Autore Roberto Casati
Titolo Oceano
SottotitoloUna navigazione filosofica
EdizioneEinaudi, Torino, 2022, Saggi 1023 , pag. 210, ill., cop.rig.sov., dim. 14x22,3x2 cm , Isbn 978-88-06-25244-1
LettoreRenato di Stefano, 2022
Classe mare , ecologia , filosofia , scienze naturali












 

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Indice


       Oceano

    3  I.     Incontrare

   16  II.    Cercare, immaginare

   41  III.   Pensare

   71  IV.    Salpare, osservare

  111  V.     Nascere

  122  VI.    Usare, rispettare

  144  VII.   Soccorrere

  150  VIII.  Approdare, ripensare


  181  Ringraziamenti
  185  Note al testo
  195  Riferimenti bibliografici


 

 

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Pagina 45

Il mare genera epiche, e non basterebbe un solo volume a riportarne l'elenco. Epiche della navigazione (i Moitessier , gli Slocum ); epiche della scoperta e dell'esplorazione (i Cook, i Colombo, i Sinbad, i Tupaia e i navigatori e le navigatrici del Pacifico rimasti per sempre senza nome); epiche degli elementi (Shakespeare tra molti), del naufragio (Alcione e Ceice, Gordon Pym, Paul e Virginie, Robinson Crusoe, il Luis Alejandro Velasco di García Márquez); epiche della pesca (i Melville, gli Hemingway, le Poulain); epiche della distanza da casa e del ritorno (Ero e Leandro, Ulisse, Shackleton), della perdita senza conforto (gli Hugo, i Sebastian Junger). È letteralmente intessuto di epiche della ricerca di una casa, con continui rovesciamenti di prospettiva: terre che fino a ieri erano sorgenti di emigrazione, diventano terre del desiderio, e viceversa; la storia ce lo ricorda e visto che ce ne dimentichiamo, ci sorprende. Laddove nel diciassettesimo secolo fu la Sicilia il luogo verso cui ogni manovale lombardo pensava di imbarcarsi per andare a far fortuna, nel ventesimo i ruoli geografici si sono ribaltati; e laddove gli italiani e i greci hanno parenti oltremare, in Argentina, in Canada, in Australia sono i compagni e le compagne di classe dei loro figli e delle loro figlie ad avere oltremare la famiglia: nello Sri Lanka, nel Camerun, in Egitto. Il mare è, quantomeno, evasione, perché in mare si fanno cose molto diverse da quelle che si fanno di solito nella vita a terra. È sempre e comunque un azzardo; anche una nuotata a cento metri dalla riva può sfociare in una situazione fuori controllo e senza ritorno, e sono piú di duecentomila all'anno i morti per annegamento nel mondo.

Il mare è psicologizzato; è trattato come un individuo carico di stati d'animo («pauroso», «temibile», «ruggente», «vindice»), e anche i termini piú asciutti e oggettivi che descrivono la sua forma («piatto», «calmo», «mosso», «agitato») mostrano in filigrana una vena emotiva; certo, di altri elementi naturali si parla come se avessero una psicologia e delle intenzioni benevole o malevole nei confronti degli esseri umani, a volte li si associa a divinità maggiori o minori. Ma mentre è sempre una montagna particolare, non la montagna in genere, a essere infida e ostile, e ogni singola montagna sembra avere il suo carattere, il mare viene pensato come un unico essere, dietro le differenze locali trapela un'unica psicologia.


Suona la sveglia. Dal boccaporto sopra la mia cuccetta vedo che c'è il sole. Si sente, appena udibile, il rumore inequivocabile di un pesce volante che si dibatte in coperta. Sarà stato intercettato dal fiocco cazzato a ferro, è rimbalzato sul ponte. Esco stropicciandomi gli occhi, lo cerco e lo ributto in acqua. Lui ce l'ha fatta, diversi suoi compagni giacciono esanimi intorno a me. Vado a prendere il quaderno e mi metto a disegnarne uno. Ma che cos'è? Un drago? Una chimera?

Gli abitanti del mare? Alieni a tutti gli effetti. Mammiferi alieni come le balene e i trichechi, uccelli alieni come i pinguini, e intere specie aliene, dalle mante ai paguri, mostri le cui forme sfidano l'immaginazione, e le cui capacità biomeccaniche e vitali non finiscono di stupirci. Dai pesci volanti alle meduse ai polpi, dagli ippocampi alle bivalve alle foreste di kelp, dai pesci spada alle stelle marine alle specie di profondità adattate a pressioni che schiantano i sommergibili, la varietà acquatica è di per sé sorprendente già alla scala umana; «fiori che non sono piante ma animali», nelle parole di Rachel Carson. Scendendo al livello microscopico si entra in un universo multiforme, fantasmagorico, geometrico, frattale, astratto, attraversato da simmetrie alambiccate, di cui non conosciamo che una parte. A scale che non immaginavamo: diatomee, dinoflagellate, coccolitofori sono mostri piccolissimi, che vivono pochissimo, ma che sui tempi lunghi hanno fornito il materiale per costruire montagne.

La percezione in mare è una sfida. La mente dei terrestri, abituata a montagne, sassi, alberi, cose materiali, cerca affannosamente forme stabili, e vi trova al meglio dei quasi-oggetti: le onde. Hanno forma e dimensione, un luogo; non sono come i numeri o i sogni e tuttavia non sono delle vere e proprie cose. La loro ontologia è sempre dubbia, c'è chi le ha rubricate nei «disturbi» o «perturbazioni»; generano un'irresistibile illusione di materia in movimento: ci sembra che un'onda porti con sé e muova tutta l'acqua che la costituisce, ma a ogni istante un'onda è costituita da acqua nuova, se ne nutre, l'abbandona, ne sposta un poco e rimesta quella che rimane.


A cento miglia da Fajal un leggero effluvio vegetale ci mette in agitazione, forse è stata avvistata la terra? Ma era soltanto Louis che si era preparato una tisana.


Colpisce sempre i naviganti, non ce lo si aspetta: il mare aperto non ha odore, letteralmente alcun odore. Su questo bianco olfattivo gli afrori della barca diventano opprimenti, gasolio, cotture, sudore, il fumo di una sigaretta, impossibile sfuggirvi. E il mare non ha colore, se ne ha uno è illusorio: prende quello del cielo, non ha una tinta sua, quando lo raccogli nel cavo della mano la sua acqua è trasparente. A duecento metri di profondità non filtra piú la luce; il mare profondo è nero. I Greci antichi lo descrissero come glauco, scintillante, non proprio un colore; sulle carte geografiche è stato incolore, a volte rosso, poi nero, solo da poco stabilizzato in blu - non proprio blu mare, piuttosto azzurro cielo, come nei disegni infantili; e le carte nautiche si ostinano a lasciarlo bianco; probabilmente hanno ragione, il colore mimetico delle cartografie terrestri serve a differenziare (boschi laghi città), ma nel mare c'è soltanto acqua.

Come pensiamo al mare? Il mare è un contenitore e un contenuto a un tempo. I pesci, vien fatto di dire, sono nel mare come sarebbero in un ricettacolo o in una rete. Di converso la forma del mare, come quella di ogni individuo liquido, è quella del suo contenitore terrestre e dell'aria che preme sulla sua superficie. Potremmo anche pensare al mare come a un puro luogo, un'entità soltanto geografica, se il mare stesso non ci ricordasse la forza della sua materia. Ma l'acqua, allo stato liquido, è di per sé amorfa e non individualizzata; è difficile trovare parti di un animale o di un artefatto che siano esse stesse un animale o un artefatto; mentre ogni porzione di acqua è acqua, e cosí via, fino alle molecole.

[...]

Il mare è una superficie e una profondità, e pure qui ha un modo tutto suo di celare i propri tesori, distinto dai recessi della terra (caverne anfratti giacimenti). Sulla superficie del mare, cosí come nei suoi abissi, ogni cosa si muove senza barriere, non incontra limiti se non nella costa. Guardare il pianeta da un punto di vista remoto può e deve relativizzare questa rappresentazione. I ventimila metri di differenza di quota tra la cima dell'Everest e la fossa delle Marianne sono un trecentesimo del raggio terrestre. Se la si riducesse alle dimensioni di un uovo di gallina su cui il dito scorre senza avvertire rugosità, la terra sarebbe dieci volte piú liscia dell'uovo, venti volte se si guardasse soltanto alla parte sommersa. Visto da lontano, l'oceano è una sottile pellicola umida sulla terra, piú sottile dell'atmosfera che già trasmette un senso di fragilità nelle foto satellitari. La famosa frase attribuita ad Arthur C. Clarke , ripresa a iosa in ogni testo militante sul mare, non potrebbe essere meno vera: «Ma quanto è inappropriato chiamare Terra questo pianeta, quando è chiaramente Oceano». Le grandi meditazioni recenti sul mare forse non a caso inalberano titoli che sottolineano la difficoltà, o quantomeno un'esitazione, circa la relazione spaziale che intratteniamo con l'elemento liquido. Rachel Carson: The Edge of the Sea (Il bordo del mare), Il mare intorno a noi ; Philip Hoare: The Sea Inside (Il mare dentro); e un autore come Albert Camus ha voluto mettere subito il lettore davanti all'improbabile: «Sono cresciuto in mare».

L'alterità del mare è reciprocità: la forma del mare dipende dalla forma della terra; il mare però interviene sulla costa e la plasma. La costa è il luogo umano per eccellenza del mare, l'avamposto della nostra specie. Al tempo stesso, è una duplice frontiera, si erge come una barriera di terra e aria che i terrestri oppongono alle creature marine - e ai naviganti, che come vedremo la paventano almeno quanto la agognano. Strappare terra al mare è allora un'ossessione di molte civiltà; perdere terra per il mare, o aver coscienza di essere sotto il livello del mare è l'ansia di altre. Le isole britanniche sono in apprensione per l'erosione delle loro coste - al punto che è stato detto che qualsiasi cartina del regno sarà obsoleta nel momento stesso in cui viene disegnata. La città di Ferrara sopravvive grazie al febbrile lavoro di potenti idrovore che la tengono - per il momento - all'asciutto. Venezia ha respinto - per il momento - i sussulti del mare grazie a un sistema di dighe mobili. Da sempre le coste si alzano e si abbassano cercando un equilibrio con un mare che a sua volta si alza e si abbassa, ma la lotta potrebbe diventare questione di vita o di morte nei prossimi decenni per molte civiltà costiere: gli atolli del Pacifico sono i primi a essere minacciati dall'innalzamento delle acque; piú vicino a noi, dovremo trovare posto in Europa per milioni di sfollati - a partire dagli abitanti dei Paesi Bassi.

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Pagina 61

Come in altri casi, la mente umana reifica, conferisce uno statuto di oggetto a ciò che vuole capire; non per questo il mare diventa una costruzione mentale. Ricorda Gottlob Frege , uno dei fondatori della logica moderna, che «il numero non è piú un oggetto della psicologia o un prodotto di processi mentali di quanto lo sia, diciamo, il Mare del Nord. L'obiettività del Mare del Nord non è influenzata dal fatto che è una nostra scelta arbitraria quale parte di tutta l'acqua sulla superficie terrestre demarchiamo e scegliamo di chiamare il "Mare del Nord". Ma questo non è un motivo per decidere di indagare il Mare del Nord con metodi psicologici». I confini possono essere labili, quello che sta al loro interno - comunque li si voglia fissare - è concreto e presente.

Da questa discussione emerge che lo studio del mare non è soltanto lo studio della biologia marina o del clima o dell'oceanografia. Il mare è l' altrove piú radicale. Le isole che speriamo di incontrare sotto l'orizzonte possono essere anche molto diverse dalle terre da cui partiamo, ma non troppo, altrimenti non potremmo abitarle. Il mare, nella sua completa alterità rispetto al nostro spazio adattativo, è il grado assoluto dell'altrove. Un altrove ancora piú radicale perché prossimo, visibile, sotto i nostri occhi, o quantomeno contiguo a quello che si trova sotto i nostri occhi. Per questo - ciò sembrerà sorprendente - lo conosciamo ancora relativamente poco; occorre piú cognizione del mare.


Non c'è vento. Non si respira. Qui non ci si muove.

Guarda dietro di te. Sorridi!

Lontana, sottile ma netta, vedo la riga blu scuro che chiude l'orizzonte di acqua grigia, immota. Il vento sta arrivando di gran carriera. Tra pochi minuti tutto cambia.

Cambiare. Tutto. Minuti.

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La cultura marinara ha bandito il termine «corda»; su una barca si parlerà di drizza, scotta, cima, messaggero, sagola, gomena, strappo, barbetta, traversino, amantiglio, borosa, matafione, codetta - il mio correttore ortografico automatico cerca di espungere queste quattro ultime parole -, e mai di corda. Il divieto (con la sua aura scaramantica) e la ricchezza lessicale (con la sua aura di pedanteria) sono d'ostacolo all'apprendimento, scoraggiano i novizi e attirano snobistica ironia da parte degli iniziati, ma hanno un duplice significato pragmatico. In primo luogo, in una situazione di sovraccarico cognitivo - ammainare una vela perché il vento rinforza improvvisamente, piove, si è persa coordinazione, bisogna fare in fretta e chissà perché tutti gridano - è importante ridurre il «rumore» informazionale. «Fai passare la scotta all'esterno delle sartie» è univoco, «Fai passare la corda dietro i cavi di metallo» è pericolosamente ambiguo. In secondo luogo, vietare l'uso di «corda» è quindi attirare l'attenzione sulla precarietà del contesto linguistico in cui si parlerà di un cavo tessile durante le manovre: il contesto non potrà contribuire facilmente alla disambiguazione, come invece fa nella comunicazione linguistica ordinaria.

I cavi tessili sono in sé e per sé uno strumento fuori dal comune. La loro funzione è di assemblare ciò che è prossimo o controllare a distanza. Ispezionati di continuo alla vista e al tatto, trasmettono informazioni sulle vele e sugli altri oggetti cui sono collegati. Si sostituiscono al nostro corpo quando bloccano la barra del timone, liberando le mani per nuovi compiti; estendono il corpo quando diventano un prolungamento delle nostre braccia. Un elemento saliente della cultura marinara è dunque la capacità di fare nodi e di scioglierli. Non ci viene risparmiato un certo parossismo: la «bibbia» di Clifford Warren Ashley cataloga quasi quattromila nodi e rende testimonianza dell'ingegnosità dei marinai, delle potenzialità del nodo come strumento, dell'esistenza di una grammatica dell'azione che permette di comporre entità complesse a partire da gesti semplici reiterati, e anche di un senso estetico e decorativo - il cordame annodato correttamente ha una sua bellezza, che gli viene dalla leggibilità del nodo, finestra sull'azione che lo ha prodotto e vi si è incarnata. Poche cose irritano in barca come un groviglio di cime da sbrogliare: «Non trattare una cima come un oggetto qualunque, altrimenti lo diventa», intima lo skipper e scienziato cognitivo Luca Bonatti. Ciò detto, in navigazione un piccolo numero di nodi «classici» ha una presenza preponderante, per molte ragioni convergenti: le situazioni in cui si annoda sono largamente stereotipe, i nodi di un dato tipo assolvono funzioni di un dato tipo (nodi da ormeggio, nodi di arresto), e il costo di imparare e ricordare un nodo potenzialmente migliore per una certa situazione può essere molto superiore a quello di saper riciclare - anche qui - e adattare la competenza guadagnata con altri tipi di nodo, già noti e padroneggiati, perché in alcuni casi dall'esecuzione rapida e corretta del nodo appropriato può dipendere la vita, nientemeno.

Già la questione di che cosa sia un nodo meriterebbe un intero capitolo filosofico: un nodo è una forma? È una «perturbazione» come le onde di cui abbiamo parlato sopra? È un oggetto a sé o una proprietà di un oggetto? Si potrebbe pensare che i nodi nemmeno esistano come entità: quel che esiste sono i cavi annodati, in varie configurazioni; se esistessero anche i nodi, oltre ai cavi, si tratterebbe di entità dipendenti, che non possono sopravvivere da sole, senza un qualche supporto metafisico. Il fatto che vi sia una cospicua branca della matematica ( la teoria dei nodi ) specificamente dedicata alle configurazioni annodate non allevia la problematicità filosofica dei nodi. E non rende nemmeno conto della loro complessità cognitiva e pragmatica: i nodi della matematica stanno ai nodi della pratica come la logica matematica sta al ragionamento quotidiano; non ragioniamo come computer e nemmeno annodiamo come topologi. Le regole per annodare e quando farlo in barca sono il riflesso di un'intera cultura. Noteremo allora che in navigazione il piú semplice dei nodi, il nodo piano, è nella norma l'oggetto di un divieto - un vero e proprio tabù culturale: fin troppo facile da fare, è difficilissimo da sbrogliare, si incattivisce alla minima tensione.

Perché molto tempo ed energia vengono impiegati a sbrogliare nodi. In navigazione il nodo è un'entità dinamica, nasce per conferire stabilità ma deve scomparire, letteralmente, quando non è piú utile, per permettere il riuso di una cima. Non restano tracce dei nodi sulle sagole e sulle scotte, se non per via dell'usura dei punti in cui i nodi sono formati più spesso, una piccola «memoria delle cose» che indirizza la prossima annodatura. I nodi di maggior uso, come la gassa o il nodo parlato, hanno la duplice caratteristica di esser stabili e al contempo facilmente solubili. La facilità di esecuzione viene sacrificata a favore di queste altre due caratteristiche vitali.

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Pagina 106

Questo movimento è conoscenza. Prima che venisse aperto il cielo, solo il mare permetteva di percorrere rotte lineari di questa grandezza, e se non ci rendiamo conto intuitivamente di quanta strada facciamo giorno dopo notte dopo giorno dopo notte, alla fine del viaggio sappiamo almeno di aver percorso una frazione importante della dimensione del pianeta. La filosofia, si è detto, parla del senso del sublime provato in presenza di un evento o un oggetto che ci sovrasta (il cielo stellato, una valanga, l'arcobaleno, una tempesta in mare aperto). Essere sovrastati, entrare in contatto con qualcosa di molto piú grande di noi, qualcosa di incommensurabile, con cui non possiamo confrontarci. Il mare aperto, calmo o procelloso, è sempre stato considerato come un esempio principe del sublime, ma dobbiamo sfumare questo pensiero. Percorrere l'oceano alla velocità di una bicicletta significa in fondo misurarlo soggettivamente per quello che esso è. Non possiamo farci un'idea delle sue dimensioni quando lo sorvoliamo in aereo, guardando distrattamente dal finestrino tra il film e l'aperitivo. La velocità della barca a vela è a scala umana. E quando approdiamo dopo una traversata ci rendiamo conto di quanto il nostro pianeta sia piccolo.

La topologia della navigazione. La pubblicità del secolo scorso di una compagnia di trasporto marittimo mostrava una foto dell'oceano con il messaggio: «Per noi, questo non esiste». La navigazione affascina perché apre un tunnel spaziotemporale nel mondo, è un portale, cambia la nostra metafisica dell'ambiente e riscrive la geografia. Dal ponte della barca ormeggiata non guardiamo la terraferma, scrutiamo l'orizzonte marino, cerchiamo con la vista ciò che ci può rivelare se solo salpassimo. E una nuova topologia viene creata dalla barca, quando di per sé la costa si opporrebbe al nostro movimento come un limite invalicabile. Grazie alla barca ogni costa marina, a esclusione dei mari completamente interni, è in contatto metafisico con ogni altra costa. Per andare da Napoli a Genova per via di terra si deve necessariamente passare per altre città, valichi, genti, paesi. Ma salendo su una nave a Napoli ci si risveglierà a Genova senza transitare necessariamente per altri porti. È come se l'imbocco del porto di Napoli fosse in contatto con l'imbocco del porto di Genova. Ma allora è anche in contatto con l'imbocco del porto di Marsiglia, di Rio, di Sydney. La fantascienza ha popolato l'universo di tunnel metafisici che ci fanno entrare e uscire da improbabili buchi neri per ritrovarci nel passato o in qualche altrove inspiegabile; ma basta un biglietto di seconda classe, che dico, un passaggio ponte per mettere in moto le risorse concettuali di una cartografia singolare. Se si fa astrazione dalla distanza e dalla misura degli angoli si ottiene una rappresentazione topologica del mare - di tutto il mare - che lo riduce a un punto m, che è il punto in cui tutti i porti del mondo entrano in contatto tra loro, ovvero ciascun porto con ciascun altro porto. In questa topologia fantastica ma cartograficamente impeccabile ogni continente e ogni isola sono una goccia appuntita, il mare contratto è il punto in cui si toccano tra di loro i vertici di tutte queste gocce. Possiamo passeggiare su un'isola, ma se vogliamo recarci su un'altra isola dobbiamo passare per il punto m, che annichila la lunghezza di ogni costa, per quanto grande essa sia, nonché la sua forma, per quanto essa sia frastagliata. Questa cartografia estrema ironizza sulla vanità dell'esercizio di fare il giro a piedi di un'isola o di un continente (si ritornerà comunque allo stesso punto, semplicemente perché non lo si sarà mai lasciato). Non sfuggirà un'altra dimensione della profonda alterità del mare, del quale viene qui negato l'aspetto principale, la vastità, grazie all'esacerbazione del suo altro aspetto costitutivo, l'uniformità.

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Pagina 134

Quanto è grande il mare, e in che modo viene percepita la sua grandezza? Eschilo, per bocca di Clitennestra, parlava del «mare che non può mai prosciugarsi» (sappiamo peraltro che il Mediterraneo si è prosciugato almeno due volte). Platone considerava enorme la distanza tra Atene e Siracusa, ma da un certo punto della sua storia in poi il Mediterraneo si è rimpicciolito per i naviganti. Si dirà che era uno specchio d'acqua di dimensioni ridotte, nonostante la Bibbia lo chiami «mar grande». Guardiamo allora all'Oceano Atlantico, sotto un profilo particolare, quello dell'ostacolo al movimento. Per diversi millenni è stato un ultraconfine. Per il continente americano, un'ultrarisorsa proprio in quanto confine, una protezione che gli ha permesso, per migliaia di anni, di creare indisturbato culture e imperi e lingue e forme di vita, fino al giorno in cui la tecnologia ha dato agli europei la possibilità di sfruttare l'ultrarisorsa degli alisei per invaderlo. Spezzato il confine, l'Atlantico è diventato una sorgente di difficoltà per gli abitanti delle due Americhe. Simmetricamente lo è diventato per gli abitanti dell'Africa che sono stati deportati come schiavi verso il «nuovo» mondo. Possiamo figurarci due persone all'inizio del quindicesimo secolo, una sulla costa di un'isola delle Antille, l'altra sul litorale dell'odierna Mauritania. La prima guarda a est e vede onde che si infrangono ai suoi piedi, riceve il vento sul volto, giorno dopo giorno, senza interruzione: può solo sperare che nulla di cattivo venga da quel lato - un uragano a volte, ma non una minaccia umana, anche se intuisce che se esistesse un popolo al di là del mare, potrebbe volare sulle ali del vento che soffia costante verso la sua isola. L'altra persona guarda verso ovest e ha il vento alle spalle: per un attimo ha un presagio, teme che questo vento la strappi alla sua terra e la porti di là dal mare; chi vi si è avventurato non è tornato.

Solo un poco piú tardi questa duplice fantasia si invera, e molti documenti tramandano il senso di sgomento che porta con sé l'apertura di uno spazio cosí grande, cosí fuori dal comune, che non è piú frontiera ma che nemmeno riesce a diventare ponte.

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È avvenuto nel 2018, e da allora tutto è cambiato: quando un ministro di una delle democrazie occidentali chiude i porti e toglie lo spazio di manovra a una nave soccorso, la condanna a vagare per il mare con un «carico» di naufraghi, fa pressioni sullo Stato che le offre bandiera perché venga derubricata e non possa mai piú navigare, o ne fa arrestare il capitano, alcuni di noi vedono un'azione inumana nei confronti dei migranti, altri una sciatteria istituzionale, altri ancora sentono che qualcosa non va per il verso giusto ma accondiscendono o tacciono per questo o quest'altro motivo, tanto un motivo lo si trova sempre, a grattare il fondo del barile.

La vera ferita, però, non è qui. Perché non si tratta solo di un'omissione di soccorso, di girare la testa da un'altra parte: qui si parla di impedire il soccorso, e addirittura di punire chi soccorre. Il soccorso in mare viene riconcettualizzato come crimine.

Impedire o anche soltanto ostacolare il soccorso in mare è negare, per banale incomprensione, la cultura del mare, una tradizione che si è costruita e consolidata lungo i molti millenni in cui gli esseri umani hanno solcato i deserti d'acqua. Una storia che se pur ha alternato l'apertura di rotte di pace e lo scatenarsi di guerre senza quartiere, ha sempre riconosciuto l'asimmetria tra un elemento naturale dai poteri illimitati e la fragilità delle vite umane che si misurano, per sfida, per lavoro, per necessità o per sciagura, con la sua forza. Una storia che nel caso di Paesi con una tradizione marittima chiede ad alta voce di essere parte del cuore stesso della nazione, e non sopporta di essere umiliata e rinnegata.

E non sia solo una questione di identità nazionale ferita. Il mare aperto, come abbiamo visto, non è un mondo semplice. È, di fatto, un universo a parte, un'incessante sfida alla percezione, all'immaginazione, al pensiero, all'azione, alla regola sociale. Moltissimi sono stati i tentativi di dettar legge; la civiltà del mare ha cercato e formalizzato direttive per dare un senso e una guida all'attività umana lontano dalle coste, ogni volta inchinandosi davanti all'asimmetria fondamentale tra l'oceano e l'essere umano. Le regole del mare suonano strane ai terrestri: una barca alla deriva senza equipaggio diventa proprietà di chi se la prende; se accetti una cima da chi ti soccorre, costui può importi il suo prezzo. I comportamenti in mare sfuggono alle logiche retributive: nella narrazione di Melville , Queequeg il polinesiano si tuffa a salvare il bianco che solo pochi minuti prima lo ha insultato; non si pone domande. È un mondo in cui la legge si attua senza testimoni; in cui solo vincoli fortissimi di comportamento, di gerarchia, di attenzione possono riequilibrare i rapporti di forza con la natura e rendere possibile la navigazione, la scoperta, la vita stessa.

Il mare non si può affrontare senza preparazione; infinitamente inaccettabile è l'irresponsabilità di chi traghetta vite umane su mezzi inadeguati; immensa è la compassione per chi si trova a intraprendere una traversata senza comprenderne i rischi o senza avere altra scelta; dovere di tutti prestare soccorso, dovere verso gli altri ma anche verso noi stessi.

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Possiamo ritornare a imparare dal mare e dalla navigazione, da quella parte dell'umanità che è andata in mare e ne è tornata. Interiorizzare, per esempio, la regola d'oro dei Glénans , che dice: «si riducono le vele nel momento in cui ci si pone per la prima volta la domanda se non si debba per caso ridurre le vele». (Questa saggezza pratica ci avrebbe aiutato nell'affrontare la crisi climatica? Ci aiuterebbe a pensarci come un collettivo, come un gruppo con una missione?) Andare verso il mare, a vela, non lottando con gli elementi ma usando la loro forza, non scattando foto ansiose ma con un quaderno per disegnare e prendere appunti, non staccando scatolette ma pescando con una lenza, un pesce alla volta. Riprendere da zero la relazione e l'investimento individuale, situato, lasciando poco a poco depositarsi una conoscenza attiva, in cui la percezione è costruita dall'azione. Quando navighi, sei immesso in un flusso di «ingaggi» individuali, la singola onda, e poi la successiva, e poi ancora la seguente. La passione per il mare, e il rispetto per esso, nasce da e si focalizza su questa relazione diretta e totalizzante con un oggetto alla volta. Ma come abbiamo visto, la fissazione della mente umana per le cose conchiuse e la nostra ossessione cognitiva per il singolo individuo trovano un limite nel caso del mare, e fanno ostacolo alla stessa possibilità di prendersene cura. Puoi prenderti cura attivamente di un giardino che possiedi o che appartiene alla tua comunità, e anche di un angolo di mondo senza proprietario, che eleggi nelle tue peregrinazioni a luogo di osservazione lenta. Questa maturazione è subito piú complicata per l'oceano, la scala è incommensurabile, l'altrove spesso inaccessibile, l'elemento troppo mobile. Ma non è impossibile.

L'equipaggio del Kon-Tiki aveva progetti grandiosi e sperava di dimostrare la discendenza sudamericana dei polinesiani, ma tra le ceneri di questo tentativo resta uno splendido, minuzioso resoconto sull'ecosistema che si crea sullo scafo di una grande zattera di balsa alla deriva per quattro mesi nel Pacifico: alghe che trattengono il plancton che nutre dei piccoli crostacei che attirano le corifene che i tonni inseguono: «Il mare contiene molte sorprese per chi ha il pavimento a livello dell'acqua e procede lentamente, senza far rumore [...] Abbiamo l'abitudine di solcarlo a colpi di pistone e col motore che romba, l'acqua che schiuma davanti alla prua. E al nostro ritorno diciamo che non c'è nulla da vedere sull'oceano».

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In questo vasto esercizio di riconcettualizzazione nulla deve restare intentato; come è stato detto, in alcuni casi si deve esplorare ciò che sembra impensabile. Ma abbiamo visto che riconcettualizzare non è creare una narrazione alternativa che nasconda o travisi i fatti per suscitare una risposta emotiva; e non potendo tornare tutti allo stato fusionale, a un ingaggio individuale con l'essere vivente di cui ci nutriamo, non potendo fare del mare una divinità, non riuscendo a contare su una parentela con i suoi abitanti, non sapendo se è possibile dargli personalità giuridica, non sapendo ancora esattamente come farne un vero e proprio Stato, o proteggerlo con un sindacato, forse è giunto il momento di compiere un passo estremo nel senso opposto, sottolineare la distanza invalicabile che già conosciamo e che questo libro ha esplorato. Dovremmo trattare fino in fondo il mare come un esopianeta, i suoi abitanti come extraterrestri. Il mare andrebbe visto come un pianeta estraneo che ci sta però incollato, con il quale possiamo avere rapporti culturali, diplomatici o anche commerciali, ma un esopianeta comunque. Nel negoziato concettuale, torneremmo a vedere la costa come un confine, ma non come il solito confine, fisico o orografico, quanto piuttosto come un vero limite tra due mondi. Questo non deve spaventarci o bloccarci. La grande lezione di Isaiah Berlin è che la politica inizia nel momento in cui accettiamo che tra noi e il nostro interlocutore ci siano delle differenze irriducibili; in cui smettiamo di argomentare a vuoto, di ostinarci a convincerlo che ha torto. È quando ci rendiamo conto di questa differenza non aggirabile che dobbiamo dare vita al gesto politico e cominciare a lavorare insieme.

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