano le retine come agglomerati di cellule sensibili alla luce che trasformano gli stimoli luminosi in segnali elettrici; altre ancora che parlano di come questi ultimi si propagano sino a sfociare nelle aree visive, ecc. E lo stesso succede quando cerchiamo di spiegare come funzionano le miriadi di sensori che agiscono qua dentro, e cioè all'interno dei nostri corpi, dove controllano collezioni di dati fondamentali per la nostra sopravvivenza, dalla temperatura alla presenza di batteri: ancora teorie.

Diciamo, per intenderci, che non possiamo fare altro che riferirci a descrizioni teoriche. Detto questo, però, dobbiamo anche ammettere che tutte queste descrizioni teoriche sono instabili, e che la loro storia ci dovrebbe avere insegnato come non si diano teorie assolutamente vere (con le ovvie eccezioni: ci sono persone, per esempio, che possiedono verità rivelate da un dio, ecc.) e come ogni asserto scientifico sia passibile di rigetto.

Come conciliare allora la nostra fiducia nelle descrizioni teoriche, visto che nessuna di esse è sicuramente vera per sempre?

Una domanda del genere è legittima, e sembra addirittura profonda. Appare profonda e interessante, però, solo se chi la pone ha già adottato il duplice punto di vista secondo cui esiste una Verità indipendente da noi, e la crescita delle nostre conoscenze tende a essa sotto la guida di qualche logica. Questo modo di intendere la verità è tuttavia troppo simile a quello di intendere la realtà esterna. In entrambi i casi, infatti, si trascura la circostanza per cui abbiamo solo teorie che fanno riferimento sia alla prima sia alla seconda: discutiamo delle forme della verità così come discutiamo della luce in termini di fotoni.

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