Copertina
Autore Anna Curcio
CoautoreCeren ึzsel็uk, Michael Hardt, Gigi Roggero, S. Charusheela, Jack Amariglio, Yahya M. Madra
Titolo Comune, comunità, comunismo
SottotitoloTeorie e pratiche dentro e oltre la crisi
Edizioneombre corte, Verona, 2011, i libri di UniNomadE , pag. 160, cop.fle., dim. 13,5x21x1 cm , Isbn 978-88-95366-92-0
CuratoreAnna Curcio
LettoreRossana Rossi, 2012
Classe beni comuni , movimenti , lavoro , femminismo , economia politica , filosofia
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Indice


  7 Introduzione
    Comune, comunità, comunismo. Rileggere Marx al tempo della crisi
    di Anna Curcio

 23 Comune, universalità e comunismo.
    Una conversazione tra ษtienne Balibar e Antonio Negri
    a cura di Anna Curcio e Ceren ึzsel็uk

 46 Il comune nel comunismo
    di Michael Hardt

 61 Cinque tesi sul comune
    di Gigi Roggero

 83 Le differenze nel comune
    di Anna Curcio

100 Ri/generare il feudalesimo. Riconsiderare i modi di produzione
    di S. Charusheela

112 Soggettività, classe e "forme di rapporto dei membri della comunità"
    di Jack Amariglio

134 Per una critica della soggettività biopolitica.
    Jouissance e antagonismo nelle forme di rapporto dei membri della comunità
    di Yahya M. Madra e Ceren ึzsel็uk

157 Gli autori e le autrici


 

 

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Pagina 46

Il comune nel comunismo

di Michael Hardt


La crisi economica e finanziaria che è esplosa nell'autunno del 2008 ha avuto come conseguenza un incredibilmente rapido mutamento degli immaginari politici. Solo pochi anni fa il discorso sui cambiamenti climatici era ridicolizzato ed espunto dai media mainstream in quanto esagerato e apocalittico. Poi, quasi da un giorno all'altro, è diventato di senso comune. Analogamente, la crisi finanziaria ed economica ha ridefinito le visioni dominanti rispetto al capitalismo e al comunismo. Solo qualche anno fa ogni critica alle strategie neoliberali di deregolazione, privatizzazione e alla riduzione delle strutture del welfare – che lasciavano andare il capitale per i fatti suoi – veniva considerata dai media come un'eresia. Oggi, invece, la copertina di Newsweek esclama, con una solo parziale ironia, "Adesso siamo tutti socialisti". Il dominio del capitale è immediatamente messo in discussione da sinistra a destra e qualche forma di socialismo o di regolazione e gestione statale di tipo keynesiana appare inevitabile.

Tuttavia, abbiamo bisogno di guardare fuori da questa alternativa. Troppo spesso le nostre uniche scelte sono state tra capitalismo e socialismo, tra la regola della proprietà privata e quella della proprietà pubblica. Come se l'unica cura per i mali del controllo statalista fosse la privatizzazione e per i mali del capitale l'apertura al pubblico cioè l'esercizio della regolazione statale. Oggi abbiamo la necessità di esplorare un'altra possibilità che non sia né la proprietà privata del capitalismo né quella pubblica del socialismo, ma il comune nel comunismo.

Molti concetti centrali del nostro vocabolario politico, inclusi il comunismo, la democrazia e la libertà, sono stati compromessi a tal punto da essere quasi inutilizzabili. Nell'utilizzo corrente, infatti, comunismo significa il suo opposto, cioè il totale controllo statale della vita sociale ed economica. Certamente potremmo abbandonare questi concetti e inventarne di nuovi ma ci lasceremmo dietro anche la lunga storia di lotte, sogni e aspirazioni a questi connessa. Credo dunque sia meglio ingaggiare una battaglia sui concetti per ripristinarne o rinnovarne il significato. Nel caso del comunismo, ciò richiede un'analisi delle forme di organizzazione politica oggi possibili e, prima di ciò, un'inchiesta sulla natura della produzione economica e sociale contemporanea. In questo saggio mi limiterò al preliminare compito di una critica dell'economia politica.

Una delle ragioni dell'inadeguatezza delle elaborazioni comuniste del passato è che la composizione del capitale – così come le condizioni della produzione capitalista e dei prodotti – è oggi cambiata. Soprattutto è mutata la composizione tecnica del lavoro. Come producono le persone dentro e fuori i luoghi di lavoro? Che cosa producono e a quali condizioni? Com'è organizzata la cooperazione produttiva? E qual è la divisione del lavoro e del potere lungo i confini razziali e di genere e nei contesti locali, regionali e globali? Oltre a indagare la nuova composizione del lavoro, dobbiamo anche analizzare i rapporti di proprietà dentro cui si produce il lavoro. Con Marx possiamo dire che la critica dell'economia politica è, nella sua essenza, critica della proprietà. "I comunisti – scrivono Marx ed Engels nel Manifesto – possono riassumere la loro dottrina in quest'unica espressione: abolizione della proprietà privata".

Per esplorare la relazione e lo scontro tra la proprietà e il comune, che considero centrale per un'analisi e una proposta comuniste, voglio riprendere due passaggi dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx. Riferendomi ai Manoscritti, non intendo giocare il giovane Marx contro il Marx maturo, tanto meno mi interessa celebrare l'umanesimo di Marx. I temi trattati ritornano, infatti, lungo tutta l'opera di Marx. Né è necessario far ricorso al maestro per rinnovare il concetto di comunismo. I Manoscritti forniscono un modello utile per leggere il comune nel comunismo, oggi sempre più rilevante, e per misurare la distanza tra l'epoca di Marx e la nostra.

Nel primo brano, intitolato "Il rapporto della proprietà privata", Marx propone una periodizzazione che mette in evidenza la forma preminente di proprietà in ogni epoca storica. Dalla metà del XIX secolo, afferma, le società europee non sono più dominate dalla proprietà immobiliare come la terra, ma da forme mobili di proprietà che sono in genere l'esito della produzione industriale. Il periodo di transizione è caratterizzato da un'aspra battaglia tra le due forme di proprietà. Con il suo tipico stile Marx prende in giro il richiamo al bene sociale sostenuto da entrambi i regimi proprietari. Il proprietario terriero fa valere la produttività dell'agricoltura e la sua importanza vitale per la società, così come "la nobiltà originaria della sua proprietà, [le] memorie e reminiscenze feudali, la poesia del ricordo, la sua natura romantica, la sua rilevanza politica, ecc.". Chi possiede proprietà mobili, invece, autolodandosi attacca il campanilismo e la staticità della proprietà immobiliare. La proprietà mobile scrive Marx "ha procurato al popolo la libertà politica, ha spezzato i vincoli della società civile, congiunto fra di loro i mondi, creato il commercio filantropico, la morale pura e la cultura attraente". Marx considera inevitabile che la proprietà mobile raggiunga l'egemonia economica su quella immobiliare. "Il movimento deve ormai avere il sopravvento sull'immobilità, la volgarità aperta, cosciente di sé sulla volgarità nascosta e incosciente, la brama del possesso e quella del godimento, l'egoismo confessatamente irrequieto, mobile della ragione rischiaratrice sopra l'egoismo locale, prudente, probo, pigro e fantastico della superstizione, e parimenti il denaro sopra l'altra forma di proprietà privata". Marx naturalmente si fa beffa di entrambe queste forme di proprietà, ma riconosce che quella mobile, sebbene deprecabile, ha il vantaggio di rivelare "la tesi che il lavoro é l'unica essenza della ricchezza". Questa periodizzazione, in altre parole, mette in luce la crescente possibilità di un progetto comunista.

Io voglio analizzare il conflitto che si dispiega in parallelo tra due forme di proprietà oggi, ma prima vorrei sottolineare che il trionfo della proprietà mobile su quella immobile corrisponde alla vittoria del profitto sulla rendita come modello dominante di espropriazione. Nella raccolta della rendita, il capitalista è ritenuto relativamente esterno al processo di produzione di valore, si limita cioè a estrarre valore prodotto con altri mezzi. La creazione del profitto, al contrario, richiede il coinvolgimento del capitalista nel processo produttivo, mediante l'imposizione di forme di cooperazione, regimi disciplinari e così via. Dai tempi di John Maynard Keynes il profitto ha una tale dignità rispetto alla rendita che Keynes predisse (o prescrisse) "l'eutanasia del rentier" e dunque la scomparsa dell'"investitore senza funzioni" a favore dell'investitore capitalista che organizza e gestisce la produzione. Questa concezione di un movimento storico dentro il capitale che va dalla rendita al profitto corrisponde in molte analisi al significativo passaggio dalla accumulazione originaria alla produzione capitalistica vera e propria. L'accumulazione originaria può essere considerata, in questo contesto, una rendita assoluta, che interamente espropria ricchezza prodotta altrove.

Sia il passaggio dalla rendita al profitto sia quello dal dominio della proprietà immobile a quella mobile sono parte di un'affermazione più generale di Marx, secondo cui dalla metà del XVIII secolo la grande industria ha sostituito l'agricoltura come forma egemonica di produzione. Ovviamente, questo passaggio non avviene in termini quantitativi. L'economia industriale all'epoca era solo una piccola parte dell'economia anche in Inghilterra che era il paese più industrializzato. E la maggior parte dei lavoratori lavorava duramente non nelle fabbriche ma nei campi. L'affermazione di Marx è dunque qualitativa: tutte le altre forme di produzione saranno costrette ad adottare i parametri della produzione industriale. L'agricoltura, l'estrazione mineraria, anche la società stessa dovranno adottare il suo regime di meccanizzazione, la sua disciplina del lavoro, la sua temporalità e i suoi ritmi, la sua giornata lavorativa e così via. Il classico saggio di E.P. Thompson sugli orologi e la disciplina del lavoro in Inghilterra è uno splendido esempio della progressiva imposizione della temporalità industriale sull'intera società. In un secolo e mezzo, dai tempi di Marx questa tendenza dell'industria a imporre le sue caratteristiche ha marciato in maniera straordinaria.

Tuttavia, è evidente che oggi l'industria non detiene più nessuna posizione egemonica in economia. Ciò non significa che oggi lavorano meno persone nelle fabbriche rispetto a dieci, venti o cinquant'anni fa; sebbene, per certi versi, assistiamo alla loro ricollocazione sull'altro lato della divisione globale del lavoro e del potere. L'affermazione, ancora una volta non è quantitativa ma qualitativa. L'industria non impone più i suoi parametri sugli altri settori economici e sulle relazioni sociali in generale. Questo mi sembra un punto incontrovertibile.

Maggiori dissensi emergono quando si tratta di definire la forma di produzione egemonica che succede all'industria. Io e Toni Negri sosteniamo che la produzione immateriale o biopolitica stia oggi emergendo in posizione egemone. Attraverso immateriale e biopolitico cerchiamo di mettere insieme la produzione di idee, informazioni, immagini, conoscenze, codici, linguaggi, relazioni sociali, affetti e così via. Ciò interessa tutto lo spettro del lavoro, dai livelli più alti a quelli più bassi dell'economia, dai lavoratori della sanità agli assistenti di volo, dagli insegnati ai programmatori di software, dai lavoratori dei fast food e dei call center ai designer e pubblicitari. Molte di queste forme di produzione, ovviamente, non sono nuove. Ma la loro coerenza interna è forse più evidente, e soprattutto le loro caratteristiche tendono oggi a essere imposte ad altri settori dell'economia e sulla società nel suo insieme. L'industria deve informatizzarsi; conoscenza, codici e immagini diventano sempre più importanti lungo tutti i settori produttivi tradizionali, e la produzione di affetti e cura sta diventando sempre più essenziale nel processo di valorizzazione. Questa ipotesi di una tendenza della produzione immateriale e biopolitica a emergere in posizione egemonica – com'era stato per la produzione industriale – ha implicazioni immediate per la divisione del lavoro rispetto al genere, sul piano internazionale e in termini geografici; non posso tuttavia occuparmene in questo saggio.

Se ci concentriamo sulla lotta tra le due forme di proprietà che interessa questa transizione, possiamo tornare alle formulazioni di Marx. Laddove ai tempi di Marx la lotta era tra la proprietà immobiliare (come la terra) e quella mobile (come le merci), oggi la lotta è tra proprietà materiale e proprietà immateriale; o per dirla in altri termini laddove Marx si concentrava sulla mobilità della proprietà, oggi diventano questioni centrali la scarsità e la riproducibilità, la lotta si svolge tra proprietà esclusiva e proprietà riproducibile.

La centralità della proprietà immateriale e della sua riproducibilità nell'economia capitalistica contemporanea può essere facilmente riconosciuta tramite un rapido sguardo sul diritto proprietario. Brevetti, copyright, conoscenze indigene, codici genetici, le informazioni sul germoplasma delle sementi e questioni simili sono i temi più discussi in questo ambito. Il fatto che la logica della scarsità non appartiene a questo terreno pone nuovi problemi per la proprietà. Proprio come Marx vide che il movimento non poteva che trionfare sull'immobilità, oggi l'immateriale trionfa sul materiale, il riproducibile sull'irriproducibile, il condiviso sull'esclusivo.

L'emergente predominio di questa forma di proprietà è importante, in parte, perché segna il ritorno al centro dello scenario del conflitto tra comune e proprietà in quanto tale. Le idee, le immagini, le conoscenze, i codici, i linguaggi e persino gli affetti possono essere privatizzati e controllati come proprietà, ma è più difficile vigilare sul possesso perché possono essere facilmente condivisi e riprodotti. C'è una pressione costante per questi beni di evadere dai confini della proprietà e divenire comuni. Se hai un'idea, condividerla con me non riduce la sua utilità, ma generalmente la incrementa. Infatti, per realizzare la loro massima produttività, idee, immagini e affetti devono essere condivisi e comuni. Quando sono privatizzati la loro produttività si riduce drammaticamente, e aggiungerei che anche quando si trasforma il comune in proprietà pubblica, ovvero la si assoggetta al controllo o all'amministrazione dello Stato, si riduce sensibilmente la produttività. La proprietà sta diventando un impaccio al modo di produzione capitalista. E ciò lascia emerge una contraddizione interna al capitale: più il comune è perimetrato come proprietà, più la sua produttività si riduce; e tuttavia l'espansione del comune mina le relazioni di proprietà in maniera fondamentale e generale.

In termini ancora più espliciti, possiamo affermare che il neoliberismo è stato definito attraverso la battaglia della proprietà privata contro la proprietà pubblica, ma anche contro il comune. Qui è utile distinguere tra due tipi di comune, entrambi oggetto delle strategie neoliberiste del capitale (e questo può servire come prima definizione del "comune"). Da una parte, il comune definisce il pianeta e tutte le risorse a essa associate: la terra, le foreste, l'aria, le materie prime, l'acqua e così via. Questa definizione è strettamente connessa al termine usato nell'inglese del XVII secolo: i "commons", al plurale. Dall'altra parte, il comune si riferisce anche, come ho già detto, ai prodotti del lavoro e della creatività umana, come le idee, i linguaggi, gli affetti e così via. Si potrebbe considerare il primo come comune "naturale" e il secondo come "artificiale", ma in realtà le divisioni tra naturale e artificiale cadono rapidamente. In ogni caso, il neoliberismo ha cercato di privatizzare entrambe le forme del comune.

Uno degli scenari principali di tale privatizzazione è costituito dalle industrie estrattive che forniscono accesso alle multinazionali dei diamanti in Sierra Leone, del petrolio in Uganda o dei depositi di litio e dei diritti sull'acqua in Bolivia. Queste privatizzazioni del comune sono state descritte da molti autori, tra cui David Harvey e Naomi Klein , in termini che hanno segnato la rinnovata importanza dell'accumulazione originaria o accumulazione per espropriazione.

Le strategie neoliberiste per la privatizzazione del comune "artificiale" sono molto più complesse e contraddittorie. Qui il conflitto tra proprietà e comune è pienamente in gioco. Più il comune è soggetto alla proprietà, come dicevo, meno è produttivo; e tuttavia i processi di valorizzazione capitalista necessitano di accumulazione privata. In molti contesti, le strategie capitalistiche per privatizzare il comune attraverso meccanismi come bevetti e copyright continuano (spesso con difficoltà) nonostante le contraddizioni. Le industrie della musica e dei computer sono piene di esempi di questo tipo. ศ anche il caso della cosiddetta biopirateria, cioè il processo tramite il quale le multinazionali espropriano il comune nella forma di conoscenze indigene o informazioni genetiche di piante, animali ed esseri umani, spesso attraverso l'uso di brevetti. I saperi tradizionali sull'uso di un seme come pesticida naturale, ad esempio, o le proprietà curative di una pianta sono trasformate in proprietà privata dalle corporation che brevettano il sapere. Per inciso vorrei aggiungere che pirateria è un'accezione sbagliata per questo tipo di attività. I pirati hanno una vocazione molto più nobile: rapinano la proprietà. Queste corporation invece rubano il comune e lo trasformano in proprietà.

[...]


Ora siamo in grado di riconosce la prossimità tra il comunismo e il processo di produzione contemporaneo. Non è lo sviluppo capitalistico che crea il comunismo, né la produzione biopolitica che conduce immediatamente e direttamente alla liberazione. Piuttosto, attraverso la crescente centralità del comune nella produzione capitalistica – la produzione di idee, affetti, relazioni sociali e forme di vita – stanno emergendo le condizioni del comunismo. Il capitale, in altri termini, si sta scavando la fossa.

In questo saggio ho cercato di affrontare due punti fondamentali. Il primo riguarda la necessità di una critica dell'economia politica o, piuttosto, l'affermazione che ogni progetto comunista debba partire da lì. Tale analisi funziona sulle nostre periodizzazioni e rivela le novità del momento presente. Indaga non solo la composizione del capitale ma anche la composizione di classe, interrogandosi in altre parole, su come le persone producono, cosa producono e a quali condizioni, sia all'interno sia all'esterno del posto di lavoro, sia al di dentro sia al di fuori dei rapporti salariati di lavoro. Tutto questo, insisto, rivela la centralità crescente del comune.

Il secondo punto estende la critica dell'economia politica alla critica della proprietà. Più precisamente, il comunismo non è definito solo dall'abolizione della proprietà ma anche dalla affermazione del comune, l'affermazione di una produzione biopolitica aperta e autonoma, la continua reazione autonoma di nuova umanità. In termini più sintetici, il comune è per il comunismo ciò che la proprietà privata è per il capitalismo, e ciò che la proprietà statale è per il socialismo.

L'unione di questi due punti – la produzione capitalistica dipende sempre più dal comune, e l'autonomia del comune è l'essenza del comunismo - indica che le condizioni e gli strumenti di un progetto comunista sono disponibili oggi più che mai. Adesso, sta a noi il compito di organizzarlo.

Traduzione di Giuliano Santoro

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Pagina 61

Cinque tesi sul comune

di Gigi Roggero


Situare il comune, incarnarlo nella materialità dei rapporti sociali, renderlo metodo dell'organizzazione delle lotte: questo è il compito. Strappare, cioè, il discorso del comune all'utopia e alla natura. Storicizzare il comune, infatti, significa ripensarlo a partire dai conflitti di classe dentro il capitalismo contemporaneo, che definiamo cognitivo, e nella sua crisi. Non c'è altro modo di leggere Marx e il pensiero rivoluzionario, se non ripercorrendolo nelle lotte. Si badi bene: non si tratta di contrapporre, ingenuamente o retoricamente, la politica alla filologia. Piuttosto, si tratta dell'impostazione politica di un problema filologico. In altre parole, non è possibile afferrare correttamente il pensiero di un militante politico se lo si astrae dal contesto in cui è situato, dalle sue prospettive strategiche e dalle necessità tattiche, dalla materialità organizzativa e dalla contingenza della situazione.

Siamo allora di fronte a qualcosa di più e di diverso da una generica questione metodologica. ศ qui in gioco uno statuto epistemologico. Per usare i termini deleuzeani, è ciò che distingue una scuola di pensiero da un movimento di pensiero. La prima è costituita da categorie il cui uso ha come scopo primario il tracciare un confine e delimitare un campo di potere – accademico, disciplinare e/o teorico. ศ il modo in cui funziona la global university: la depoliticizzazione del pensiero riduce – marxianamente – il sapere vivo a sapere astratto, permette cioè di misurarlo artificialmente e di catturarlo nei meccanismi della valorizzazione capitalistica. Un movimento di pensiero, invece, usa le categorie come arnesi per agire dentro e contro l'economia politica dei saperi. Interroga una conoscenza spazialmente e temporalmente situata, per tradurla in un campo di battaglia che è sempre quello del presente. Afferma che il sapere, come la verità, è sempre concreto. Ed è sempre di parte, e può divenire strumento di organizzazione di una parte. A partire da qui proviamo ad afferrare la produzione del comune.

[...]


Tesi 2. Il comune non è un bene naturale

Nel dibattito internazionale il comune è solitamente declinato al plurale, commons o beni comuni, e identificato con ciò che esisterebbe in natura (acqua, terra, ambiente, territorio, ma anche informazione e conoscenza). Possiamo individuare in Karl Polanyi e nella sua analisi della "grande trasformazione" il referente teorico – esplicito o implicito, consapevole o meno – di questa interpretazione. Polanyi, com'è noto, ricostruisce la nascita del capitalismo lungo la linea di tensione tra espansione del mercato e l'autodifesa della società volta a ristabilire il controllo sull'economia. La trasformazione è insita nel conflitto tra liberalismo economico e protezionismo sociale, tra principi utilitaristici e coesione comunitaria, tra brutale mercificazione e difesa degli elementi naturali, i commons appunto. Il capitale viene così rappresentato come un'utopia disumana, una forza esterna che tenta di appropriarsi di una società che, per sua stessa natura, è in grado di autoregolarsi. In questa formulazione il capitale non è un rapporto sociale, ma una sorta di accidente storico. La grande trasformazione è quindi una lotta tra mezzi economici e fini sociali.

Nella prospettiva polanyiana il luogo centrale dell'antagonismo è costituito dal mercato e dai connessi processi di mercificazione, non dai rapporti sociali di produzione e sfruttamento. Negli ultimi anni molte posizioni polanyiane in senso lato hanno assunto grande rilevanza nei movimenti sociali e tra gli attivisti e i pensatori critici, per esempio rispetto alla già accennata questione delle reti digitali. Seguendo tale approccio, il terreno di lotta è identificato nello scontro tra monopolisti dell'informazione e sostenitori della libera circolazione della conoscenza, in un arco che va dalle utopie libertarie a quelle neoliberali: il web 2.0 sarebbe dunque stato l'affermazione di un'alleanza tra "etica hacker" e "anarco-capitalismo". La difesa della comunità virtuale contro i monopoli e la proprietà intellettuale è qui separata, alla radice, dalla questione dei rapporti di sfruttamento.

Il problema, allora, è riportare la definizione del comune interamente dentro i rapporti di produzione. ศ ciò che costituisce il cuore della polemica: esaltando l'importanza dei "conflitti culturali" e la dimensione "dell'antropologia", molti studiosi neo-polanyiani accusano di economicismo la centralità attribuita al concetto di modo di produzione. Ma è esattamente la loro interpretazione di questo concetto, al pari di quello di lavoro, a essere economicista. Poiché nell'interpretazione polanyana il capitale non è un rapporto sociale, esso viene ridotto a una delle diverse forze (ossia quella dell'economico) che la società deve controllare, oppure – in modo concatenato e complementare – si trasforma nell'incubo distopico del dominio totalitario. Ma se noi analizziamo le trasformazioni del lavoro e della produzione negli ultimi decenni, possiamo affermare che sono proprio gli spazi della "cultura" e dell'"antropologia" a essere catturati e messi a valore. Dunque, non vi è un fuori dai rapporti di produzione: le forme di vita e della soggettività costituiscono i luoghi della cattura e dello sfruttamento, ma anche e innanzitutto della resistenza e della liberazione. Sono, cioè, gli spazi che innervano il doppio statuto della produzione del comune: il capitale come rapporto sociale, appunto.

Perciò, in quella che abbiamo definito come interpretazione polanyiana, i soggetti sono l'individuo e la società, rappresentanti di uno spazio antropologico e naturale incontaminato che va difeso contro l'invasione che, da un indeterminato fuori, viene condotta dal capitale e dalla mercificazione. Il concetto di individuo è qui in continuità con il soggetto universale della modernità illuminista, mentre la società diventa un tutto organico: entrambi sono portatori di un interesse generale coincidente con la conservazione dell'umanità di fronte al sempre incipiente rischio della catastrofe. Nel fallimento dell'alleanza tra "etica hacker" e "anarco-capitalismo", ovvero nella cattura del primo termine da parte del secondo, agli stessi studiosi polanyiani non resta che volgersi all'inquietante fantasma dello Stato, in quanto supposto garante della "società" contro l'"economia", o piuttosto supplente di una società incapace di difendersi da sola. La comunità deve allora proteggere la sua identità, i suoi mitologici beni comuni, dagli appetiti dell'onnivoro capitale globale. Rischiando così di confondere il flusso globale delle merci con la mobilità, altrettanto globale, del lavoro vivo. Conseguentemente, la politica diviene un'utopia negativa e un progetto normativo che ha come obiettivo quello di evitare il peggio. Lo spazio della politica è, senza scarti e residui, il katéchon. Ciò che qui è in gioco non è l'organizzazione della potenza del comune, ma la sua limitazione o "decrescita". Il blocco delle forze produttive nella riproduzione del rapporto di produzione. Non comprendendo, infatti, che lo sviluppo del capitalismo si compone di crescita e di decrescita, l'immagine del comune diventa lo specchio del suo concetto giuridico corrente, basato sul principio di scarsità. Ciò contrasta, evidentemente, con la ricchezza e abbondanza caratteristica della produzione dei saperi. Seguendo Marx possiamo al contrario affermare che il limite è costituito dal capitale, e non certo dalla presunta scarsità del comune.

Il punto, allora, è denaturalizzare il comune. Per farlo, dobbiamo specificare che cosa lo rende comune. La risposta è: il lavoro vivo. Si prenda il sapere, la cui eccedenza rispetto all'accumulazione capitalistica non è data da un preesistente dato naturale: il sapere è comune perché si incarna nel lavoro vivo e nella sua potenza cooperativa. O si pensi ai beni ritenuti naturali, dall'acqua alla terra: sono, in realtà, continuamente prodotti e definiti dal piano di tensione determinato dal rapporto di conflitto tra autonomia e cattura. Non è la natura, ma sono la cooperazione e le lotte a renderli comuni. Perfino la vita appropriata dal "biocapitale" - qui inteso in senso specifico, cioè come l'insieme dei processi di valorizzazione del capitale investito nelle biotecnologie - non è affatto naturale. Ciò che è brevettato, infatti, non è il genoma in sé o singole parti del corpo, bensì la produzione di sapere su questi elementi. Il genoma, in quanto informazione, è allora un'astrazione della vita che si combina con l'astrazione del denaro, dando vita ai processi di finanziarizzazione. La combinazione di queste due astrazioni forma il "comune capitalistico", ossia la cattura della produzione del lavoro vivo.

Perciò, quello che le singolarità hanno in comune non è un'astratta e metafisica idea di umanità, ma le loro concrete e specifiche relazioni, l'ambivalente e conflittuale processo di costituzione della loro soggettività. Il lavoro vivo, allora, non ha niente da difendere se non l'autonoma cooperazione che continuamente produce e riproduce. In questo senso, non convince lo schema binario proposto da Beverly Silver, che distingue tra due tipi di insubordinazione nella storia dei movimenti del lavoro: da un lato il "tipo Polanyi", caratterizzato dalla reazione dei lavoratori contro i processi di espropriazione e proletarizzazione, in un movimento pendolare e di ripetizione; dall'altro il "tipo Marx", che si sviluppa a partire dai rapporti di sfruttamento in una successione di stadi, in ognuno dei quali l'organizzazione produttiva è trasformata. Nel capitalismo contemporaneo, al contrario, la resistenza all'espropriazione dei saperi significa lotta contro i rapporti di sfruttamento, poiché questa resistenza pone immediatamente la questione del controllo collettivo della produzione del comune contro la cattura capitalistica.

L'approccio che abbiamo qui definito polanyiano ha, come propria base materiale, le lotte e i movimenti che, sul piano globale, si stanno battendo contro la cattura capitalistica, definendo uno spazio allargato di politicizzazione, uno spazio cioè di produzione di soggettività autonoma. Allora attenzione, a scanso di equivoci: è solo dentro questo spazio che la critica dell'ordine del discorso sui "beni comuni" trova una sua ragione politica, tesa alla costruzione di pratiche antagoniste e di un orizzonte strategico. In altri termini, è possibile produrre un discorso del comune soltanto all'interno dei processi di lotta e di soggettivazione, ossia a partire dalla sua attualità e dai soggetti che la incarnano. Trasformare lo spazio di mobilitazione per i "beni comuni", cioè sul terreno del pubblico, in processo costituente del comune: ecco, oggi, il nodo politico.

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Pagina 83

Le differenze nel comune

di Anna Curcio


Il comune e le differenze

Cosa accade quando la "razza" e il genere diventano terreno di scontro politico? Quando soggettività razzializzate e genderized rivendicano nuove forme di organizzazione delle relazioni sociali? Prendiamo due esempi tra loro eterogenei: le lotte dei migranti (penso in particolare alla grande stagione di mobilitazione nella primavera 2006 negli Stati Uniti) e la particolare declinazione della "razza" e del genere nelle presidenziali americane del 2008 (attraverso la figura di Barack Obama e con Hillary Clinton prima – nelle primarie democratiche – e Sarah Palin successivamente – in ticket con McCain nella competizione per la casa Bianca). Le prime hanno fatto della "razza" il terreno in cui praticare la rottura delle gerarchie che organizzano il lavoro migrante. Il secondo esempio mostra invece la "razza" e il genere farsi spazio di riconoscimento, lo spazio in cui negoziare una posizione all'interno dell'organizzazione capitalistica del lavoro e della società (e non mi interessa qui tanto riferirmi a Obama, Clinton e Palin, quanto piuttosto a chi li ha sostenuti, ai sentimenti che hanno mosso e alle dinamiche che hanno messo in campo). I due esempi allora, tra molti altri che si potrebbero considerare, sono casi tra loro eterogenei che permettono di indagare come le lotte sul terreno della "razza" e del genere possono essere lo spazio per la rivendicazione di un'identità da difendere all'interno delle gerarchie capitalistiche o, al contrario, possono costituire lo spazio per la produzione del comune che interrompe la valorizzazione capitalistica.

Parlando di comune non penso dunque ai beni comuni che risiedono in "natura": i commons recintati agli albori del capitalismo; né al comune "artificiale" frutto della cooperazione sociale e del general intellect ridotto a proprietà attraverso la produzione normativa (copyright, brevetti, eccetera) ovvero il sapere, il linguaggio o la rete telematica. Il comune a cui faccio riferimento è un processo politico interno e al contempo antagonista al capitale – marxianamente inteso come rapporto sociale e non come cosa. Quel processo autonomo, sebbene parziale (cioè in continua tensione con la cattura capitalistica), di cooperazione sociale che genera la rottura conflittuale delle gerarchie che organizzano lo sfruttamento. ศ un processo sempre aperto, mai dato, che può assumere forme disparate e contraddittorie e, come negli esempi considerati, può resistere o conformarsi al comando capitalistico. Può articolare le differenze in un comune di linguaggi, pratiche e immaginari che apre al comunismo e alla trasformazione del presente, oppure può rinchiudersi nella difesa identitaria delle differenze che riproduce le gerarchie capitalistiche. La possibilità di fare comune si gioca dunque nel rapporto tra soggettività e differenze, nella relazione tra i singoli e il collettivo. ศ qui che le identità si definiscono nello spazio dialettico del riconoscimento o possono, al contrario, rovesciarlo descrivendo soggettività autonome e resistenti.

In questo saggio discuto il comune (e i suoi punti di blocco) come processo di soggettivazione politica collettiva, di traduzione delle differenze di classe, "razza" e genere in una pratica comune di emancipazione e libertà che può interrompere la valorizzazione capitalistica e la costruzione di gerarchie sociali e del lavoro.


Classe, "razza" e genere

Le differenze di classe, "razza" e genere hanno assunto nel capitalismo contemporaneo un ruolo assai preciso. Come ha efficacemente illustrato Miguel Mellino discutendo di "capitalismo postcoloniale", i processi di globalizzazione, le migrazioni di massa e soprattutto le lotte e i movimenti anticoloniali e femministi degli anni Sessanta e Settanta del Novecento hanno riformulato gli assetti sociali nel Nord come nel Sud coloniale del mondo, rendendo necessaria una riorganizzazione delle relazioni sociali e del lavoro. Tale riorganizzazione è passata attraverso una specifica declinazione delle differenze di classe, "razza" e genere che ha avuto il compito di gestire le trasformazioni produttive e l'ingresso in massa di nuove figure – le donne e i migranti – nel mercato del lavoro e nello spazio della cittadinanza. L'eredità del passato coloniale (tanto dalla parte dei colonizzati – nei paesi di partenza delle migrazioni contemporanee – tanto da parte dei colonizzatori – nei paesi di approdo) e le connesse retoriche razziste e sessiste, hanno fatto il resto, alimentando la produzione di stereotipi negativi e di processi di marginalizzazione e sfruttamento costruiti lungo la linea del colore e del genere. In questo quadro il capitale, alle prese con la sua ristrutturazione, è stato costretto a cessare l'esclusione delle differenze e ha avviato processi di inclusione differenziale: un'accurata selezione e differenziazione della forza lavoro che ha ridisegnato le gerarchie del lavoro e della cittadinanza, mentre cresceva la domanda di lavoro razzializzato e/o genderized. Si pensi alla sanatoria per colf e badanti in Italia nel 2009, o al meccanismo della "porta girevole" che nel corso del Novecento ha allargato o ristretto le maglie dei controlli lungo il confine Usa/Messico. Si tratta di chiari esempi di come il capitalismo postcoloniale abbia imparato a includere in modo disgiuntivo la forza lavoro, di come segmentazione e gerarchizzazione del lavoro lungo la linea del colore e del genere costituiscano gli strumenti per la costruzione di una forza lavoro a basso costo, ricattabile e spesso costretta a lavorare al di fuori di regole e garanzie. Razzializzazione e genderizing, allora, sono dispositivi di gerarchizzazione e strumento della valorizzazione capitalistica.

Questo processo è oggi accompagnato da impennate di razzismo e sessismo oltre modo alimentate dalla crisi economica globale. Discorsi e pratiche razziste e sessiste che hanno con estrema evidenza trovato piena cittadinanza negli apparati istituzionali e all'interno della società. Ne sono prova i ripetuti attacchi razzisti e omofobi in molte città italiane ma anche, sul piano istituzionale l'espulsione dei rom nella Francia di Sarkozy, la deportazione di lavoratori migranti in Europa come negli Stati Uniti, o l'odioso respingimento dei richiedenti asilo da parte del governo italiano. Sul versante del genere l'attacco "istituzionale" ha invece prevalentemente interessato il diritto di aborto nel cosiddetto Nord e il controllo delle nascite nel cosiddetto Sud, ma anche gli stupri e gli assassini che in India, ad esempio, hanno accompagnato gli espropri per la costruzione degli impianti industriali del gruppo Tata. Il caso Italia offre invece uno specifico – ma altrettanto violento – spaccato della dequalificazione e inferiorizzazione delle donne. Attraverso gli strumenti della comunicazione di massa (dai giornali alla Tv) e gli atteggiamenti di almeno alcune figure istituzionali (penso in particolare al presidente del consiglio in carica, ma non solo) assistiamo alla costante e sfacciata riduzione delle donne a mero oggetto del desiderio sessuale. Né la critica femminista mainstream è stata in grado di rompere la produzione di stereotipi di genere; in risposta alla mercificazione del corpo delle donne ha invece spesso proposto un femminile normalizzato che, sicuramente meno offensivo, rimane tuttavia altrettanto stereotipato e dequalificante.

Discutere dunque di differenze, vuol dire indagare il peso che l'essere donna e/o migrante razzializzato esercita sulla vita dei soggetti, sulle loro condizioni di vita, aspirazioni e opportunità. Vuol dire cogliere le implicazioni immediatamente economiche e politiche di classe, "razza" e genere e "nominare la cultura e l'egemonia capitalistica come principio fondativo della vita sociale. Fare altrimenti – ha efficacemente sottolineato Chandra Mohanty, particolarmente attenta al ruolo delle differenze nell'esperienza di vita dei soggetti – vuol dire offuscare il modo in cui potere ed egemonia funzionano nel mondo".

Ma le differenze permettono anche di mettere a fuoco l'apertura di uno spazio per il rovesciamento di potere ed egemonia, per la messa in discussione delle gerarchie capitalistiche e per la produzione di quel processo politico di cooperazione sociale e rottura conflittuale che chiamiamo comune. Non solo dunque la dequalificazione e subordinazione delle soggettività razzializzate e genderized, ma anche la dimensione politica e la domanda di cambiamento che le differenze esprimono. D'altra parte le lotte femministe insegnano che nessun cambiamento radicale è possibile senza modificare le relazioni di genere, mentre la Critical Race Theory, su di un piano differente, ha segnalato che le discriminazioni e lo sfruttamento sul terreno della "razza" sono come il "canarino del minatore": mostrano un malessere che riguarda l'intera società.

In questa prospettiva, parlando di differenze di classe non ho in mente un dato di natura o un attributo biologico; faccio piuttosto riferimento all'"articolazione" di classe, "razza" e genere che attraversa l'esperienza di vita dei soggetti. Non la differenza proposta da una parte del dibattito femminista o da certe retoriche della blackness, ma piuttosto una declinazione materialista delle differenze (non a caso declinate al plurale) che rifugge da ogni essenzialismo. Assumo dunque la "razza" e il genere come costruzioni socioculturali che descrivono il posizionamento dei soggetti all'interno dei rapporti produttivi e che mostrano al contempo l'intreccio di storia coloniale, storia del capitalismo e storia della modernità che attraversa l'esperienza soggettiva (ancora una volta dei colonizzati così come dei colonizzatori). Colonialismo e orientalismo – ricorda Said – hanno costruito un processo di distaccamento, segmentazione e gerarchizzazione delle relazioni sociali che ha fatto da sfondo al modo in cui il soggetto occidentale ha costituito il suo altro e se stesso, e che oggi si riflette su razzializzazione e genderizing: sulla costruzione assolutamente materiale di gerarchie e processi di segmentazione sociale lungo la linea del colore e del genere.

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