Copertina
Autore Angela Leonardi
Titolo Tempeste
SottotitoloEduardo incontra Shakespeare
EdizioneColonnese, Napoli, 2007, I nuovi trucioli 49 , pag. 120, cop.fle., dim. 14,7x23,5x1,2 cm , Isbn 978-88-87501-79-7
LettoreGiorgia Pezzali, 2007
Classe critica letteraria , teatro italiano , classici inglesi
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Indice


Introduzione                                     9

EDUARDO E SHAKESPEARE

 1. Due mondi a confronto                       15
 2. Eduardo incontra Shakespeare                20
    Note                                        29

LA TEMPESTA DI EDUARDO

 1. Eduardo e "The Tempest"                     35
 2. Un equilibrio miracoloso                    37
 3. "Símmo Napulitane!"                         40
 4. Prospero e Miranda                          48
 5. La virtù della tolleranza                   54
 6. Ariele. Uno spirito in carne ed ossa        62
 7. Sicorace. La strega di Benevento            69
 8. Calibano. Un selvaggio senza padri          72
 9. La musica                                   84
10. Ferdinando e Miranda                        90
11. L'umorismo                                  95
12. Eduardo e La Commedia dell'Arte             99
    Note                                       103

Nota bibliografica                             111


 

 

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Pagina 9

INTRODUZIONE



Quando si comincia a leggere La Tempesta di Eduardo ci si rende immediatamente conto di non trovarsi di fronte ad una mera traduzione di un dramma di Shakespeare, bensì alla creazione di un'opera d'arte a sé stante. A lettura ultimata, però, accade qualcosa di veramente interessante: si percepisce che — a dispetto dell'impiego del dialetto partenopeo, dei ripetuti riferimenti a Napoli e alle sue tradizioni, della metamorfosi dello spirito dell'aria in uno scugnizzo, di Sycorax nella strega di Benevento e di Stephano e Trinculo nei Sarchiapone e Razzullo della Cantata dei Pastori — i significati più profondi della Tempest, così come la sua atmosfera magica, l'alto livello poetico del linguaggio, l'importanza data alla musica come modello al tempo stesso espressivo e interpretativo, ci sono stati pienamente restituiti.

Ponendosi a metà strada fra il traduttore fedele e il riscrittore originale, e riuscendo a tenere insieme, nella nuova tessitura verbale, l'identità del testo di partenza e la propria identità, Eduardo dà vita a quella che potremmo definire una "riscrittura fedele" della Tempest: perché, come direbbe Chomsky , la struttura superficiale dell'opera viene rielaborata senza che ne sia sovvertita quella profonda. Il drammaturgo napoletano si avvicina in maniera prodigiosa a quello che per Steiner è il fine ultimo della traduzione ossia «scendere ai di sotto delle differenze esterne delle due lingue per farne intervenire in maniera vitale principi essenziali analoghi e, alla radice, comuni»; e lo fa, paradossalmente, proprio svincolandosi dai rigidi criteri di fedeltà al testo di partenza: si accosta a Shakespeare «senza soggezione», da uomo di teatro a uomo di teatro, considerando ogni verso della Tempest non solo come un insieme di parole da tradurre ma come una illimitata fonte d'ispirazione da cui attingere per dare vita alla propria Tempesta. Così, lasciando esplodere la potenza simbolico-espressiva della lingua di Shakespeare nei barocchismi consentiti dalla flessibilità e dalla copiosità lessicale del dialetto napoletano del Seicento e proiettando la sonorità e la dinamicità del blank verse nell'armonioso fluire di lunghe sequenze di polimetri variamente rimanti o assonanti tra loro, Eduardo riconsegna al suo pubblico i grandi temi dell'opera originale.

Tradurre un dramma significa operare in vista della messa in scena. Significa trasferire da una lingua all'altra il senso delle parole e da un palcoscenico all'altro la teatralità di un testo, la mimica di un volto, la gestualità di un corpo. Vuol dire creare degli ambienti, delle atmosfere: effettuare, insomma, un lavoro di regia nel significato più alto del termine.

Solo tenendo ferme nella mente queste premesse possiamo guardare alla Tempesta di Eduardo dalla giusta prospettiva: se ci accostassimo ad un simile cimento come ad una mera traduzione interlinguistica, correremmo l'altissimo rischio di rinvenirvi poco più o poco meno di uno Shakespeare indebolito. Ma, per fortuna, non è così: le immortali melodie che Verdi fa risuonare dai versi dell' Othello ne affievoliscono forse l'intensità espressiva? La pennellata onirica di un Füssli mortifica per caso la possanza mitopoietica dei personaggi di Shakespeare? O accade forse che le livide atmosfere del Macbeth perdano nerbo nelle immagini del Trono di sangue di Akira Kurosawa? No, tutto ciò non avviene, perché si tratta, in ciascuno dei casi citati, di opere nate dall'incontro tra due geni, fra uomini che sanno parlare, meglio di altri, il linguaggio universale dell'arte. Ed è questo stesso miracolo che si compie nella Tempesta: l'Eduardo drammaturgo, poeta, attore, regista, e l'Eduardo traduttore riescono a far giungere fino a noi, nell'intera gamma delle suggestioni che lo animano, il messaggio di William Shakespeare.

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Pagina 20

2. Eduardo incontra Shakespeare

Qualcuno dirà di me che sono un orso, che sono scostante, ma soltanto questo mio carattere mi ha consentito di fare quello che ho fatto. Sono stato un gelo, è vero, un gelo durante le prove delle mie commedie ed un gelo durante le prime, ma, credetemi, il cuore mi batteva forte, l'emozione mi stringeva sempre la gola. Ho sacrificato per il teatro tutta la mia vita".

Sono le ultime parole che Eduardo De Filippo recita davanti ad un pubblico, espressione della sua appassionata quanto intransigente dedizione al teatro. Ma la sua storia era iniziata molti decenni prima, quando il futuro drammaturgo era ancora un bambino: il 6 febbraio 1906 Eduardo debutta al Teatro Valle, interpretando il ruolo di giapponesino nella parodia dell'operetta La geisha di Sidney Jones. Sul palcoscenico c'è anche suo padre Eduardo Scarpetta che, travestito da geisha, recita la parte principale. Il ricordo di questo primo impatto col pubblico rimarrà nitido nella sua memoria di adulto:

Indossavo un minuscolo kimono a fiori dai colori vivaci che avevo visto cucire da mia madre qualche giorno prima. Improvvisamente mi sentii afferrare e sollevare in alto, di faccia al pubblico, con la luce dei riflettori che mi abbagliava e mi isolava dalla folla. Chissà perché mi misi a battere le mani e il pubblico mi rispose con un applauso fragoroso. [...] Quella emozione, quell'eccitamento, quella paura mista a gioia esultante... io le provo ancora oggi, identiche, ad una prima rappresentazione, quando entro in scena.

Il piccolo Eduardo non poteva averne coscienza, ma quando calcò per la prima volta le tavole del palcoscenico, il teatro nazionale ed europeo in genere aveva già conosciuto mutamenti irreversibili. Drammaturghi come Dumas figlio, Ibsen, Strindberg, Shaw, Cechov, avevano espresso nelle loro opere un rifiuto del sentimentalismo di matrice romantica imperante fino a quel momento, che preferiva stendere sulla realtà il velo di un ottimismo consolatorio anziché esplorarla nelle sue più amare contraddizioni. Tali fermenti raggiungono anche l'Italia, che è però una nazione ancora giovane, divisa da regionalismi e particolarismi che impediscono la diffusione omogenea delle nuove idee. Mentre nel Nord dell'Italia i drammi "a tesi" di un Ferrari e quelli "sociali" di un Giacosa o di un Praga portano sulla scena personaggi e situazioni ispirati ad un realismo in grado di riflettere le irrequietudini e le incoerenze della nascente società borghese (senza però raggiungere l'algida obiettività del siciliano Verga), a Napoli lo sviluppo di un teatro d'ispirazione naturalistica viene ostacolato: qui, gli autori più aperti ai nuovi modelli europei, come Torelli e Bracco, convivono con drammaturghi quali Petito e Scarpetta, ancora legati al bozzetto e al quadretto di genere. Da un lato, dunque, opere come I mariti di Torelli o L'infedele, Il piccolo santo e Sperduti nel buio di Bracco, dove l'attenzione per la vita quotidiana e la denuncia sociale non ignorano le pulsioni dell'inconscio; dall'altro, le maschere di Pascariello e Felice Sciosciammocca, ancora condizionate da quella che Domenico Rea ha definito «la famigerata eredità pulcinellesca».

Il percorso artistico di Eduardo De Filippo appare segnato da una precoce insoddisfazione nei confronti delle forme con cui la realtà contemporanea veniva raccontata e rappresentata dai suoi conterranei: un disagio che lo porterà, nel corso della sua lunga carriera, ad allontanarsi dal bozzettismo della tradizione del teatro partenopeo e a fare suoi i nuovi impulsi della drammaturgia europea. Per quanto sia difficile cogliere con certezza il punto di rottura che fissa il passaggio da una fase all'altra di un processo di cambiamento, nel caso di Eduardo possiamo collocare tale momento tra il 1944 e il 1945; gli anni, cioè, in cui si scioglie la «Compagnia del Teatro Umoristico dei fratelli De Filippo» e vede la luce la «Compagnia di Eduardo». È lo stesso periodo in cui il drammaturgo napoletano scrive e rappresenta Napoli Milionaria! (1945), la commedia che segna il confine tra la Cantata dei giorni pari e la Cantata dei giorni dispari.

Nelle opere dei "giorni pari" Eduardo è ancora legato ai modi del teatro d'arte dialettale, mentre in quelle dei "giorni dispari" la maggiore aderenza alla realtà diviene acuta analisi della società e introspezione psicologica dei personaggi. Infatti, come osserva Federico Frascani, «chi vorrà sapere, da qui a un secolo o a un millennio, che cosa pativano, che cosa speravano, che cosa tentavano di salvare, gli abitanti della città famosa per il Vesuvio e le canzoni, mentre stava per terminare la seconda guerra mondiale che non le aveva risparmiato lutti e rovine, altro non dovrà fare che leggere Napoli Milionaria o andare a vederla rappresentare. Eduardo è infatti riuscito a rendere in questi tre atti, con coralità efficacissima, la realtà tumultuosa e drammatica, ambigua e irridente, di una Napoli nella quale si rispecchiava la situazione dell'intera Italia già strappata ai tedeschi». C'è però un elemento, un solo elemento che resterà immutato per tutto l'arco della carriera di Eduardo: la viscerale tensione verso il vortice vitale del microcosmo dei vicoli napoletani. Quasi tutte le sue commedie sono infatti ambientate a Napoli: città complessa, labirintica, cupa e solare, ilare e dolente, città dalle mille facce e dalle mille contraddizioni. Qui il destino sembra essersi divertito a concentrare insieme tutto il bello e tutto il brutto del mondo (il foul e il fair, direbbe lo Shakespeare del Macbeth); nei suoi abitanti già «il Goethe (Viaggio in Italia, 19 marzo 1787) aveva sagacemente intuito la fatale compresenza [...] della luminosa gioia della vita col tormentoso pensiero del male e della morte, avanzando l'opinione che il napoletano sarebbe un altr'uomo se non si sentisse prigioniero tra Dio e Satana»". Il volto caleidoscopico della città di Eduardo impressionò anche Charles Dickens che nel 1846, dopo aver visitato Napoli, la ritraeva così:

Eccola che si risveglia coi suoi Pulcinella, borsaioli, buffi, mendicanti, stracci, burattini, fiori, splendore e sporcizia e generale degradazione: la città stende al sole la sua veste da Arlecchino, oggi come domani. Sulle rive del mare, essa canta, fa la fame, balla, gioca, e lascia ogni fatica alla montagna ardente che non si posa".

Una città come Napoli può dunque essere il Paradiso, ma anche l'Inferno; ed Eduardo, consapevole di trovarsi di fronte ad un'inesauribile sorgente di materiale umano e scenico, riusciva a guardare alla sua città da lontano, come attraverso un cannocchiale, per ricavarne una visione complessiva, oggettiva, che gli additava in Napoli una metafora del mondo intero.

All'occorrenza, però, il suo occhio riusciva anche, come attraverso un microscopio, ad osservarne i particolari, i dettagli, a scrutarne le minuzie. Nulla sfuggiva al suo sguardo indagatore; nemmeno, per fare un solo e celebre esempio, i più piccoli segreti legati al rito domenicale della preparazione del "ragù" nella cucina di un "basso".

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Pagina 35

1. Eduardo e "The Tempest"


Quando Giulio Einaudi gli propone di contribuire alla collana Scrittori tradotti da scrittori e di "tradurre uno Shakespeare", Eduardo preferisce The Tempest a commedie quali A Midsummer-Night's Dream (Sogno di una notte di mezza estate), Twelfth Night (La dodicesima notte) o As You Like It (Come vi piace), per dei motivi ben precisi: in primo luogo, «la magia, i trucchi di scena, le creature soprannaturali che popolano questa commedia» lo affascinano e, soprattutto, lo riempiono di entusiasmo perché lo riportano con la memoria ad un'esperienza vissuta da giovanissimo, quando aveva circa vent'anni e recitava nella compagnia di Vincenzo Scarpetta. Questi, infatti, precisa Eduardo, «decise di riprendere un genere teatrale antichissimo, la Féerie seicentesca che fino a circa metà dell'Ottocento fece parte del repertorio di molte compagnie. Scrisse perciò un adattamento della vecchia e celebre I cinque talismani, intitolandola La collana d'oro e aggiungendovi il personaggio di Felice Sciosciammocca. C'era la strega, [...] le fate, i farfarielli, i folletti e straordinari trucchi scenici [...] Fu un grande successo, e l'incanto sottile di quell'ambiente fantastico, ingenuo e supremamente teatrale mi è rimasto dentro per oltre mezzo secolo influenzando la mia scelta».

Eduardo sceglie The Tempest anche perché ne condivide i significati etici di fondo. La scena del dramma è l'isola di Prospero, un microcosmo sul quale si svolge la storia dell'umanità come la vede Shakespeare, e cioè «lotta per il potere, assassinio, rivolta e violenza». Il genere drammatico di riferimento è quello dei revenger's plays (drammi di vendetta), ma con una differenza basilare: Prospero, la vittima, è un mago che usa i suoi incantesimi non per vendicarsi dei torti subiti, ma per costruire un percorso di espiazione delle colpe per gli uomini che lo hanno tradito. Prospero, il duca usurpato, non vuole vendetta, bensì il pentimento di coloro che hanno sbagliato. Non si accanisce contro i suoi nemici, non si consuma in uno sterile rancore, ma è capace di perdonare; e «quale insegnamento più attuale avrebbe potuto dare un artista all'uomo di oggi, che in nome di una religione o di un "ideale" ammazza e commette crudeltà inaudite, in una escalation che chissà dove lo porterà?».

Jan Kott definisce The Tempest «il dramma delle illusioni perdute, dell'amara saggezza e della fragile ma ostinata speranza»; quella stessa speranza che balugina in molte delle opere di Eduardo: basti pensare, ad esempio, ai gesti di affetto e comprensione con cui Gennaro Jovine, al termine di Napoli Milionaria!, perdona la sua famiglia che l'ha deluso; alla forza del tenero legame tra padre e figlia in opere quali Mia famiglia o Sabato, domenica e lunedì; all'amore di Ninuccia per Vincenzo De Pretore (De Pretore Vincenzo) o di Guglielmo Speranza per la giovane Bonaria (Gli esami non finiscono mai).

Quando tutto sembra perduto, quando le conseguenze del male appaiono irreversibili, giungono, inaspettati, un gesto, uno sguardo, una carezza, una parola, capaci di confortare. La benevolenza verso quanti hanno commesso errori talvolta gravissimi, l'intensità dei legami familiari, l'amore puro e disinteressato, sono i temi che dominano la Tempest, che Eduardo sente come propri e fa vivere nelle sue opere.

Per tutte queste ragioni, dunque, Eduardo predilesse The Tempest. Era il 1983, e, nonostante il peso degli anni e la vista che gli si indeboliva di giorno in giorno, lavorò alla traduzione con «felicità giovanile», con passione: «Malgrado il caldo torrido di questa estate, ho passato settimane entusiasmanti lavorando spesso fino a otto ore al giorno». Forse Eduardo sapeva che il destino gli stava offrendo l'ultima occasione per incontrare il maestro di una vita, ed era forse anche attratto dall'idea di lasciare il teatro con lo stesso spirito di tolleranza verso i propri simili che avevano mostrato Prospero ed il suo creatore. E ci riuscì. Nel giro di appena un mese e mezzo portò a termine il suo ultimo lavoro, che venne dato alle stampe nel gennaio dell'84. Nei mesi seguenti Eduardo impegnò le sue ultime energie per metterne a pùnto una registrazione audio, ma purtroppo non poté completarla: alla fine dell'estate le sue condizioni di salute si aggravarono irrimediabilmente. Il 31 ottobre 1984 Eduardo De Filippo spezzava – come Prospero al termine della sua missione – la sua bacchetta magica. Si congedava dal teatro e dalla vita dopo aver tradotto le ultime parole di Prospero, che sono anche le ultime dell'ultima opera di William Shakespeare:

Prospero: Ora i miei incantesimi / Si sono tutti spenti, / La forza che possiedo / È solo mia, ed è poca [...] Il vostro fiato gentile / Colmi le mie vele / Altrimenti fallisce il mio progetto / Che era di dar piacere. (Epilogo, 1-13)

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Pagina 40

3. "Símmo Napulitane!"

La prima scena della Tempest ha la funzione di prologo e racconta del naufragio, orchestrato dal mago Prospero, che si conclude con l'approdo di tutti i passeggeri della nave sull'isola su cui si svolgerà l'intera vicenda. Sin dai primi versi, la tecnica della dilatazione è soprattutto funzionale allo spostamento dell'asse etnico-linguistico. In Shakespeare si legge:

Boatswain: Heigh, my hearts; cheerly, cheerly, my hearts! Yare! Yare! Take in the topsail. Tend to the master's whistle! (I, 1, vv. 5-7)

Nostromo: Su, cuori miei! Animo, ragazzi, animo! Svelti, svelti! Imbrigliate la gabbia! Pronti al fischio del capitano!


Eduardo traduce:

Nostromo (ai marinai che entrano): Guagliú, curríte. Faciteve curaggio: 'a Maronna 'a Catena nce aiuta. Ammainate 'a vela maestra e manteníteve lèse. Appizzate li rrecchie pe' lu sisco de lu Capitanio. Guagliú, facímmece annòre: símmo Napulitane! (p. 5)

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