Copertina
Autore Felipe Fernández-Armesto
Titolo Storia del cibo
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2010, La storia narrata , pag. 310, ill., cop.ril.sov., dim. 16x23,7x2,5 cm , Isbn 978-88-6159-395-4
OriginaleFood: A History [2001]
TraduttoreIrene Annoni
LettoreGiovanna Bacci, 2011
Classe alimentazione , storia sociale
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Indice


  1 Prefazione

  5  1. L'invenzione della cucina
        La prima rivoluzione

 31  2. Il significato del mangiare
        Il cibo come rito e magia

 73  3. Allevare per mangiare
        La rivoluzione della pastorizia:
        dalla "raccolta" del cibo alla sua "produzione"

 99  4. La terra commestibile
        Il dominio del mondo vegetale

131  5. Cibo e condizione sociale
        Diseguaglianza e avvento della haute cuisine

165  6. Gli orizzonti del commestibile
        Cibo e scambio di cultura a lungo raggio

205  7. Sfida all'evoluzione
        Cibo e scambio ecologico

235  8. Nutrire i giganti
        Cibo e industrializzazione nel XIX e nel XX secolo

279  Note

301  Indice dei nomi


 

 

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Prefazione


Lord Northcliffe, il magnate della stampa britannica, diceva ai suoi giornalisti che, per mantenere vivo l'interesse dei lettori, potevano contare su quattro temi infallibili: crimine, amore, denaro e cibo. Solo quest'ultimo, però, è un aspetto universale e imprescindibile dell'esistenza umana: il crimine, persino nelle società più degenerate, coinvolge pur sempre una minoranza, ed è possibile immaginare un'economia che non si regga sul denaro o la riproduzione della specie in assenza d'amore, mentre non si può concepire la vita senza nutrimento. Esso dovrebbe essere considerato a buon diritto l'argomento più importante per la razza umana. Θ il fattore di massimo rilievo per il più alto numero di persone nella quasi totalità del tempo.

Eppure la storia del cibo resta relativamente sottovalutata. La maggior parte degli istituti accademici continua a trascurarla. Molti dei migliori contributi al suo studio sono stati prodotti a livello dilettantistico e non c'è accordo su come tale studio vada affrontato. Per alcuni, il tema si riduce esclusivamente a questioni di nutrizione e malnutrizione, sostentamento e malattia, per altri, meno preoccupati di evitare l'accusa di futilità, riguarda essenzialmente la cucina. Gli storici dell'economia considerano il cibo come un bene da produrre e scambiare: quando giunge a essere mangiato, ai loro occhi perde ogni interesse. Per gli storici sociali, l'alimentazione è un indice di differenziazione, del mutare delle relazioni tra le classi. Gli storici della cultura dimostrano un crescente interesse per il modo in cui il cibo alimenta le società e i singoli individui: per come crea le identità, definisce i gruppi. In storia politica, esso rientra nel campo dei rapporti di forza, di come la sua distribuzione e gestione sia alla base del potere. Gli storici ambientali — una cerchia vitale e non più così ristretta — considerano il cibo un anello della catena dell'esistenza: la sostanza degli ecosistemi che gli esseri umani cercano di dominare. Il nostro contatto più intimo con l'ambiente naturale avviene quando mangiamo. Il cibo è fonte di rischi quanto di piacere.

Sempre più, in anni recenti – di fatto, in un certo senso da prima della Seconda guerra mondiale, quando la scuola francese degli "Annales" cominciò a insegnare agli storici a prendere sul serio l'argomento cibo – la varietà di approcci ha moltiplicato la produzione intellettuale e reso più difficile formulare una sintesi. Oggi, i materiali a disposizione dell'autore che tenti una panoramica generale sono eccellenti, ma quasi impossibili da rielaborare. Seguendo l'esempio degli "Annales", molti periodici storici riportano spesso articoli sul tema e dal 1979 viene pubblicata una rivista specializzata, "Petits propos culinaires". L' Oxford Symposium on Food History, creato da Alan Davidson e Theodore Zeldin, ha offerto un punto di riferimento e una produzione regolare di atti pubblicati ad appassionati e studiosi dell'argomento. Ottime panoramiche storiche sono Storia del cibo di Reay Tannahill, la cui prima edizione inglese risale al 1973 ed è a ragione ancora considerato eccellente, Storia naturale e morale dell'alimentazione di Maguelonne Toussaint-Samat – prima edizione 1987 – e la raccolta curata da Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Storia dell'alimentazione, uscito in Francia nel 1996.

Tuttavia, la rapidità con cui appaiono nuovi materiali rende sempre più difficile che anche i lavori migliori dei decenni precedenti vengano aggiornati in modo soddisfacente attraverso periodiche revisioni. Il libro di Tannahill, malgrado il titolo, appartiene decisamente al filone "come siamo giunti al punto in cui siamo" e quasi non tocca un aspetto di particolare interesse per i lettori: i rapporti tra storia del cibo e storia in generale. L'opera di Toussaint-Samat è una fonte meravigliosa, ma poco sistematica e indisciplinata, costituita prevalentemente da una serie di saggi sulla storia di vari alimenti. Flandrin e Montanari, artefici del tentativo più colto e professionalmente ambizioso mai compiuto, si sono prefissi di trattare unicamente il cibo nella civiltà occidentale moderna e in quelle antiche da cui quest'ultima deriva. Come la maggior parte dei volumi di autori vari, benché estremamente interessante, manca della coerenza di altre pubblicazioni affini. La Cambridge World History of Food è apparsa sul finire del 2000, quando il presente libro era quasi terminato. Insieme all' Oxford Companion to Food di Alan Davidson, che l'ha preceduta di circa un anno, è un'inestimabile opera di consultazione, ricchissima di riferimenti, ma le sue ingenti dimensioni la rendono un lavoro sui generis, e raggiunge i massimi livelli nello studio del cibo come fonte di nutrimento, più che di cultura.

Con questo libro non mi propongo di sostituire i testi storici esistenti, bensì di offrire ai lettori un'utile alternativa; di adottare una prospettiva autenticamente globale e considerare la storia del cibo come una tematica della storia universale, inseparabile dalle altre interazioni degli esseri umani tra loro e con il resto della natura; di trattare con occhio imparziale gli aspetti ecologici, culturali e culinari dell'argomento, combinando un'ampia panoramica con alcuni excursus dettagliati su casi particolari; di individuare nessi a ogni livello tra il cibo del passato e il modo in cui si mangia oggi, e di fare tutto ciò molto sinteticamente.

Il metodo applicato consiste nel classificare il materiale riconducendolo a otto grandi "rivoluzioni" – così le ho chiamate – che insieme mi sembrano rendere ragione dell'intera storia del cibo. Tale metodo mi ha consentito, tra l'altro, una maggiore concisione rispetto agli approcci tradizionali, che affrontano il tema per singoli prodotti, luoghi o periodi. Parlando di "rivoluzioni" non intendo suggerire che si sia trattato di episodi rapidi, confinati entro un breve lasso di tempo. Al contrario, benché presumibilmente abbiano avuto origine in un momento particolare, si caratterizzano tutte per un inizio discontinuo, un corso prolungato e conseguenze durature. Alcune si perdono nelle lunghissime ere della preistoria, altre hanno preso avvio in tempi diversi, a diverse latitudini, altre sono cominciate molto tempo fa e continuano ancora oggi. Anche se ho cercato di dare alla trattazione di ciascuna una struttura cronologica molto ampia, deve essere chiaro al lettore che le varie rivoluzioni non sono avvenute in sequenza, ma sovrapposte una all'altra con una complessità del tutto asistematica. Tutte partecipano in modo significativo alla storia del cibo, ma hanno evidenti ripercussioni al di là di essa, su altri aspetti della storia del mondo. Per sottolineare questa continuità, ho cercato di operare continui passaggi tra passato e presente, tra luogo e luogo.

La prima rivoluzione è l'invenzione della cucina, che considero un episodio di autodifferenziazione dell'uomo dal resto della natura e l'evento inaugurale della storia della trasformazione sociale. Passo in seguito a considerare la scoperta di una valenza del cibo che va oltre il mero sostentamento: la sua produzione, distribuzione, preparazione e consumo generano riti e magia, mentre l'atto di mangiare diviene ritualizzato e irrazionale o soprarazionale. La terza rivoluzione consiste in pastorizia e allevamento: addomesticazione e riproduzione selettiva di specie animali commestibili. Ho deciso di trattare l'argomento prima dell'agricoltura, che è il tema della quarta rivoluzione, in parte per comodità e in parte per rafforzare la mia tesi secondo cui almeno una forma di zootecnia – l'allevamento delle chiocciole – è un'innovazione più antica di quanto in genere si riconosca. La quinta rivoluzione riguarda il cibo come mezzo e indice di differenziazione sociale: sotto questa definizione cerco di tracciare una linea di continuità dalle origini probabilmente paleolitiche del diritto privilegiato nella competizione per l'accesso agli alimenti, fino alla cucina di corte e a quella borghese dei tempi moderni. La sesta rivoluzione è quella del commercio a lungo raggio, e vi considero il ruolo del cibo negli scambi culturali che hanno trasformato la società. La settima è la rivoluzione ecologica degli ultimi cinquecento anni, che oggi viene generalmente chiamata "scambio colombiano", descritta in riferimento al ruolo che in essa hanno avuto i generi alimentari. Infine, passo ad affrontare l'industrializzazione, nel mondo "in via di sviluppo" dei secoli XIX e XX: qual è stato il contributo del cibo e quali gli effetti su di esso.

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1. L'invenzione della cucina

La prima rivoluzione


                                            «Ciò che occorre soprattutto»
                                      fe' il Tricheco, «è un po' di pane,
                                              pepe, aceto, burro e tutto,
                                                 per il pasto di stamane.
                                                Siete già, Ostriche care,
                                                 pronte per il desinare?»
                                  Lewis Carroll, Nel Paese dello Specchio

                Così si vede tutto, il cibo crudo e la chimica del fuoco,
              il che non solo placa la furia degli igienisti, ma aggiunge
                                       un tocco di vivacità all'ambiente.
                                William Sansom, Blue Skies, Brown Studies



Il fuoco trasformatore

Mangiare le ostriche non è cosa semplice. Vediamo spesso i frequentatori di ristoranti inondarle di succo di limone, spremuto attraverso tovaglioli di mussola, annaffiarle con gli aceti aromatici più impensati, aspergerle di lucenti gocce di tabasco o di qualche altro soffocante, accecante liquido infuocato. Una deliberata provocazione, che mira a rianimare i bivalvi prima della morte, una lieve tortura, durante la quale si ha quasi l'impressione di veder sussultare o contorcersi la vittima. Poi il commensale maneggia l'apposito cucchiaio, forzando l'ostrica e facendola scivolare fuori dal suo letto naturale per finire sul gelido argento. Mentre porta alle labbra il viscido mollusco, la lucentezza della creatura contrasta con il luccichio delle posate.

Ciò significa perdere il vero, pieno gusto dell'ostrica. Se non si lascia da parte ogni utensile, non si accosta alle labbra la conchiglia, rovesciando indietro la testa, e non si raschia via il mollusco dal suo guscio con i denti, gustandone il succo salmastro e schiacciandolo leggermente contro il palato prima di ingoiarlo vivo, ci si priva di un'esperienza antica ed estrememente intensa. Per secoli, i mangiatori di ostriche hanno apprezzato l'odore lievemente fetido, penetrante, all'interno della conchiglia, non alterato dal mistificante condimento di acidi aromatici. Così piacevano ad Ausonio, poeta latino del IV secolo: nel «loro dolce succo, misto a un alito di mare». Per dirla con un esperto d'epoca moderna, lo scopo è ricevere «un'acuta intuizione del mare, con le sue alghe e le sue brezze. [...] Stai mangiando mare, ecco tutto: come per effetto di un incantesimo, da esse emana la sensazione pura e semplice di una boccata d'acqua marina».

Caso pressoché unico nel repertorio della moderna cucina occidentale, l'ostrica viene consumata senza essere cotta né uccisa. Θ quanto esiste di più vicino al cibo "naturale", il solo alimento che merita di essere definito au naturel senza ironia. Ovviamente, quando la mangiamo al ristorante, la sua conchiglia è stata forzata e aperta con tutto l'armamentario messo a disposizione dalla civiltà, da un professionista specializzato munito di apposita tecnologia: un rituale inviolabile e ammantato di eleganza. Prima ancora, è stata allevata sott'acqua su un supporto di pietra o un traliccio di legno, in banchi, cresciuta per anni sotto occhi esperti e raccolta da mani sapienti: non staccata da uno scoglio come un bottino sottratto alla natura. E tuttavia è il cibo che ci lega a tutti i nostri antenati, il piatto che consumiamo nel modo in cui l'uomo si è accostato al nutrimento fin dagli albori della specie.

Persino se siete tra quanti credono di sentire il grido di dolore della pera quando la colgono e l'addentano, non troverete praticamente altro alimento nella moderna cucina occidentale altrettanto incontestabilmente "naturale", perché, con pochissime eccezioni (alcuni funghi e alghe), i frutti e le verdure che mangiamo — anche le bacche "selvatiche" raccolte dal rovo — sono il risultato di generazioni o millenni di selezione da parte dell'uomo; l'ostrica, invece, rimane il prodotto di una selezione naturale scarsamente modificata e varia considerevolmente da mare a mare. Altre culture hanno un maggior numero di cibi di questo tipo. Gli aborigeni australiani inghiottono larve di witjuti, che staccano dall'albero della gomma rimpinzate di cellulosa semidigerita. I nomadi siberiani nenet masticano, «come caramelle», i pidocchi che si levano dal corpo. Nelle tribù africane dei nuer, gli innamorati danno prova di reciproco affetto nutrendosi a vicenda con i pidocchi che si tolgono dal capo. I masai bevono il sangue da ferite inferte al bestiame vivo, gli etiopi amano i favi con le giovani larve ancora nelle celle. E noi abbiamo le ostriche. «C'è una terribile solennità» nel mangiarle, scrisse Somerset Maugham: una solennità che «un'immaginazione pigra non può cogliere», e in grado di indurre il Tricheco di Lewis Carroll a lacrime sincere. In realtà, anch'esse sono piuttosto rare tra i cibi crudi, perché di solito vengono rovinate cucinandole. Metterle nel pasticcio di manzo e rognone o infilarle in un involtino con il bacon, come fanno gli inglesi, ammorbidirle con varie creme di formaggio, in piatti quali le ostriche alla Rockefeller e le ostriche alla Musgrave, usarle per farcire un'omelette, come nel piatto tipico della cucina regionale della provincia cinese di Xiamen, o ancora tagliarle a tocchetti per il ripieno d'una pietanza di carne o pesce, significa coprirne irrimediabilmente il sapore. Occasionalmente, qualche ricetta creativa può giungere a risultati apprezzabili: una volta, all'Athenaeum, a Londra, mi è capitato un piatto davvero notevole a base di ostriche appena sbollentate in aceto di vino e spalmate di besciamella al profumo di spinaci. Esperimenti del genere sono ammissibili per divertimento, ma raramente dischiudono nuovi orizzonti in campo gastronomico.

L'ostrica è un caso estremo, ma tutti i cibi crudi sono affascinanti, perché anomali: un apparente regresso a un mondo precivilizzato e persino a una fase preumana dell'evoluzione. Cucinare è una delle attività originali, relativamente rare, che possono dirsi peculiarmente umane: originali rispetto alla generale tendenza riscontrata in natura, ai comuni approcci al nutrimento manifestati dalla maggior parte delle specie. Una delle ricerche più lunghe e meno fruttuose della storia è quella dell'essenza dell'umanità, la caratteristica distintiva che ci rende esseri umani differenziandoci collettivamente dagli altri animali. Il tentativo non ha condotto ad alcun risultato e il solo dato obiettivamente verificabile che distingue la nostra specie dalle altre è il fatto che non possiamo accoppiarci con esse a fini riproduttivi. Per il resto, gran parte delle prerogative in genere additate è inammissibile o poco convincente. Alcune sono plausibili, ma parziali. Rivendichiamo la "consapevolezza" senza sapere esattamente che cosa sia o se altri esseri la possiedano. Ci attribuiamo in esclusiva la capacità del linguaggio, ma altri animali, se fossimo in grado di comunicare con loro, potrebbero forse smentirci. Siamo relativamente creativi nella soluzione dei problemi, relativamente adattabili nella nostra capacità di abitare ambienti diversi, relativamente abili nell'uso di utensili (specialmente dei missili). Siamo relativamente ambiziosi nelle nostre opere d'arte e nella tendenza a dare un volto ai frutti della nostra immaginazione. Da un certo punto di vista, in tutte queste relazioni, il divario tra il comportamento umano e quello di altre specie è così enorme da qualificarle, forse, come differenze qualitative, ma è solo nello sfruttamento del fuoco che siamo autenticamente unici: benché ad alcune scimmie si possa insegnare a usarlo per applicazioni limitate, come accendere una sigaretta o un bastoncino d'incenso, o persino alimentare un falò, ciò avviene esclusivamente dietro istruzioni impartite dall'uomo; soltanto gli esseri umani hanno preso l'iniziativa di domare una fiamma. La pratica di ricorrervi per cuocere i cibi è un criterio non meno valido di altri quale indice di umanità, sia pure con un'importante riserva: nella vasta estensione della storia umana, rappresenta un'innovazione tarda. Non vi è dimostrazione possibile della sua esistenza antecedente al milione e mezzo di anni, e non sussiste una testimonianza convincente in assoluto che sia anteriore a circa 150 000 anni fa.

Naturalmente, cuocere sul fuoco non è il solo modo di cucinare, ovvero di elaborare gli alimenti. Secondo alcuni, la coltivazione è una forma di cottura — terram excoquere, come diceva Virgilio — in quanto espone le zolle al sole cocente, trasformando la terra in un forno per i semi. Gli animali con stomaci adeguatamente robusti preparano il cibo ruminando il bolo: perché tale processo non dovrebbe essere classificato come cucina? Nelle culture dedite alla caccia, gli uomini che colpiscono la preda, spesso, si premiano mangiando il contenuto semidigerito del suo stomaco, reintegrazione istantanea delle energie investite nell'attività venatoria. Questa è una sorta di protocucina naturale: il più antico esempio conosciuto del consumo di cibo elaborato. Molte specie, compresa la nostra, rendono il nutrimento commestibile per i piccoli masticandolo e rigurgitandolo: scaldato in bocca, scisso dagli acidi presenti nella saliva, tritato dalla masticazione, acquista alcune delle proprietà normalmente conferite dalla cottura con l'applicazione del calore. Anche già solo sciacquando un alimento sotto l'acqua — come fanno certe scimmie con le noci — iniziamo a elaborarlo: non per niente, esistono fanatici del cibo naturale che preferiscono consumarlo non lavato. Come il fattore Oak in Via dalla pazza folla, la sporcizia "naturale" non li sconvolge.

Nel momento in cui spremiamo del succo di limone su un'ostrica, cominciamo ad alterarla, a provocare un cambiamento che ne condiziona la consistenza e il gusto: una definizione un po' generosa arriverebbe a chiamare cucina anche questa. Una marinatura di durata abbastanza prolungata può produrre trasformazioni non meno consistenti dell'applicazione del calore o dell'affumicatura. Appendere la carne per frollarla o semplicemente lasciarla all'aria perché marcisca leggermente è una lavorazione che coinvolge consistenza e digeribilità: evidentemente una tecnica più antica della cottura. L'essiccamento all'aria opera un cambiamento biochimico profondo su taluni alimenti, e così il sotterramento, tecnica un tempo comune per indurre la fermentazione, rara nella moderna cucina occidentale, ma immortalata nel nome di un tipico piatto svedese, il gravlax (letteralmente "salmone sotterrato"). Tale pratica è anche ricordata dalla colorazione scura oggi applicata chimicamente ad alcuni formaggi che, nella tradizione, erano conservati sotto terra. Alcune popolazioni nomadi che si spostano a cavallo rendono commestibile la carne scaldandone e pressandone i tagli sotto la sella, a contatto con il sudore dell'animale, durante i lunghi spostamenti ( vedi pp. 100-101). Agitare il latte nella zangola è un processo che ha addirittura qualcosa di alchemico: un liquido diventa solido, il bianco diventa oro. La fermentazione, poi, è pura magia, perché sa trasformare un semplice grappolo d'uva in una pozione in grado di mutare il comportamento, sopprimere le inibizioni, annebbiare la vista e spalancare le porte di interi regni immaginari. Perché l'uso della fiamma dovrebbe essere privilegiato rispetto a tutti questi strabilianti metodi di elaborazione del cibo?

La risposta, se ve n'è una, sta negli effetti sociali che l'applicazione del fuoco alla preparazione degli alimenti ha comportato. La cucina merita il suo posto nella storia quale grande innovazione rivoluzionaria, non già per come trasforma il cibo — ciò si può fare in mille altri modi — ma per come ha trasformato la società. Quando quel che era crudo ha cominciato a diventare cotto, è nata la cultura. Quando le persone hanno cominciato a ritrovarsi per consumare il cibo intorno al fuoco, questo è divenuto un luogo di condivisione. Cucinare non è solo una modalità di elaborazione degli alimenti, è un modo di organizzare la società con pasti comuni a orari regolari, introduce nuove funzioni specializzate, piaceri e responsabilità da condividere. Θ altresì una pratica più creativa, costituisce legami sociali più solidi del semplice mangiare insieme e può persino sostituirlo quale rituale di adesione sociale. Mentre Bronislaw Malinowski , pioniere dell'antropologia dell'area del Pacifico, era al lavoro sulle isole Trobriand, una delle cerimonie che lo impressionarono maggiormente fu la festività annuale del raccolto di igname (un tubero farinoso) a Kiriwina, dove gran parte dei rituali assumeva la forma di distribuzione di cibo. Con l'accompagnamento di danze e tamburi, le pietanze erano accatastate in mucchi, poi trasportate via, alle varie abitazioni, e consumate in privato. Quello che nella visione di molte culture è considerato il culmine del banchetto — l'atto effettivo del mangiare — non veniva mai raggiunto: l'elemento festivo risiedeva nella preparazione.

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Presso alcuni popoli, la cottura diviene metafora della trasformazione della vita: le tribù californiane, per esempio, calavano puerpere e ragazze pubescenti in forni scavati nel terreno, coperti con stuoie e pietre roventi. Altrove, la lavorazione dei cibi diviene un rituale sacro, che non solo forgia la società, ma raggiunge l'aldilà con emissioni sacrificali di fumo e vapore. I popoli dell'Amazzonia che considerano le attività culinarie come un atto di mediazione tra «cielo e terra, vita e morte, natura e società» generalizzano una nozione che la maggior parte delle società applica ad almeno alcuni tra gli atti di preparazione degli alimenti.

Il comune termine giapponese per indicare il pasto (gohanmono) significa letteralmente "onorevole riso cotto". Ciò non riflette solo il ruolo essenziale e l'onnipresenza di questo cereale nella cultura nipponica, ma anche la natura sociale dei momenti dedicati all'alimentazione. La vita è scandita da pasti rituali. Alla nascita di un bambino, i genitori ricevono in dono offerte di riso rosso, o di riso con fagioli rossi, da amici e familiari; al suo primo compleanno, distribuiranno frammenti di un dolce di riso che il bimbo ha calpestato. La costruzione di una nuova casa è accompagnata dal sacrificio di due pesci: poi la si inaugura invitando a un pranzo i vicini. Gli sposi portano via dal ricevimento doni commestibili come talismani di longevità: dolcetti di riso con l'immagine di gru o tartarughe, o pasta di pesce plasmata nella stessa forma. Altri alimenti rappresentano la comunione con i defunti e ricorrono nei loro anniversari.

Nella società indù,

le regole relative al cibo sono estremamente importanti per contraddistinguere e mantenere i legami e le divisioni sociali. Ogni casta si colloca socialmente secondo il suo grado di purezza e ciò si riflette nei generi alimentari che può o meno condividere con le altre. [...] Gli alimenti crudi possono essere scambiati tra tutte le caste; non, invece, quelli cotti, perché rischiano di alterare lo stato di purezza della casta in questione.

Le vivande cotte sono poi ulteriormente suddivise: quelle bollite in acqua si distinguono da quelle fritte nel burro chiarificato, che possono essere scambiate con un più vasto numero di gruppi. Oltre alle regole che stabiliscono quali cibi sia permesso condividere, vi sono anche abitudini e prescrizioni alimentari specifiche dei gruppi in una certa posizione. La dieta vegetariana, per esempio, è propria delle caste più elevate e "pure", «mentre il consumo di carne e di alcol sono associati agli strati sociali meno puri. Certe caste di intoccabili sono più evidentemente contraddistinte dal regime carnivoro». I tharu, nel distretto di Dang, in Nepal, non scambiano cibo con le caste inferiori, i cui membri non possono consumare cibo nelle loro case, ma mangiano maiale e topi. Gli abitanti delle isole Fiji osservano tabù così complessi da esser divenuti popolari, come oggetto di studio, tra gli antropologi. Quando diversi gruppi sociali banchettano insieme, devono limitarsi a derrate mutualmente complementari: in presenza dei guerrieri, per esempio, i capi mangeranno la selvaggina catturata, ma non pesce o noci di cocco, che sono riservati ai guerrieri.

Oggi, in culture che si ritengono moderne, la maggior parte dei cibi che consideriamo crudi giunge in tavola solo dopo un'elaborata preparazione. Θ importante precisare "che consideriamo crudi" perché l'esser crudo è un concetto culturalmente costruito, o per lo meno culturalmente modificato. Tendiamo a riconoscere esplicitamente come crudi solo i cibi che normalmente si consumano cotti ("zucchine crude", "melanzane crude" eccetera), mentre diamo per scontata la crudità, in quanto culturalmente "normale", di molti frutti e verdure che consumiamo con un grado minimo di lavorazione (nessuno parla di mele crude, di lattuga cruda). Talvolta, poi, l'assenza di cottura si colorisce di tinte inquietanti che affondano le radici nell'antichità e che la complessità della preparazione sembra tenuta a compensare. Per carne e pesce, in Occidente, esser serviti crudi è un caso talmente eccezionale, che assume una connotazione aggiuntiva di rischio e sovversione, di barbarie e primitivismo. I cinesi, tradizionalmente, classificavano le tribù barbare in "crude" e "cotte" secondo il grado di civiltà che attribuivano a ciascuna, e una simile divisione mentale del mondo si produce facilmente alle nostre latitudini, dove la tradizione letteraria ha a lungo equiparato il gusto della carne cruda a una natura selvaggia e sanguinaria, al furore di uno stomaco impaziente.

Il piatto classico a base di carne "cruda" della cucina occidentale è lo steak tartare. Il nome allude alla reputazione medievale di ferocia dei mongoli, detti anche tartari dalla denominazione di uno specifico gruppo di tribù. Agli etnografi medievali, il termine ricordava il Tartaro, luogo dell'inferno classico, e appariva perciò particolarmente efficace per demonizzare quelle popolazioni. Il piatto come lo conosciamo oggi, tuttavia, è un concentrato di civilizzata sovracompensazione. La carne è macinata in morbidi riccioli d'un colore brillante. Come per rimediare alla sua crudità, viene in genere preparata al tavolo in una sorta di rituale, durante il quale il cameriere vi incorpora, uno a uno, ingredienti volti a esaltarne il sapore: condimenti, erbe aromatiche, cipolla fresca, capperi, acciughe a pezzetti, pepe nero, olive, un uovo crudo. La vodka è un'aggiunta poco ortodossa, ma un incommensurabile arricchimento. Anche le altre pietanze crude a base di carne e pesce approvate dalla civiltà sono ugualmente strappate alla natura, la loro nudità pesantemente coperta di orpelli, la loro indole selvaggia anestetizzata con complesse elaborazioni. Il prosciutto "crudo" è sottoposto a pesanti procedimenti di conservazione. Il carpaccio è affettato con elegante finezza in frammenti delicati e nessuno si sognerebbe di mangiarlo finché non sia cosparso d'olio di oliva su un letto di pepe e parmigiano. Il gravlax, benché oggi non venga più posto sotto terra, è coperto di sale, aneto e pepe, e lasciato a riposare con la sua salamoia per diversi giorni prima di arrivare in tavola. «Del resto, se i nostri trisavoli mangiavano i cibi crudi» scrisse Brillat-Savarin in un'opera del 1816, che è ancora la bibbia dei buongustai e l'apologia dei golosi, «noi non ne abbiamo perduto del tutto l'abitudine. I palati più delicati mangiano ben volentieri le salsicce di Arles, la mortadella, il bue affumicato d'Amburgo, le acciughe, le aringhe salate e altri cibi simili, che non sono stati sul fuoco e che non per questo suscitano meno l'appetito.»

Il sushi, ormai un must della ristorazione occidentale più alla moda, contiene sì pesce crudo condito assai leggermente (con aceto e zenzero), ma il suo ingrediente principale è il riso cotto, talvolta con l'aggiunta di un involucro di alghe tostate. Il sashimi rappresenta un grado più puro di "crudità", ma la sua preparazione è comunque assai elaborata. Il pesce va tagliato in fettine sottilissime, traslucide, ottenute con una lama molto affilata, e la presentazione deve essere di un'eleganza impeccabile, quasi che la condizione primitiva del cibo esalti in chi lo mangia il senso di partecipare al processo di civilizzazione. Le guarnizioni vengono affettate, divise con delicatezza e sminuzzate in un'ampia varietà di modi e il tutto è servito con dovizia di salse piacevolmente assortite. Un esempio di gran lunga meno ricercato è il semplice tuorlo crudo che i danesi apprezzano come contorno o salsa, ma persino questo è separato dal bianco. Infine, nell'«interminabile banchetto di carni crude» offerto a Laurens van der Post in Etiopia, la preparazione era minima, ma la forma del procedimento elaborata.

La carne cruda veniva passata da un ospite all'altro, tiepida e sanguinante, tolta dall'animale vivo. Ogni uomo ne prendeva un lembo saldamente tra i denti e poi, fendendola verso l'alto con un coltello affilato, ne tagliava una fetta per sé, rischiando per un pelo di sbucciarsi il naso.

Le fette non erano consumate in totale assenza di condimento, ma intinte nel berebere, una salsa tanto piccante «da farti credere che cuocerai tu la carne con il fuoco che hai in bocca», e in grado di trasformare uno stufato in un intruglio «così forte che, praticamente, fa sanguinare le orecchie». Ogni tanto, a turno, i commensali passavano un boccone alle donne e ai bambini che attendevano in piedi in silenzio dietro di loro. Tutti i cibi finora elencati sono "crudi" solo in riferimento a una definizione alquanto specifica. Sono talmente mutati rispetto al loro stato naturale che, presumibilmente, risulterebbero irriconoscibili ai nostri antenati ominidi quali ce li immaginiamo, dediti a nutrirsi di qualsiasi cosa commestibile a portata di mano. Dopo l'avvento in gran parte del mondo degli alimenti cotti, a quanto pare, anche quelli crudi non sono stati più gli stessi.

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La cucina è stata la prima chimica e la sua rivoluzione la prima rivoluzione scientifica: la scoperta, mediante osservazione ed esperimenti, delle variazioni biochimiche che mutano il sapore e aiutano la digestione. La carne — benché malvista dai moderni dietologi, "allergici" ai grassi saturi — è una fonte impagabile di nutrimento per l'organismo umano. Θ, però, fibrosa e muscolosa: la cottura fa fondere le proteine contenute nelle fibre muscolari, trasformando il collagene in gelatina. A contatto diretto con la fiamma, come prevedevano assai probabilmente le prime tecniche di cucina, la superficie della carne subisce qualcosa di simile alla caramellizzazione, con i succhi che si rapprendono, perché le proteine coagulano quando vengono riscaldate e si verifica una "reazione di Maillard" tra gli aminoacidi di una catena proteica e alcuni degli zuccheri naturalmente presenti nel grasso. Gli amidi costituiscono la fonte di energia che ha sostentato il maggior numero di esseri umani per gran parte della storia conosciuta, ma sono inefficaci finché non vengono cotti. Il calore li scinde, liberando gli zuccheri che contengono. Al tempo stesso, il riscaldamento a secco conferisce alle destrine un colore bruno, dando alla pietanza la tonalità confortante che associamo agli alimenti cotti. In quasi tutte le culture di quasi tutte le epoche, la principale alternativa alla cottura asciutta è l'immersione in acqua bollente: un procedimento che ammorbidisce le fibre muscolari della carne e fa gonfiare le particelle dei carboidrati. A circa 80 gradi, poi, queste si rompono e compenetrano la mistura (di qui, l'addensarsi delle salse). Il calore modifica la consistenza di altri cibi, rendendoli masticabili o facili da sezionare manualmente: un primo balzo in avanti nella civilizzazione del modo di mangiare, di molto antecedente all'introduzione delle posate. Poiché la cottura aumenta la digeribilità degli alimenti, se ne può consumare una maggiore quantità: 50 tonnellate nel corso di una vita in epoca moderna. Entro un certo limite, ne deriva un aumento dell'efficienza; superato questo, sussiste il rischio dell'eccesso, con conseguenze per la società che tratteremo a tempo debito (vedi p. 131).

Oltre ad accrescere il consumo di cibi adatti al nutrimento, la cottura può compiere un vero e proprio incantesimo, rendendo commestibile ciò che altrimenti sarebbe velenoso: il fuoco distrugge, infatti, il veleno contenuto in alcuni potenziali alimenti. La "magia" che permette di consumare piante normalmente tossiche è particolarmente preziosa, perché le derrate velenose possono essere conservate senza timore di depredazioni ed essere poi rese innocue per l'uomo al momento di mangiarle. Θ il vantaggio culturale che ha fatto della manioca amara un alimento base nell'antica Amazzonia e dei semi di marsilea un cibo apprezzato tra gli aborigeni australiani. La manioca amara, usata in genere per ricavarne tapioca, contiene abbastanza acido prussico da uccidere chiunque ne mangi una porzione, ma questo viene neutralizzato attraverso varie fasi di preparazione in cui il tubero è pestato o grattugiato, immerso in acqua, riscaldato. Come gli indiani che per primi coltivarono questa pianta abbiano scoperto le sue peculiari proprietà, giungendo a cibarsene senza paura, è un problema tanto affascinante quanto insolubile. Cuocendo gli alimenti, si possono anche debellare molte infestazioni nocive. La carne di maiale è spesso parassitata da un verme che, nell'uomo, provoca la trichinosi: la cottura lo rende inoffensivo. Se vivace e prolungata, uccide i batteri della salmonellosi, mentre un calore intenso elimina la Listeria, responsabile della listeriosi. Eccezione degna di nota è il batterio più letale, il Clostridium botulinum, che esce praticamente indenne da qualunque tipo di elaborazione culinaria e sopravvive alle temperature raggiunte pressoché in ogni cucina tradizionale, benché alcune ricette ad alto contenuto di acidi possano arrestarne lo sviluppo.

Non appena gli effetti del calore sui cibi cominciarono a palesarsi agli occhi degli uomini, il futuro della cucina prese a delinearsi. In senso letterale o etimologico, focus significa "focolare" e, nel momento in cui la fiamma divenne fruibile, si trasformò inevitabilmente in un fattore di coesione della comunità, perché la manutenzione del falò richiedeva uno sforzo comune e una divisione dei compiti. Si suppone che in un primo tempo il fuoco sia servito da focolare e, al di là del suo utilizzo a scopo culinario, in quanto forniva altri comfort che inducevano le persone a radunarvisi intorno: luce, calore, protezione da animali nocivi e predatori. L'avvento della cottura, poi, ne ha perfezionato la capacità di aggregazione sociale, aggiungendo agli altri benefici la disponibilità di un nutrimento più ricco ed elaborato: ha così socializzato l'atto del mangiare, rendendolo un'attività praticata in un luogo preciso, a un orario preciso, da una comunità di commensali. Θ lecito supporre che in precedenza la propensione a consumare pasti insieme fosse scarsa: i cibi raccolti potevano essere ingeriti sul posto o nascosti per un uso successivo e, benché possiamo immaginare ominidi intenti a banchettare come avvoltoi intorno a una carogna, è solo dopo l'invenzione della cucina che il pasto diventa necessariamente un fattore di aggregazione. Imprese collettive di natura cooperativa quali la caccia, la ricerca di cibo, l'organizzazione della sicurezza generale galvanizzavano il gruppo, ma la selvaggina cacciata o le carcasse raccolte potevano essere smembrate, i pezzi distribuiti per essere mangiati in seguito, singolarmente. Quando fuoco e alimentazione si sono associati, invece, si è creato un centro d'attrazione pressoché irresistibile per la vita comunitaria. L'atto del mangiare è divenuto sociale in un modo unico: comune senza implicare la cooperazione. E la valorizzazione dei cibi operata dalla cucina li ha elevati al di sopra del semplice nutrimento, dischiudendo tutta una serie di fantasiose possibilità: i pasti sono potuti diventare momenti sacrificali, celebrazioni dell'amore, atti rituali e occasioni per le trasformazioni magiche operate dal fuoco – prima fra tutte la trasformazione di antagonisti in lotta per sopravvivere in membri di una comunità.

Nel mondo moderno, per lo meno in epoca recente, è stato possibile ritrovare o rivivere un senso primitivo del potere di quella combinazione, che ci perviene attraverso i ricordi d'infanzia del "filosofo contadino" degli anni trenta, Gaston Bachelard:

[...] il fuoco è più un essere sociale che un essere naturale [...]. Mangiavo il fuoco, mangiavo il suo oro, il suo odore e perfino il suo scoppiettio, mentre la cialda fumante crocchiava sotto i miei denti. Ed è sempre così, con una specie di piacere di lusso [...] che il fuoco prova la sua umanità. Non si limita a cuocere, rende croccante, fa dorato il biscotto. Materializza la festa degli uomini. Per quanto indietro nel tempo si possa risalire, il valore gastronomico sopprime il valore alimentare, ed è nella gioia e non nella pena che l'uomo ha trovato il suo spirito. [...] Dai denti della catena oscillava il nero paiolo. La pentola oscillava nella cenere calda. Soffiando a lungo nel tubo d'acciaio, mia nonna risvegliava le fiamme addormentate. Cuoceva tutto contemporaneamente: le patate per i maiali, le patate più scelte per la famiglia. Per me, un uovo fresco cuoceva sotto la cenere.

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Tecnicamente, è ovvio, la tecnologia a microonde costituisce solo una delle varie modalità di cottura: essa sfrutta le radiazioni elettromagnetiche per penetrare nei cibi, in luogo di quelle infrarosse generate dal fuoco. Θ la prima innovazione, dai tempi della padella per friggere, che abbia realmente introdotto un metodo nuovo: un fausto evento, in teoria, per gli amanti della tavola, ma i risultati non si possono definire esaltanti. Visivamente, i piatti preparati al microonde hanno in genere un aspetto poco appetitoso, perché le radiazioni elettromagnetiche non bruniscono la superficie esterna dei cibi; in più, il processo non rende l'alimento croccante, né, a dire il vero, gli conferisce una qualunque consistenza particolare. In quasi tutte le cucine, questo elettrodomestico è usato esclusivamente per scaldare: il risultato è soddisfacente per i pochi piatti che migliorano con il riscaldamento, come gli stufati, ma la maggior parte dei cibi acquisterà un aspetto sciupato e un tipico sapore leggermente terroso, leggermente acre.

Malgrado le sue carenze, il forno a microonde è assai apprezzato, e per due ragioni invero non molto edificanti. Innanzitutto, "per comodità": è un modo rapido e pulito di scaldare pasti precotti e preconfezionati. Parziale conseguenza di ciò è l'offerta sempre crescente sul mercato, nell'Occidente moderno, di intrugli insapori e ultraelaborati. Naturalmente non è tutta colpa del microonde, dato che la predilezione per le pappette informi è evidente nella letteratura culinaria quanto nella scelta alimentare (lettori che potrebbero godere di Brillat-Savarin optano per Delia Smith): il dispositivo a onde elettromagnetiche, in realtà, è parte di quella che potremmo definire "cultura della pappa". Storicamente, vi è una tendenza propria delle società urbanizzate a richiedere cibi a preparazione istantanea in varie forme: l'ascesa del microonde è conseguenza e causa insieme del loro rinnovato successo ai giorni nostri (vedi pp. 267-277). L'altra grande virtù di questo elettrodomestico, agli occhi dei suoi fautori, è il potere liberatorio: si può scegliere di riscaldare qualunque piatto pronto a disposizione (il che, oggi, nelle città occidentali, significa un'amplissima gamma di opzioni). Non occorre fare alcun riferimento al gusto della comunità, non c'è matriarca o pater familias che abbia la facoltà di decidere per tutti. Nessuno, in casa, deve più dipendere da un altro. Inoltre, non viene meno l'esigenza di mangiare alla stessa ora o di sedersi alla stessa tavola. Questo nuovo modo di cucinare è controrivoluzionario in modo sconcertante: inverte la rivoluzione che aveva reso il mangiare un momento di socializzazione, e ci riporta a una fase presociale dell'evoluzione.

Il cibo nutre, e l'avvento della cucina ha potenziato questo effetto, ampliando la gamma di alimenti commestibili e facilitando la digestione. Il cibo dà piacere, e la cucina non ha fatto che accrescere tale prerogativa. Il cibo forgia la società, soprattutto da quando l'invenzione della cucina le ha fornito una struttura e un centro di aggregazione. La successiva grande rivoluzione sarà la scoperta che il cibo ha anche altri vizi e virtù: può codificare messaggi, può avere benefici che trascendono il sostentamento e operare malefici peggiori dell'avvelenamento. Non solo conserva la vita, ma la valorizza o, talvolta, al contrario, la degrada. Può cambiare una persona in meglio o in peggio. Ha effetti spirituali e metafisici, morali e di profonda trasformazione. Curiosamente, forse, chi ha meglio esemplificato tale scoperta – e introduce perciò il prossimo capitolo – è il cannibale.

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In Francia – fino a un'epoca recente, in cui le regole del gioco sono cambiate e il nuovo carattere pluralistico dell'America l'ha accostata ai sapori di tutto il mondo – il rifiuto americano del cibo francese sembrava così sconcertante da richiedere un'indagine sociale: era, questa, la vendetta di una cultura ferita nel suo orgoglio, per il mancato riconoscimento della sua superiorità da parte dei barbari. L'indifferenza inglese al cibo d'oltremanica fu facilmente liquidata come espediente di un rivale ben noto per la sua ipocrisia: la si poteva comprendere, pur non credendoci. L'America, invece, non aveva nulla da temere dalla Francia: aveva, anzi, molto da ammirare. Era come se Roma avesse rifiutato la Grecia. Secondo quanto affermava Roland Barthes, le differenze che rendevano inconciliabili il menu francese e quello americano si potevano sintetizzare nella formula "dolce contro non dolce". Questa è stata a lungo, in Francia, un'opinione corrente, ma non era, e continua a non essere, affatto convincente. Nessuno può generalizzare in materia di palato francese senza tenere conto del gusto per gli apéritifs dolci, per i Sauterne con il foie gras, per la pβtisserie, per le salse da carne rese intense con riduzioni di forti vini da dessert.

In realtà, l'abisso storico tra gusto francese e anglo-americano è solo un esempio estremo di un fatto comune: il cibo – almeno quanto la lingua e la religione, e forse di più – è una cartina al tornasole della cultura. Esso identifica e, perciò, necessariamente, differenzia. I membri di una stessa comunità culturale si riconoscono tra loro da ciò che mangiano e analizzano il menu per individuare gli outsider. Malgrado il fenomeno frequente delle mode alimentari, e la capacità dei pubblicitari di suscitare questa o quella mania, la cultura alimentare è conservatrice. Gli ostacoli a un'alimentazione interculturale hanno origini storicamente remote e affondano le loro radici nel profondo della psicologia individuale. Il gusto personale è difficile da modificare. I bambini cresciuti con il latte dolce del seno materno manterranno per tutta la vita una propensione agli alimenti zuccherini, ove non vengano indirizzati verso sapori diversi e consistenze nuove. L'infanzia, tra l'altro, è caparbiamente resistente agli esperimenti alimentari. Anche il turismo a buon mercato indietreggia alle frontiere del gusto: la gente tende a ricorrere ai sapori familiari. La famiglie con un budget limitato rifuggono le novità per evitare sprechi, e nelle orecchie di mogli esasperate risuona il grido immortalato dalla canzone: «Dammi un bel piatto di salsicce e purè, come le faceva la mamma!».

Il disprezzo per il cibo e le abitudini alimentari degli stranieri era ben radicato nell'antichità. Secondo Erodoto, nei templi egizi, le teste degli animali sacrificati venivano mozzate, maledette e vendute ai greci. Se non c'erano greci a cui venderle, le si gettava nel fiume. D'altro canto gli egizi, raccontava Galeno, mangiavano «larve e ricci». I divieti alimentari degli ellenici erano parte della loro cultura comune e li distinguevano dagli altri popoli: consideravano sacri i delfini; diffidavano di «tartarughe e testuggini, raramente mangiavano cane e ancor più raramente cavallo». Alle nazioni vicine, le loro abitudini alimentari sembravano irriverenti nei confronti degli dèi, che dovevano accontentarsi degli scarti in sacrificio: «La coda o la cistifellea, i pezzi che non si possono mangiare». All'interno del mondo greco, un analogo pregiudizio sussisteva tra singole città e colonie. La polarità rappresentata oggi da Francia e America evoca quella antica tra la raffinatezza siracusana e la sobrietà ateniese. Il buongustaio siracusano Linceo non apprezzava le cene attiche.

Hanno in sé una sorta di sgradevolezza straniera. Ti servono un gran vassoio con sopra cinque piattini: uno con l'aglio, uno con due ricci di mare, uno con un pasticcio dolce di volatili, uno con una decina di frutti di mare, uno con un trancio di storione. Mentre io mangio una cosa, lui ha finito quella, mentre lui è ancora su quella, io ho già finito questa. Io voglio un po' di questo e un po' di quello, amico mio.

Archestrato riconosceva un forestiero dal suo atteggiamento nei confronti degli aperitivi. «Mentre sorseggerai il tuo vino» consigliava,

fatti portare questo: pancetta di maiale e matrice di scrofa bollita da immergere in una salsa di cumino, aceto e silfio. Con questo ti venga anche servita arrosto tutta la tribù degli uccelletti di stagione. Non fare come quei siracusani che bevono come ranocchi, senza mangiare niente.

Un giudizio ironico: secondo alcune fonti era siracusano anche lui.


I migranti resistono al cibo delle comunità ospiti: quando, nel secolo scorso, alle Fiji furono introdotti lavoratori giapponesi per compensare le migliaia di nativi uccisi dal morbillo, questi si ritrovarono in una terra dell'abbondanza, dove la dieta indigena era così ricca che le malattie da carenza erano sconosciute. Eppure i nuovi arrivati evitavano i prodotti locali e cercavano di sopravvivere con il riso bianco: di conseguenza, morirono quasi tutti di beriberi, e gli altri dovettero essere rimpatriati. Durante la guerra di Corea, i prigionieri di guerra degli americani morivano di malnutrizione perché rifiutavano le razioni che, seppur perfettamente nutrienti, apparivano loro ripugnanti. La formula di commiato degli spagnoli, durante la colonizzazione di un emisfero sconosciuto, nel XVI secolo, era: «Dio ti guardi dal perder di vista il pane». Un capo maya dell'altopiano, rifiutando i dolci spagnoli, protestò: «Io sono un indiano, e così mia moglie: nostro alimento sono fagioli e peperoncino, e se voglio un tacchino, posso avere anche quello. Ma non mangio zucchero, la scorza di limone candita non è cibo per gli indiani, né i nostri antenati conoscevano simili cose». Queste polarità rendono più interessante una storia che Nicolas Mastrilli, futuro provinciale gesuita del Perú, scrisse in una lettera a casa durante i suoi primi anni in qualità di missionario presso la stazione di Andamaca, sulle Ande. Era la sua prima missione. In compagnia di un sacerdote più anziano, partì per un viaggio di molti giorni in montagna e attraverso la giungla, in cerca di indiani da convertire. Quando li trovò, la loro cortesia e generosità lo deliziarono, mentre tutti insieme si sedevano a banchettare all'ombra degli alberi. Poi, però, seguì un momento di pericolo, quando uno degli indigeni — convinti che gesuiti e spagnoli laici appartenessero a due razze diverse, tanto erano diversi i loro modi e codici di comportamento — cambiò improvvisamente atteggiamento. «Credo proprio» disse, «che questi uomini non siano veri Padri, ma spagnoli travestiti.» La tensione durò per un momento, mentre Mastrilli si vedeva passare la vita davanti agli occhi. Poi, «No» dichiarò l'indiano, in tono rilassato. «Devono essere Padri, perché mangiano il nostro cibo.»

Una sorta di moltiplicazione naturale di questi effetti rende le culture collettivamente ostili ai nuovi influssi culinari. Tutto ciò che è straniero diventa oggetto di pregiudizi di esclusione. Le cucine "nazionali", tuttavia, non sono mai originariamente nazionali: hanno inizio come consuetudini alimentari regionali, con ingredienti limitati dall'ambiente naturale; sono aperte a scambi di influenze e a modifiche da parte di nuovi prodotti in grado d'essere adattati a una tradizione regionale, in forma conservata o in virtù di trasportabilità o durata naturale. Quando uno stile culinario acquista un'etichetta nazionale, subisce una sorta di fossilizzazione: la sua purezza deve essere protetta dagli influssi esterni. Per questo tanta parte della letteratura sull'alimentazione descrive la repulsione per i piatti stranieri, oppure un'attrazione per essi che il lettore è invitato a classificare come morbosa.

Le cucine tradizionali sono sempre definibili nei termini di derrate e aromi fondamentali prontamente disponibili nei luoghi interessati: questi penetrano nel gusto collettivo e formano il palato che, saturato di quelle impressioni, diviene in genere indifferente o intollerante nei confronti di altri sapori. Persino i metodi di preparazione possono trasformarsi in caratteristiche culturali o emblemi d'identità all'interno di regioni in cui sono disponibili gli stessi cibi. I ceci sono un prodotto indispensabile su quasi tutte le coste del Mediterraneo. A un estremo di quel mare, tuttavia, vengono stufati con condimenti, aromi, un condimento grasso, sangue animale, e si mangiano caldi, quando sono abbastanza morbidi da poterli schiacciare con la lingua contro il palato. All'altro capo, sulla costa più lontana, vengono invece bolliti lentamente fino a spappolarli e serviti in una purea fredda, condita con olio e altri sapori, tra cui, spesso, il limone. Un ingrediente che, a ovest, è rimasto fondamentalmente contadino, a est è stato trattato fino a raggiungere un certo grado di raffinatezza. Nessuno dei due modi di preparare questo legume ha mai fatto presa sulle terre al di fuori dell'area mediterranea.

Il cibo non è facilmente trasferibile da una cultura a un'altra. Oggi, tuttavia, non solo disponiamo di forme d'alta cucina denominate "fusion" e "internazionale", ci alimentiamo in un mondo globalizzato in cui piatti e ingredienti vengono scambiati con entusiasmo da un capo all'altro del globo. La "mcdonaldizzazione" è riflessa, se non eguagliata, da conquiste mondiali partite da Italia (pizza, pasta), Messico (tacos e burritos), Cina (per esempio, wonton e involtini primavera), India (pietanze al curry e pappadam) e persino Nuova Zelanda (kiwi e pavlova, la cui invenzione, rivendicata dall'Australia, è invece indubbiamente un vanto neozelandese). Quando ho visitato Madison, nel Wisconsin, sono stato portato al ristorante turco e a quello afghano. Non conoscevo prodotti tipici del Wisconsin, a parte formaggio e caramelle fondenti, e nondimeno è stato sorprendente non trovare un posto che offrisse un presunto menu regionale, scoprire che i miei ospiti apprezzavano solo ciò che era di provenienza esotica. Si è tentati di rappresentare un tale fenomeno come il culmine di una storia di progressivo ampliamento d'orizzonti, dovuto al progredire delle comunicazioni. Ma sarebbe una falsità, o per lo meno una semplificazione eccessiva al punto da rasentare l'alterazione della realtà. Non c'è problema più intrigante, nella storia dell'alimentazione, di quello relativo al modo in cui le barriere alla trasmissione di cibi e usi alimentari siano state oltrepassate o abbattute.


I demolitori di barriere: l'effetto dell'impero

Vi sono forze capaci di penetrare le barriere culturali e internazionalizzare i cibi. Una di queste è la guerra. Gli eserciti sono grandi vettori di influssi culturali e il modo di combattere dell'èra moderna, mobilitando grandi masse di persone comuni e dislocandole ai quattro angoli del globo, ha avuto effetti paradossali sulla reciproca comprensione a livello internazionale.

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Tra le fonti d'influenza in ambito culinario – forse nello scambio culturale in genere – nessuna è stata più efficace dell'imperialismo. Gli imperi possono essere talvolta abbastanza forti da imporre un gusto metropolitano in un'area periferica e, in genere, promuovono migrazione e colonizzazione. Questi fenomeni, a loro volta, trasmettono le consuetudini alimentari e altri aspetti culturali, o rieducano il palato degli espatriati, che diverranno vettori di sapori nuovi al ritorno. Le maree degli imperi viaggiano in due sensi: prima, il flusso che, dal centro, si diparte verso l'esterno, crea diversità metropolitana e culture "di frontiera" – commistione di cucine – ai margini; poi il riflusso verso l'interno, al ritirarsi dei conquistatori, riporta a casa coloni con palati esoticamente acclimatati e libera le forze della "controcolonizzazione", disseminando l'ex cuore dell'impero di enclave di genti un tempo sottomesse, che portano i loro usi culinari con sé. Di conseguenza ci sono tre tipi di cucina imperiale: quella "alta" dei centri nevralgici dell'impero, che incorpora ingredienti, stili e piatti di tutte le regioni conquistate in un menu ufficiale, la gastronomia coloniale, che giustappone il cibo delle élite provenienti dalla madrepatria agli stili "subalterni" dei loro cuochi e delle loro concubine locali, e l'effetto della controcolonizzazione, attraverso la quale le popolazioni dei paesi colonizzatori sono introdotte al cibo delle razze assoggettate ed ex vittime, quando queste ultime cominciano a migrare verso il centro.

Il primo tipo è esemplificato perfettamente dalla cucina turca. Benché intenditori e storici dell'alimentazione stiano ora riscoprendo le delizie dei piatti turchi regionali e preimperiali, il menu che ha reso famosa la Turchia, consacrandone l'arte culinaria tra le grandi gastronomie del mondo, si formò nella Costantinopoli ottomana, in seno all'aristocrazia di corte, e soprattutto nelle cucine del Topkapi, residenza del sultano. Oggi, il palazzo è la testimonianza palpabile di come fosse l'impero ottomano all'apice del suo splendore, tra il XVI e il XVIII secolo. La sala del trono è un padiglione e il parco è disseminato di numerosi appartamenti, come tende di un campo nomade, richiamo a uno stile imperiale che non abbandonò mai definitivamente il ricordo delle steppe in cui aveva avuto origine la dinastia dominante. Il seggio del sovrano, però, è abbastanza ampio da accogliere un sultano corpulento, perché i ricordi del nomadismo giungevano attraverso secoli di sedentaria iperalimentazione.

[...]

L'arte culinaria del Topkapi era davvero, a un tempo, imperiale e metropolitana – "fusion", per così dire – perché univa in nuovi piatti ingredienti di ogni parte dell'impero. Quanto alla cucina di frontiera, potrà sembrare un'affermazione azzardata, ne ritengo un esempio tipico l'attuale gastronomia "tex-mex". Il nome ibrido suggerisce la commistione coloniale, e in effetti il cuore della cucina south-western è costituito da terre che gli Stati Uniti hanno strappato al Messico durante la grande espansione del XIX secolo. La realizzazione del "destino manifesto" fu un'impresa imperialistica non diversa da quelle di altri imperi contemporanei dei bianchi. Il fatto che il territorio occupato fosse contiguo all'estensione dello Stato esistente non rende la compagine americana meno "imperiale" dei lontani domini dell'Europa occidentale. Gran Bretagna, Francia e Germania avevano dovuto acquisire i nuovi possedimenti mediante un'espansione marittima a lunghissimo raggio, poiché non vi erano margini per un'espansione nelle vicinanze (benché la Francia l'avesse tentata sotto Napoleone e la Germania abbia poi replicato il tentativo con Hitler). Lo sforzo espansionistico americano ebbe un parallelo strettamente contemporaneo nell'imperialismo russo, che, nell'arco di un periodo assai più lungo, costruì un impero territoriale simile a spese dei suoi vicini. Il ruolo che, nel caso americano, fu di Canada e Messico, appartenne, nella vicenda russa, alle aree conquistate in Finlandia, in Polonia, nell'Impero ottomano e nell'Asia centrale musulmana; l'equivalente russo dei "pellerossa" erano le nazioni indigene della Siberia, di tundra e taiga, che i russi chiamavano "piccole genti del Nord". Entrambi gli imperi crebbero in modo analogo: marginalizzando, sterminando o acculturando i popoli aggrediti. Quando, nel XX secolo, Russia e America divennero nemiche e rivali, all'epoca della Guerra Fredda, la seconda adottò un atteggiamento ipercritico nei confronti dell'imperialismo russo, dimenticando o ignorando quanto fossero state simili le traiettorie dei due paesi nell'Ottocento.

Ma in un impero le cose cambiano e, oggi, alcuni dei popoli che l'America conquistò in quei giorni si stanno prendendo una sacrosanta rivincita. Gli "ispanici" ricolonizzano le terre perdute e anzi si espandono al di fuori di esse, costituendo un'ingente presenza controcoloniale in gran parte degli Stati Uniti. Intanto, il cibo del Sud-Ovest è tornato alle proprie origini e gli ingredienti tipici della cucina messicana hanno conquistato un territorio culinario sempre più esteso. Il chili è il marchio di questa avanzata, mais e fagioli neri ne sono i simboli, il lime e il velo di formaggio dei nachos la bandiera. Il chili con carne che, nella sua forma classica, è costituito da fagioli neri cotti a fuoco lento in acqua, con molto peperoncino, cumino – forse il contributo spagnolo all'evoluzione di questa gastronomia – e carne macinata, si può considerare a buon diritto il piatto caratteristico della "riconquista". Ma è anche il piatto ufficiale dello Stato del Texas. Le sue origini sono assai controverse: con vari gradi di plausibilità, sono state attribuite ai cuochi vaqueros della metà del XIX secolo, alle chili queen messicane – venditrici ambulanti di San Antonio – e a ristoratori di Dallas dalle abili capacità promozionali. Quali che siano, comunque, esso impiega chiaramente parte del repertorio di ingredienti saccheggiato dall'annessione americana del Sud-Ovest, che da allora ha gradualmente conquistato i conquistatori.

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Quando la marea dell'impero rifluisce, con essa viaggiano coloro che ritornano, portando con sé – è il caso tipico – il gusto tropicale in Europa. Segue la controcolonizzazione, con cuochi e ristoranti che forniscono quei sapori e aiutano a diffonderli anche nei ceti che non hanno diretta esperienza del colonialismo. Inghilterra, Francia e Paesi Bassi divennero, nell'èra postcoloniale, il trampolino di lancio per la conquista del mondo da parte della cucina indiana, vietnamita, magrebina e indonesiana. I migranti, come si è visto, tendono a resistere ai cibi della comunità ospite, ma possono essere costretti ad adattarsi. Per sopravvivere, possono copiare le consuetudini alimentari che incontrano, o accettare offerte di cibo, per esempio, nella maniera commemorata dal menu del Giorno del ringraziamento americano. Sir Andrew Smith informava Charles Darwin di aver visto un certo numero di baquana, in Africa meridionale, che, strappati alle loro case dagli zulu, «parevano scheletri ambulanti». Essi apprendevano che cosa fosse commestibile osservando babbuini e scimmie. Qualche anno più tardi, alcuni occidentali civilizzati costretti da un naufragio sulle sponde dell'Artide, presero ad apprezzare la foca: «Con pazienza e un bel po' di salsa piccante» poteva persino sembrare «eccellente». Oltre a essere una strategia di sopravvivenza, l'adattamento a una cucina non familiare, nel contesto di un impero, può fungere da metodo di controllo: mostrarsi solidali con i nativi per sfruttarne le competenze.

La gastronomia olandese gode di scarsa reputazione, anche tra gli stessi olandesi. Ciò è ingiusto, perché rischia di privare i buongustai del piacere di un'aringa marinata o della freschezza dei gamberetti del mare del Nord, o della gradevole sensazione prodotta da un boerkool fatto a regola d'arte, con il cavolo misto alle patate e insaporito dalla carne aromatizzata. D'altro canto, il giudizio modesto circa la propria cucina, ha reso gli olandesi straordinariamente sensibili ai cibi di provenienza esterna. Il rijstafel indonesiano potrebbe con qualche diritto esser considerato il piatto nazionale dei Paesi Bassi: il suo rivale, l' hutspot fatto con avanzi di radici commestibili per commemorare i malnutriti difensori di Leida durante l'assedio del 1574 da parte dell'esercito spagnolo, ha solo i buoni sentimenti a raccomandarlo. Il rijstafel è quanto di più lontano dall' hutspot si possa immaginare: esotico anziché domestico, celebrativo anziché commemorativo, ricco anziché austero, vario anziché limitato. Esso evoca memorie di abbondanza e privilegio: dei giorni in cui i colonialisti olandesi condividevano i fasti dei rajah. Assaporandolo, ci ritroviamo nel mondo del colonnello Verbrugge (il personaggio "buono" del grande romanzo anti-imperialista Max Havelaar, pubblicato nel 1860 da "Multatuli"), che ci viene descritto mentre tenta di far tintinnare gli speroni sul pavimento in cotto della sala da pranzo e intrattiene il reggente di Lebak in un tripudio di portate.

Se l' hutspot evoca il tempo in cui gli olandesi lottavano per l'indipendenza, il rijstafel appartiene a un'epoca in cui la toglievano ad altri.

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Il commercio: sale e spezie

Tra le realtà che pongono in comunicazione cucine diverse, consentendo loro di compenetrarsi a vicenda, l'unica in grado di rivaleggiare con imperialismo e colonizzazione è il commercio. Lo immagino come un cameriere che indugia esitante al tavolo del repertorio alimentare mondiale, porgendo piatti sorprendenti a inconsapevoli convitati, o scostando la sedia per un ospite inatteso. La circolazione globale degli ingredienti per via commerciale è coadiuvata da quello che io chiamo "effetto straniero": l'istintiva soggezione di molti per ciò che è esotico. Gli ingredienti portati da lontano con spesa e sacrificio, o scambiati in dono con plenipotenziari forestieri, traggono prestigio dal tragitto compiuto, indipendentemente dal valore intrinseco o dai meriti pratici delle derrate alimentari. Vengono recepiti come sapori del divino orizzonte, custoditi gelosamente come tesori strabilianti o apprezzati, inizialmente, per la loro esclusività. Θ un po' quel che accade al viaggiatore, che acquista tanto più interesse quanto più lontano si spinge nel suo viaggio: giungendo da una contrada remota, il pellegrino guadagna santità, il condottiero carisma, il guerriero ferocia, l'ambasciatore attenzione. La mancanza di familiarità gioca d'anticipo sul disprezzo: a volte, l'"effetto straniero" è tanto forte da superare l'inveterata ostilità che molte culture nutrono per il cibo estero.

Di fatto, la provenienza variegata degli ingredienti è un metro di valutazione della grande cucina. Questo criterio era già utilizzato nell'antichità: «Ditemi ora, o muse» invocava Ermippo, «quante cose buone Dioniso ha qui portato per gli uomini sulla sua nave nera, da che ha solcato il mare scuro come vino». Da Cirene veniva il silfio (un aroma curioso su cui torneremo nel prossimo capitolo), dall'Ellesponto, maccarello e ogni sorta di pesce salato, dalla Tessaglia, farina di frumento e costine di bue. «I siracusani mandano maiali e formaggio... uvetta di Rodi e fichi da sogno.» Pere e grosse mele giungevano dall'Eubea. «I paflagoni inviano noci e lucenti mandorle, che sono l'ornamento della festa.» La Fenicia forniva datteri e grano da infornare. Gli stessi valori, nel contesto di un commercio sempre più ad ampio raggio, si evincono da Brillat-Savarin, per il quale delle

diverse parti costituenti il pranzo di un buongustaio, le principali vengono dalla Francia, come la carne di macelleria, il pollame, la frutta; altre sono di imitazione inglese, come la bistecca, il Welsh rarebit, il punch ecc.; altre vengono dalla Germania, come il Sauerkraut, il bue d'Amburgo, i filetti della Foresta Nera; altre dalla Spagna, come la olla podrida, i garbanzos, l'uva secca di Malaga, i prosciutti con il pepe di Xerica e i vini liquorosi; altre dall'Italia, come i maccheroni, il parmigiano, la mortadella di Bologna, la polenta, i gelati, certi liquori; altre dalla Russia, come le carni essiccate, le anguille affumicate, il caviale; altre dall'Olanda, come il baccalà, i formaggi, le aringhe, il Curaηao, l'anisetta; altre dall'Asia, come il riso d'India, il sagù, il curry, la soia, il vino di Schiraz, il caffè; altre dall'Africa, come il vino del Capo; altre infine dall'America, come le patate, le patate dolci, gli ananassi, la cioccolata, la vaniglia, lo zucchero ecc. Tutto ciò prova abbastanza [...] che un pranzo come si può avere a Parigi è un complesso cosmopolita in cui ogni parte del mondo figura con i suoi prodotti.

Questo dovrebbe far riflettere quanti ritengono che la cucina "internazionale" sia una "novità".

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7. Sfida all'evoluzione

Cibo e scambio ecologico



                                         Ahimè! Da quale varietà di gusti
                                           è divisa la fratellanza umana!

                                                  Hilaire Belloc, On Food



Il viaggio del Bounty

Già le dimensioni sono promettenti. Il frutto maturo dell'albero del pane è grande come la testa di un uomo o un grosso melone. Somiglia a un ananas sferzato dal vento, con fitte protuberanze appuntite irregolari. Vistoso, abbondante, adattabile, esso appare, a un esame superficiale, il sogno del nutrizionista, forse persino un cibo miracoloso. Sotto la buccia di una particolare varietà, che si era guadagnata l'ammirazione degli europei nel XVIII secolo, si celano grossi semi simili a noci. Sono buoni bolliti e dolcificati o fritti. Possono anche essere macinati in farina. La polpa si affetta facilmente, è gradevole al palato e ha un gusto che ricorda altri frutti tropicali. Forse per il fatto che può esser mangiato a vari gradi di maturità, i suoi fautori sembrano contraddirsi descrivendone la consistenza: «tra gli gnocchi e la pastella» secondo uno, «morbido e vellutato come un avocado o molle come il camembert stagionato» secondo un altro. Mentre si trovava alle Molucche, lavorando alla sua teoria evolutiva, Alfred Russel Wallace trovò che «con il sugo di carne è una verdura superiore a qualunque altra io conosca, nei paesi temperati come in quelli tropicali. Con zucchero, latte, burro o melassa, è un pudding delizioso, dal sapore leggero e delicato, ma caratteristico, che, come quello del buon pane e delle patate, non stanca mai». A parte la buccia estremamente sottile, non vi sono scarti.

Il frutto dell'albero del pane era un aspetto appariscente dell'opulenza che rendeva favolosi i Mari del Sud agli occhi dei naviganti europei del XVIII secolo: luoghi di ristoro in cui por fine agli stenti lungamente patiti a bordo. Insieme alla libertà sessuale della vita tahitiana, su un'isola in cui «l'unico dio è l'amore», l'ampia disponibilità di cibi freschi contribuiva a far sembrare i Mari del Sud — per dirla con il comandante Bligh, capitano del Bounty — «di certo il paradiso in Terra». Nel gergo degli economisti moderni, era un mondo di subsistence affluence: scarsa specializzazione nella produzione di cibo, limitato commercio di prodotti alimentari, ma, in tempi normali, una spettacolare ricchezza di risorse. Nella maggioranza delle isole, igname, taro e piantaggine rappresentavano la componente preponderante dell'alimentazione di base, ma, in stagione, il frutto dell'albero del pane era il protagonista di ogni banchetto, il complemento amidaceo alle carni festive: maiali, tartarughe, cani, pollame, pesce e alcune larve pregiate, come quelle di un coleottero longicorne infestante del cocco. Il metodo preferenziale di preparazione consisteva nel farlo cuocere intero sulla brace ardente o in buche, su pietre roventi. Lo si poteva trovare anche negli stufati di pesce, cotto nel liquido estratto dai cocchi. Poiché è un prodotto stagionale e, a differenza del taro, non può attendere a lungo di essere raccolto, veniva anche lavorato essiccandolo, affumicandolo o facendolo fermentare. Contribuiva ad alimentare un'illusione di ricchezza nutrizionale e divenne una presenza fissa nell'immagine mentale che gli europei del Settecento avevano dell'Eden dei Mari del Sud.

L'«inestimabile beneficio» di «un nuovo frutto, una nuova pianta farinacea» era tra i miraggi che, nel 1788, attirarono La Pérouse nel Sud del Pacifico, verso la morte. La stessa prospettiva ispirò il viaggio che si concluse con l'ammutinamento del Bounty. La missione di Bligh era prelevare un pezzo di quel paradiso e trasferirlo nell'inferno di schiavi dei Caraibi. In Giamaica, Bryan Edwards, piantatore e inventore costantemente in cerca di nuovi modi per migliorare l'economia schiavistica, riteneva che il frutto dell'albero del pane potesse dare energia ai lavoranti e trasformare la sua isola in un operoso alveare. Per questo Bligh fu mandato a Tahiti nel 1787 e si gettò nell'impresa con la sua diabolica energia, la sua ferrea determinazione. Il grosso dell'equipaggio si ammutinò. Il capitano e i pochi fedeli sopravvissuti furono lasciati alla deriva in mezzo all'oceano e si salvarono, dopo un periodo di orribili privazioni, solo grazie all'incredibile abilità di navigatore di Bligh. Nel frattempo, alcuni degli ammutinati vivevano in esilio volontario con le loro donne tahitiane su un'isola che le carte di navigazione riportavano con coordinate erronee. Divisi da prevedibili discordie, i più perirono in faide spietate. Altri furono perseguiti e messi a morte dalla marina britannica. Dopo sei anni di sangue e penosi sforzi, Bligh portò a termine la sua missione. L'esperimento dell'albero del pane si dimostrò un disastro: il suo frutto, infatti, non è un cibo particolarmente utile, è privo di quasi tutti i nutrienti, a eccezione di calcio e vitamina C, che però viene distrutta dalla cottura; non si conserva e, in più, gli schiavi non volevano mangiarlo.

Ha tuttavia un valore simbolico nella storia del cibo. La saga di Bligh riassume il tremendo sforzo dei navigatori europei, agli albori dell'epoca moderna, di spostare prodotti alimentari in punti diversi del globo, non solo per via commerciale, ma anche trapiantando esemplari. Quello che Al Crosby ha denominato "scambio colombiano" è stata una delle "rivoluzioni" più impressionanti o, per l'esattezza, dei cambiamenti strutturali a lungo termine della storia; è stata anche una delle maggiori alterazioni mai inflitte dall'uomo al resto della natura. Fino al XVI secolo, da che era cominciata la deriva dei continenti, l'evoluzione aveva seguito un corso ampiamente divergente. Sviluppatosi nell'isolamento, il biota di ciascun continente si era andato vieppiù differenziando. Quando i viaggiatori europei giunsero dall'altra parte del mondo e, con le rotte navali, collegarono regioni prima separate, il processo subì un'inversione. I biota furono spostati a nuove latitudini secondo un andamento convergente. Oggi, le discendenti delle pecore merino brucano l'erba dell'emisfero meridionale e ci sono wallaby nei parchi inglesi. La prateria americana, che non aveva mai visto un chicco di frumento fino al XVI secolo, né lo produsse in maniera intensiva fino al XIX, è diventata il granaio del mondo. Il caffè, che ha avuto origine in Etiopia, si trova oggi a Giava, in Giamaica e in Brasile. Texas e California forniscono uno dei risi più apprezzati del pianeta. Cioccolato e arachidi, un tempo esclusiva del Nuovo Mondo, sono tra i prodotti principali dell'Africa occidentale. L'alimento base degli inca è la colonna portante della dieta irlandese.

Naturalmente vi sono sempre state, nella storia, migrazioni di generi commestibili. La diffusione dei grandi alimenti fondamentali agli albori dell'agricoltura — come si è visto nel capitolo precedente — presuppone una trasmissione ecologica e culturale. E l'intervento umano può avere avuto un ruolo in qualche trasmissione accidentale. Nell'antica Roma, si apprezzava sommamente, per il suo sapore, il silfio, un'erba mai efficacemente domesticata. Veniva importata da Cirene, dopo che vi era stata introdotta dalla sua unica terra d'origine, la vicina Libia, presumibilmente per semina spontanea. I nativi, e i buongustai greci per cui la pianta veniva raccolta, si limitavano a piluccarne le estremità, ma i romani mangiavano anche stelo e radici, affettati e conservati sott'aceto. L'impoverimento del terreno dovuto alla coltivazione intensiva condannò il silfio all'estinzione. La sua diffusione dalla Libia è stata l'unica trasmissione documentata di un vegetale commestibile nell'antichità. Altre, tuttavia, si possono legittimamente ipotizzare, compresa quella di piante come la vite, che avanzavano insieme alla frontiera romana, fin dove il clima lo consentiva, mentre i romani si adoperavano laboriosamente a ricreare l'ecologia mediterranea in colonie remote. Macerone, melissa, balsamina, coriandolo, aneto, finocchio, porro, aglio, issopo, maggiorana, menta, senape, cipolla, papavero da oppio, prezzemolo, rosmarino, ruta, salvia, santoreggia e timo sono – si dice – tutti «candidati favoriti» all'introduzione romana in territorio britannico. Nessuna di queste trasmissioni, però, né alcuna delle successive, all'interno del Vecchio Mondo o del Nuovo, può essere paragonata per importanza storica mondiale agli scambi che hanno avuto inizio con le spedizioni di Colombo, o più o meno contemporaneamente a esse. Ciò è dovuto in parte al fatto che questi si sono verificati a distanze e in proporzioni senza precedenti, in parte al peso che l'azione umana ha avuto nel facilitarli e promuoverli. Benché il dibattito sia ancora aperto circa l'esatta cronologia e i mezzi di propagazione di molte delle piante in questione – la patata dolce, per esempio, potrebbe avere attraversato il Pacifico su legni trasportati dalla corrente, senza aiuto da parte dell'uomo – resta indubbio che il grande scambio di biota transoceanico degli ultimi cinquecento anni ha costituito il più grande intervento umano nella storia ambientale dagli inizi della domesticazione delle specie.

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Abbondanza e privazione

Da un certo punto di vista, la "rivoluzione nutrizionale" che ha accompagnato l'industrializzazione alimentare in Occidente sembra una faccenda piuttosto futile: questione di moda o di cambiamenti del gusto. Alcune tendenze, tuttavia, sono rimaste in auge per periodi considerevoli. Recentemente, il rifiuto delle carni rosse nelle economie sviluppate ha attirato notevole attenzione e ha destato, nell'industria interessata, grave preoccupazione, quasi fosse un fenomeno nuovo. In realtà si tratta, invece, di un trend storico. Il consumo americano pro capite di manzo crollò dalla media annua di 32 chili e mezzo del 1899 ai 25 del 1930. Θ il genere di cambiamento che è più facile documentare che spiegare. La diversificazione del gusto è parzialmente responsabile, ma anche l'industrializzazione, che ha reso disponibile un apporto proteico più economico ed efficiente tramite pollicoltura e piscicoltura su vasta scala e, più in generale, si è concentrata su modalità efficienti di conversione energetica, il che implica un pregiudizio a favore delle fonti di cibo vegetali.

Possono essere coinvolti anche i mutamenti sociali sulla scia dell'industrializzazione. Nel mondo sviluppato, non c'è stata tendenza più marcata, in seno alla rivoluzione nutrizionale, della parificazione della dieta tra le regioni e le classi. Il consumo giornaliero di carne, nella Parigi di metà Ottocento, era doppio di quello di Caen, Le Mans, Nantes e Tolone e più elevato del 20-40 per cento rispetto a quello di una serie di altre città, tra cui Marsiglia, Tolosa, Reims, Digione, Strasburgo e Nancy. Oggi, queste differenze sono scomparse. L'imborghesimento degli acquisti – l'inarrestabile marcia verso l'alto dei negozi alimentari destinati al mercato di massa – è stata tra le caratteristiche più evidenti a una banale osservazione sociale delle ultime due generazioni. Tra le due indagini sulla vita dei poveri nella sua York, che Benjamin Seebohm Rowntree, discendente di un'altra famiglia di quaccheri cioccolatieri, condusse nel 1899 e poi nel 1935, la working class aveva colmato in misura sorprendente il gap nutrizionale che in passato la separava dai suoi datori di lavoro. Egli definiva sottoalimentata gran parte delle famiglie coinvolte nello studio, ma ciò solo perché i suoi standard erano elevati in modo irrealistico: chiamava adeguato un nutrimento il cui apporto calorico era ben al di sopra della media per tutte le classi sociali. Inoltre, la sua ricerca fu pregiudicata dall'"ordine del giorno" che condivideva con la maggioranza degli scienziati sociali dell'epoca: egli si proponeva, infatti, di dimostrare che persino famiglie con un reddito relativamente alto avevano bisogno di un'educazione nutrizionale per cambiare le abitudini negli acquisti. Nondimeno, dai suoi risultati emerge un dato notevole: se i soggetti della sua prima indagine avevano un'alimentazione monotona e un apporto minimo di proteine animali con frequenza regolare, il menu raccolto negli anni trenta mostrava che persino le famiglie più povere riuscivano a raggiungere una certa varietà, includendo roast beef una volta la settimana, pesce una volta la settimana e un'altra fonte fresca di proteine animali, come fegato o coniglio o salsicce, almeno due volte la settimana.

Rowntree, tuttavia, trovò anche l'autentica malnutrizione tra i disoccupati di York e coloro che svolgevano le mansioni più umili: la condizione più bassa, tra i capifamiglia impiegati, era rappresentata da un pulitore di vagoni che guadagnava appena di che sfamare i suoi cari con un'alimentazione minima sufficiente. Triste ironia dell'imborghesimento, in anni recenti, esso è stato causa di un inasprirsi del disagio per quanti ne sono rimasti esclusi. Per qualche tempo, sulla scia di studi come quello di Rowntree, esperimenti di welfare social-democratico restrinsero il divario sociale e di benessere. In gran parte del mondo sviluppato, però, questo ha ripreso ad aumentare negli anni ottanta del XX secolo, mentre i governi adottavano principi aggressivi di libero mercato per spingere la crescita economica. "Stare al passo con i Jones" – ovvero mantenere una dieta middle class con uno stipendio da sottoproletario – è divenuto sempre più difficile. Se si hanno una dispensa decente, una batteria di fornelli e pentole per cucinare, il modo di mangiar bene spendendo poco resta essenzialmente quello di sempre: comprare verdure di stagione e abbondare con patate, aglio e cipolle, legumi e cereali macinati da cuocere; il resto, concederselo come "di più". Analizzando il Piano alimentare di risparmio del governo americano, che mira a permettere a famiglie assistite dallo Stato di nutrirsi adeguatamente con un budget giornaliero di 3,53 dollari a persona, Jeffrey Steingarten ha scoperto quattro verità degne di nota. Innanzitutto, le famiglie disagiate spendono solo leggermente meno della famiglia media americana per il cibo cucinato in casa, dunque la fascia meno abbiente mantiene un contatto con gli standard medi. In secondo luogo, il piano governativo mira a «scostarsi il meno possibile dai modelli alimentari attuali delle famiglie americane»; in altre parole, ci si aspetta che anche i più poveri imitino le consuetudini alimentari dei medio-borghesi. Di conseguenza i pasti consigliati sono scarsi e di qualità scadente, mentre un nuovo approccio, privo di pregiudizi convenzionali, produrrebbe menu migliori, più sani e abbondanti, oltre che più originali. In terzo luogo, il piano ha un certo sentore ideologico. I menu, scrive Steingarten, «privilegiano il genere di piatti pseudoetnici piuttosto insapori che i dietologi americani tanto amano e io, personalmente, aborro. Il pepe verde è riuscito a insinuarsi ovunque». L'autore scorge inoltre un presupposto razzista nell'uso prolifico del cosiddetto cavolo "senza testa": gli estensori del piano hanno dato chiaramente per scontato che la maggior parte dei fruitori del sussidio statale sia costituita da afroamericani. Infine, i menu sono guastati da un nutrizionismo dogmatico.

Le ricette esibivano un catalogo completo delle moderne superstizioni nutrizionali: sale, olio cotto e talvolta zucchero venivano ridotti a quantità ridicolmente esigue; il tacchino era privato, con notevole spreco, della sua parte più gustosa: la pelle; il burro veniva interamente eliminato (benché gli acidi grassi trans contenuti nella margarina siano pericolosi quasi quanto i grassi saturi); il latte, poi, era sempre nella versione magra in polvere, con cui si otteneva un pudding grigio e acquoso.

Un aspetto positivo era l'eliminazione di tutti i cibi precotti o semipronti. Resta il fatto che neppure i più poveri, nell'Occidente privilegiato, sembrano sfuggire all'imborghesimento.

Concedendo le differenze di classe e reddito che permangono tuttora, il grande cambiamento nella nutrizione occidentale è stato un incessante aumento complessivo della quantità media di cibo assunta dagli individui nel mondo sviluppato. Il consumo medio era probabilmente inferiore alle 2000 calorie verso la fine del XVIII secolo: oggi è ben al di sopra delle 3000. Dopo le eccezionali privazioni della Seconda guerra mondiale, il sottoproletariato industriale e postindustriale d'Occidente è passato dalla sottonutrizione all'ipernutrizione. Negli Stati Uniti e in alcune zone dell'Europa nord-occidentale, l'obesità è oggi un problema sociale maggiore della malnutrizione. L'eccesso ponderale è prova prima facie di privazione sociale. Come ebbe a dire Arthur Odell, specialista in product development della Generai Mills, nel 1978, «la nutrizione non si vende. Diavolo, tutti vogliono Coca-Cola e patatine fritte!». Il lato inquietante dell'ipernutrizione occidentale è stato reso nel modo più efficace al cinema dalla Grande abbuffata di Marco Ferreri, pellicola grottesca dal fascino ripugnante i cui i personaggi mangiano fino a morire, o dall'insaziabile signor Creosoto dei Monty Python, ucciso da una mentina di troppo a fine pasto. Ma la satira dei cineasti è mal diretta: nella società occidentale, le vittime della sovrabbondanza sono con maggior probabilità classificate tra i poveri. La stessa economicità del cibo è una minaccia mortale per la salute. Al tempo stesso, gran parte del mondo non ha avuto la possibilità di contrarre i mali dell'abbondanza.

Perché la privazione, finora, ne è stata la controparte storica. Un'idea di ciò che potrebbe succedere alle regioni del mondo escluse dai benefici dell'industrializzazione si è avuta con la carestia di patate che colpì l'Irlanda negli anni 1845-49, provocando un milione di morti e inducendo altrettanti irlandesi a varcare l'oceano, ponendo fine alla storia dell'Irlanda come nazione popolosa. L'affidamento – affidamento totale – a un'unica varietà del tubero espose gli irlandesi alla distruzione per effetto di un fungo, la peronospera, che spazzò via gran parte del raccolto. La crisi, poi, fu mal gestita dal governo imperiale, a Londra, ma l'incompetenza nel far fronte alla carestia non è una pecca peculiare dell'Inghilterra, né degli imperi: fenomeni simili devastarono il Belgio e la Finlandia negli anni 1867-68. E pure il mondo, nell'èra dell'industrializzazione, era veramente diviso in ricchi e poveri: mentre le società che si andavano industrializzando risolsero i loro problemi di approvvigionamento alimentare, le altre furono per lo più condannate all'inedia.

Fuori dai confini d'Europa, America settentrionale e qualche altra terra fortunata, gli ultimi tre decenni del XIX secolo sono stati un'epoca di stenti che ha superato tutte le altre per tasso di mortalità e, forse, per ogni altra avversità misurabile. Negli anni di monsoni dal 1876 al 1878, morirono di fame cinque milioni di indiani, secondo la stima ufficiale, sette, sulla base di una più oggettiva. La grande carestia che colpì la Cina fu definita «il disastro più tremendo nella storia delle ventuno dinastie cinesi». Condizioni ugualmente avverse si associarono a una serie di manifestazioni di El Niρo – l'inversione della corrente del Pacifico che periodicamente inonda il Perú e provoca la siccità in gran parte delle altre regioni tropicali – tornato verso la fine degli anni ottanta e nella seconda metà dei novanta. La superficie del lago Ciad si ridusse della metà. I livelli alluvionali del Nilo scesero del 35 per cento. Le stime della mortalità derivante vanno, per esempio, dai 12 ai 30 milioni di persone in India, dai 20 ai 30 milioni in Cina.

Naturalmente, i poveri sono sempre con noi: nessuna società agraria è mai stata immune da periodi di carestia e il clima, dalle forti interconnessioni globali, ha sempre seminato la distruzione in modi sorprendenti e incontrollabili. Ciò nonostante, le calamità del tardo Ottocento hanno rappresentato una nuova caratteristica nella storia alimentare: ora la carestia diventava tecnicamente evitabile grazie all'abbondanza di risorse mondiali e alle comunicazioni globalmente efficienti. E, nondimeno, avvenne, e ha continuato ad avvenire. Alcuni studiosi hanno incolpato il libero scambio, che ha reso «la quotazione del frumento a Liverpool e le precipitazioni a Madras [...] variabili della medesima colossale equazione di sopravvivenza umana». Certamente, l'imperialismo ha sfruttato la carestia e forse ha contribuito alle sue cause. «Gli europei» sentì dire una volta un missionario, «inseguono la carestia come un cielo pieno di avvoltoi». Cetshwayo, sovrano zulu che tentò di combattere l'Impero britannico, pensava che «i capi inglesi» avessero «fatto cessare la pioggia». «I londinesi» è stato affermato, «toglievano il pane di bocca agli indiani.» Se non furono realmente gli artefici della carestia, gli imperialisti quanto meno la gestirono male. Il sentimento umanitario, come il cibo, abbondava nei loro paesi, ma non trovarono il modo di applicare praticamente l'eccedenza di entrambi. Il punto di vista «dal finestrino del treno del viceré» sembrava sempre attenuare la gravità dei problemi, il peso delle responsabilità degli europei e la capacità di fornire soluzioni.

Sotto alcuni aspetti, naturalmente, imperialismo e libero commercio furono anche benefici, o per lo meno ambigui. Il ferro a basso costo di provenienza europea ebbe un impatto enorme sulla disponibilità di cibo dei popoli dell'Africa occidentale, la cui industria siderurgica indigena era antica ma costosa. Prima dell'arrivo delle importazioni dall'Europa, una pala costava quanto una mucca e, in una famiglia, bisognava fare a turno per usarla. Vi sono, tuttavia, due valide argomentazioni che accusano l'imperialismo delle morti in tempo di carestia. In precedenza, gli stati indigeni avevano gestito relativamente bene congiunture di eccezionale gravità legate a El Niρo. Negli anni 1743-44, le riserve di grano, pur al di sotto della norma, del governo Qing erano riuscite a farvi fronte. Nel 1661, sotto gli occhi ammirati degli osservatori inglesi, il monarca moghul Aurangzeb «aprì il suo tesoro» e salvò milioni di vite. Inoltre, i paesi occidentali sembravano capaci di salvare i cittadini dalla fame, quando lo desideravano realmente. Il Midwest americano soffrì non meno di qualunque altra parte del mondo della siccità degli anni 1889-90, ma gli aiuti vennero ben organizzati e le morti furono poche.

La coesistenza di boom alimentare e carestia perdurò anche nel XX secolo, a causa dell'iniqua distribuzione, iperproduzione e ipernutrizione delle aree sviluppate, a fronte della vulnerabilità alle privazioni del resto del mondo. A lungo il problema parve peggiorare. Negli anni sessanta, gli esperti erano tutti convinti che le carestie avrebbero trasformato il pianeta nel giro di un paio di decenni. Tra il 1960 e il 1965, il tasso di produzione alimentare nei paesi poveri era la metà di quello di crescita demografica. Le riserve indiane, intorno al 1965, erano «i campi di grano del Kansas». Nel 1967, gli Stati Uniti inviarono un quinto del loro frumento per nutrire l'India dopo la rovina dei raccolti dovuta ai monsoni. Anche, però, nei casi in cui si riuscirono a organizzare efficientemente i soccorsi — cosa rara, in genere, tra guerra, corruzione e rivalitità ideologiche — questi non costituivano una soluzione a lungo termine. L'insidia della carestia si poteva spezzare solo con una rivoluzione agronomica.


L'ultima fase della rivoluzione neolitica

«Se vi è stata una rivoluzione neolitica» ha scritto Fernand Braudel, «sta continuando ancora oggi.» In effetti, i cambiamenti introdotti agli albori dell'agricoltura — specializzazione, domesticazione, allevamento selettivo, moltiplicazione dei cultigen — sono perdurati fino ai giorni nostri. Denominare la fase più recente "Rivoluzione verde" fa pensare a un approccio rispettoso dell'ambiente: in realtà dovrebbe essere chiamata "Rivoluzione chimico-agricola" perché si fonda su massicce campagne di fertilizzazione e programmi volti all'impiego di pesticidi, oppure "Rivoluzione agro-industriale", perché è stata sostenuta da enormi nuove industrie produttrici di agrochimici e macchinari agricoli.

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[...] La Rivoluzione verde continua a tutt'oggi, ma a lungo andare sembra insostenibile.

Θ pericoloso per il mondo affidarsi ai semi da essa prodotti, non solo per gli effetti incalcolabili del massiccio ricorso ai pesticidi, ma anche per il rischio derivante da parassiti e malattie in rapida evoluzione. Il passo successivo, caldeggiato da più parti, è il passaggio agli alimenti geneticamente modificati. In realtà, non c'è ragione per supporre che questi saranno men che nutrienti, efficienti e salutari, ma di certo hanno quasi le stesse probabilità delle colture della Rivoluzione verde di dare luogo a effetti imprevisti. Tra quelli prevedibili c'è l'ibridazione accidentale di specie non geneticamente modificate, con conseguenti estinzioni e la creazione di nuove econicchie in cui potrebbero formarsi biota potenzialmente distruttivi. Θ sempre difficile rintracciare con precisione le cause di simili eventi nocivi casuali. Le nostre escursioni nel mondo della manipolazione genetica avverranno su una porzione minuscola di materiale: per lo più sulla nostra specie e su quelle che abbiamo già domesticato, dunque i grandi battaglioni della natura saranno ancora le specie che sfuggono al nostro controllo. L'evoluzione continuerà a surclassare le nostre rivoluzioni in quanto forza di cambiamento. Quella dei microbi, per esempio, rimpiazzerà la maggior parte delle malattie che avremo eliminato. E le modifiche apportate alle specie di cui ci nutriamo saranno come tutti i nostri interventi precedenti sull'ambiente: un mix di soluzione a un problema e creazione di un altro. Non è ancora chiaro se abbiamo davvero i mezzi per sfuggire ai problemi alimentari del mondo o, invece, soltanto i mezzi per moltiplicare la crisi.

A lungo andare, la popolazione mondiale si stabilizzerà e forse declinerà. L'allarmismo demografico si fonda su letture a brevissimo termine delle statistiche. Per predire il futuro remoto si deve dare una buona occhiata al passato. L'accelerazione demografica, ogniqualvolta si è verificata, ha sempre raggiunto un plateau o una svolta. Le sue inversioni non dipendono in genere da "controlli malthusiani", benché a volte questi si siano dimostrati efficaci: gran parte delle società regola l'aumento di popolazione modificando le abitudini matrimoniali e sfruttando una porzione maggiore o minore d'età feconda delle donne per la riproduzione, secondo le circostanze. La prosperità è il freno più efficace del mondo, poiché, nella lunga durata, vi è un collegamento piuttosto diretto tra povertà e prolificità. Per quel che valgono, alcune tendenze a breve termine sono coerenti con questa analisi. Paesi tra i più ricchi del mondo hanno già tassi di natalità così bassi che il numero di abitanti sta crollando o ha buone probabilità di crollare, e l'effetto della ricchezza crescente in aree con tassi di natalità storicamente elevati, in Asia e America meridionale, mostra trend che vanno nella stessa direzione. Possiamo guardare con un certo ottimismo a un futuro in cui sarà possibile nutrire la popolazione del mondo con l'agricoltura tradizionale. Nel frattempo, i benefici della Rivoluzione verde e dell'ingegneria genetica non saranno privi d'utilità. A un certo punto, tuttavia, perderanno consenso, e si dovrà tornare indietro. Sarebbe prudente, intanto, non farvi completamente affidamento, e adottare piuttosto ulteriori innovazioni radicali, solo con estrema cautela. Nel futuro prevedibile non si profila una scarsità di cibo a livello globale, né alcun pericolo di carestia, se sapremo gestire correttamente la distribuzione. Non vi è dunque ragione di farci indurre da un panico immotivato a correre dei rischi.

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Oggi, Burger King è riuscito a insidiare lo strapotere di McDonald's promettendo e preparando un «pasto completo in quindici secondi»: va detto, a onor del vero, che nel 2000, ha lanciato una nuova campagna pubblicitaria con lo slogan: «Semplicemente, è più buono» (sottinteso, «della concorrenza»). Francamente, non è qualcosa che sia desideroso di verificare. Né mi è di particolare conforto l'avvento della cucina fusion, ampiamente considerata una prova dell'originalità e del gusto dell'esotico che animerebbero l'odierno mercato alimentare. Al contrario, questo nuovo stile culinario mi sembra aridamente rappresentativo delle tendenze dei nostri tempi. Il fusion è Lego gastronomico. La rivoluzione occorsa nella disponibilità di alimenti ha reso possibile mescolare e abbinare elementi che approdano – spesso in forma elaborata – in cucine simili a piattaforme di montaggio. Viene spontaneo il parallelo con le "fabbriche" di automobili o di apparecchiature elettroniche, dove nulla è veramente creato, ma si assemblano semplicemente dei pezzi, provenienti da qualunque luogo al mondo in cui possano essere prodotti a minor costo. Oggi più che mai, una maggiore varietà è accessibile a un numero più elevato di persone, ma queste sembrano disposte a rinunciare al privilegio in favore di prodotti standard e a buon mercato.

Per quanti ritengono che l'avvento della cottura sia stato il fondamento della civiltà, l'ultimo nemico, si diceva nel primo capitolo (vedi pp. 28-30), è il microonde. Negli anni sessanta, i ristoranti Tad's servivano cene complete congelate, avvolte in pellicola, che i clienti potevano scaldare negli appositi forni a lato del tavolo: quel genere di trovata, fortunatamente, non ha avuto seguito, forse perché il microonde è più adatto al mangiatore solitario. La comunione del pranzare insieme è spezzata facilmente da un elettrodomestico che libera i membri della famiglia dall'obbligo di attendere l'orario del pasto. Alleandosi con i piatti prét-à-porter, esso rende possibile la morte del cucinare e del mangiare in quanto atti sociali. La prima grande rivoluzione della storia del cibo sta rischiando la distruzione: la forza di aggregazione del falò, della pentola e della tavola comune, che ha contribuito a unire gli esseri umani in un'esistenza di collaborazione per almeno centocinquantamila anni, potrebbe andare in pezzi.

Eppure, malgrado tutti i segni infausti che hanno accompagnato l'èra industriale della storia d'Occidente, ci sono buone ragioni per essere ottimisti circa il futuro dell'alimentazione. L'èra industriale è finita, o agli sgoccioli. Insieme, le innovazioni nell'ambito di produzione, lavorazione e fornitura hanno favorito l'affermarsi graduale di un mercato globalizzato, dominato da gigantesche società e multinazionali. Si è trattato di un fenomeno nuovo nella storia del cibo, ma, finora, non di un fenomeno che dia segni di poter fagocitare totalmente il mondo alimentare: questa rimane una fantasia dei più grossi capitalisti e dei più accaniti anticapitalisti. Θ già in atto una reazione artigianale. Un'improvvisa ribellione alle pressioni che impongono i prodotti di un gusto standardizzato ha favorito il revival delle cucine tradizionali. Persino McDonald's e Coca-Cola riadeguano le loro proposte regionali e i loro pregiudizi culturali, modificando le ricette, ritoccando la presentazione. L'identità si va riaffermando come importante criterio di scelta dei consumatori. Gli alimenti appartengono, infatti, a quella categoria commerciale che gli esperti di marketing definiscono dei "prodotti cravatta": ostentano, cioè, come i colori di un club, le tinte della percezione di sé del mangiante, della sua comunità o classe di appartenenza, del suo paese di provenienza. Nei mercati più prosperi, l'attenzione si sta spostando dall'economicità a qualità, rarità e preparazione artigianale dei beni. Come abbiamo visto, le industrie si sono arricchite abbassando i prezzi, in un'epoca di esuberanza demografica, ma, nell'Occidente sviluppato, quell'epoca è finita e, via via che le aree attualmente in corso d'industrializzazione guadagneranno terreno, saranno a loro volta caratterizzate dallo stesso spostamento. L'immagine di un mondo che si nutre con tubetti di dentifricio e buste di alimenti in polvere sarà un'altra delle fantasie dei modernisti smentite dalla storia: le utopie socialiste, le cybercrazie, la società a energia nucleare, le città alla Le Corbusier, il mondo dei Pronipoti. L'avvenire sarà molto più simile al passato di quanto abbiano predetto i luminari della futurologia. Le priorità del fast food sembrano già superate, come il futurismo o il vorticismo: appartengono a un'età ormai tramontata, che si esaltava per la novità della velocità. L'hamburger in quindici secondi raggiungerà quello da quindici centesimi nello sgabuzzino della storia. I palati americani, che nel nome dell'efficienza sono stati disposti a ingoiare chili di spazzatura, hanno ampiamente rifiutato il caffè istantaneo. Questo atteggiamento un poco più esigente può essere un segno per il futuro, quanto una reliquia del passato.

Malgrado le conquiste dei prodotti standard, il cibo resta un'arte e parte della cultura alimentare contemporanea, nel mondo sviluppato, condivide caratteri associati al postmodernismo in altre arti. L'internazionalizzazione del palato e l'avvento della cucina fusion riflettono il multiculturalismo. Il "non mangiare" — forme comportamentali del crepuscolo della tavola come la dieta all'ultima moda o l'anoressia "in" — sono per il cibo ciò che, direi, il silenzio di John Cage è per la musica o il Blair Witch Project è per il cinema. La bulimia è un mangiare ironico, in cui confluiscono eccesso e ossessione: chi ne soffre si abbuffa in silenzio, poi si provoca il vomito. Il barattolo della Campbell's soup è diventato un'icona postmodernista. Qui l'ironia è duplice, perché il cibo in scatola sembra non esser più la punta di diamante dei colossi alimentari: ha perso ogni parvenza di minaccia meccanicistica che poteva forse avere un tempo rispetto agli alimenti freschi. Piuttosto, è entrato a far parte del confortante repertorio "di una volta" della cucina casalinga, e sfida le alternative surgelate, irradiate o a infusione istantanea. Tra l'altro, è esattamente così che la Campbell pubblicizza i suoi prodotti. Il culto attualmente in voga del crudo non è un ritorno alla barbarie, ma una ribellione alla lavorazione, un rifiuto dell'idea industriale di "freschezza".

Il palato esigente postmoderno è una sana reazione all'avidità e all'arroganza ecologica. Nell'Occidente ipernutrito, mangiar bene è mangiar meno. Lo sfruttamento razionale della natura deve porre fine alle depredazioni: abbiamo trasformato troppa parte del pianeta in troppo cibo, sprecando le risorse e minacciando l'esistenza delle specie. Pignoleria e "foodismo" sono tecniche di autodifesa della società contro gli effetti deleteri dell'èra industriale: l'invasione di articoli a basso prezzo, il degrado dell'ambiente, la distruzione del gusto. Il movimento dell'agricoltura biologica, che ripudia allevamento in batteria, fertilizzanti chimici e pesticidi, sta avendo un effetto sorprendente sul mercato, se si considera che i suoi prodotti, dal punto di vista del consumatore, sono distinti principalmente da un costo più elevato. Il principe di Galles, uno dei portavoce più eloquenti e dei rappresentanti più esemplari di questa tendenza, si sente indotto a un atteggiamento difensivo dal disprezzo dei coltivatori convenzionali per gli «eccentrici fautori di letame e formule magiche», i «benintenzionati [...] uccelli del malaugurio [...] che vagheggiano un passato arcadico preindustriale», ma gli eccessi dell'industrialismo devono subire un'inversione. Ragione e istinto si vanno coalizzando irresistibilmente allo scopo. Il compito della prossima rivoluzione nella storia del cibo sarà sovvertire l'ultima.

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