Autore Luciano De Fiore
Titolo Anche il mare sogna
SottotitoloFilosofie dei flutti
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2013, Navigazioni , pag. 336, cop.fle., dim. 14x21x1,7 cm , Isbn 978-88-359-9333-9
LettoreGiorgio Crepe, 2014
Classe filosofia , mare , viaggi , storia letteraria , classici latini , classici greci












 

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Indice

Apertura                                             11


1.  Mari greci                                       17

    Al nord                                          22
    Nascita dell'elemento                            24
    Tra Mileto e Fenicia                             26
    Inversioni                                       30
    Nautica e politica                               33

2.  Mare e deserti                                   45

    Sale e rimozione                                 45
    Giona                                            51
    Leviatano                                        57
    Un mare cristiano?                               60

3.  Mare Nostrum                                     63

    Onde in versi                                    66
    Tra nausea e catastrofe                          68
    Dal blu al Nero                                  73

4.  Sirene                                           79

    Il canto delle sirene                            82
    Il canto e il desiderio                          86
    Allarmi e silenzi                                89
    Marsorridendo                                    92
    Sirene italiane novecentesche                    97
    Bestiari e teriomorfismo                         99
    Il mare e le donne                              101
    Il due e la diade                               103

5.  Sirene in Massachusetts                         107

    Phlebas il Fenicio                              111
    Frammenti nel deserto                           118
    Verso il / mare volano / le ali non spezzate    120
    «The sea has many voices...»                    125
    Da Eliot a Conrad, da Conrad a Eliot            131

6.  Mari, specchi, eterotopie                       135

    Un marinaio molto continentale                  139
    Dal cuore della tenebra, il compagno segreto    141
    Due navi                                        146
    «Ché questo miracolo o questa meraviglia /
        mi turba assai grandemente»                 153
    Marinai e nuotatori, vocazioni diverse          157
    Quelli del Conway                               159
    Il silenzio del mare                            166

7.  In viaggio                                      171

    Giri del mondo                                  171
    Message in a bottle                             175
    Il Mare della Tranquillità                      180
    Cigni del mare                                  181
    Follia e globalizzazione                        183
    Il senza-fine mugghia                           185
    Sì, viaggiare                                   192
    Ulysses, the seeker                             194
    Inferno XXVI                                    198

8.  Naufragi                                        207

    A fondo                                         209
    Naufragio con o senza spettatore                213
    Kant: dall'isola dell'intelletto
        alla legge del mare                         218
    Naufragi novecenteschi                          222
    Il coraggio della deriva                        228
    Euforia del naufrago?                           230
    Excursus — La rappresentazione del naufragio    231
    Disperazione e speranza                         232
    Paura a terra                                   234

9.  Spazi e onde                                    237

    Flat world?                                     237
    "Sous les pavés, la plage"                      241
    Junkspace, mari e rifiuti                       242
    Cartografie                                     244
    Onda su onda                                    249
    Onde marine e acroamatica                       255
    Lunghezza d'onda                                256
    Surfin'                                         262
    "Mamma, l'onda mi ha colpito!"                  264

10. Mediterranei                                    269

    Bordi                                           269
    Stranieri                                       272
    Un mare piccolo e profondo                      279
    Il pensiero meridiano                           282
    Excursus — I colori del blu                     287

11. Nomos/globus                                    293

    Cercando l'anima del mondo                      298
    Nomos vs globus                                 302
    Il nomos della terra                            306
    Mari d'Oriente                                  311
    L'Impero latino e il Mediterraneo               314

Riconoscenze                                        319

Abbreviazioni bibliografiche                        321
Indice dei nomi                                     323
Indice analitico                                    330

 

 

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Pagina 11

Apertura



                         «Filosofi, lo siamo tutti, indegnamente, gloriosamente,
                              per abuso, per difetto, e soprattutto sottoponendo
             il filosofico (termine scelto per evitare l'enfasi della filosofia)
                        a una messa in questione così radicale che occorre tutta
               la filosofia per sostenerla. [...] La filosofia sarebbe la nostra
                            compagna per sempre, di giorno, di notte, foss'anche
                        perdendo il proprio nome, divenendo letteratura, sapere,
                                                    non-sapere, o assentandosi».

                                                                Maurice Blanchot



Una delle più belle frasi di Leibniz: «Credevo di essere arrivato in porto, e sono stato rigettato in mare aperto». Deleuze commenta: «Cosa c'è di più bello? Θ l'enunciato stesso del cammino filosofico: ci si crede arrivati e poi ecco che ci si ritrova rilanciati in mare aperto».

Nel blu del mare aperto, dove si confrontano le forze turgide e violente delle correnti, delle onde, delle maree. Dove si coglie quello che è forse il significato fondamentale del mare per il nostro immaginario: l'essere un confine assegnato dalla natura allo spazio delle imprese umane, e ciò nonostante un confine sfidato, varcato.

Occuparsi del mare ad angolo giro, sia pure da un'angolazione per lo più filosofica, espone al rischio d'incorrere nel luogo comune, nella decontestualizzazione. Un azzardo al quale è difficile sfuggire: troppe le associazione, le ibridazioni tra visuali limitrofe che suggeriscono sconfinamenti nei testi letterari, nell'arte, nella storia e nella geografia, nell'economia e nella fisica. La carta, in mare, è a rischio. Se si bagna, si sfalda. Meglio sarebbe affidare queste riflessioni a un medium anch'esso liquido, lasciandole libere. Meglio considerare l'indice come un sommario dei temi e delle correnti, incrociabili in modi diversi, per affinità differentemente elettive.

[...]


Soltanto se il mondo diviene – se non resta fermo in sé, ma si fa liquido, flessibile e solcabile come il mare – solo così è disponibile al dominio e può essere dominato [Severino 2006]. Nel mare, il richiamo tra spazio e tempo è costitutivo, ogni movimento nel e del mare dice della intrinseca temporalità dei suoi spazi. Nonostante appaia come un immenso spazio liscio, è da sempre striato: sulla sua superficie sono tracciabili rotte, vie marine, ripercorribili attraverso l'esperienza e lo studio. Anzi, «il semplice gesto di tracciare su una carta la rotta di una nave, indicandone di giorno in giorno la posizione, collega in modo visibile lo spazio e il tempo». Le rotte: cammini ideali cancellati ogni istante dall' infirmitas delle onde e però nuovamente tracciate, fin dai tempi dei Fenici, grazie ai segni del cielo, a quel firmamentum bronzeo al quale i più antichi navigatori affidavano il punto.

La storia del rapporto tra l'uomo e il mare può esser raccontata proprio alla luce della tensione tra le onde e le rotte, tra ordine e caos, tra la superficie e il fondo. Termini propri anche alla riflessione filosofica che infatti, dalla prima sapienza greca, si è occupata del mare in quanto mezzo, forza sradicante e mutevole e, insieme, elemento primo, aporetico per eccellenza, incomprensibile in quanto non circoscrivibile dal pensiero, illimitato nelle sue dimensioni percepibili e non chiuso da alcun confine [Santini 2013].

Anche la filosofia può rintracciare nelle proprie scritture quei cronotopi riferiti all'acqua già identificati da Bachtin nella letteratura: «1) l'acqua blu – il mare aperto; 2) l'acqua marrone – il fondo fangoso e infido del fiume; 3) l'acqua bianca – le masse d'acqua spumeggianti che diventano una micidiale forza della natura; 4) l'isola – una terra completamente circondata dalle acque; 5) la riva – il punto di contatto tra mare e terra; 6) la nave – un instabile frammento di terraferma su cui gli esseri umani si avventurano negli inospitali territori oceanici». Si può così trovare, ad esempio, l'acqua blu in Nietzsche , Hegel e Sloterdijk; l'acqua bianca in Spinoza , Leibniz e Deleuze; l'isola in Tommaso Moro , Bacone e Kant; la riva in Lucrezio e Platone; la nave, in Voltaire e Foucault.

Forse proprio perché da sempre ci si confronta con la problematicità dell'elemento marino, i filosofi ne hanno sempre trattato, affrontandolo in quanto tale o in chiave metaforica, quasi sempre però da una posizione di vantaggio, dalla tolda. Un privilegio probabilmente ormai precluso alla riflessione. Piuttosto, favoriremmo un pensare non scisso, permeato dall'immaginazione e dagli affetti. Immergersi nei testi, nei versi, nelle note del mare sembra proprio di un pensare appassionato. Il mare aiuta il filosofo a porsi le domande giuste. Immergersi, stavolta, vale più di una metafora. Rispetto a una "filosofia della navigazione", sembrerebbe preferibile intraprendere uno sforzo ulteriore: non è più questione solo di navigare (il plutarchiano navigare necesse), ma di nuotare, rinunciando alla prudenza che, nei secoli, ha contraddistinto l'attitudine filosofica nei confronti del "tremendo".

Non sembrano attuali neppure le illusioni dei marinai-filosofi di Neurath che ancora speravano di issarsi sopra una zattera, sia pur costruita con i materiali di risulta dei precedenti naufragi. Illusorio guadagnare un punto di vista "all'asciutto". Da tempo ormai non ci sentiamo limitati dal mare delle passioni e delle apparenze – l'oceano kantiano dell'incertezza –, nella consapevolezza piuttosto di essere limite noi stessi, noi stessi altro e tutt'uno con quel mare, finiti nella sua infinitezza, ma contenitori di quella, nuotando in un oceano infinito-finito.

Se la terra da sempre è apparentabile al kosmos, a una natura creata secondo il canone della perfezione, al mare qualsiasi ordine naturale o artificiale è stato tradizionalmente precluso. Sul mare, nessuna città, nessun nomos, nessuna pace possono venir concepite [Cacciari 2008]. Anche se per secoli la filosofia e il diritto hanno tentato di stabilirne artificialmente il possesso e la proprietà. Al mare sembra attagliarsi piuttosto l'imperfezione, l'inquietudine del desiderio che sempre si rigenera: immagine di quel desiderare il desiderio e quindi non la perfezione, ma l'imperfezione, o, detto altrimenti, l'instabile equilibrio che, l'una nei confronti dell'altra, le due dimensioni realizzano [Sasso 2011].

Il mare appare dunque l'elemento in grado di esprimere meglio quella tensione interna alla stessa natura colta dalla riflessione filosofica classica dell'Occidente: per un verso, una natura che si vorrebbe aristotelicamente rispondesse all'idea di perfezione e di ragione, ma che per un altro allude invece alla caduta e al peccato. Come se al mare fosse demandato l'ingrato compito di introdurre e rappresentare nell'ordine naturale l'imperfezione della dismisura. Forse per questo Ulisse è il personaggio che meglio esprime la complessità e la tragica necessità dell'andar per mare, eroe e vittima del proprio desiderio.

L'uomo è un essere anfibio, diceva Hegel. Non solo tra natura e cultura. Secondo Carl Schmitt , non è poi detto che il nostro elemento ultimo sia la terra. Siamo di fatto immersi nell'insicurezza che già noi stessi siamo, abbiamo coscienza di non essere in salvo su nessun battello si riesca a varare; e siamo consapevoli che questo non è un vantaggio, che questo essere gettati – e per di più, in un oceano di inquietudini – non è un destino da accettare senza batter ciglio, né di cui compiacersi. Tuttavia, appare al momento l'unica prospettiva in grado di sfuggire a una considerazione prospettica, a distanza, del nostro agire. Non si tratta neppure di mantenerci a galla, per restare nella metafora. Sembra aver più senso non sentirsi estranei alla liquidità della quale facciamo parte. Altro che prosciugare lo Zuyderzee, l'immensa acquasantiera (come la definiva Camus ) della sfortunata metafora freudiana: ci priveremmo della sostanza di cui è fatto il nostro stesso esserci. Della stessa riflessione che quell'essere accompagna.

La multifocalità, inverso attuale della centralità stabile della modernità metafisica, potrebbe privilegiare invece come spazio simbolico elettivo proprio il mare, sulla cui superficie il nomadismo è di rigore e non ci sono altezze sulle quali ergersi. La dimensione superficiale del mare nega l'innalzamento gerarchico, offrendosi piuttosto come medio fluido al contaminarsi delle teorie e lasciando che nel suo profondo scorrano e si accavallino correnti, e che, in superficie, si immaginino e traccino rotte, favorendo la scoperta che tutto accade alla frontiera: «Dal mare continua ad irradiare una luce che risveglia nell'anima incline al sonno la magia del fuori sconosciuto. Qui, ma in un eterno risvegliato ad un altrove, l'uomo rimane così posseduto da una memoria di libertà e non disimpara il desiderio».

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Pagina 76

Dèi del mare e del cielo – che resta ormai se non pregare? – risparmiate questa nave percossa dai flutti, non lasciate che si sfasci, vi supplico, non schieratevi con il grande imperatore in collera! [...] Sto miseramente sprecando parole che non servono a niente, e proprio mentre parlo i frangenti mi sferzano il viso, il Noto spaventoso disperde quel che dico e non fa giungere le mie preghiere agli dèi [...]. Misero me, in che enormi montagne d'acqua si rigonfia il mare! Si direbbe che da un momento all'altro raggiungano le stelle nell'alto del cielo. Che profondi avvallamenti si aprono tra le onde! [...]

Non c'è dubbio, sono perduto, non c'è speranza di salvezza; mentre parlo, un'ondata mi copre il viso. Sarò sopraffatto dal mare in tempesta, e morirò con l'acqua che mi riempirà la bocca mentre grido inutili preghiere [...].


Non è tanto quindi la descrizione della tempesta in mare a colpire: il topos della tempesta marina era da tempo un classico, perfino abusato, della poesia latina che a sua volta si era largamente ispirata all'epica omerica. Virgilio ne aveva scritto nel primo Canto dell' Eneide, quando il mare infuriato getta a terra i Troiani in fuga presso Cartagine. Ed Ovidio stesso ne aveva già dato una folgorante rappresentazione nel libro XI delle Metamorfosi. Quel che conta, qui, è la partecipazione in diretta a cui il poeta chiama il lettore: la disgrazia è ancora in corso di svolgimento, i venti infuriano da ogni parte, il timoniere è atterrito e non sa verso dove volgere la prua, la chiglia della nave viene colpita con un'energia pari a una macchina da guerra, fino all'arrivo dell'onda più violenta, la decima, che sembra spezzarla in due. Ovidio ricorre a questo artificio tecnico per far capire al lettore quanto profondo sia l'abisso in cui l'ha gettato la condanna all'esilio patita da Augusto. Una condanna che, nei Tristia, non si sente più di contestare, che anzi accetta, ma che spera ancora possa venir corretta da un richiamo in patria, a Roma o a Sulmona, sua terra d'origine. Qual è dunque la tempesta "vera"? Quella che infuria nelle acque dell'Egeo, o questa è solo una metafora di quella in cui sta annegando un Ovidio strappato ai propri affetti e ai propri interessi? Le due burrasche s'intrecciano, divenendo un unico motivo letterario e politico; fin quando durerà la tempesta, Ovidio non smetterà di darne conto: solo se la tormenta lo vincerà, perdendolo e lasciandolo senza forze, per sempre esule a Tomi, poserà lo stilo. Piuttosto, che il lettore sia indulgente nei confronti di questi versi: «Non li scrivo, come un tempo, nel mio giardino, non ho il corpo adagiato sul caro solito letto: sono al largo, sbattuto da un mare selvaggio, in una giornata d'inverno, e l'acqua cerulea sferza addirittura la mia pagina».

D'altra parte – precisa chi con ben altro spirito era stato autore dei Fasti – il suo andare per mare non si deve al desiderio di scambiare merci, di accumulare ricchezze; né vi sono motivi culturali, o men che meno "turistici", per cui veleggia verso le coste dei Sarmati. In altre parole, Ovidio è consapevole della condanna platonica della navigazione come mezzo per arricchirsi a detrimento dei costumi e fa notare quale destino crudele l'abbia costretto sulle onde infuriate del Ponto.


Nella Roma imperiale erano aperte ottocento piscine, alimentate da imponenti opere idrauliche come i monumentali acquedotti che convogliavano ogni giorno nell'Urbe milioni di litri di acqua. Alcune piscine grandi al punto da poter ospitare anche mille persone. Di un uomo ignorante i Romani dicevano: non sa leggere né nuotare. Nonostante questo culto per l'elemento liquido, nella cultura marina classica del mondo romano convivono aspetti contraddittori. Per un verso il mare dei Romani è il tramite vuoi del commercio come delle guerre, comunque delle relazioni anche contrastate fra i popoli; dall'altro resta ciò che divide, come nei famosi versi lucreziani, ciò che mette a rischio, distanzia e separa. Nella vita quotidiana prevale la natura di mezzo del mare, mentre nella riflessione, e nell'immaginario collettivo, resta radicata la sua natura altra, ostile, diversa e misteriosa. Natura questa che la Chiesa cristiana nel Medio Evo avrebbe fortemente valorizzato, con il risultato di allontanare per secoli l'uomo dal mare e dal nuoto.

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Capitolo 6
Mari, specchi, eterotopie



La via che sale è la via che scende. Se da Eliot si può rileggere Conrad , a partire dal protomodernismo di quest'ultimo si può passare al modernismo del primo. Per esempio, partendo da un verso dei Quattro quartetti: non ha fine la deriva del mare e dei suoi detriti. Se Eliot restituisce la frammentazione di una terra desolata e affida poi questa parcellizzazione anche al mare, con Conrad si può sperare che quello "heap of broken images" possa non già ricomporsi, ma fruttare in termini personali, possa almeno essere funzionale al processo d'identificazione di ognuno. Non a caso, una delle opere principali di Conrad s'intitola The Mirror of the Sea. Il mare è uno specchio molto particolare, cangiante, spesso (nel senso di denso, alto e profondo) e che soprattutto disperde e rimescola continuamente i relitti alla deriva: mentre i frammenti delle rovine giacciono sulla terra desolata come morti, esausti, accatastati, inscatolati (alla Pound); se con loro è possibile almeno coltivare l'illusione di puntellare (il to shore eliotiano) le macerie; i relitti alla deriva, invece, si muovono, dondolano, si consumano, divengono scabre ed essenziali come le ossa spolpate in bisbigli di Phlebas. Con loro è impossibile edificare. Resta una tentazione, invero, quella coltivata e rilanciata da Natorp e dai suoi filosofi-naufraghi: di tentare comunque di assemblarli per farne una zattera, nella speranza così di trarsi all'asciutto, di riguadagnare una qualche tolda, sia pure – come dice Eliot – a filo d'acqua. Si tratta di un'illusione, forse anche di un errore.

Le vicende legate alla composizione della Terra desolata testimoniano quanto stretto fosse il rapporto Eliot-Conrad. Dobbiamo a Ezra Pound , che lo cassò, l'assenza del grido d'orrore di Kurtz di Cuore di tenebra in epigrafe a The Waste Land. Ma il "miglior fabbro", di soli tre anni maggiore di Eliot e però con un'ascendenza e un'autorità letterarie così marcate sull'amico, non ha potuto impedire a Eliot di porre in epigrafe a un poema del 1925, The Hollow Men (Gli uomini vuoti), una battuta dello stesso romanzo: «Mistah Kurtz – he dead».

Probabilmente, nella poetica e nella scrittura diretta, classica del romanziere anglo-polacco, Eliot intravedeva l'acuta prefigurazione del panorama di rovine dell'Occidente e delle sue colonie a inizi Novecento, una rappresentazione insieme drammatica e simbolicamente coerente. Non a caso, diciotto anni prima della composizione del poemetto eliottiano, la locuzione "waste land" era entrata più volte in un articolo scritto proprio da Conrad per lo Harper's Weekly, dal titolo Il peso del carico. Nella cronaca, Conrad ricordava il proprio abbattimento quando, primo ufficiale, restò bloccato nei pressi di Amsterdam da una gelata artica che strinse la sua nave in una morsa che non consentiva di conquistare le acque aperte. Intorno alle banchine si apriva un'«artica terra desolata, con cataste di legname qua e là, come capanne di un accampamento di una qualche poverissima tribù [...]; banchine fredde, rivestite di pietra, con il suolo spruzzato di neve e l'acqua ghiacciata e indurita del canale, in cui erano conficcate una dietro l'altra le navi con i cavi d'ormeggio gelati che pendevano in bando e i ponti inoperosi e deserti».

Il mare aperto: è il richiamo vitale, il punto di attrazione verso la libertà, la mancanza di costrizione, come già era stato per l'Ismaele di Melville. La stasi, viceversa, è da sempre l'odioso nemico del navigante: Achab è nemico giurato della bonaccia e amante delle tempeste. Soprattutto, l'alto mare offre l'occasione per evolvere, per crescere, per portare avanti il proprio processo d'identificazione personale, prima che cognitivo, affettivo.

Intanto, però, l'unica missione del mestiere di un marinaio – scrive Conrad – è di tenere la chiglia della nave lontana dal fondo. Arenarsi, il rovescio dell'affondare, è il più tetro e completo fallimento dell'uomo di mare, una catastrofe, una disfatta. La mancanza di acque aperte si conferma la maledizione del marinaio.


Nel finale di Apocalypse now, il film che Francis Ford Coppola ha tratto da Cuore di tenebra, Willard è ormai prossimo al suo obiettivo. Il capitano dei marines è stato incaricato dai servizi segreti americani di uccidere il colonnello Walter Kurtz, un eroe che l'assurdità della guerra ha trasformato nel capo di un sanguinario esercito irregolare. Kurtz/Marlon Brando combatte una propria personale battaglia contro i Vietcong, muovendo da una base nel fondo della foresta nell'alto corso di un fiume, in Cambogia. L'itinerario di Willard lungo il conflitto e il corso d'acqua e fango (attraversando un'umanità malata e desolata dalla guerra e dal peccato) si dipana tra il racconto di Conrad e la ricerca del Graal. Tutto è rovesciato o contaminato; il re malato non è più il Re Pescatore, non va risanato, ma ucciso.

[...]


Un marinaio molto continentale

A proposito del suo primo colloquio per essere ammesso nella marineria britannica, Conrad ricorda nell'autobiografia la particolare diffidenza suscitata per il provenire da un paese, l'Ucraina ex polacca, del tutto alieno da tradizioni marinare. Con humour già britannico, Conrad riporta alcune battute del suo colloquio d'esame per divenire capitano:

«Non ci sono molti della vostra nazionalità nella nostra Marina, direi. Non ricordo di averne mai incontrato uno né prima né dopo di aver lasciato il mare. Non ricordo neanche di averne udito parlare. Siete un popolo continentale, vero?».

Dissi di sì – molto continentale. Eravamo lontani dal mare non solo per situazione, ma anche per la completa assenza di rapporto indiretto, essendo una nazione niente affatto commerciale, bensì puramente agricola.

Esponente di un popolo molto continentale; e tuttavia per quanto figlio di un patriota rivoluzionario polacco, Apollo Korzeniowski, Józef Teodor Nalecz Konrad Korzeniowski fu poi marinaio britannico per vent'anni – fino a raggiungere a trenta il grado di capitano di lungo corso – prestando servizio quasi sempre a bordo di navigli a vela, nonostante si fosse ormai imposta la navigazione a vapore, al punto da consentirgli di commentare, in un paio di articoli, l'affondamento del Titanic: «Posso dire, senza esagerare, che per la forza cieca delle circostanze il mare finì per diventare tutto il mio mondo e la Marina Mercantile l'unica mia casa per una lunga successione di anni».

Il mare: per lunghi anni, tutto il suo mondo. Al punto da potersi definire, ormai anziano, "una creatura anfibia": «una buona metà della mia esistenza attiva è trascorsa in contatto familiare con l'acqua salata». E la marina inglese, frutto di una scelta fortemente deliberata: marinaio e inglese, al punto da divenire col tempo Capitano e in seguito, smesso di navigare, uno dei maggiori scrittori della lingua di Shakespeare. Lui, di madrelingua polacca e che pure parlò in inglese fino alla fine con un accento francese tanto marcato da renderlo quasi incomprensibile.

Gli anni in mare fecero sì che spesso i suoi racconti e romanzi prendessero spunto esplicitamente da esperienze apprese da vicino, quando non vissute direttamente a bordo di velieri più o meno grandi e veloci, nei mari del Sud e del Sud-est; una sola volta infatti, e da passeggero, Conrad traversò l'alto Atlantico. Anche la vicenda della quale ci occuperemo ha fonti certe in fatti accaduti a bordo di un veliero, il Cutty Sarks, nel 1880: cioè nello stesso anno tragico per la marina britannica in cui accaddero anche i fatti a bordo del Jeddah narrati in Lord Jim (1900).

Per accostare almeno l'ideologia conradiana, può esser utile riportare un suo commento a proposito della fine del Titanic, pubblicato pochi giorni dopo l'affondamento del transatlantico, nell'aprile 1912:

Voi costruite in sottili lamiere d'acciaio un albergo da 45.000 tonnellate per assicurarvi la clientela, diciamo, di un paio di migliaia di persone ricche (perché se si fosse trattato solamente del trasporto di emigranti una simile esagerazione della pura mole non ci sarebbe stata), lo arredate nello stile dei faraoni o Louis XV – non so quale dei due – e per piacere alla suddetta fatua manciata d'individui, che hanno tanto denaro da non sapere che cosa farsene, nonché fra gli applausi di due continenti, lanciate a ventun nodi attraverso il mare quella massa con duemila persone a bordo – perfetta esibizione della cieca fiducia moderna nel materiale e nei congegni puri e semplici. E poi succede questo. Urlo generale. La cieca fiducia nel materiale e nei congegni ha ricevuto una terribile scossa. Non dirò niente della credulità che accetta qualsiasi dichiarazione che agli specialisti, tecnici e impiegati piaccia di fare, a scopo sia di guadagno sia di gloria. Restate lì attoniti e feriti nella vostra più profonda sensibilità. Ma, date le circostanze, che cos'altro potevate aspettarvi?.

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Marinai e nuotatori, vocazioni diverse

Nell'Ottocento gli inglesi erano in effetti – oltre che famosi naviganti – i migliori nuotatori del mondo e ne andavano fierissimi. Proprio gli anglosassoni avevano riaperto la pagina chiusa del nuoto dopo secoli di rifiuto e di dimenticanza: l'acqua era stato un elemento fondamentale, per alcuni: il fondamentale nella cultura classica, e il solcarla a nuoto un'esperienza centrale della paideia tanto per i Greci quanto per i Latini, che di piscine e di terme avevano cosparso il mondo conosciuto. Ancora più significativa era stata la straordinaria sensibilità per l'acqua che permea la vita e la poesia latina, il senso profondo della sua bellezza e divinità ereditato dai Greci. Poi, per secoli, l'acqua e il nuoto erano stati rimossi, allontanati.

Leggatt è un nuotatore alla Byron, per il quale il nuoto era essenzialmente un'attività muscolare. Ed effettivamente Byron, claudicante sulla terra ferma, era un formidabile nuotatore, capace di imprese memorabili come la mitica traversata dell'Ellesponto, per le quali ai tempi divenne famoso più ancora che per le sue opere. Un altro nuotatore instancabile fu Edgar Allan Poe – "poeta dell'acqua", secondo la definizione di Marie Bonaparte –, in grado di nuotare per sei miglia contro corrente nel fiume James.

Un secolo di nuotate, l'Ottocento, fino al capitolo a parte che meriterebbero le folli imprese natatorie di Jack London nella baia di San Francisco. Il nuoto era ormai entrato di nuovo nella cultura alta, spinto dalla considerazione per le acque dai Romantici in poi. Basti pensare ai "Lake Poets", Wordsworth e Coleridge, a Swinburne e – tra i non anglosassoni – a Maupassant (il quale ultimo peraltro salvò dall'annegamento, quattordicenne, proprio il ventisettenne, e ubriaco, Swinburne, in una mattina d'estate del 1864 nella piccola baia di Porte d'Amont, vicino Ιtretat). Oltre a Goethe ovviamente, che per tutta la vita nuotò nel fiume che scorreva al fondo del suo giardino a Weimar, tutto l'anno, anche in pieno inverno, la mattina presto o – fino a novembre – in piena notte.


Leggatt, dunque, appartiene a una stirpe che, nell'Ottocento, si è riaccostata a delle origini filogeneticamente dimenticate per una decina di migliaia di anni: l'uomo anfibio, l'uomo che non ha scelto una volta per tutte un elemento come proprio, ma che è disposto a cambiare, ad alternare il palcoscenico del proprio ambiente, tra terra, aria – ancora non del tutto dimentico dei rami delle piante sui quali ha esordito la sua intelligenza – e acque marine, presso le quali la scimmia antropomorfa africana, antenata degli ominidi, ha portato avanti la propria esperienza e ha costruito il suo mondo.

Il pensiero-di-terraferma è davvero il nostro destino di umani? Alcune esperienze umane esprimerebbero l'antica vocazione, come la tendenza di molte donne a tornare a pratiche naturali lasciando nascere in acqua i bambini. Al di là della curiosa teoria hardiana della "scimmia acquatica", ha invece senso pensare – con Sloterdijk e Hegel – a un'antropologia in qualche misura anfibia, perché gli umani non sono esseri monoelementari; gli umani sono «animali che traslocano, disponibili a trasferirsi, a cambiare milieu, traduttori, anfibi ontologici [...], sempre disponibili ad altri ambienti – all'aria, e all'acqua, nella misura in cui il tuffarsi ed il nuotare non sono del tutto dimenticati».

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Capitolo 7
In viaggio



Giri del mondo

«La maggior parte della gente sa che il mare copre i due terzi del pianeta, ma pochi si prendono la briga di capirne solo un litro». Non così Ismaele, nel più folgorante e famoso incipit della letteratura americana: «Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa — non importa quanti precisamente — avendo poco o punto denaro in tasca, e nulla in particolare che m'interessasse a riva, pensai di prendere il largo per un po' e di vedere la parte acquea del mondo». The watery part of the world, la parte acquea del mondo. Non avendo nulla in particolare che m'interessasse a riva, decisi di prendere il largo. Melville raccoglie due aspetti centrali della letteratura di mare. Il desiderio di "prendere il largo", appartenente alla vastissima famiglia delle metafore marine in absentia, spinge Ismaele a imbarcarsi, per vedere l'altro dalla terra, il mare. Vedere, non conoscere. Vedere, perché il giovane marinaio in erba non sa ancora che il viaggio per mare può divenire l'esperienza per eccellenza, e che oltre a vedere la parte acquea del mondo, questa gli sarà essenziale per capirsi e comprendere il tutto dell'esperienza, dal momento che "acqua e meditazione sono sposate per sempre".

Intuisce inoltre un altro aspetto decisivo: per vedere il mare occorre andarvi dentro, o almeno sopra; insomma navigarlo, non restare "al di qua" del mare, come fanno invece le "migliaia e migliaia" di contemplatori delle acque calamitati sulle banchine dal fascino del mare, ma incapaci di decidersi all'imbarco, stanche "sentinelle silenziose" che affollano il molo dove è attraccato il Pequod, la baleniera del Capitano Achab.

In questi centosessant'anni che ci separano dalla pubblicazione di Moby Dick , si potrebbe dire che quelle banchine si siano via via spopolate. L'attitudine moderna, trascorsa nella ultramodernità non senza sussulti e cambiamenti, ammette con un certo fastidio quel "preferirei di no" che lo stesso Melville ci ha regalato: un'attitudine peraltro complessa, solo in apparenza sospesa tra l'indecisione e l'accidia, confusa spesso con la ricerca di un luogo al riparo dal flusso del tempo e dal gorgo degli avvenimenti. Resta però senz'altro più "moderno" un atteggiamento diverso: è come se la ciurma di Achab, scendendo a terra, l'avesse colonizzata del suo spirito, con un'immagine di Philip Roth. Uno spirito che ha certamente nelle sue corde il viaggio e che non disdegna "la parte acquea del mondo". Perché, oltre che su Ismaele, pur incutendo paura e terrore, esercita tuttora tanto fascino e così grande influenza sulla vita degli uomini? Perché, notava già von Humboldt , nessuna lingua, anche di popoli lontanissimi dalle coste, manca almeno di una parola per dire mare?

Forse perché veniamo dal mare. Dall'originaria Panthalassa, gigantesco oceano primordiale, immenso, senza barriere. Di contro, gli si stagliò 750 milioni di anni fa, un supercontinente – Rodinia – che poi si frantumò e si riaggregò diverse volte, fino a formare Pangea. All'inizio del Giurassico, la Pangea cominciò a perdere la propria unità: le terre emerse si spezzarono in tre grandi blocchi, Eurasia-America del Nord, Africa-America del Sud e Antartide-Australia-India. Verso la fine del Terziario, si chiuse la comunicazione tra quello che sarebbe divenuto il Mediterraneo e l'Atlantico, mentre a est si interrompeva il nesso con l'Oceano Indiano. Infine, circa tre milioni e mezzo di anni fa, la Terra assunse un aspetto molto simile all'attuale, con tre grandi oceani – Atlantico, Pacifico, Indiano – comunicanti nell'emisfero australe attraverso le acque intorno all'Antartide e ricoprenti i tre quarti della superficie terrestre.

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Ma da chi deriva il mito fondativo del messaggio nella bottiglia? Se lo chiedeva anche il Commissario Montalbano, senza riuscire a ricordare, finché «corse allo scaffale, sperando che il libro che cercava fosse al suo posto. Il libro c'era: Edgar Allan Poe, Racconti. [...] Il primo racconto del libro s'intitolava "Manoscritto trovato in una bottiglia" e al commissario bastò».

Non giurerei sia stato lo scrittore americano il primo, ma quel che è certo è che è suo uno dei più noti messaggi nella bottiglia della storia della letteratura. Poe compose tre racconti che trattano di meravigliose e sorprendenti avventure per mare, a bordo di navi che subiscono naufragi e tragiche vicende: il primo, appunto, è Manoscritto trovato nella bottiglia, poi Una discesa nel Maelstrom e il suo unico romanzo, Le avventure di Gordon Pym.

Il racconto venne pubblicato nel 1833 sul Baltimore Saturday Visitor ed è considerato il primo racconto di fantascienza di Poe. La storia narra un avventuroso viaggio per mare di un vascello fantasma nel quale l'equipaggio è formato da uomini spettrali, in apparenza di straordinaria vecchiaia. Le correnti oceaniche spingono la nave verso sud fino a giungere in prossimità del polo australe dove il viaggio si conclude tragicamente, perché la nave viene sospinta verso un immenso vortice che si apre nell'Oceano Antartico e che sembra sprofondare nelle viscere della terra. Anche in questo racconto torna quindi il tema del viaggio per mare verso destinazioni ignote e terrificanti, a cui si aggiunge lo sprofondamento della nave nel gorgo circolare che si apre sull'abisso, gorgo che inghiotte e stritola e sul quale successivamente Poe tornerà con Una discesa nel Maelstrom. Un gorgo che ricorda da vicino l'inabissarsi della nave di Ulisse, nella Commedia dantesca.


Funziona ancora. Nel giugno 2005, ottantotto emigranti clandestini provenienti dall'Ecuador e dal Perù sono stati salvati in mare grazie a un messaggio nella bottiglia. Il gruppo, per la maggior parte formato da giovani, sperava di raggiungere il Guatemala, passare i confini con il Messico e raggiungere gli Stati Uniti. Nonostante il viaggio della speranza dal porto di Montanina in Ecuador agli Stati Uniti fosse costato ben diecimila dollari a testa, i contrabbandieri hanno abbandonato il gruppo, probabilmente dopo essersi accorti che la nave imbarcava acqua, e hanno staccato i collegamenti radio.

Rimasti in mare per tre giorni, senza cibo né acqua, i naufraghi hanno scorto in lontananza delle reti da pesca e così su un pezzo di carta hanno scritto «Please, help us», lasciandolo in una bottiglia che hanno fissato alle reti. Nel ritirare le reti, l'equipaggio di un peschereccio ha trovato il messaggio e avvisato le autorità del Costa Rica, e i naufraghi sono stati infine salvati. Per il naufrago riporre un messaggio in un contenitore e affidarlo alle onde significa comunque conservare la speranza, decidersi ancora a un'azione, strapparsi alla disperazione che, da sempre, coglie chi finisce in acqua in mare aperto. Nel canale di Sicilia, ormai da anni, è accaduto più volte che migranti disperati si siano aggrappati alle grandi gabbie per tonni, sperando che il profitto generato dalla pesca agli animali li salvasse.


Il Mare della Tranquillità

«Houston, qui è il Mare della Tranquillità. The Eagle has landed». Era il 19 luglio 1969. Neil Armstrong aveva pilotato il LEM sulla Luna. Si è saputo dopo che fino a trenta secondi prima Houston e l'equipaggio erano pressoché certi che la navetta si sarebbe schiantata a causa di un danno al computer di bordo che l'aveva portata fuori rotta e che aveva obbligato Armstrong a pilotare a vista, sfiorando la superficie lunare: un viaggio nell'ignoto, per approdare infine a un altro mare, il polveroso e solitario Mare della Tranquillità.

Anche il tragitto dell'Apollo 11, e poi quello ancor più travagliato dell'Apollo 13, permangono nell'orizzonte, scandito dal ritmo triadico, del viaggio di formazione "classico": andata, incidente/naufragio, ritorno con accrescimento. Andamento canonico dall'età classica fino in età romantica, potenziato dalla retorica della Wanderung, del viaggio che tesaurizza il passaggio tempestoso, il collasso delle certezze, lo smarrimento, incorporandolo appieno nei motivi dell'andare ai fini di un ritorno conciliante e conciliato. Non è un caso che i versi arcinoti (116-20) del canto XXVI dell'Inferno [«Considerate la vostra semenza: \ fatti non foste a viver come bruti, \ ma per seguir virtute e canoscenza»] sono incisi sulle rampe di lancio dei missili spaziali di Cape Kennedy.

Tuttavia, lo spirito che anima chi parte può variare anche molto. La motivazione più diffusa resta il guadagno e il desiderio di potenza. Hegel, Ricardo e Marx avevano colto il punto: ricchezze e colonie sono il fine principale del viaggiare nella modernità.

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Sì, viaggiare

Non tutti si ripropongono mète così ambiziose. Non tutti, viaggiando, spalancano la mente alla novità. C'è chi però, nel viaggiare, ha come obiettivo il viaggio in quanto tale, e costui non ha evidentemente lo stesso animo di chi parte per ritornare. Come c'è anche chi viaggia di continuo, pur non partendo mai; chi va lontano senza bisogno di viaggiare, come Kant o Leopardi. Chi compra un biglietto di sola andata per il desiderio del nuovo, come Ismaele che s'imbarca sul Pequod, condivide l'animo del viaggiatore baudeleriano:

    Mais les vrais voyageurs sont ceux-là seuls qui partent
    pour partir; coeurs légers, semblables aux ballons,
    de leur fatalité jamais ils ne s'écartent,
    et, sans savoir pourquoi, disent toujours: Allons!

Si danno le motivazioni alla Phileas Fogg di Verne e quelle ancora del turista moderno. Diverse certamente da quelle del viaggiatore di Pavese, per il quale il viaggiare era in fondo una brutalità, o ancor più da quelle di Camus, al quale era evidente che in viaggio ci si espone all'azzardo dell'incontrarsi, del conoscersi, beninteso, in termini riflessivi. Non c'è piacere nel viaggio, solo l'occasione per una difficile prova spirituale: le voyage pour connaξtre ma géographie.

Θ vero, scrivono prima Leed e Magris con Weininger, la visione del viaggiatore è necessariamente superficiale, esteriore e povera, ma è proprio la sua ambiguità, il suo essere senza luogo, la sua assenza di rapporti profondi con un contesto sempre mutevole, a farne una figura dotata di una diversa capacità percettiva e conoscitiva.

Accennando al terzo movimento del viaggio, al ritorno con accrescimento, s'impongono distinzioni: c'è chi rientra ricco di esperienze, come Goethe dal viaggio in Italia, nonostante e anzi grazie alle insidie e alle difficoltà, e chi torna – come i galeoni spagnoli dalle Americhe – ricchi dentro, ma in senso meno figurato. Con un aforisma, lo ha detto bene Sloterdijk: «Il dato principale dell'età moderna non è quello che la terra gira intorno al sole, ma che il denaro gira intorno alla terra». A compendio, in epoca di globalizzazione, delle tesi di Marx ed Engels nell' Ideologia tedesca e nel Manifesto del partito comunista.

Ma prima dei Bildungsreisen e dei transiti sulle acque striate delle portacontainer, un viaggio marino permane al cuore dell'identità dell'Occidente. Non si può non nominare Omero e il suo eroe antieroe.


Ulysses, the seeker

    Narrami o Diva, dell'eroe versatile, che così tanto
    vagò [...], dopo che ebbe distrutto la sacra rocca di Troia:
    di molti popoli vide le città [...] e conobbe le menti [...],
    molte angustie soffrì nel suo cuore sul mare,
    per guadagnare la vita a se stesso e il ritorno ai compagni.

Nei primi versi dell'Odissea si annuncia che il racconto narra un viaggio. Un viaggio particolare; anzi, il terzo movimento del viaggio, quello di ritorno. Odisseo, eroe in un certo senso minore della guerra di Troia, giunto sulle rive dell'antica ex colonia con sole «dodici navi dalle fiancate dipinte di rosso», ma che molto sopporta, al termine del conflitto ha una mèta coincidente col punto di partenza, la Itaca dalla quale è lontano ormai da molti anni. Fatto più esperto di luoghi e valori (di città e spirito) attraverso un viaggio eccentrico e avventuroso nell'ignoto, tornerà a casa.

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A fondo

Il mare non è solo vasto, è anche profondo. Gli antichi erano spaventati dalla sua smisuratezza, e in particolare dall'incapacità di misurarne appunto l'altezza. Occorrerà attendere la metà del Novecento, per conoscere davvero tutti gli abissi degli oceani del globo.

Così, Platone immagina il fondo del mare in comunicazione permanente con le profondità della terra, dove buchi di diametro diverso avrebbero consentito la circolazione delle acque (calde e fredde), del fuoco, della stessa lava vulcanica. Proprio grazie a queste vie di comunicazione, all'origine del mondo, si sarebbe potuto costituire il mare, a partire dall'acqua che occupa il centro della Terra. Ma è impossibile conoscere l'altezza – dice Platone – di questo oceano apparentemente senza fondo. Anche quando, con Aristotele e poi con Strabone, ci si azzarderà a stimare la profondità di mari come quelli di Creta o di Sicilia, lo si farà solo perché si tratta pur sempre di quel Mediterraneo di cui si conoscevano ben o male estensione e superficie. Restava incognita, invece, la terza dimensione di mari più vasti, dei quali ancora non si conoscevano neppure le altre dimensioni e la natura.

L'ansia non riusciva però a spegnere la curiosità ed è così che fin dall'antichità omerica l'uomo si sporge sull'abisso, lasciandosi trascinare verso il fondale. Agli inizi, per capire quanto fondo c'era sotto la barca, per evitare quindi l'incagliamento; poi, per raccogliere le perle, le spugne, per procurarsi i murici dai quali trarre la porpora. Diviene possibile così delineare una storia della vocazione abissale, nonostante le tecniche ancora approssimative ed il limite costituito comunque dalla pressione dell'acqua.

Solo nelle carte catalane di Soleri (1385) iniziano a esser segnate le profondità, almeno sottocosta, grazie all'uso della sonda. Bisogna arrivare all' Histoire physique de la mer di Marsigli (1725) per trovare una prima anatomia dei mari, le prime rappresentazioni delle curve di profondità, anche se limitate a pochi golfi noti, come quello di Lione e fino a un'altezza di quaranta braccia. Poi, era pressoché impossibile misurare la profondità. La prima vera carta batimetrica degli oceani viene edita a Parigi solo nel 1905.

L'esigenza però di conoscere de visu le profondità marine è viva da tempo. I primi reperti archeologici in cui sono raffigurati uomini che nuotano sott'acqua risalgono agli Assiri (885 a.C.). In un bassorilievo sono chiaramente visibili dei soldati subacquei che eludono i nemici attraversando un fiume, respirando grazie a un otre appeso al petto e attraverso un tubo tenuto fra le labbra.

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Dobbiamo però a Newton l'aver stabilito con certezza ultima che le maree sono provocate dall'attrazione di luna e sole sulla terra (1683), anche se l'influenza del satellite era stata accertata già da Pitea di Massalia intorno al 325 a.C. Com'è noto, le maree indotte dalla luna provocano una leggera, ma significativa deformazione della superficie del nostro pianeta. Queste forze, applicate costantemente e regolarmente alla terra, sono una forma di energia meccanica che causa attrito e di conseguenza calore, destinato a disperdersi nello spazio. Se sono note le osservazioni al riguardo di Cartesio, a dimostrazione dell'interesse che questi fenomeni hanno rivestito anche per i filosofi, il legame possibile tra luna, maree e attrito si deve a Kant (1754). Di recente la sua intuizione è stata confermata e si sta cercando di sfruttarla a fini energetici.

Il vento alza le onde. La più alta mai misurata fu di 34 metri, registrata negli anni Trenta al centro del Pacifico. Il primo a valutare con esattezza la forza delle onde marine è stato Thomas Stevenson, padre dello scrittore Robert Louis. Stevenson padre sviluppò infatti un dinamometro per misurare l'energia cinetica delle onde: sulle coste battute dalle ondate invernali della sua Scozia, Stevenson misurò che la forza di un'onda poteva arrivare a nove tonnellate per metro quadrato. Aveva tempo e agio per dedicare cuore e attenzione alle onde, Thomas, e come lui suo padre Robert e i suoi fratelli: tutti costruttori di fari, di cui hanno disseminato nell'Ottocento le coste battute dai venti di Scozia e Inghilterra. Dal 1808 al 1929 cinque generazioni di Stevenson hanno costruito non meno di 81 fari, moltissimi dei quali ancora attivi.


Italo Calvino racconta della vacanza marina del signor Palomar. E della sua determinazione nel voler cogliere, dalla spiaggia, un'onda singola. Aborrendo le sensazioni vaghe, Palomar si prefigge di osservare il nascere, lo svolgersi e il frangersi di una sola onda. La vede spuntare in lontananza, crescere, avvicinarsi, cambiare di forma e di colore, avvolgersi su se stessa, rompersi, svanire, rifluire. Potrebbe ritenere di aver portato a termine il proprio compito. Ma Palomar riesce con enorme fatica a isolare un'onda dalle altre che immediatamente la seguono o che a volte sembra la sospingano, raggiungendola e travolgendola. Così come riesce a stento a separarla dall'onda che la precede e che sembra trascinarsela dietro verso la riva, salvo poi magari rivoltarlesi contro come per arrestarla. Se poi Palomar considera ogni ondata nel senso dell'ampiezza, parallelamente alla costa, sente crescere la difficoltà a stabilire fin dove il fronte che avanza si estende continuo e dove invece si separa e segmenta in onde a sé stanti, distinte per velocità, forma, forza, direzione. In definitiva, il tentativo di Palomar di ridurre le proprie relazioni con il mondo esterno per difendersi dalla nevrastenia generale, tenendo quanto più possibile le sue sensazioni sotto controllo, è messo in scacco dal mare.

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Capitolo 10
Mediterranei



Bordi

Θ il mare di casa, già degli Argonauti, dei grandi viaggiatori dell'antichità mitica e poi classica, come Ulisse ed Enea. Thálassa, il tramite nell'arcipelago, ciò che divide/unisce, il Mare Nostrum: «Non è nome generico del mare; è nome di persona» [Cacciari 1996]. Un nome sulla bocca e sulla pelle di Valéry e di Saba, di Matisse, Van Gogh e Picasso, di Camus e di Derrida.

[...]


Quello che con la Pax Augustea divenne il Mare Nostrum, è vasto attualmente circa 2 milioni e mezzo di km2, si estende da ovest a est per circa 4.000 km, con una larghezza media di 600 ed un perimetro costiero di 22mila km. La profondità massima è di cinquemila metri circa. A Oriente, il Mediterraneo è più basso di 30 cm rispetto a Gibilterra: un enorme piano appena inclinato, su cui le acque scivolano da ovest ad est. In ogni caso, un mare di dimensioni davvero contenute, ma ovviamente fecondissimo di traffici e di scambi. Il mare interno per eccellenza, secondo Herder, «divenuto ciò che contraddistingue l'intera Europa! Per cui si può ben dire che questo mare da solo abbia fatto il superamento ed il progresso tra tutte le culture antiche e di mezzo».

Questo nostro mare non è stato sempre così navigato e familiare. Il Mediterraneo è stato poco utilizzato dai marinai musulmani e bizantini e abbandonato dai Franchi fin quasi all'anno Mille. Viene riscoperto dalle repubbliche marinare italiane, e poi provenzali e catalane e dagli stati musulmani occidentali nati dalla dissoluzione del Califfato di Cordova. Fin dall'antichità si era manifestato intanto l'handicap geofisico di cui soffrono le coste sud del bacino: il regime dei venti dominanti (da nord-est) e il profilo dei litorali hanno favorito i porti italiani e il Maghreb ha generato, dall'XI secolo, soprattutto una marineria da corsa.

Probabilmente ciò si deve anche a una scelta dei principi musulmani, che non si fidavano di quella che chiameremmo società civile e che non lasciarono crescere un ambiente imprenditoriale autonomo, scegliendo invece di favorire i mercanti di palazzo. Dall'XI secolo, sono dunque gli italiani i navigatori principali dello spazio mediterraneo, e i loro servizi divengono indispensabili anche al nord Africa. Non che con questo si siano gettate le basi di un predominio sulle rotte e a una egemonia economica: gli italiani venivano ingaggiati, controllati strettamente e non erano loro a fissare le regole del gioco. Forse è possibile un paragone con quei mercenari cristiani che costituivano la guardia scelta e il nucleo delle armate del Sultano. In ogni caso, il mare non sembrava costituire né un limite né una frontiera e i navigli italiani, catalani e poi baschi frequentavano normalmente e pacificamente i porti del nord Africa. Solo con il XV secolo e la nascita dell'Impero Ottomano viene a disegnarsi una frontiera di mare, scandita da fortezze e torri di sorveglianza: è da allora che il mare viene nuovamente, per così dire, diviso.

Il nostro mare ha conosciuto quindi lunghi periodi di relativa pace e secoli invece di lotte e dissidi.

Anche per questo motivo Edgard Morin sostiene che la storia del Mediterraneo è caratterizzata dalla consistenza e dal conflitto di dati e fatti incompatibili. Questo mare è stato una delle culle della ragione, ma vi si è anche scatenata la follia umana. Si sono incontrati, mescolati e combattuti razze, religioni, costumi. Se crisi, diversità, conflitti sono stati però altrettante occasioni di rigenerazione, proprio il Mediterraneo può essere assunto anche a metafora della maternità, per ricordare la rinascita potenziale, la possibilità di sempre nuovi inizi. La ricchezza e la diversità delle culture che si affacciano sulle sue rive renderebbe possibile selezionare le migliori risorse per metterle al servizio del mondo. Per Morin, questo meglio è nel concetto di universalità che esso evoca: «La cosa principale è il mare che unisce e non quello che separa». L'idea del mare come tramite sarebbe dunque proprio il frutto più sapido del Mediterraneo.

Senza dimenticare però che, altrettanto potentemente, il Mare Nostrum evoca anche la conflittualità, intanto quella evocata da Camus , tra ragione e bellezza: «I Greci non hanno mai detto che il limite non poteva essere varcato. Hanno detto che esisteva e che veniva colpito senza pietà chi osava oltrepassarlo». Per il giovane Camus, si dava ancora una carta da giocare, un ultimo tentativo di sanare il dissidio: «Ammettere l'ignoranza, rifiutare il fanatismo, porre limiti al mondo e all'uomo, il viso amato, la bellezza insomma, è questo il terreno su cui ci ricongiungeremo ai Greci».

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