Copertina
Autore Giangiacomo Gandolfi
CoautoreGalilei, Bradbury, Ceronetti, Stifter, Theuriet, Del Giudice, Calvino, Cortázar, Levi, Buzzati, Munro, Asimov, Rigoni Stern, Daudet, Pirandello, Schiaparelli, al.
Titolo Piccolo atlante celeste
SottotitoloRacconti di astronomia
EdizioneEinaudi, Torino, 2009, Supercoralli , pag. 368, cop.ril.sov., dim. 14x22,2x2,7 cm , Isbn 978-88-06-20071-8
CuratoreGiangiacomo Gandolfi, Stefano Sandrelli
LettoreCorrado Leonardo, 2009
Classe astronomia , fantascienza , classici italiani , narrativa italiana
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Indice


  V Introduzione. Dal pozzo alla Luna
    di Giangiacomo Gandolfi e Stefano Sandrelli

  3 Lettera di Galileo Galilei ad Antonio de' Medici

    Piccolo atlante celeste

 11 Le auree mele del sole di Ray Bradbury
 21 I giorni della Luna e il mistero della grande peste
    di Guido Ceronetti
 35 L'eclissi di Sole dell'8 luglio 1842 di Adalbert Stifter
 47 Stelle cadenti di André Theuriet
 55 Come cometa di Daniele Del Giudice
 63 L'occhio e i pianeti di Italo Calvino
 69 I pulitori di stelle di Julio Cortázar
 75 Una stella tranquilla di Primo Levi

    Sentimento del cielo

 83 Di notte in notte di Dino Buzzati
 87 Le lune di Giove di Alice Munro
109 Notturno di Isaac Asimov
157 Riaccendiamo le luci del cielo di Mario Rigoni Stern
161 Le stelle. Racconto d'un pastore provenzale
    di Alphonse Daudet
167 Ciàula scopre la Luna di Luigi Pirandello

    Astronomi

177 La vita sul pianeta Marte di Giovanni V. Schiaparelli
197 Il mondo dei ciechi di Edward Bellamy
219 Viaggio tra gli astronomi del Cervino di Giuseppe Pontiggia
229 Il Copernico: dialogo di Giacomo Leopardi
241 A spasso sugli anelli di Saturno di Paul Collins
259 L'astronomo deluso di Giovanni Papini
263 All'osservatorio di Avu di Herbert G. Wells

    Cosmologie

275 L'espansione accelerata dell'universo di John Updike
293 No comet di Ray Vukcevich
299 Alfred Testa. La nuova cosmogonia di Stanislaw Lem
333 Quando lo spirito di Raymond Queneau
341 Immagine riflessa di un giovane in equilibrio di Peter Hoeg

355 Nota biobibliografica


 

 

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Pagina V

Introduzione

Dal pozzo alla Luna


Osservare le stelle con il naso all'insú ha i suoi rischi: non si vede dove si mettono i piedi. E in effetti la lista dei pensatori distratti, dei filosofi, dei cosmologi, degli astronomi caduti in un pozzo - o piú semplicemente inciampati - è lunga e lastricata di nomi illustri, come una Hollywood Walk of Fame, la passeggiata delle stelle di Hollywood.

Il primo cosmologo a cadere fu Talete, cosí ci raccontano Platone nel suo Teeteto e Diogene Laerzio qualche secolo piú tardi. Il filosofo di Mileto inaugura una lunga teoria di capitomboli letterari di sventurati studiosi di stelle: nel Novellino, a cadere è uno 'strologo di dubbia saggezza; in una celebre fiaba in versi di La Fontaine cade chi pretende di leggere il destino tra i pianeti; in un film del magico Méliès è la volta di un astronomo che si sporge troppo dalla torre, l'occhio incollato al telescopio. Forse anche Newton, che non cade ma beneficia fortunosamente degli effetti di una caduta altrui - incidentalmente quella di una mela - potrebbe con buona volontà rientrare nell'elenco.


Guardare il cielo, insomma, è decisamente pericoloso. Specialmente se non si cade. Eh sí, cadere può condurre a scoperte imprevedibili. Significa dover fare i conti con le bollette da pagare, con la fame da soddisfare, con un corpo che pretende le giuste cure. Significa ristabilire un contatto con una realtà meno astratta ed elevata, piú facile da schematizzare. Scomoda ma con il privilegio della prevedibilità.

Pensiamo invece a uno che non cade. Ciàula di Pirandello, per esempio. Ciàula non cade mai: lui nel pozzo ci scivola al mattino e ci vive tutto il giorno. La sua vita è lí, vorremmo poter dire fra quattro mura, ma in realtà in un cunicolo buio, dentro la terra: una casa e una vita, quella di Ciàula, che non conoscono neppure il sospetto del cielo stellato. Sí, il cielo lo ha visto pure lui, ma mai veramente. Lo ha visto infatti come un'immagine che scorre senza fermarsi, non si è mai fermato a contemplarlo. Bene: quando esce dal pozzo e scopre la Luna - meravigliosa, sublime - il minatore siciliano la guarda per la prima volta. Ecco perché si inginocchia e si mette a piangere: perché vede in quel corpo bianco e luminoso, meraviglioso, come ripeterà Galileo in tanti suoi scritti, un mondo che non aveva mai potuto neppure considerare.

È pericoloso guardare le stelle: se non cadi c'è il rischio che tu senta davvero un mondo diverso da questo. E che questo mondo non ti basti piú.


Attraverso questa antologia di racconti, splendidamente disomogenei, ricchi di spunti, temi e suggestioni - talvolta anche contrastanti - emerge in effetti un filo conduttore preminente: la presenza della volta celeste come protagonista di una storia che ci racchiude e che spesso dimentichiamo. Lo scenario naturale piú antico si fa qui narrazione, ci spinge a stringerci intorno a un fuoco atavico e metaforico e a osservare, raccontare, disegnare sulla misteriosa cupola stellata che ci avvolge.


Apre, non a caso, la parola mirabilmente levigata di Galileo Galilei , un miracolo di precisione e profondità che guarda al cielo attraverso la canna di un telescopio descrivendolo in volgare italiano, pochi mesi prima della pubblicazione - in latino - del Sidereus Nuncius (marzo 1610). A pensarci, la stessa canna del telescopio ricorda la canna di un pozzo. Come se gli occhi di Galileo fossero stati in grado di trasformare il pozzo in uno strumento che avvicina il cielo. Cosí Galileo, libero finalmente dalla metafisica medioevale, si innalza fuori dal pozzo e vede la Luna, una Luna che non è la medesima pensata dai suoi colleghi, ma fatta della stessa sostanza della Terra: monti, valli, polvere, irregolarità, nascita e morte.

E questo è l'altro grande pericolo del guardare le stelle: la nascita e la morte. Ovvero il rendersi conto della nostra fragilità. È chiaro che se scopri le stelle, poi non sei piú lo stesso.

È Galileo, con il suo metodo non ancora del tutto scientifico, con la sua lingua non del tutto italiana, che solleva il sipario e ci spinge all'ascensione. Galileo conferma - nella lettera in volgare ad Antonio de' Medici, in cui racconta ciò che di inaudito (e mai visto prima) ha scoperto nel cielo - di essere un maestro assoluto della narrazione, come osserverà prima Leopardi nello Zibaldone, e puntualizzerà poi Calvino, eleggendo il pisano il «piú grande scrittore in prosa» della letteratura italiana. E Galileo, in effetti, è il cardine di una tradizione lunare forse ancora troppo poco celebrata che parte da Dante e prosegue con Ariosto, Bruno, Leopardi per giungere a Calvino stesso, a Primo Levi. L'equilibrio tra rigore della scienza e arte del racconto in Galileo rasenta la perfezione e dimostra che scienza e letteratura (l'arte in generale, se consideriamo gli straordinari disegni con i quali gli astronomi illustravano i loro volumi) si sono compenetrate fin dalla loro origine senza alcuna forzatura, in modo completamente naturale e straordinariamente fecondo.

Bastano queste semplici osservazioni per mostrare come la scissione fra cultura umanista e cultura scientifica, cosí lucidamente identificata da Charles P. Snow nel celebre saggio Le due culture e la rivoluzione scientifica a metà del Novecento, non sia altro che una degenerazione culturale e sociale, figlia di quel secolo.

Quando il moderno umanista si rende conto che la teoria della relatività e la fisica dei quanti hanno riscritto le categorie fondamentali dello spazio e del tempo, strappandole al terreno del filosofo e del letterato, sceglie la via piú breve per togliersi dall'imbarazzo: allontanare da sé quel che non capisce, squalificando la scienza, i suoi risultati, le sue riflessioni, le sue immense potenzialità politiche e sociali. Ma cosí facendo sceglie anche di non utilizzare i risultati e il metodo della scienza per il progresso del Paese. Questione niente affatto accademica, come si vede, ma definitivamente politica, di grande e dolorosa attualità.


Dopo Galileo, l'ascesa dal pozzo alla Luna è veloce. Con progressione incalzante proviamo a tracciare una rotta tra le luci del cielo, un piccolo atlante per orientarci negli abissi dello spazio, in bilico tra finta scienza, vera scienza, delicate emozioni, artificio poetico, conquista tecnologica e invettiva luddista. All'utopismo tutto americano di Ray Bradbury , al suo trattenuto, insolitamente sobrio spirito della frontiera, si contrappone l'invettiva di Guido Ceronetti a difesa degli astri profanati, spogliati del loro logos, della loro dimensione mitica. E cosí via oscillando: riflessi umani nelle scie celesti delle stelle cadenti nel racconto di André Theuriet; l'estasi mistico-scientifica di fronte al piú potente degli spettacoli naturali, il ratto del Sole dal cielo evocato da Adalbert Stifter (niente catastrofismo, per carità: è solo un eclissi e dura pochi minuti); la vaporosa, sfuggente comparsa di una chioma cometaria nel campo dell'oculare di Del Giudice ; la buffa galleria di tipi planetari del Palomar calviniano. E siamo già alle stelle. Per scoprire che lucidarle (ce lo insegna Julio Cortàzar ) farebbe piazza pulita del paradosso di Olbers, che luce assoluta e buio assoluto si equivarrebbero cancellando ogni asimmetria, ogni bellezza. E che anch'esse vivono e muoiono, benché la nostra esistenza sia come un soffio a confronto dei loro cicli maestosi e immaginabili a fatica. È Primo Levi a ricordarcelo, con il suo fraseggio semplice ed elegante, con il suo linguaggio poetico e preciso.


Ora che lo scenario è dispiegato, è naturale inserirvi l'uomo e il suo afflato per le cose celesti. Occorre esplorare quello che, parafrasando Ungaretti, si può ben definire il «sentimento del cielo»: uno stato d'animo, un'attitudine, un'atmosfera che trova la sua dimensione nel silenzio della notte, nel contrasto tra il buio tessuto del firmamento e gli squarci luminosi dei corpi celesti.

Il pastorello di Alphonse Daudet domina con sicurezza un firmamento tranquillo, bucolico, tradizionalista nella sua semplicità rurale, ma anche capace di far crollare barriere sociali, di sedare ritrosie e inquietudini sensuali. Tramontato il vecchio cielo contadino, ecco emergere la dimensione della nostalgia: nostalgia dell'infanzia, dei vecchi tempi, dell'eternità immutabile cui quel panorama sembra alludere, trascendendo la morte personale. Una vena quasi consolatoria mirabilmente espressa da un Buzzati giovanile che si protende nel futuro, «di notte in notte», mentre il firmamento montano di Rigoni Stern è piú un ripiegamento indietro, lamento per il passato perduto, denuncia ecologica di accorato tono elegiaco.

Ma cosa accadrebbe se questo cielo ammirato, agognato, dimenticato, quasi estinto, rappresentasse una novità assoluta? Quale sentimento dominerebbe se, come immaginava lo scrittore e filosofo Ralph Waldo Emerson, «le stelle apparissero una sola notte ogni mille anni»? La fantascienza di Isaac Asimov offre in questo caso la risposta, ed è una risposta cupa, nella quale la civiltà descritta nel racconto piomba nelle tenebre, e vi trascina anche la potenza della ragione. La rivelazione del firmamento assume le forme di un parossismo mistico, di un delirio di trascendenza capace di infrangere le stesse strutture sociali sotto l'urto apocalittico della visione di centomila soli notturni. A poco valgono le previsioni, gli sforzi razionalizzanti degli scienziati: il cielo non è solo catalogo, calcolo, misura, ma anche appiglio ancestrale, eterno riferimento ciclico. Vederlo mutare di colpo, integralmente, significa rischiare la ragione.


Col che si ritorna agli astronomi, non quelli che cadono nel pozzo, ma quelli che mantengono ben saldo lo sguardo in alto, quelli che calcolano orbite, esplorano pianeti, indagano comete, cambiano il corso della storia oppure, non di rado, ne vengono sopraffatti, ridicolizzati.

In una recente, concisa analisi socio-letteraria, Michael J. West, ricercatore dell'European Southern Observatory, identifica tre archetipi essenziali per lo studioso del cielo dipinto dalla narrativa e dalla cronaca: c'è lo scienziato riverito, quello disprezzato e ingiuriato, e quello irriso. Alla prima categoria appartiene certamente il Copernico leopardiano, con la sua visione alta e profetica, la sua dimensione di innovatore, di rivoluzionario malgré lui. Alla terza il tragicomico Thomas Dick di Paul Collins, sorta di creazionista planetario anzitempo, un teologo naturale, un biblista prestato all'astronomia e ossessionato da allucinazioni telescopiche di ogni genere. Quanto alla seconda categoria - lo scienziato ingiuriato - pare assai poco popolata e non è facile trovarne esempi letterari: nel nostro viaggio dal pozzo al cosmo ci imbattiamo in ricercatori diligenti, minacciati dal grande mistero là fuori (quelli dell'osservatorio tropicale di Avu), in accaniti osservatori di Marte, capaci di volare fin lassú e testimoniare di una società perfetta (ancora l'astronomo profeta) o in grigi burocrati, quelli di Giuseppe Pontiggia , che indagano per inerzia, avendo ormai perso quasi completamente la scintilla della passione conoscitiva e il balsamo della contemplazione estetica. Di deprecati vilains, di soggetti pericolosi per la società e meritevoli di aperto biasimo, neanche l'ombra. Nella peggiore delle ipotesi i detective del firmamento possono sbagliare, anche grandiosamente, ma non se ne perde il rispetto, non si smarrisce il senso quasi sacrale della loro missione solitaria e disinteressata. Discorso a parte merita un altro astronomo-scrittore, seguace di Galileo nel riprodurre con la parola scritta i chiaroscuri del cielo: Giovanni Virginio Schiaparelli vola qui alto sulle ali potenti dell'ippogrifo e compie il miracolo. «Semel in anno licet insanire», chiosa preventivamente nel suo scritto divulgativo su Marte, consapevole dell'azzardo. Eppure non arretra, avanza in territori ambigui, pericolosi, e straordinariamente promettenti. Cosí, dove dovrebbe regnare l'irrisione, il compatimento per l'ennesima illusione di una scienza superata dai fatti (i proverbiali canali fantasma del pianeta rosso), germoglia invece l'ammirazione per la fantasia creatrice, l'entusiasmo per una scienza che allude a fratellanze cosmiche, a una nuova spiritualità interplanetaria. Al tramonto dell'Ottocento la febbre della vita extraterrestre attraversa la società, si riversa nei giornali, invade la comunità scientifica con lunghi brividi sognanti, produce romantici best seller come quelli di Camille Flammarion. Da spunto ideale per la narrativa utopica (esemplare il caso di Edward Bellamy e del suo «mondo di ciechi») diviene spinta propulsiva alla ricerca, orizzonte prediletto di pubblico ed astronomi. Là dove Thomas Dick si arrestava sconfitto e cancellato dalla memoria, Schiaparelli trasfigura insomma l'errore e sale nell'empireo della bruciante visione letteraria, capace di incidere sull'immaginario comune oltre che sulla storia. Quale migliore sintesi di scienza e narrativa?


Ma la letteratura compie nei confronti del firmamento il suo volo forse piú ambizioso quando tenta la carta della cosmogonia, della descrizione e narrazione dell'intero universo conosciuto. Le strade possibili sono molteplici, e tutte da far tremare i polsi. Il tono può essere ponderoso, visionario e realistico come nell' Eureka di Edgar Allan Poe (che non abbiamo incluso, come tanti altri che nominiamo, perché sarebbe stata necessaria una seconda antologia), ma anche giocoso, scherzoso come nel folle laboratorio linguistico di Raymond Queneau , all'ombra lunga dell'OuLiPo (e intendiamo ricordare, oltre al presente Quando lo spirito, anche la celebre Piccola cosmogonia portatile ). L'operazione può comprendere affreschi cosmici di vastissima portata spaziale e temporale, come nell'intera produzione di Olaf Stapledon , o panorami mozzafiato misti a tecnicismi vertiginosi, come nella piú recente hard science fiction di Greg Egan, Ian Watson, Charles Stross. Talvolta, in un gioco di specchi labirintico, può alludere alle reciproche riflessioni tra micro e macrocosmo, può svelare nella vita dell'uomo gli stessi meccanismi che regolano lo spaziotempo a grande scala: è la via scelta da Updike nel suo L'espansione accelerata dell'universo, malinconica cosmologia racchiusa nella vicenda di un singolo individuo, e anche del celebre Entropia di Thomas Pynchon, con lo spaventoso scenario di una morte termica indifferenziata per tutti e tutto. Ma è il lucidissimo Stanislaw Lem , in un avventuroso funambolismo intellettuale sotto forma di falsa recensione, a ricordarci, come già intuiva Ceronetti, che «in un tempo cosí corto» siamo riusciti a «sfregare uomo su tutto», persino sul piú remoto panorama extragalattico. Quasi in una preveggente parodia del «disegno intelligente» anche le leggi della fisica e i fenomeni piú energetici, vasti e cataclismici, vengono qui burlescamente antropomorfizzati, avvolgendo l'improbabile delirio nel gergo tecnico e carico d'autorità dell'astrofisico, del cosmologo senza scrupoli. E a proposito di specchi in cui ci viene inevitabilmente, perennemente rimandato il nostro stesso sguardo avido, ansioso e disposto a ogni illusione : la superficie limpida e trasparente descritta da Peter Høeg nella sua cosmologia sintesi di tutte le cosmologie, è un perfetto concentrato delle mille e mille domande senza risposta sull'ambiente cosmico che ci ospita. Per un attimo, nella penna di questo straordinario scrittore troppo presto relegato al «genere», lo spaziotempo e il suo groviglio di contraddizioni si arrestano, si contemplano, si dissolvono sul margine del vuoto, sul ciglio dell'oblio, sull'orlo del nulla. Solo un attimo, come avviene sempre nella grande letteratura, poi la dialettica riprende, il gioco ricomincia.


Alla fine del percorso, paradossalmente, riaffiora il pozzo da cui si è preso il largo, a rischio di ripiombarci volontariamente. Non c'è da stupirsi. L'intensità abbagliante del cosmo, la sua resistenza a ogni tentativo di imporgli un senso, l'ambiguità della sua interpretazione da un'angolazione cosí parziale come quella umana, sono vertiginosi inviti a ripiegare le ali, a perdere quota. Si aggiunga che l'esperienza di ammirare quelle luci, quel segno di muta presenza del cielo e dell'universo, si fa via via piú rara, piú eccezionale, sovrastata com'è da altre luci vicine e artificiali, quelle già lucidamente deprecate da Rigoni Stern. Cosí il firmamento diventa un fossile, il ricordo di una visione mai completamente esperita, residuo quasi da cervello rettiliano, a cui lo scrittore contemporaneo si avvicina solo attraverso una forte mediazione culturale, perché ne ha letto, perché glielo hanno raccontato, perché sa, nonostante tutto, che vi siamo perennemente immersi oltre il giallo sintetico delle insegne urbane. Sprazzi maldigeriti di cielo incomprensibile, prospetticamente distorto, si sommano alla vaga consapevolezza di astri estremi, neri inghiottitoi cosmici, mitologie asteroidali. E allora può scattare il rifiuto, il tentativo di sfuggire all'evidenza. Giovanni Papini può imprecare all'insensatezza degli infiniti soli, all'immane spreco universale di energia e materia; Alice Munro può gettare uno sguardo disincantato al misero surrogato dell'esperienza cosmica offerto da un planetario, rifugiarsi di fronte alla spietatezza della vicenda umana nel conforto della parola che descrive, che elenca le lune di Giove, che le circoscrive futilmente; soprattutto, Ray Vukcevich può giocare ironicamente col solipsismo, con l'idealismo piú estremo e sperare che l'oscurità di un sacchetto di carta sul capo (geniale metafora della culla consumistica in cui ci rinchiudiamo) possa proteggere le nostre vite dalla cieca inesorabilità della macchina cosmica, costituire una barriera contro l'ignoto, in fin dei conti contro la realtà.


E tuttavia, lirici, pastorali, drammatici, escapisti, estatici o umoristici che siano, questi frammenti di firmamento, questi racconti celesti, rappresentano un tentativo di relazionarsi all'universo, di alzare lo sguardo oltre la siepe e di sollevarsi almeno per un po' dal pozzo della quotidianità.

Perché questo in fondo accomuna scienza e poesia, scienza e letteratura: cercare la misura dell'uomo e di ciò che lo circonda col linguaggio, adagiare su un foglio l'incommensurabile con ferrea autodisciplina, guardare in faccia il mondo e ricrearlo a parole o simboli, con passione.


La loro sinergia è tanto piú necessaria quanto piú la ricerca moderna ci porta lontani dal sogno di Laplace, quello di un determinismo semplificatore, di un meccanicismo strumentale. Lo aveva ben intuito, oltre a Italo Calvino , un altro letterato italiano lungimirante, piú o meno nello stesso periodo in cui Snow delineava sociologicamente il conflitto, la frattura. Leonardo Sinisgalli , guardando a Leonardo e Galileo, ne invocava il superamento, la ricomposizione, e percepiva come particolarmente propizio il tramonto del Positivismo piú intransigente: «La verità dei nostri tempi è di una qualità sottile, è una verità che è di natura sfuggente, probabile piú che certa, una verità "al limite" che sconfina nelle ragioni ultime, dove il calcolo serve fino a un certo punto e soccorre una illuminazione, una folgorazione improvvisa: Scienza e Poesia non possono camminare su strade divergenti».

Conviene allora assecondare l'ascesa al cielo, preservando l'esile e prezioso abbraccio tra astronomi e scrittori. Conviene seguirne il corso senza divergenze, verso l'alto, zigzagando tra frasi che celano equazioni e numeri che tradiscono emozioni. Il pozzo resterà lontano, in basso, sullo sfondo, la Luna e i suoi crateri brilleranno ancora meravigliosi e l'orizzonte si espanderà a dismisura, a rivelare il mondo nuovo di Schiaparelli e Galilei: un mondo vertiginosamente illimitato.

GIANGIACOMO GANDOLFI - STEFANO SANDRELLI

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Pagina 3

Galileo Galilei


Galileo a [Antonio de' Medici in Firenze?]

Per satisfare a V.S.Ill.ma, racconterò brevemente quello che ho osservato con uno de' miei occhiali guardando nella faccia della luna; la quale ho potuto vedere come assai da vicino, cioè in distanza minore di tre diametri della terra, essendochè ho adoprato un occhiale il quale me la rappresenta di diametro venti volte maggiore di quello che apparisce con l'occhio naturale, onde la sua superficie vien veduta 400 volte, et il suo corpo 8000, maggiore di quello che ordinariamente dimostra: sichè in una mole cosí vasta, et con strumento eccellente, si può con gran distintione scorgere quello che vi è; et in effetto si vede apertissimamente, la luna non essere altramente di superficie uguale, liscia e tersa, come da gran moltitudine di gente vien creduto esser lei et li altri corpi celesti, ma all'incontro essere aspra, et ineguale, et in somma dimonstrarsi tale, che altro da sano discorso concluder non si può, se non che quella è ripiena di eminenze et di cavità, simili, ma assai maggiori, ai monti et alle valli che nella terrestre superficie sono sparse. Et le apparenze da me nella luna osservate, sono queste.

Prima, cominciando a rimirarla, 4 o 5 giorni dopo il novilunio, vedesi il confine che è tra la parte illuminata et il resto del corpo tenebroso, esser non una parte di linea ovale pulitamente segnata, ma un termine molto confuso, anfrattuoso et aspro, nel quale molte punte luminose sporgono in fuori et entrano nella parte oscura; et all'incontro altre parti oscure intaccano, per cosí dire, la parte illuminata, penetrando in essa oltre il giusto tratto dell'ellipsi, come nella figura apresso si vede.

[...]

I pianeti si veggono rotondissimi, in guisa di piccole lune piene, et di una rotondità terminata et senza irradiatione; ma le stelle fisse non appariscono cosí, anzi si veggono folgoranti et tremanti assai piú con l'occhiale che senza, et irradiate in modo che non si scuopre qual figura posseghino.

Hora mi resta, per satisfare interamente al commandamento di V. S. Ill.mo, dirli quello che si deve osservare nell'uso dell'occhiale: che insomma è che lo strumento si tenga fermo, et perciò è bene, per fuggire la titubatione della mano che dal moto dell'arterie et dalla respiratione stessa procede, fermare il cannone in qualche luogo stabile. I vetri si tenghino ben tersi et netti dal panno o nuola che il fiato, l'aria humida e caliginosa, o il vapore stesso che dall'occhio, et massime riscaldato, evapora, vi genera sopra. E ben che il cannone si possa allungare et scorciare un poco, cioè 3 o 4 dita in circa, perchè trovo che per distintamente vedere gl'oggetti vicini il cannone deve esser piú lungo, et per lo lontano piú corto. E bene che il vetro colmo, che è il lontano dall'occhio, sia in parte coperto, et che il pertuso che si lascia aperto sia di figura ovale, perchè cosí si vedranno li oggetti assai piú distintamente.

Et tanto per hora posso dire a V. S. Ill.mo, alla quale di vivo cuore bacio le mani e dal S.re Dio prego felicità.

Di casa, li 7 Gennaro 1610.

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Pagina 75

Primo Levi

Una stella tranquilla


In un luogo dell'universo molto lontano di qui viveva un tempo una stella tranquilla, che si spostava tranquillamente sul fondo dell'abisso, circondata da uno stuolo di tranquilli pianeti sul conto dei quali non siamo in grado di riferire nulla. Questa stella era molto grande, molto calda e il suo peso era enorme: e qui incominciano le nostre difficoltà di relatori. Abbiamo scritto «molto lontano», «grande», «calda», «enorme»: l'Australia è molto lontana, un elefante è grande e una casa è ancora piú grande, stamattina ho fatto un bagno caldo, l'Everest è enorme. È chiaro che nel nostro lessico qualcosa non funziona.

Se davvero questo racconto deve essere scritto bisognerà avere il coraggio di cancellare tutti gli aggettivi che tendono a suscitare stupore: essi otterrebbero l'effetto opposto, quello di immiserire la narrazione. Per discorrere di stelle il nostro linguaggio è inadeguato e appare risibile, come chi volesse arare con una piuma: è un linguaggio nato con noi, atto a descrivere oggetti grandi e duraturi press'a poco quanto noi; ha le nostre dimensioni, è umano. Non va oltre quanto ci raccontano i nostri sensi: fino a due o trecento anni fa, piccolo era l'acaro della scabbia; non c'era niente di piú piccolo, né, di conseguenza, un aggettivo per descriverlo; grandi, anzi, ugualmente grandi, erano il mare e il cielo; caldo era il fuoco. Solo nel 1700 si è sentito il bisogno di introdurre nel linguaggio quotidiano un termine adatto a contare oggetti «molto» numerosi, e, con poca fantasia, si è coniato il milione; poco piú tardi, con fantasia ancora minore, si è coniato il bilione, senza neppure curarsi di definirne il senso preciso, tanto che il termine ha oggi valori diversi in paesi diversi.

Neppure coi superlativi si va molto lontano: di quante volte una torre altissima è piú alta di una torre alta? Né possiamo sperare soccorso da superlativi mascherati, come «immenso, colossale, straordinario»: per raccontare le cose che vogliamo raccontare qui, questi aggettivi sono disperatamente inetti, perché la stella da cui siamo partiti era dieci volte piú grande del nostro Sole, e il Sole è «molte» volte piú grande e piú pesante della nostra Terra, della quale solo con un violento sforzo dell'immaginazione ci possiamo rappresentare la misura, di tanto essa sopraffà la nostra. C'è sí il linguaggio delle cifre, elegante e snello, l'alfabeto delle potenze del dieci: ma questo non sarebbe un raccontare nel senso in cui questa storia desidera raccontare se stessa, cioè come una favola che ridesti echi, ed in cui ciascuno ravvisi lontani modelli propri e del genere umano.

Questa stella tranquilla non doveva poi essere cosí tranquilla. Forse era troppo grande: nel remoto atto originario in cui tutto è stato creato, le era toccata un'eredità troppo impegnativa. O forse conteneva nel suo cuore uno squilibrio o un'infezione, come accade a qualcuno di noi. È consuetudine fra le stelle bruciare quietamente l'idrogeno di cui son fatte, regalando prodigalmente energia al nulla, fino a ridursi a una dignitosa strettezza ed a finire la loro carriera come modeste nane bianche: invece la stella in questione, quando fu trascorso dalla sua nascita qualche miliardo di anni, e le sue scorte incominciarono a rarefarsi, non si appagò del suo destino e divenne inquieta; lo divenne a tal punto che la sua inquietudine si fece visibile perfino a noi «molto» lontani, e circoscritti da una vita «molto» breve.

Di questa inquietezza si erano accorti gli astronomi arabi e quelli cinesi. Gli europei no: gli europei di quel tempo, che era un tempo duro, erano talmente convinti che il cielo delle stelle fosse immutabile, fosse anzi il paradigma e il regno dell'immutabilità, che ritenevano ozioso e blasfemo spiarne i mutamenti: non ci potevano essere, non c'erano per definizione. Ma un diligente osservatore arabo, armato soltanto di buoni occhi, di pazienza, di umiltà, e dell'amore di conoscere le opere del suo Dio, si era accorto che questa stella, a cui si era affezionato, non era immutabile. L'aveva tenuta d'occhio per trent'anni, ed aveva notato che la stella oscillava fra la 4a e la 6a delle sei grandezze quali erano state definite molti secoli prima da un greco, che era diligente quanto lui, e che come lui pensava che guardare le stelle fosse una via che porta lontano. L'arabo la sentiva un poco come la sua stella: aveva voluto imporle il suo marchio, e nei suoi appunti l'aveva chiamata Al-Ludra, che nel suo dialetto voleva dire «la capricciosa». Al-Ludra oscillava, ma non regolarmente: non come un pendolo, bensí come uno che sia perplesso fra due scelte. Compieva il suo ciclo ora in un anno, ora in due, ora in cinque, e non sempre, nelle sue attenuazioni, si arrestava alla 6a grandezza, che è l'ultima ancora visibile dall'occhio non aiutato: a volte spariva del tutto. L'arabo paziente contò sette cicli prima di morire: la sua vita era stata lunga, ma una vita d'uomo è sempre pietosamente breve nei confronti di quella di una stella, anche se questa si comporti in modo da suscitare sospetti sulla sua eternità. Dopo la morte dell'arabo, Al-Ludra, benché munita di un nome, non raccolse piú molto interesse intorno a sé, perché le stelle variabili sono tante, e anche perché, a partire dal 1750, si era ridotta ad un puntino appena visibile coi migliori cannocchiali di allora. Ma nel 1950 (e il messaggio ci è giunto solo adesso) la malattia che doveva roderla dall'interno è giunta a una crisi, e qui, per la seconda volta, entra in crisi anche il racconto: ora non sono piú gli aggettivi che falliscono, ma propriamente i fatti. Non sappiamo ancora molto della convulsa morte-resurrezione delle stelle: sappiamo che, non poi cosí di rado, qualcosa si impenna nel meccanismo atomico dei nuclei stellari, e che allora la stella esplode, non piú sulla scala dei milioni o miliardi di anni, ma su quella delle ore e dei minuti; sappiamo che sono questi i piú brutali fra gli eventi che oggi alberga il cielo; ma ne comprendiamo approssimativamente il come, non il perché. Accontentiamoci del come.

L'osservatore che, per sua sventura, si fosse trovato il 19 di ottobre di quell'anno, alle ore 10 dei nostri orologi, su uno dei silenziosi pianeti di Al-Ludra, avrebbe visto, «a vista d'occhio» come suol dirsi, il suo almo sole gonfiare, non un poco ma «molto», e non avrebbe assistito a lungo allo spettacolo. Entro un quarto d'ora sarebbe stato costretto a cercare un inutile riparo contro il calore intollerabile: e questo lo possiamo affermare indipendentemente da qualsiasi ipotesi circa la misura e la forma di questo osservatore, purché fosse costruito, come noi, di molecole e d'atomi; ed entro mezz'ora la sua testimonianza, e quella di tutti i suoi congeneri, sarebbe terminata. Perciò, per concludere questo rendiconto, ci dobbiamo fondare su altre testimonianze, quelle dei nostri strumenti terrestri, a cui l'evento è pervenuto «molto» diluito nel suo intrinseco orrore, oltre che ritardato dal lungo cammino attraverso l'abisso della luce che ce ne ha recato notizia. Dopo un'ora, i mari e i ghiacci (se c'erano) del non piú silenzioso pianeta sono entrati in ebollizione; dopo tre, tutte le sue rocce sono fuse, e le sue montagne sono crollate a valle in forma di lava; dopo dieci, l'intero pianeta era ridotto in vapore, insieme con tutte le opere delicate e sottili che forse la fatica congiunta del caso e delle necessità vi aveva creato attraverso innumerevoli prove ed errori, ed insieme con tutti i poeti ed i sapienti che forse avevano scrutato quel cielo, e si erano domandati a che valessero tante facelle, e non avevano trovato risposta. Quella era la risposta.

Dopo un giorno dei nostri, la superficie della stella aveva raggiunto l'orbita stessa dei suoi pianeti piú lontani, invadendone tutto il cielo, e spandendo in tutte le direzioni, insieme coi rottami della sua tranquillità, un flutto di energia e la notizia modulata della catastrofe.


Ramón Escojido aveva trentaquattro anni ed aveva due figli molto graziosi. Con la moglie aveva un rapporto complesso e teso: lui era peruviano e lei di origine austriaca, lui solitario, modesto e pigro, lei ambiziosa e avida di contatti: ma quali contatti puoi sognare se abiti in un osservatorio a 2900 metri di quota, a un'ora di volo dalla città piú vicina e a quattro chilometri da un villaggio indio, pieno di polvere d'estate e di ghiaccio d'inverno? Judith amava e odiava il marito, a giorni alterni, qualche volta anche nello stesso istante. Odiava la sua sapienza e la sua collezione di conchiglie; amava il padre dei suoi figli, e l'uomo che si ritrovava al mattino sotto le coperte.

Raggiungevano un fragile accordo nelle gite di fine settimana. Era venerdí sera, e si prepararono con gioia chiassosa all'escursione del giorno dopo. Judith e i bambini si occuparono delle provviste; Ramón sali all'osservatorio, a predisporre le lastre fotografiche per la notte. Al mattino si liberò a fatica dei figli che lo coprivano di domande allegre: quanto era lontano il lago? Sarebbe stato ancora gelato? Si era ricordato del canotto di gomma? Entrò nella camera oscura per sviluppare la lastra, la fece asciugare e la introdusse nel blink insieme con la lastra identica che aveva impressionata sette giorni prima. Le esplorò entrambe sotto il microscopio: bene, erano identiche, poteva partire tranquillo. Ma poi ebbe scrupolo e guardò meglio, e si accorse che una novità c'era; non gran che, un puntino appena percettibile, ma sulla lastra vecchia non c'era. Quando capitano queste cose, novantanove volte su cento è un granello di polvere (non si lavora mai abbastanza pulito) o un difetto microscopico dell'emulsione; però sussiste anche la minuscola probabilità che si tratti di una Nova, e bisogna fare rapporto, salvo conferma. Addio gita: avrebbe dovuto ripetere la foto le due notti successive. Cosa avrebbe detto a Judith e ai ragazzi?

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Pagina 177

Giovanni V. Schiaparelli

La vita sul pianeta Marte


1.

Il singolar globo di Marte, che sotto piú riguardi tanto rassomiglia al nostro, e nel quale sembrano celarsi cosí interessanti misteri, ogni giorno piú chiama a sé l'attenzione pubblica, e sempre piú è fatto oggetto di accurati studi e di ardite speculazioni. Esso non è intieramente sconosciuto ai lettori di «Natura ed Arte», i quali ricorderanno senza dubbio la descrizione accompagnata da disegni, che ne fu pubblicata nei due fascicoli di febbraio 1893. Non senza ammirazione essi han potuto vedere quelle macchie oscure e quelle regioni piú chiare della sua superficie, che si considerano come rappresentanti mari e continenti; le misteriose linee, dette canali, or semplici or doppie, che lo solcano per ogni verso in forma di fitto reticolato; le vicissitudini del clima nei suoi due emisferi; e specialmente le nevi che biancheggiano intorno ai suoi poli, e con alterna vece crescono e decrescono secondo le stagioni, né piú né meno di quello che si osserva nelle regioni agghiacciate che occupano le zone polari del nostro globo.

Nell'anno decorso 1894 il pianeta essendosi molto avvicinato alla Terra (siccome suol fare periodicamente ad intervalli di circa 26 mesi), si trovò a buona portata dei grandi telescopi astronomici; e cosí fu possibile di fare alcune osservazioni importanti. Durante l'epoca del massimo avvicinamento (che fu nei mesi di settembre e di ottobre) la posizione dell'asse di Marte rispetto al sole, e le stagioni dei suoi emisferi furono press'a poco quelle che han luogo per la Terra ogni anno durante il mese di gennaio.

Per l'emisfero boreale di Marte era appena passato il solstizio d'inverno; l'emisfero australe, invece, che si trovava principalmente in vista, era nelle condizioni atmosferiche che noi esperimentiamo nel mese di luglio, cioè al principio e al colmo della state. Le regioni polari australi e il polo antartico del pianeta brillavano nell'illuminazione perpetua; e sotto la sferza incessante del sole le nevi di quel polo parvero decrescere a colpo d'occhio.

Le prime osservazioni si fecero in Australia alla fine di maggio col gran telescopio dell'osservatorio di Melbourne, essendo il pianeta ancora a grande distanza della terra. Il 25 maggio (epoca, che per l'emisfero australe di Marte corrispondeva press'a poco alla metà della primavera) i ghiacci si estendevano tutt'intorno al polo australe fino a 67° di latitudine; l'area nevosa formava una calotta ben terminata e simmetrica di 2800 chilometri di diametro.

A partir da quel punto fino alla metà d'agosto, per lo spazio di 80 giorni o piú, l'orlo circolare della regione nevata andò restringendosi con molta regolarità, avvicinandosi al polo in ragione di 13 chilometri al giorno: cosí che a mezzo agosto il diametro delle nevi da 2800 chilometri si trovò ridotto a 600. Durante questo intervallo, e precisamente verso la fine di giugno, si manifestò nella calotta bianca una grande spaccatura, che ne separava un segmento di considerabile ampiezza. Quest'ultimo scomparve presto, e non restò che la massa principale, notabilmente diminuita.

Da mezzo agosto alla fine di settembre la diminuzione delle nevi intieramente si arrestò, quantunque appunto in quell'intervallo avesse luogo il solstizio australe del pianeta (31 agosto) e con esso la massima irradiazione del Sole su quelle regioni. Il 24 di settembre l'area circolare nevosa aveva ancora quasi lo stesso diametro di 600 chilometri, che era stato misurato il 13 di agosto.

La causa sconosciuta, che produsse questo arresto nel ritirarsi dei ghiacci, parve cessare negli ultimi giorni di settembre; il limite delle nevi continuò a progredire verso il polo, questa volta in ragione di dieci chilometri al giorno; e non fini che colla distruzione totale delle nevi stesse, la quale da diversi osservatori fu assegnata ad epoche alquanto diverse, ma si può stimare che avesse luogo intorno al 25 ottobre, coll'incertezza di alcuni giorni in piú od in meno. Cosí rimase il polo australe di Marte affatto nudo di ghiacci fino a questo giorno in cui scrivo (4 aprile 1895). Nell'intervallo si videro bensí di quando in quando comparire certe macchie bianche in molta vicinanza del polo; nessuna di queste però è stata permanente, e si deve credere che rappresentassero nevicate di carattere locale e transitorio. Quale fortuna sarebbe pei nostri geografi, se un simile scioglimento completo dei ghiacci si producesse anche una sola volta sopra ciascuno dei due poli della Terra!

[...]


2.

Sulla terra le vicende delle stagioni si corrispondono nei due emisferi con effetti quasi intieramente simmetrici nella loro alternativa. I periodi di freddo e di caldo, di siccità e di pioggia si producono con fasi alternate, ma analoghe, ad intervalli di sei mesi, sotto paralleli di ugual latitudine ai due lati dell'equatore. Le diversità di clima, che si osservano in tal caso, sono di carattere puramente locale, dovute per lo piú a condizioni accidentali di natura topografica. Qualche piccola differenza nella meteorologia dei due emisferi veramente si manifesta a chi consideri le cose con molta precisione; differenza principalmente derivata da ciò, che nell'emisfero australe le aree continentali sono meno estese che nell'emisfero boreale. Ma questo fatto, quantunque degno di studio per il suo carattere generale, praticamente è di poca importanza nella considerazione del clima di una data regione australe o boreale della Terra.

In Marte le cose sembrano proceder molto diversamente. Come dimostra uno sguardo dato alla carta, tutto o quasi tutto l'Oceano è concentrato intorno al polo australe, al quale per conseguenza, e alle circostanti regioni deve corrispondere una vasta depressione nel suolo solido del pianeta. Al contrario, dall'esser l'emisfero boreale quasi tutto occupato da un gran continente non interrotto, siamo indotti ragionevolmente a credere, che da quella parte si abbian le regioni piú elevate, e che piú alti di tutti siano i paesi circostanti al polo nord. Questa disposizione di cose fa sí, che lo sciogliersi delle nevi polari può avere, pel clima e per la vita organica, conseguenze ben diverse, secondo che si tratta delle nevi australi o delle nevi boreali. È questo un punto, il quale merita di essere esaminato con qualche cura.

Consideriamo dapprima la calotta dei ghiacci australi, che tutta si forma entro all'Oceano di Marte, e può giungere ad occupare di questo Oceano una parte considerabile, forse un terzo od un quarto. Lo sciogliersi progressivo della medesima avrà per ultimo risultato un innalzamento del livello generale di tutto l'Oceano, e dei mari interni minori, che lo circondano come appendici. Tale elevazione potrà bastare ad inondare tutte le parti piú basse dei continenti e specialmente quelle che all'Oceano sono piú vicine. In tale stagione infatti si vedono molto piú marcati ed oscuri, non solo i mari interni segnati col nome di Adriatico, Tirreno, Cimmerio, Sirenio, ecc., ma anche gli stretti piú o meno spaziosi che li uniscono all'Oceano, e l'Oceano stesso. I golfi, onde appare frastagliato il continente, diventano piú visibili, e con essi anche taluno dei grandi canali che dall'Oceano direttamente si spingono entro terra, per esempio la Gran Sirte e la Nilosirte, che da essa procede. Questa maggior espansione dell'Oceano però non arriva nelle parti piú interne dei continenti e nelle regioni boreali; impedita a quanto sembra dalla troppo grande elevazione di questo.

L'effetto dello sciogliersi delle nevi australi è dunque di far uscire il mare dai suoi confini, e di produrre qua e là parziali inondazioni del medesimo sopra alcuni lembi del continente. Ora è molto dubbio, se un tal fenomeno possa riuscire di molto vantaggio per la vita organica, e sopratutto pei supposti abitatori del pianeta.

[...]


3.

Fino a questo punto abbiam potuto arrivare, combinando il risultato delle osservazioni telescopiche con probabili deduzioni tratte da principi conosciuti della Fisica, e da plausibili analogie. Concediamo ora alla fantasia un piú libero volo; sempre appoggiati, per quanto è concesso, al fondamento sicuro dell'osservazione e del ragionamento, tentiamo di renderci conto del modo, con cui sarebbe possibile in Marte l'esistenza e lo sviluppo di una popolazione d'esseri intelligenti, dotati di qualità e soggetti a necessità non troppo diverse dalle nostre: e sotto quali condizioni si potrebbe ammettere, che i fenomeni dei cosí detti canali e delle loro geminazioni possano rappresentare il lavoro di una simil popolazione. Ciò che diremo non avrà il valore di un risultato scientifico, ed anzi confinerà in parte col romanzo. Ma le probabilità a cui per tal modo arriveremo non saranno minori che per tanti altri romanzi piú audaci e meno innocui, che sotto il sacro nome di scienza si stampano nei libri e si predicano nelle assemblee e nelle Università.

Comparando il globo della Terra con quello di Marte sotto il rispetto della loro costituzione meteorologica ed idrografica, subito ci appare manifesto, dalle cose dette di sopra, quanto il primo dei due sia meglio disposto per accogliere la vita organica e per favorirne lo sviluppo nelle sue forme superiori. Ai fortunati terricoli l'acqua fecondatrice è distribuita gratuitamente dalla periodica e regolare operazione del gran meccanismo atmosferico. Piove sui nostri campi senza alcun nostro merito: per noi, senza alcuna nostra fatica si condensa sulle montagne il liquido prezioso, che per mezzo dei ruscelli e dei fiumi può in molti modi esser rivolto a nostro vantaggio, coll'irrigazione, colla navigazione interna, colle macchine idrauliche: e senza di questo dono, che sarebbe il genere umano? Assai piú dure condizioni di esistenza ha fatto la Natura ai poveri Marziali. Dove rare sono le nuvole e nulle le pioggie, ivi mancano certamente le fonti ed i corsi d'acqua. Tutto per loro sembra dipendere, come già si è accennato, dalla grande inondazione prodotta nello sciogliersi delle nevi polari boreali. La loro conservazione e la loro prosperità richiede ad ogni costo, che siano arrestate nella maggior quantità possibile, e trattenute per tutto il tempo necessario quelle acque, prima che vadano a perdersi nel mare australe; che se ne approfitti nel modo piú efficace alla coltura di aree abbastanza vaste per assicurare durante un intero anno Marziale (23 mesi nostri) l'esistenza di tutto ciò che vive sul pianeta. Problema forse non tanto facile e non tanto semplice! perché la somma di acqua disponibile è al piú quella che hanno formato le nevi boreali d'una sola invernata; quantità certamente assai grande, la quale però, ripartita sopra tutti i continenti, potrebbe presto diventare insufficiente, anche non tenendo conto delle perdite inevitabili per evaporazione, filtrazione, errori di distribuzione, ecc.

[...]


Ammesse le linee principali del nostro quadro, non sarà difficile il compierlo nei particolari, e disegnare coll'immaginazione i grandiosi argini necessari per contenere nei giusti limiti l'inondazione boreale; i laghi o serbatoi secondari di distribuzione, necessari per dare le acque a quelle valli, che non fanno capo direttamente a quella inondazione; le opere occorrenti per regolare la distribuzione secondo il tempo e secondo il luogo; i canali di primo, secondo, terzo... ordine destinati a condurre le acque su tutto il terreno irrigabile; i numerosi opifici, a cui le acque potranno dar moto nel loro scendere dai ciglioni laterali della valle al fondo della medesima. Marte dev'esser certamente il paradiso degli idraulici!

E passando ad un ordine piú elevato d'idee, interessante sarà ricercare qual forma d'ordinamento sociale sia piú conveniente ad un tale stato di cose, quale abbiamo descritto; se l'intreccio, anzi la comunità d'interessi, onde son fra loro inevitabilmente legati gli abitanti d'ogni valle, non rendano qui assai piú pratica e piú opportuna, che sulla Terra non sia, l'istituzione del socialismo collettivo, formando di ciascuna valle e dei suoi abitanti qualche cosa di simile ad un colossale falanstero, per cui Marte potrebbe diventare anche il paradiso dei socialisti. Bello altresí sarà indagare, se sia meglio ordinar politicamente il pianeta in una gran federazione, di cui ogni valle costituisca uno stato indipendente, oppure se forse, a reggere quel grande organismo idraulico da cui dipende la vita di tutti, e a conciliare le diverse necessità delle diverse valli, non sia forse piú opportuna la monarchia universale di Dante. Ed ancora si potrà discutere, a quale rigorosa logica dovrà essere subordinata la legislazione destinata a regolare un cosí grandioso, vario e complicato complesso d'affari: quali progressi debbano aver fatto colà la Matematica, la Meteorologia, la Fisica, l'Idraulica e l'arte delle costruzioni; per arrivare alla soluzione dei problemi estremamente difficili e varii, che si presentano ad ogni tratto. Qual singolare disciplina, concordia, osservanza delle leggi e dei diritti altrui debba regnare sopra un pianeta, dove la salute di ciascuno è cosí intimamente legata alla salute di tutti; dove son certamente sconosciuti i dissidii internazionali e le guerre: dove quella somma ingente di studio e di lavoro e di mezzi, che i pazzi abitanti d'un altro globo vicino consumano nel nuocersi reciprocamente, è tutta rivolta a combattere il comune nemico, cioè le difficoltà che l'avara Natura appone ad ogni passo.

Di tutto questo, o caro lettore, lascio a te l'ulteriore considerazione. Io scendo dall'Ippogrifo; tu, se ti aggrada, puoi continuare la volata. Messo t'ho innanzi, omai per te ti ciba.

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Pagina 299

Stanislaw Lem

Alfred Testa. La nuova cosmogonia


Allocuzione pronunciata dal professor Alfred Testa in occasione della cerimonia in cui gli fu ufficialmente consegnato il Premio Nobel. Attualmente contenuta nel volume commemorativo From the Einsteinian to the Testan Universe, e qui riprodotta per gentile concessione dell'editore J. Wiley & Sons.


Altezza. Signore e Signori. Vorrei profittare del podio privilegiato da cui m'è dato pronunciare queste parole per esporVi le circostanze che hanno portato alla nascita di una nuova concezione dell'Universo, concezione che mette in luce una collocazione cosmica dell'umanità radicalmente diversa da quella storicamente sanzionata. Ma parole cosí altisonanti non riguardano il mio lavoro. Esse sono indirizzate alla memoria di un uomo che non è piú fra noi e al quale dobbiamo tale riforma. Parlerò di lui, perché è accaduto ciò che meno avrei desiderato, e cioè che il mio lavoro ha offuscato - nell'opinione dei contemporanei - l'opera di Aristides Acheropoulos, al punto che uno storico della scienza, il professor Bernard Weydenthal, un grande specialista, la cui competenza sembrerebbe fuor di discussione, ha scritto poco tempo fa nel suo libro Die Welt als Spiel und Verschwörung che la principale pubblicazione di Acheropoulos, A New Cosmogony, non conteneva alcuna ipotesi scientifica ma unicamente fantasie letterarie della cui realtà era l'Autore il primo a dubitare. Analogamente, il professor Harlan Stymington, in The New Universe of the Games Theory, ha espresso l'opinione che senza il lavoro di Alfred Testa, l'idea di Acheropoulos sarebbe rimasta una vana trovata filosofica, sul genere della leibniziana armonia prestabilita, un modello che le scienze esatte non hanno comunque mai preso sul serio.

Cosí, dunque, secondo alcuni avrei preso sul serio un'idea cui neppure l'Autore dava credito; secondo altri avrei introdotto nelle limpide acque delle scienze naturali un concetto inquinato da speculazioni filosofiche tutt'altro che scientifiche. Giudizi tanto errati esigono una rettifica, nei limiti in cui ne sono capace. È vero che Acheropoulos era un filosofo della natura e non un fisico o un cosmologo, e che ha esposto le sue concezioni senza il supporto di apparati matematici. È anche vero che tra le visioni intuitive della sua cosmogonia e la mia teoria formalizzata corrono non poche differenze. Ma è vero altrettanto e soprattutto che Acheropoulos avrebbe potuto agevolmente procedere senza Alfred Testa, mentre Testa deve pressoché tutto ad Acheropoulos. Non si tratta d'una differenza da poco. E per spiegarla a Lorsignori, devo pregare tutti di concedermi un po' d'attenzione e un po' di pazienza.

Quando, a metà del XX secolo, un pugno di astronomi cominciò a occuparsi delle cosiddette civiltà cosmiche, la loro impresa non poteva che apparire marginale rispetto agli interessi dell'astronomia. La comunità scientifica lo considerò il passatempo di poche decine di originali, di cui non c'è mai penuria, neppure nella scienza. La scienza ufficiale non si oppose attivamente alla ricerca di segnali provenienti da tali civiltà. Ma allo stesso tempo non ammetteva la possibilità che l'esistenza di altri esseri intelligenti potesse avere una qualsiasi influenza sulla nostra osservazione dell'Universo. Se dunque questo o quell'astrofisico si azzardava ad affermare che lo spettro delle emissioni pulsar o l'energetica dei quasar o un qualche fenomeno in corso nel nucleo galattico poteva essere connesso con l'attività intenzionale di altri abitanti del Cosmo, nessuna delle autorità del campo riconosceva in simili affermazioni ipotesi scientifiche degne di piú attento esame. L'astrofisica e la cosmologia rimasero sorde a questa problematica. E ancora maggiore era l'indifferenza in merito della fisica teorica. Le scienze si attenevano allora piú o meno a questo schema: se indaghiamo il funzionamento di un grosso orologio, è scontato che l'eventuale presenza di batteri fra le sue molle e i suoi ingranaggi non avrà la minima rilevanza né per la struttura né per la cinematica del marchingegno. I batteri non possono certo influire sul movimento dell'orologio! Questo è quello che si pensava allora - che esseri ragionevoli non possono interferire nel funzionamento dell'orologio cosmico, e perciò quel meccanismo va studiato ignorando completamente una loro possibile presenza al suo interno.

Se pure qualcuno dei luminari della scienza di allora si fosse soffermato sulla possibilità d'una grande rivoluzione in fisica e in cosmologia, una rivoluzione connessa all'esistenza nell'Universo di esseri intelligenti, l'avrebbe fatto ad una sola condizione: qualora fossero state scoperte delle civiltà cosmiche, e qualora i segnali da loro inviati ci avessero consentito di acquisire nozioni completamente inedite sulle leggi della natura, allora sí, in questo e solo in questo modo sarebbero state concepibili fondamentali modificazioni della scienza terrestre. Che una rivoluzione astrofisica potesse avvenire senza quei contatti; di piú: che l'assenza stessa di contatti, segnali, manifestazioni di astroingegneria potesse dare inizio alla piú grande rivoluzione delle conoscenze fisiche e cambiare radicalmente la nostra visione dell'Universo, questo, alle autorità scientifiche di quel tempo, non sarebbe mai venuto in mente.

Eppure, molti di quegli scienziati erano ancora in vita quando Aristides Acheropoulos pubblicò il suo A New Cosmogony. Il libro mi capitò fra le mani quando ancora preparavo il mio dottorato presso il Dipartimento di matematica dell'università elvetica, in quello stesso luogo dove Albert Einstein lavorò un tempo come impiegato dell'ufficio brevetti, occupato nel suo tempo libero a gettare le basi della teoria della relatività. Potei leggere quel libretto perché era stato pubblicato in inglese, e in una pessima traduzione, devo dire. Per di piú il titolo figurava tra le collane di un editore che non contemplava altro interesse letterario che la piú corriva science fiction. Il testo originale, come venni a sapere solo piú tardi, era stato scorciato di una buona metà. Certamente, le circostanze di questa pubblicazione (le cui modalità sfuggirono alla supervisione di Acheropoulos) hanno non poco contribuito a diffondere l'opinione che neppure l'autore de La nuova cosmogonia prendesse sul serio le tesi contenute nell'opera.

Temo che, in questi tempi di fretta e di mode effimere, nessuno se non lo storico della scienza o il bibliofilo tornerebbe ad aprire la Nuova cosmogonia. I lettori piú colti conoscono il titolo dell'opera e sanno qualcosa dell'Autore. Questo è tutto. Ma, a non leggere il libro, ci si priva di un'esperienza eccezionale. Non solo i contenuti della Nuova cosmogonia mi sono rimasti vivamente impressi nella memoria, benché l'abbia letto piú di venti anni fa, ma vive sono ancora le sensazioni che s'accompagnarono a quella lettura. Dal momento in cui si afferra per la prima volta la vastità dell'idea di Acheropoulos, quando nell'intelletto del lettore si delinea chiaramente l'idea del palinsesto Cosmo-Gioco, coi suoi Giocatori invisibili, perennemente estranei gli uni agli altri, si fissa in noi l'impressione di avere a che fare con qualcosa di sorprendentemente, vertiginosamente nuovo e, allo stesso tempo, che la cosa sappia di plagio, come una goffa traduzione nel linguaggio delle scienze naturali di quegli antichissimi miti che costituiscono il fondo impenetrabile della stessa storia dell'uomo. Questa spiacevole e perfino irritante sensazione deriva, io credo, dal fatto che ogni sintesi di fisica e volontà ci appare inammissibile, e direi perfino sconveniente per un intelletto razionale. Perché i miti sono proiezione della volontà. Le antiche fiabe cosmogoniche, con la compunta e innocente semplicità di cuore che è il paradiso perduto dell'umanità, ci dicono come l'Essere sia sorto dal conflitto fra gli elementi demiurgici, elementi che la leggenda riveste di forme e incarnazioni sempre nuove. Vediamo nascere il mondo dalla stretta d'odio e amore di dei-animali, dei-forze, dei-uomini, e il sospetto è che proprio questo gran cozzo che è la piú pura proiezione antropomorfica nel buio del mistero cosmico, che questa riduzione della Fisica al Desiderio rappresenti il prototipo cui s'è ispirato l'Autore della Nuova cosmogonia. E in realtà, è un sospetto assai difficile a scongiurarsi.

Vista cosí, la nuova cosmogonia di Acheropoulos sembra una cosmogonia terribilmente vecchia, e il suo tentativo di renderne conto nel linguaggio dell'empiria sa un po' di promiscuo, di volgare incapacità a separare concetti e categorie che non hanno diritto di unirsi in un insieme indiscriminato. Il libro, a quel tempo, arrivò sul tavolo di molti illustri pensatori e oggi so, perché piú d'uno l'ha ammesso, che fu sfogliato proprio con questo spirito: irritazione, impazienza, sufficienza, disprezzo; e nessuno che arrivasse alla fine. Inutile indignarsi di tanto apriorismo, di tanto immobilismo intellettuale, perché in effetti il libro sembra a tratti uno sproposito, doppio per giunta: in un linguaggio arido e oggettivo, ci vengono presentate divinità camuffate, dei sotto le spoglie di esseri viventi, e dai loro duelli si fanno discendere le leggi naturali. Ci sentiamo privati di ogni cosa: tanto della Fede, intesa come senso d'una trascendenza che culmina nella perfezione, come della Scienza, con la sua onesta, laica ed oggettiva sobrietà. Alla fine non ci rimane niente: da entrambe le parti i postulati di base si rivelano completamente inapplicabili. Si ha l'impressione di essere stati barbaramente maltrattati, tratti con la forza entro un mistero che non è né religioso né scientifico.

Il vuoto che quel libro fece nella mia mente non è facile a descriversi. Certo è dovere dello scienziato quello d'essere un incredulo Tommaso verso la scienza stessa. È lecito dubitare di ogni sua affermazione, ma come si può mettere in dubbio tutto, in un sol colpo? Acheropoulos ha eluso il riconoscimento della sua grandezza non deliberatamente, forse, ma molto efficacemente. Sconosciuto a tutti, era figlio d'una piccola nazione. Non aveva credenziali accademiche né in fisica né in cosmologia; e infine - e questo colmava all'istante la misura - non aveva nessun predecessore. Una cosa inaudita nella storia. Perché ogni pensatore, ogni rivoluzionario dello spirito possiede dei maestri d'un qualche genere, che egli ha superato, ma cui può richiamarsi allo stesso tempo. Quel greco era venuto solo: e della solitudine, che doveva essere il destino di questo precursore, testimonia tutta la sua vita.

Io non l'ho mai conosciuto e non so molto di lui. Il modo in cui si guadagnava il pane gli fu sempre indifferente. Terminò la prima stesura di A New Cosmogony quando aveva trentatre anni. Era già dottore in filosofia, ma non trovò il modo di pubblicarla. Il fallimento della sua idea - il fallimento della sua vita - lo sopportò stoicamente. Compresa la vanità dei suoi sforzi, rinunciò assai presto ad ogni tentativo di pubblicare il suo libro. Accettò un impiego come custode in quella stessa università presso la quale aveva ottenuto il titolo di dottore in filosofia grazie ad un eccellente lavoro di comparazione fra le cosmogonie dei popoli antichi. Piú tardi fu garzone di fornaio e acquaiolo, e intanto studiava matematica per corrispondenza. Nessuno di coloro coi quali fu in relazione udí mai parlare della sua nuova concezione cosmogonica. Era riservato e duro con gli altri almeno quanto lo era con se stesso. Questa mancanza d'ogni riguardo gli consenti di fare le affermazioni piú trasgressive sia contro la scienza sia contro la fede. Questa sua pan-eresia, l'universale blasfemia dettatagli dal suo stesso coraggio intellettuale non poteva che alienargli qualsiasi lettore. Suppongo che accettò la proposta dell'editore inglese cosí come un naufrago sopra un'isola deserta getta fra le onde una bottiglia con un messaggio dentro. Voleva lasciare almeno una traccia delle sue idee, perché era certo della loro verità.

Pur mutilata dalla miserabile traduzione e dai tagli insensati, A New Cosmogony è un'opera eccezionale. In essa Acheropoulos ribalta tutto, assolutamente tutto ciò che scienza e fede hanno edificato nel corso dei secoli. Egli si apparecchia un deserto, disseminato dei frantumi dei concetti demoliti, al fine di mettersi al lavoro dal niente e costruire daccapo l'Universo. Questo agghiacciante spettacolo suscita una reazione di difesa: vien fatto di pensare che l'Autore sia completamente folle o totalmente ignorante. Ai suoi titoli accademici non si prestò la minima fede. Chi l'ha respinto in questo modo, ha salvaguardato il proprio equilibrio mentale. Tra me e tutti gli altri lettori della Nuova cosmogonia corre quest'unica differenza, che io non sono riuscito a farlo. Chi non rifiuta questo libro nel suo insieme, dalla prima sillaba all'ultima, è perduto. Non se ne libererà mai piú. Se non altrove, qui un Terzo Escluso c'è: se Acheropoulos non è un pazzo né un ignorante, allora è un genio.

Certo non è facile condividere questa diagnosi. Il testo muta continuamente sotto gli occhi del lettore. Non si può fare a meno di notare che la matrice di quegli incontri-scontri, ossia del Gioco, è lo scheletro formale di ogni fede religiosa che non abbia ancora deposto i suoi elementi manichei, e dov'è una religione che non ne conservi perlomeno le vestigia? Per inclinazione e per formazione, io sono un matematico. Sono divenuto un fisico grazie ad Acheropoulos. Ho la certezza che qualunque legame avessi allacciato con la fisica sarebbe rimasto sempre accidentale e vago, se non fosse stato per quell'uomo. Egli mi ha convertito: potrei perfino indicare il luogo della Nuova cosmogonia in cui ciò s'è compiuto. Si tratta del sedicesimo paragrafo del sesto capitolo, là dove si parla dello stupore di Newton, Einstein, Jeans, Eddington di fronte alla possibilità di afferrare matematicamente le leggi naturali, al fatto cioè che la matematica, frutto del puro lavoro logico dello spirito, possa avere una corrispondenza nel Cosmo. Alcuni di quei grandi, come Eddington, come Jeans, ritenevano che il Creatore stesso fosse un matematico e che l'impronta di questa sua predilezione fosse impressa nell'intera creazione. Acheropoulos mostra che la fisica teorica ha completamente superato la fase di questa fascinazione, perché abbiamo imparato che i formalismi matematici dicono del mondo sempre troppo e troppo poco insieme. La matematica cioè, pur approssimando la struttura dell'Universo, in qualche modo non coglie mai nel segno, ma sempre un po' a lato del bersaglio. C'è chi ritiene transitorio questo stato di cose, e Acheropoulos stesso afferma: i fisici non sono riusciti a costruire una teoria generale dei campi, non sono riusciti a coniugare i fenomeni del microcosmo con quelli del macrocosmo, ma presto la cosa si farà. Si arriverà certamente a far coincidere mondo e matematica, ma non grazie a successive rielaborazioni dei nostri strumenti formali, no, niente del genere. A quella convergenza si giungerà quando l'opera di modellamento toccherà il culmine: ma il lavoro non è ancora compiuto. Le Leggi Naturali non sono ancora come «devono» essere; e diverranno tali non grazie al perfezionamento delle matematiche ma in virtú di opportune correzioni dell'Universo!

Signore e Signori, questa eresia, la piú abnorme che avessi incontrato in vita mia, mi conquistò. Perché è proprio questo che Acheropoulos sostiene poco piú avanti, nello stesso capitolo. Niente di piú, niente di meno di questo: che la fisica dell'universo deriva dalla sua - dico dell'universo stesso - sociologia! Ma per comprendere appieno questa enormità, dobbiamo fare qualche passo indietro, verso alcune questioni fondamentali.

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