Copertina
Autore Antonio Castronuovo
Titolo Macchine fantastiche
SottotitoloManuale di stramberie e astuzie elettro-meccaniche
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2007, Fiabesca 87 , pag. 240, ill., cop.fle., dim. 12x16,7x1,5 cm , Isbn 978-88-7226-963-3
LettoreSara Allodi, 2007
Classe storia letteraria , storia dell'arte , giochi , fantascienza , cinema , scienze improbabili
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Indice


  5 Comincia la passeggiata


  8 Fantasia e ferramenta
 12 Padre nostro, che scendi dalla macchina
 19 Cavalli e giovenche di legno
 24 Pinocchi e manichini
 33 Turchi automatici
 40 Automi cortigiani e scacchisti
 47 Andreidi, robota e razum
 55 Io robot e le mie leggi
 64 Protesi e visceri: il cyborg
 71 Computer sani e malati
 76 Luddismi e futurismi
 83 Bacheche e mondi nuovi
 91 Ingranaggi di maleficio e beneficio
100 La danza della macchina
108 Chiesofoni e fotocamere
116 I natanti di Jules Verne
126 Astronavi e carrette dello spazio
137 Cassoni e ironici dischi
147 Realtà virtuali
154 Macchine del tempo
161 Celibe Duchamp e inutile Munari
169 Pitture e pittori meccanici
182 I marchingegni dei libertini
191 Onanismo e castità
204 Inclassificabili squisitezze meccaniche
213 Macchine da scrivere e per scrivere
227 Versificatori e lettori meccanici


235 Indice analitico delle macchine



 

 

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Pagina 5

Comincia la passeggiata



            La vita può fare a meno della logica, la letteratura no.

                                                Jules Renard, Diario



C'è una forma speciale dell'invenzione artistica che ha per oggetto il mondo della meccanica e dell'elettricità, dal modesto livello della marionetta snodata all'astronave intergalattica manovrata da un megacomputer. Infatti, se l'uomo costruisce macchine esse poi lo stregano e, manipolate dalla fantasia, appaiono nell'arte: le troviamo nella letteratura d'invenzione, nei sogni delle utopie, sugli scenari bellicosi della fantascienza, negli arzigogoli delle avanguardie.

Il rapporto tra arte e macchine si realizza lungo varie direttive: cosa gli artisti pensano della macchina, come gli artisti creano macchine fantasiose, come un'opera d'invenzione possa diventare essa stessa una macchinazione. Queste pagine attraversano la seconda area e toccano qualcosa della terza, tralasciando di esaminare il rapporto tra artisti e macchine reali. Qui non interessa cioè sapere che Mario Morasso e Domenico Giuliotti esecravano l'automobile o che Giorgio Manganelli aveva in uggia il telefono. Interessa invece osservare quelle macchine fantasiose che l'artista colloca nella prosa, nel quadro, nell'opera musicale, sulla scena teatrale.

Sono congegni che affiorano dalla narrazione, dal disegno, dalla musica, ma che non esistono nella realtà. Alcune volte sono macchine inverosimili, in altri casi immaginarie ma razionali, in altri casi ancora inutili e incomprensibili, addirittura deliranti. Soprattutto le cosiddette macchine celibi (studiate da Michel Carrouges) trovano la loro ragion d'essere in se stesse, anche se la loro struttura segue una logica. Destano interesse l'erpice narrato da Kafka o i meccani amorosi di Picabia, le macchine di Raymond Roussel o gli ingranaggi umani che scoppiettano sulle scene teatrali dell'avanguardia russa: l'importante è che tutti questi congegni appaiano nei romanzi, sui dipinti, sui palcoscenici.

Delimitati i confini (dai quali a volte si deborderà) dovremo a malincuore attuare delle epurazioni. Il parco macchine diventa infatti immenso nella fantascienza, dove si dovrà necessariamente fare delle scelte. Opteremo allora per i grandi prototipi di Jules Verne e di H. G. Wells, con qualche straripamento verso quei congegni fantascientifici che attraversano le pagine di scrittori satirici che non si sono propriamente cimentati col genere (un solo esempio: il disco volante con cui Ennio Flaiano fa atterrare il suo Marziano a Roma).

Un fenomeno avvincente si manifesta quando automi e ordigni appaiono nelle arti: il loro senso funzionale ne esce stravolto. Quando approdano nei romanzi o sui quadri l'uomo comincia a liberarsene: solo lì la macchina è inerte, solo lì non ha un valore utilitaristico. Dunque, l'invenzione artistica delle macchine è una forma avanzata di emancipazione dalle macchine.

Affrancamento che si misura anche sul metodo di realizzazione di un libro. Quello che state per leggere è il frutto delle spensierate passeggiate che l'autore ama compiere tra scaffali e opere d'arte. Non pretende la completezza dello specialista o dello scienziato: è solo una collezione — gratuitamente lacunosa — di sbrigliate impressioni. L'autore sa di essere soltanto un flβneur della carta, un viandante dell'arte e della musica.

Che anche il lettore riesca a calarsi nel piacere dello svago e del pellegrinaggio.

Antonio Castronuovo

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Pagina 8

Fantasia e ferramenta



Difficile resistere al fascino delle macchine, forse per quella carica di perfidia di cui sono portatrici, per quella loro essenza blasfema rispetto alla natura. Ne fu avvinto uno dei rari intellettuali che sia riuscito a fondere le "due culture", scientifica e umanistica.

Esiste un'annosa querelle sulle due culture, con molti retroscena e qualche colpo di teatro, che si è verificato quando qualcuno è riuscito nell'impresa disperata di fonderle armoniosamente: lo scrittore lucano Leonardo Sinisgalli fu tra questi.

Letteratura e meccanica vanno in lui a braccetto, e la macchina appare nel punto di contatto in cui si genera qualcosa di nuovo: quel suo stile fatto di rigore e geometria, di minuziosa abdicazione dalla passione e dal pianto. In Calcali e fandonie (1970) viene lanciato un consiglio teorico sulla necessità d'inventare macchine: «La noia non si vince con la fantasia ma con gli utensili. La fantasia deve trasformarsi in ferramenta».

Affermazione da cui si genera una delle più aguzze poetiche antiromantiche del Novecento: «Il poeta di professione costruisce macchine, il dilettante balocchi. Il poeta di professione deve esprimersi in una lingua quasi anonima, il dilettante usa un gergo patetico, viscerale. Non riesce a manipolare i calcoli analogici. Si commuove quando scrive poesie. Il professionista non si dispera se perde una partita, se l'esperimento va a vuoto, se scoppiano gli alambicchi. Il poeta di professione scrive senza ispirazione». Ecco: è esattamente senza ispirazione che si deve scrivere, e il mondo dell'invenzione meccanica si presta a questo intento.


Sinisgalli amava le macchine non come oggetti ma come congegni, e più quelle di Raymond Roussel che una turbina a vapore o una tessitrice: «Una ruota dentata, una vite, mi commuovono quanto un girasole. Questo teatro di movimenti predestinati, in cui una piccola esitazione, un ritardo, può cagionare un disastro, mi avvince, mi esaspera» (Furor mathematicus, 1944). Tutti – artisti e no – dovevano conoscere la macchina, non solo mentre sbuffa e cigola nell'officina, ma anche come soggetto da museo. Fu così che nel 1955 organizzò a Roma la mostra Arte e Industria; dove la plastica parentela tra creazioni di artisti e invenzioni di ingegneri era ribadita collocando spudoratamente alcune macchine accanto a tele di Paul Klee e Vasilij Kandinskij.

Introdurre nel mondo della macchina, farne conoscere e apprezzare i segreti e l'efficienza, fu l'obiettivo di Sinisgalli, direttore negli anni '50 della rivista "Civiltà delle macchine", bimestrale della Finmeccanica. La rivista non si poneva grandi prospettive se non quella di trovare ascolto tra un manipolo di esperti, e invece ebbe successo oltre ogni aspettativa, tra migliaia di lettori animati dalla curiosità e dal desiderio di sapere, istigati dall'esperimento condotto in quelle pagine: l'osmosi tra arte e scienza, tra Orfeo e Prometeo, il tentativo di nobilitare il "regno dell'utile".

Uscita dalla mente dell'artefice, la macchina perde i vizi e le virtù dell'uomo. L'infallibilità dei gesti ne determina il carisma. Ma nella prevedibilità s'annida il suo limite: poiché fabbrica risultati, la macchina è costretta a non sbagliare. Essa si ripete all'infinito, incapace di crescere e di progredire: ha come suo lato debole la cecità, l'obbedienza, la stupidità. Dotata di molta serietà, non sorride mai; è priva d'immaginazione, nemica di ogni fantasia. Urge allora tentarne la salvezza: «Bisogna che troviamo il modo di creare delle macchine inutili. Siamo riusciti a creare i tulipani neri, Pinocchio ed il Giudizio Universale, possibile che non sappiamo creare delle macchine inutili?» (Le macchine non sono tabù 1961).

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Pagina 64

Protesi e visceri: il cyborg



La vittoria della tecnica sull'uomo si configura nel cyborg, creatura che emerge nella fantascienza a partire dalla metà del Novecento. Θ l'ibrido uomo-macchina, il prodotto (anche nel nome, fusione di cibernetico e organico) di una contaminazione tra microchip e visceri, anche solo l'innesto di protesi o qualsiasi genere di modifica artificiale del corpo o della psiche, il potenziamento artificiale di alcuni organi. La tecnologia non è più altra cosa rispetto all'uomo, diventa componente del corpo, agente che lo modifica in permanenza imponendo una ridefinizione della sua natura, del suo statuto ontologico. Infatti l'interrogativo principale che si pone è: il cyborg è uomo o macchina? Ma cosa è uomo, e cosa lo distingue da una macchina? La contaminazione tra corpo e macchina, la trasformazione artificiale dell'umano sposta l'accento di questo interrogativo in modo sensibile: fino a che punto l'umano può essere ritenuto tale? e quando sorge invece qualcosa di ontologicamente diverso?


Nello spazio di questa ambiguità si colloca il filone della Social science fiction, sorto negli Stati Uniti negli anni Ottanta e presto ribattezzato cyberpunk. Anche qui il nome è contaminazione tra cibernetico e punk, uno dei più recenti movimenti giovanili dell'irrequietezza e dell'insofferenza. Il romanzo che ha innovato questo filone è Neuromante. Scritto da William Gibson nel 1984, presenta un ricco catalogo delle contaminazioni possibili tra umano e artificiale: protesi meccaniche impiantate su corpi umani, trapianti di organi clonati, autentici cloni, proiezioni olografiche, intelligenze artificiali, umani dalla personalità riprogrammata da un computer, duplicazioni virtuali del corpo umano che si muovono e agiscono nel cyberspazio...

L'intero sistema dei personaggi è inventato da Gibson allo scopo di illustrare le possibili alterazioni dell'umano: il romanzo diventa così, oltre che un raffinato thriller di ambientazione cyberpunk, un'elaborata riflessione sull'essenza e i limiti dell'umano. Neuromante non è tanto un inventario di improbabili mostri tecnologici, quanto un tentativo di leggere in chiave fantastica la natura dei cambiamenti in atto nel rapporto con la tecnologia.

I microchip sono penetrati nel corpo umano contaminandolo e modificandolo permanentemente: la creatura alla quale questa unione ha dato vita, il cyborg, è la soluzione al dualismo uomo-macchina, alla scissione tra individuo e tecnologia. Secondo alcuni si tratta di soluzione catastrofica, annuncio di un'apocalisse già in atto, che scorre quotidianamente sotto i nostri occhi nell'ampio catalogo di meraviglie tecnologiche che entrano a far parte del corpo: il pace-maker, le protesi articolari, le valvole cardiache. Ma non ci sono solo gli impianti legati a una patologia, ci sono anche il piercing o l'auricolare indossato in permanenza...

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Pagina 76

Luddismi e futurismi



All'inizio dell'Ottocento, nell'Inghilterra industriale descritta da Karl Marx nel Capitale, l'urbanizzazione e la distruzione dell'artigianato furono correlate a un mostro: il telaio meccanico. Sorse un'aspra reazione popolare, al cui vertice si pose il fantomatico capitano Ned Ludd, il cui movimento fu detto luddismo. Fantomatico perché sembra che Ludd fosse solo figura astratta, un semplice simbolo di rivolta, anche se si conservano lettere e proclami firmati con questo nome. Sono documenti duri, che testimoniano della radicalità dello scontro: «Non deporremo mai le armi prima che la Camera dei Comuni voti una legge per distruggere tutto il macchinario nocivo alla società, e abroghi quella per l'impiccagione dei fracassatori di telai!».

I luddisti infatti distruggevano i telai, smantellavano i torni, sabotavano le caldaie, smontavano le macchine a vapore e, soprattutto, incendiavano. Non meno aspra la risposta del governo britannico: baionette schierate, brutali retate di massa, condanne a morte per impiccagione. Il movimento ha avuto un riflesso artistico: Ernst Toller ha lasciato un dramma espressionista, I macchinoclasti (1920-1921), che narra la distruzione di un filatoio a Nottingham da parte dei luddisti. Qui la macchina non è un prodotto di fantasia, ma agisce come stimolo alla creazione di un dramma a sfondo sociale.


Quando si usa la fantasia, invece di contestare la macchina (e semmai distruggerla) si può anche delineare la situazione sublime in cui è la macchina a contestare l'uomo. Succede nel racconto Gli automi di Italo Calvino che, apparso sul "Contemporaneo" il 23 giugno 1956, narra del primo sciopero degli automi contro la mano d'opera umana, scoppiato a Minneapolis. Come sempre succede nei moti di ribellione, la scintilla è casuale: l'operaio Joe Ficarazzi, oriundo italiano, ha un dissenso col cervello elettronico Myriam e lo apostrofa con l'espressione vernacola "testa di minchia". Ma il computer capisce e, dopo una serie di ronzii e scoppiettamenti, apostrofa l'operaio con "cornuto" – e la ribellione si propaga prima al reparto e poi all'intero stabilimento. La parola d'ordine dello sciopero diventa "Macchine pensanti, pensate ad altro!". E infatti le macchine cambiano pensiero, come nel caso di quella che produceva perfette dentiere di porcellana e che ora si mette a sfornare dispendiose e inutili zanne d'elefante. Le rivendicazioni sono quelle tipiche d'un movimento che non ha ben precisato i suoi obiettivi, le macchine uniscono infatti a motivi rilevanti (che ogni gruppo d'automi sia ad esempio controllato non da un operaio ma da un super-automa) altri del tutto marginali (come quello di proibire agli operai la masticazione di chewing-gum durante il lavoro, oppure dotare di chewing-gum anche gli automi).

Fin quando le parti giungono a capire che nocivi allo sviluppo della produzione e al progresso sociale non sono né gli operai né le macchine, ma solo la proprietà capitalistica dello stabilimento. Operai e macchine uniti riescono allora a disfarsene – e da quel giorno «i cervelli pensarono solo umanamente e i cervelli elettronici solo meccanicamente, e il socialismo trionfò nel Minnesota».

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Pagina 204

Inclassificabili squisitezze meccaniche



Buon creatore di macchine è Villiers de l'Isle-Adam, autore di una serie di Racconti crudeli pubblicati in volume nel 1883. Θ talmente preso dalle sue macchine che all'inizio del racconto Il trattamento del dottor Tristan – dopo aver innalzato un canto al Progresso che trascina l'uomo nel suo torrente, lanciato a tal punto che «una sola battuta d'arresto sarebbe un puro suicidio» – elenca un repertorio delle sue invenzioni, e tra queste alcune macchine di fantasia: i riflettori del dottor Grave, la macchina per la gloria dell'illustre Bathybius Bottom e la nuova Eva, «macchina elettroumana che offre lo stereotipo del primo amore». Elenco che oltre alla nuova Eva – che diventerà nel 1886 la famosa Eva futura – contiene la gran parte delle invenzioni meccaniche ed elettriche dell'autore, con qualche lacuna che qui sarà colmata.


Nel racconto La pubblicità celeste, Villiers immagina che i cieli possano essere usati come uno schermo su cui proiettare gigantesche inserzioni pubblicitarie. Il dotto ingegnere Grave concepisce il geniale progetto di utilizzare le vaste distese della notte: che ci stanno a fare le volte azzurre se non a divertire la fantasia degli ultimi sognatori? Meglio convertire questi sterili spazi in spettacoli fruttuosamente istruttivi, dare valore a queste lande sconfinate e renderle produttive: il cielo diventerà buono a qualcosa e acquisterà, finalmente, un intrinseco valore. La realtà quotidiana verrà spazzata via dalla "pubblicità assoluta". Sul calar della sera, le famiglie si riuniranno nei giardini, sui balconi, nei cortili, e tutti dimenticheranno rancori e odi per godere rasserenati dello spettacolo. Possenti getti di magnesio, ingranditi un migliaio di volte, partiranno dalla cima di qualche collina e, diffusi da immensi riflettori multicolori, invieranno in cielo l'immagine graziosa di un adolescente che regge uno striscione sul quale campeggerà la scritta "soddisfatti o rimborsati". La nuova scoperta può inoltre essere utilissima per la politica. In un crescendo delirante di finta serietà, Villiers comincia a criticare il vecchio modello di propaganda: troppo legato alle questioni reali, incomprensibile alle masse, primitivo. Con il nuovo sistema la personalità diventa zavorra inutile: sullo schermo dei cieli le grandi facce dei candidati s'imporranno proprio perché l'essenziale è avere un'aria perbene. Ogni elettore farà la sua scelta e potrà rendersi conto in anticipo, senza dover comprare, come si suol dire, a scatola chiusa. I candidati dovranno solo mimare la realtà, essere degli attori perfetti. Solo così si realizzerà in modo compiuto il senso ultimo del suffragio universale.


Prodigiosa invenzione del barone Bathybius Bottom – apostolo dell'Utile nel cui nome ci sono echi inglesi che rinviano all'immagine di "uno che vive nel fondo" – è La macchina per la gloria, destinata a soddisfare gli autori drammatici che, privati dalla nascita della facoltà insignificante detta genio, bramano ciononostante incoronarsi con lauri e palme. Prima della scoperta esisteva qualcosa di simile, ma rudimentale e ridicolo: si chiama, in gergo teatrale, "la claque", meccanismo umano che scatena applausi, provoca entusiasmi, scuote torpori. Con la macchina di Bottom ogni attore, fosse pure smemorato, fosse pure l'imbecillità in persona, avrà un trionfo. I dettagli meccanici e i mezzi impiegati sono semplici, come per ogni cosa veramente bella. Tubi di gas illuminante si alternano ad altri di gas esilarante e lacrimogeno. Le balconate del teatro racchiudono invisibili pugni di metallo, destinati a risvegliare il pubblico in caso di bisogno, e sono fornite di mazzi di fiori e di corone. All'improvviso, sommergono il palcoscenico di lauri e mirti, col nome dell'autore stampato in lettere d'oro. Sotto ogni poltroncina, fissate al pavimento, un paio di mani che applaudono. Sono in legno, con guanti in doppio cuoio di vitello paglierino. Estremità di bastoni, tacchi di caucciù bollito, ferrati con robusti chiodi, sono dissimulati nei piedi di ogni sedia; mossi da molle a spirale, servono a picchiare sul pavimento, in rapida cadenza, le chiamate al proscenio.

La macchina è così potente che in caso di bisogno potrebbe far crollare la sala: è un tuono, una scarica a salve, un'apoteosi di acclamazioni, di grida, di entusiasmi, spasimi, convinzioni, trepidazioni che scoppiano ovunque, durante i passaggi più noiosi o più belli dell'opera. Insomma, un mezzo fisico che realizza uno scopo intellettuale: il successo diventa realtà e la gloria transita davvero per la sala. La grande tastiera della macchina è installata sotto la buca del suggeritore. Lì sta l'addetto, che a portata di mano ha gli interruttori e i commutatori elettrici, i regolatori, le provette, le chiavi dei tubi di gas, gli effluvi ammoniacati, i pulsanti delle leve, delle bielle e delle manopole. Il manometro segna tanta pressione quanti sono i chilogrammi di immortalità. Se poi l'autore tenesse a una gloria non solo presente e futura, ma anche passata, l'inventore ha previsto anche risultati retroattivi: condotte di gas esilaranti raggiungono i migliori cimiteri e ogni sera fanno sorridere gli antenati nelle loro tombe.

Quanto alle critiche, non c'è da preoccuparsi: quelle preconfezionate sono un'appendice della macchina. La loro redazione è semplificata da una selezione dei luoghi comuni: la macchina riduce le fatiche della critica, risparmia sudori, errori di grammatica e discorsi sconclusionati. I collaboratori dei giornali amanti del dolce far niente potranno trattare: c'è un prezzo fisso, stampato a chiare lettere su ogni articolo: un tanto per ogni parola. E quando l'articolo dà fama a chi lo firma, la fama si paga a parte.

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Pagina 218

Ma è nei Viaggi di Gulliver (1726) di Swift che la letteratura inventa la macchina combinatoria più avvincente. Recatosi nella città di Lagado, Gulliver è ammesso a visitare la Grande Accademia dove, accolto nella zona in cui risiedono i rinnovatori del sapere speculativo, s'imbatte in una straordinaria macchina per scrivere che occupa da sola un'ampia aula. Un professore circondato da scolari conciona sulla necessità di far progredire le scienze speculative con utili mezzi e, dopo aver segnalato le difficoltà che si presentano a chi desidera apprendere un'arte o una scienza attenendosi ai metodi tradizionali, dichiara che grazie alla sua invenzione anche le persone più ignoranti, con poca spesa e minimo sforzo, sono messe in grado di scrivere libri del più diverso genere senza alcun bisogno di genio o di studio.

Affermazione sorprendente, che aguzza l'attenzione di Gulliver verso la macchina, lungo la quale sono schierati gli studenti. Situata nel mezzo dell'aula, sulla sua superficie stanno centinaia di dadi di legno congiunti da fili di ferro. Sulle loro facce sono scritte tutte le parole della lingua locale, coniugate nei diversi modi e declinate nei vari casi, ma senza alcun ordine logico. Gulliver è invitato a prestare attenzione quando il professore s'accinge a mettere in moto la macchina. A un suo cenno ogni discepolo impugna una delle tante manovelle fissate agli orli della macchina e le fa girare in modo da cambiare la disposizione delle parole. Il maestro ordina allora di leggere quel che è apparso e quando uno scolaro trova una frase che abbia un senso logico essa viene annotata da alcuni scrivani. Operazione che viene ripetuta varie volte, ottenendo tutta una serie di nuove frasi.

Questo lavoro occupa i discepoli per sei ore di ogni giorno, ed è dunque prevedibile il risultato: una collezione di grossi volumi in folio, contenenti miriadi di sentenze monche che, legate insieme, possono dare una completa dottrina di tutte le arti e scienze. L'invenzione ha tenuto occupato il pensiero del professore fin dalla giovinezza: egli ha travasato nella macchina l'intero vocabolario e calcolato la proporzione che nei libri corre tra particelle, nomi e verbi. La macchina contiene insomma, potenzialmente, la totalità del sapere: si presenta come un grosso telaio, sul quale tutte le parole del dizionario locale possono trovare posto all'interno di strutture fraseologiche sensate, per quanto aleatorie. Può comporre ogni frase possibile, può dunque manifestare ogni idea ed essere utile ai filosofi per costruire una qualunque dottrina. La macchina è ammirevole e ridicola al contempo: la costruzione della frase è affidata al caso, e casuali sono tutti i volumi che si sono accumulati fino a quel momento, con grande risparmio di fantasia.


Nel mondo totalmente disumanizzato del romanzo 1984, George Orwell immagina che gli scrittori non esistano più: sono stati cancellati, triturati nel gigantesco ingranaggio burocratico che distrugge identità, memoria, storia, pensiero, e la stessa consapevolezza di essere stati umani. In loro assenza, i testi letterari vengono prodotti da macchine. La protagonista femminile lavora in un reparto speciale del Ministero della Verità (Dipartimento narrativo) e ha un incarico tecnico presso una delle macchine per scrivere (Macchine componi-romanzi).

La procedura ha alcune fasi: dapprima una Commissione Progetti impartisce le direttive generali; poi un caleidoscopio, azionato da un grande macchinario, assembla secondo uno schema combinatorio alcuni elementi precostituiti. Quindi interviene l'Unità Riscrittura e distribuisce sul prodotto un'adeguata patina letteraria. Nel gigantesco meccanismo di gestione del potere non si tratta, come potrebbe sembrare, di un ingranaggio marginale, perché la produzione meccanizzata di fiction non ha solo lo scopo di svagare, distrarre o procurare esperienze estetiche in serie: essa costituisce anche l'altro risvolto della menzogna, parte integrante del controllo del pensiero, impresa complementare al sistematico processo di riscrittura della storia perseguito dal Ministero della Verità. Tanto è vero che i romanzi sono soltanto uno dei filoni di una gigantesca e pianificata produzione culturale che comprende giornali, film, dizionari, libri di testo, programmi televisivi, musiche, commedie, nonché «canzonette sentimentali che venivano composte secondo un procedimento del tutto meccanico, per mezzo d'una sorta di caleidoscopio che si chiamava versificatore».


Italo Calvino ha acutamente meditato sul fatto che la letteratura è costituita da meccanismi artificiosi: lo scrittore combina frasi e significati, e le strutture che ne derivano, articolandosi, ne rivelano altre. Nel saggio Cibernetica e fantasmi (della collezione Una pietra sopra, 1980), Calvino nota che alla radice dei processi logici sta la macchina complicata e imprevedibile del linguaggio, che può essere smontato e rimontato. Dal sottotitolo del saggio, Appunti sulla narrativa come processo combinatorio, sospettiamo cosa intenda suggerire: il procedimento della poesia e dell'arte è un gioco combinatorio, lo stesso che spinge il pittore a sperimentare disposizioni di linee e colori e il poeta accostamenti di parole: «A un certo punto scatta il dispositivo per cui una delle combinazioni ottenute seguendo il loro meccanismo autonomo, indipendentemente da ogni ricerca di significato o effetto su un altro piano, si carica di un significato inatteso o d'un effetto imprevisto, cui la coscienza non sarebbe arrivata intenzionalmente».

Poiché il suo "io" si dissolve, lo scrittore assume un aspetto nuovo: la cosiddetta "personalità" è un prodotto della scrittura. Anche una macchina scrivente, se ben istruita, potrà dunque elaborare sulla pagina una spiccata personalità. Ciò che con termini romantici definiamo genio o talento, ispirazione o intuizione, altro non è «che il trovar la strada empiricamente, a naso, tagliando per scorciatoie, là dove la macchina seguirebbe un cammino sistematico e coscienzioso, ancorché velocissimo e simultaneamente plurimo». Ciò giustifica il fatto che la letteratura sia potenziale, e che si possa istituire un atelier di sperimentazione letteraria come l'OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle – Opificio di Letteratura Potenziale) fondato da Raymond Queneau come incontro tra matematica e letteratura, «emanazione dell'Académie de Pataphysique, il cenacolo fondato da Jarry come una specie d'accademia dello sberleffo intellettuale».

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Pagina 232

Alla serie di macchine per scrivere non fanno eco molte macchine per leggere, ma una almeno spicca. Il volume delle Diverse artificiose macchine che Agostino Ramelli pubblicò nel 1588 presenta una serie di splendide xilografie di macchine, tra cui una che permette di consultare otto libri rimanendo comodamente seduti. Il lettore è seduto tangenzialmente a una grossa ruota che può far girare con le mani, su cui sono applicati otto leggii, ognuno occupato da un libro aperto. Un dispositivo di ruotismi planetari permette ai leggii di mantenere sempre la stessa inclinazione e impedisce la caduta dei libri. Il lettore può far ruotare il meccanismo avanti o indietro senza che i libri cambino la corretta posizione orizzontale.

La macchina di Ramelli non ha trovato applicazione: troppo indaginosa e ingombrante per la funzione limitata che può assicurare. Il problema può in fondo essere facilmente superato aprendo otto libri su un tavolo e invitando il vorace lettore ad alzarsi e spostarsi. A quale necessità viene allora in aiuto la macchina per leggere? Naturalmente a quella di consultare molti libri in simultanea, patologia che affligge i grandi lettori.

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