Copertina
Autore Alberto Manguel
Titolo La biblioteca di notte
EdizioneArchinto, Milano, 2007 , pag. 312, ill., cop.fle., dim. 15,5x21,5x2 cm , Isbn 978-88-7768-496-7
OriginaleThe Library at Night
TraduttoreGiovanna Baglieri
LettoreRenato di Stefano, 2009
Classe libri , musei , scrittura-lettura
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Indice


Prefazione                                       9

La biblioteca come mito                         13

La biblioteca come ordine                       37

La biblioteca come spazio                       61

La biblioteca come potere                       83

La biblioteca come ombra                        95

La biblioteca come forma                       113

La biblioteca come caso                        141

La biblioteca come laboratorio                 151

La biblioteca come mente                       163

La biblioteca come isola                       181

La biblioteca come sopravvivenza               197

La biblioteca come oblio                       211

La biblioteca come immaginazione               223

La biblioteca come identità                    243

La biblioteca come casa                        255

Conclusione                                    267
Note                                           271
Ringraziamenti                                 289
Referenze iconografiche                        291
Indice dei nomi                                295


 

 

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Pagina 9

Prefazione



Ho sempre avuto questo umore errante (anche se non con uguale successo) e, come uno spaniel lanciato alla caccia, che abbaia ad ogni uccello che veda, abbandonando la sua preda, io ho inseguito ogni cosa, tranne ciò che avrei dovuto, e posso giustamente lamentare il fatto, e sinceramente perdipiù, (poiché chi è in ogni luogo non è in nessun luogo)..., di avere letto molti libri, ma con miseri risultati, per mancanza di metodo; ho incespicato confusamente in vari autori nelle nostre Biblioteche, con scarso profitto, per mancanza di arte, ordine, memoria e discernimento.

Robert Burton, Anatomia della malinconia


Il punto di partenza è una domanda.

Esulando dal campo della teologia e della letteratura fantastica, pochi possono mettere in dubbio che le caratteristiche principali del nostro universo siano il vuoto di significato e la mancanza di un fine riconoscibile. Eppure, con sconcertante ottimismo, raccogliamo senza sosta ogni brandello di informazione che ci capiti sottomano in rotoli, libri e microchip, tra gli scaffali delle biblioteche, siano esse materiali, virtuali o di altra natura ancora, nel patetico tentativo di dare al mondo una parvenza di senso e di ordine, perfettamente consapevoli, per quanto ci piaccia credere il contrario, che i nostri sforzi sono destinati a fallire miseramente.

Ma allora perché lo facciamo? Pur sapendo fin dal principio che questa domanda con ogni probabilità sarebbe rimasta inevasa, la ricerca mi sembrava di per sé degna di essere intrapresa. Questo libro è la storia della mia ricerca.

Meno interessato alla nitida successione di date e di nomi rispetto al nostro infinito sforzo di raccogliere, ho iniziato quest'impresa parecchi anni or sono, non per compilare un'ennesima storia delle biblioteche né per aggiungere un altro tomo alla già paurosamente sterminata raccolta di biblioteconomia, ma semplicemente per dare conto del mio stupore. «Di certo dovremmo trarre commozione e ispirazione dal fatto», scriveva Robert Louis Stevenson più di un secolo fa, «che la nostra razza non cessa di affaticarsi in un campo dal quale il successo è bandito».


Le biblioteche, la mia e quelle condivise con un pubblico più vasto di lettori, mi sono sempre apparse luoghi di piacevole follia, e per quanto ricordi, sono sempre stato sedotto dalla loro logica labirintica, da cui trapela che è la ragione (se non l'arte) a governare una cacofonica sistemazione di libri. Provo il piacere dell'avventura nel perdermi tra le scaffalature stipate, superstiziosamente fiducioso che ogni gerarchia stabilita di lettere e di numeri mi condurrà un giorno a una destinazione promessa. I libri sono stati a lungo strumenti delle arti divinatorie. «Una grande biblioteca», rifletteva Northrop Frye in uno dei suoi numerosi taccuini, «ha davvero il dono delle lingue e la grande forza della comunicazione telepatica.»

Stregato da questa piacevole illusione, ho trascorso mezzo secolo a raccogliere libri. Con immensa generosità, i miei libri non mi hanno mai chiesto nulla, e mi hanno offerto in cambio ogni genere di illuminazione. Scrisse Petrarca a un amico: «Bibliotheca nostra, tuis in manibus relicta, non illiterata quidem dia, quamvis illiterati hominis». Come quelli di Petrarca, anche i miei libri sanno infinitamente più di me, e sono loro grato che sopportino addirittura la mia presenza. Talvolta mi sembra di abusare di questo privilegio.

L'amore per le biblioteche, come la maggior parte degli amori, va imparato. Non c'è nessuno che, mettendo piede per la prima volta in una stanza fatta di libri, sappia istintivamente come comportarsi, che cosa aspettarsi, che cosa sia promesso, che cosa sia permesso. Si può essere sopraffatti dal terrore – di fronte all'accumulo di libri o alla sua vastità, davanti al silenzio, al beffardo monito di quanto non si sa, alla sorveglianza – e parte di quel senso di sopraffazione può persistere, anche quando rituali e convenzioni siano stati appresi, quando la geografia sia stata tracciata su una mappa e i nativi si siano rivelati pacifici.

Avventatamente, da giovane, quando i miei amici sognavano di compiere gesta eroiche nei regni dell'ingegneria e della legge, della finanza e della politica interna, io sognavo di diventare un bibliotecario. L'indolenza e una passione irrefrenabile per i viaggi hanno deciso altrimenti. E ora, avendo raggiunto l'età di cinquantasei anni (che, come ricorda Dostoevskij nell' Idiota è «l'età in cui si può giustamente dire che inizi la vita vera»), sono tornato a quel mio primo ideale e, anche se non posso propriamente definirmi un bibliotecario, vivo tra scaffali che continuano a moltiplicarsi e i cui limiti iniziano a sfumare e a coincidere con la casa stessa. Avrei dovuto intitolare questo libro Viaggio intorno alla mia camera. Ma, ahimè, il noto Xavier de Maistre mi ha preceduto, più di due secoli or sono.

Alberto Manguel, 30 gennaio 2005

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Pagina 18

Di giorno, la biblioteca è il regno dell'ordine. Mi muovo con disinvoltura lungo i dotti scaffali, alla ricerca di un nome o di una voce, richiamando alla mente i libri in base alla fila e al posto che ho loro assegnato.

La struttura del luogo è visibile: un dedalo di linee rette, non per smarrirsi ma per ritrovarsi; una stanza ripartita in base a una sequenza classificatoria chiaramente logica; una geografia obbediente a un indice predeterminato e a una gerarchia memorabile di alfabeti e numeri.

Ma di notte l'atmosfera cambia. I suoni si fanno ovattati, i pensieri più udibili. «Soltanto quando cala il buio, la civetta di Minerva spicca il volo», osservava Walter Benjamin, citando Hegel. Il tempo si avvicina a quel momento tra sonno e veglia nel quale il mondo viene piacevolmente ri-immaginato. I miei movimenti si fanno allora involontariamente furtivi, il mio agire segreto. Mi trasformo in una sorta di fantasma. Ora sono i libri la vera presenza, e io, il loro lettore, vengo blandito e attirato da un certo volume e da una certa pagina attraverso rituali cabalistici di lettere intraviste appena. Di notte, l'ordine decretato dai cataloghi delle biblioteche è pura convenzione; si svuota di prestigio tra le ombre. Anche se la mia biblioteca non ha un catalogo autorevole, perfino le suddivisioni più blande, come la classificazione per ordine alfabetico in base all'autore o in base alla lingua, perdono di importanza. Scevri dai vincoli quotidiani, inosservati a tarda ora, i miei occhi e le mie mani vagano senza posa tra le file ordinate, ripristinando il caos. Inaspettatamente un libro ne richiama un altro, creando alleanze tra culture e secoli diversi. Un verso vagamente ricordato è richiamato da un altro per ragioni che, alla luce del giorno, rimangono oscure. Se la biblioteca del mattino riverbera l'eco di un severo ordine del mondo ragionevolmente auspicabile, la biblioteca di notte sembra gioire nell'allegra e sostanziale confusione del mondo.

Nel I secolo d.C., nel suo libro sulla guerra civile romana, avvenuta cento anni prima, Lucano descrisse Giulio Cesare che si aggirava per le rovine di Troia, notando come ogni grotta e ogni spoglia foresta ricordassero al suo eroe le antiche storie omeriche. «Non v'è pietra priva d'un nome», osservava Lucano, alludendo sia al viaggio ricco di narrazioni di Cesare sia, proiettandosi nel futuro, alla biblioteca in cui siedo io adesso. Tra le copertine i miei libri racchiudono ogni storia che io conosca e possa ricordare, o che abbia dimenticato, o che potrò leggere un giorno; riempiono di voci antiche e nuove lo spazio intorno a me. Non v'è dubbio che queste storie esistano sulla pagina anche durante il giorno ma, forse, la familiarità notturna con entità spettrali e sogni rivelatori rende la loro presenza più tangibile al calar del sole. Scorro le scaffalature dando un'occhiata alle opere di Voltaire e ascolto nell'oscurità la favola orientale di Zadig; da qualche parte, in lontananza, il Vathek di William Beckford afferra il filo della narrazione e lo passa ai clown di Salman Rushdie chiusi tra le copertine azzurre dei Versetti satanici; un altro Oriente è riecheggiato nel villaggio magico di Zahiri di Samarcanda del XII secolo, e da qui la narrazione passa ai dolenti sopravvissuti dell'odierno Egitto di Nagib Mahfuz. Il Cesare di Lucano camminava con prudenza nel paesaggio troiano per tema di calpestare i fantasmi. Di notte, qui in biblioteca, i fantasmi hanno voce.

Eppure, la biblioteca di notte non si addice a tutti i lettori. Michel de Montaigne, per esempio, non condivideva questa mia preferenza crepuscolare. La sua biblioteca (lui parlava di librairie, non di bibliothèque, perché l'uso di queste parole iniziava a cambiare proprio allora, nel vertiginoso Cinquecento) si trovava al terzo piano della sua torre, in un antico magazzino. «Trascorro lì la maggior parte dei giorni della mia vita e delle ore del giorno; ma non ci sto mai di notte», confessava. Di notte Montaigne dormiva, convinto che il corpo soffrisse già abbastanza di giorno per il bene della mente intenta nella lettura. «I libri hanno molte qualità piacevoli per coloro che sanno sceglierli, ma non esiste beneficio senza sforzo; non è un puro e semplice piacere, non più di altri; ha i suoi disagi, che sono gravosi; è l'anima a svagarsi, ma il corpo, di cui non dimentico le pene, rimane inattivo e si affatica e si abbatte.»

Non il mio. Le qualità variegate delle mie letture sembrano penetrare in ogni mio muscolo, e così, quando alla fine decido di spegnere la luce della biblioteca, porto con me nel sonno le voci e gli episodi del libro che ho appena chiuso. Una lunga esperienza mi ha insegnato che, se voglio scrivere di un certo argomento di mattina, le mie letture notturne in merito suggeriranno di notte ai miei sogni non soltanto i temi ma i fatti veri e propri della storia. Leggere del bœuf en daube della signora Ramsay mi fa venire fame, l'ascesa di Petrarca sul monte Ventoux mi lascia senza fiato, il racconto delle carceri di Gramsci mi infonde coraggio, le ultime pagine di Kim mi colmano di un sentimento di affettuosa amicizia, la prima descrizione del mastino dei Baskerville mi fa guardare con timore alle spalle. Per Coleridge, tali ricordi accendono nel lettore la sensazione più elevata, il senso del sublime, che «è suscitato, non dalla vista di un oggetto esterno, ma dalla riflessione che ne fa chi lo osserva; non dall'impressione sui sensi, ma dal riflesso dell'immaginazione».? Coleridge abbandona troppo presto questa «impressione sui sensi»; io, per permettere a queste immaginazioni notturne di fiorire, devo lasciare risvegliare gli altri sensi – devo vedere e toccare le pagine, devo sentire il fruscio e il crepitio della carta, l'allarmante schiocco del dorso, devo invece odorare il legno degli scaffali, il profumo muschiato delle rilegature in pelle, l'aroma acre dei miei tascabili ingialliti. Solo allora posso addormentarmi.

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Pagina 23

Di giorno sono tentato dalla concentrazione e dall'ordine; di notte posso leggere con una spensieratezza che rasenta la noncuranza.

In ogni caso, sia di giorno che di notte, la mia biblioteca è un regno privato, molto diverso dalle biblioteche pubbliche, grandi e piccole, e anche dalla fantomatica biblioteca elettronica, la cui universalità mi lascia un po' scettico. Geografia e consuetudini di queste tre tipologie di biblioteca sono diverse per molti aspetti, anche se tutte hanno in comune l'esplicita volontà di armonizzare conoscenza e immaginazione, di raggruppare e parcellizzare le informazioni, di concentrare in un unico luogo la nostra esperienza vicaria del mondo, e di escludere le esperienze di molti altri lettori per parsimonia, ignoranza, incapacità o paura.

Questi tentativi, apparentemente contraddittori, di inclusione ed esclusione, sono tanto costanti e di così ampia portata da avere (perlomeno in Occidente) i propri emblemi letterari in due monumenti che, in un certo senso, simboleggiano ciò che siamo. Il primo, eretto per raggiungere gli inarrivabili cieli, nacque dal nostro anelito di conquistare lo spazio, desiderio punito dalla pluralità di lingue che ancor oggi pone ostacoli quotidiani ai nostri tentativi di conoscerci gli uni con gli altri. Il secondo, costruito per raccogliere ciò che quelle lingue avevano cercato di registrare in tutto il mondo, scaturì dalla nostra speranza di vincere il tempo, e si concluse con un incendio leggendario che consumò perfino il presente. La Torre di Babele nello spazio e la Biblioteca di Alessandria nel tempo sono i simboli speculari di queste ambizioni. Alla loro ombra, la mia piccola biblioteca è il riflesso di queste due aspirazioni impossibili: il desiderio di abbracciare tutte le lingue di Babele e l'anelito di possedere tutti i volumi di Alessandria.

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Pagina 30

Nella nostra epoca, privata di sogni epici, che abbiamo rimpiazzato con sogni di saccheggio, l'illusione di immortalità è creata dalla tecnologia. Il Web, con la sua promessa di una voce e di un sito per tutti, è il nostro equivalente del mare incognitum, il mare sconosciuto che irretiva gli antichi viaggiatori con la tentazione di nuove scoperte. Immateriale come l'acqua, troppo vasto perché la mente umana possa contenerlo, il Web con le sue infinite potenzialità ci fa confondere l'inafferrabile con l'eterno. Come il mare, anche il Web è mutevole: il 70 per cento delle comunicazioni dura meno di quattro mesi. La sua virtù (la virtualità) implica un presente costante che, per gli studiosi medievali, era una delle definizioni di inferno. Per contro, Alessandria e i suoi studiosi non fraintesero mai la vera natura del passato; sapevano che era la fonte di un presente in continuo movimento, nel quale nuovi lettori erano alle prese con libri antichi che diventavano nuovi leggendoli. Ogni lettore esiste per assicurare a un certo libro una piccola immortalità. La lettura è, in tal senso, un rito di rinascita.

Ma la Biblioteca di Alessandria venne fondata per uno scopo ben più vasto della semplice immortalità. Nacque per registrare tutto ciò che era stato registrato e che si poteva registrare fino a quel momento, e che sarebbe stato assorbito da ulteriori registrazioni, in una sequenza infinita di letture e glosse che avrebbero a loro volta generato altre letture e altre glosse. Nacque per essere un laboratorio di lettori, non soltanto un luogo dove conservare i libri per sempre. Per garantirne l'uso, i re tolemaici invitarono i più insigni studiosi del mondo, tra cui Euclide e Archimede, a fissare la loro residenza ad Alessandria. Li ricompensavano lautamente e non chiedevano nulla in cambio, se non che usassero i tesori della Biblioteca. In questo modo, ciascuno di questi lettori specializzati veniva a conoscenza di un gran numero di testi, che leggeva e riassumeva, producendo summae critiche a vantaggio delle generazioni future pronte a nuove sintesi di tali letture. Una satira del III secolo a.C. di Timone di Fliunte definisce questi studiosi charakitai, «scribacchini», e dice che «nella popolosa terra d'Egitto, molti pasciuti charakitai scribacchiano sul papiro, tra incessanti dispute nella gabbia delle Muse».

Nel II secolo, a seguito dei compendi e delle collazioni alessandrine, fu stabilita una ferrea regola epistemologica di lettura, che decretava: «Il testo più recente rimpiazzi tutti i precedenti, poiché si presume li contenga». Rispettando questo metodo esegetico, avvicinandoci ai giorni nostri, Stéphane Mallarmé disse che «il mondo era fatto per concludersi in un bel libro», vale a dire, in un unico libro, uno qualsiasi, un distillato o un sunto del mondo che deve comprendere ogni altro libro.

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Pagina 70

Il direttore del programma di archiviazione elettronica di documenti alla National Archive and Records Administration degli Stati Uniti ha ammesso nel novembre del 2004 che la conservazione dei materiali elettronici, anche soltanto per il decennio prossimo, per non parlare dell'eternità, «è un problema globale che coinvolge i governi e le multinazionali fino ad arrivare ai singoli utenti». In mancanza di una soluzione chiara, gli esperti consigliano di fare delle copie su Cd, ma anche questi sono di breve durata. La vita dei dati registrati su Cd con un masterizzatore potrebbe essere di soli cinque anni. In effetti, non sappiamo per quanto sarà possibile leggere un testo su un Cd del 2004. E se è vero che l'acidità e la friabilità, gli incendi e i leggendari tarli della carta minacciano gli antichi rotoli e i codici, è altrettanto vero che non tutto ciò che viene scritto o stampato su pergamena o carta è condannato a una fine precoce. Qualche anno fa, nel Museo Archeologico di Napoli, vidi, conservati tra due lastre di vetro, i resti di un papiro recuperato dalle rovine di Pompei. Aveva quasi duemila anni; era stato bruciato dall'eruzione del Vesuvio, seppellito sotto la colata di lava e, malgrado ciò, riuscivo ancora a leggere le lettere, con sbalorditiva chiarezza.

Eppure, entrambe le biblioteche – quella cartacea e quella elettronica – possono e dovrebbero coesistere. Sfortunatamente, una viene spesso favorita a svantaggio dell'altra. La nuova Biblioteca di Alessandria, inaugurata nell'ottobre del 2003, proponeva, come uno dei suoi principali progetti, una biblioteca virtuale parallela – la Alexandria Library Scholars Collective. La biblioteca elettronica fu allestita dall'artista americana Rhonda Roland Shearer, e la sua gestione richiede un budget annuale di mezzo milione di dollari americani, una somma che è probabilmente destinata a crescere di molto in futuro. Queste due istituzioni, che sono entrambe il tentativo di riportare in vita l'antica biblioteca dei tempi di Callimaco, presentano un paradosso. Mentre gli scaffali della nuova biblioteca di pietra e vetro, quasi vuoti per mancanza di risorse economiche, fanno mostra di una smilza collezione di tascabili e libri scartati, oltre alle donazioni internazionali di editori, la biblioteca virtuale viene riempita di libri da tutto il mondo, per la maggior parte scannerizzati da una squadra di tecnici della Carnegie-Mellon University, con un software chiamato CyberBook Plus, ideato dalla stessa Shearer per adattarsi ai diversi formati e alle diverse lingue «privilegiando l'aspetto visivo su quello testuale».

La Alexandria Library Scholars Collectíve non è l'unica ad avere l'ambizione di competere con le biblioteche cartacee. Nel 2004 Google, il più popolare motore di ricerca di Internet, aveva annunciato di aver stipulato accordi con molte delle principali biblioteche di ricerca del mondo – la Harvard, la Bodleian Library, la Stanford, la New York Public Library – per scannerizzare parte del loro patrimonio da mettere in rete a beneficio dei ricercatori, a cui sarebbe stata risparmiata la fatica di recarsi di persona in biblioteca e addentrarsi tra polverose ed infinite scaffalature di carta e inchiostro. Google ha dovuto abbandonare il progetto nel luglio 2005 per ragioni economiche e amministrative, ma non c'è dubbio che esso verrà ripreso in futuro, perché si adatta perfettamente alla rete. Nel giro di qualche anno, con ogni probabilità, milioni di pagine attenderanno i propri lettori on-line. Proprio come nel racconto ammonitore di Babele, «e ora nulla di quanto hanno in progetto di fare sarà loro impossibile», e presto saremo in grado di richiamare in vita l'intero fantomatico patrimonio di qualsiasi Alessandria, passata e futura, con il semplice tocco di un dito.

Le argomentazioni pratiche a favore di un simile passo sono inconfutabili. La quantità, la velocità, la precisione, la disponibilità su richiesta sono ovviamente aspetti importanti per i ricercatori. E la nascita di una nuova tecnologia non significa necessariamente la morte di quella precedente: l'invenzione della fotografia non ha eliminato la pittura, bensì l'ha rinnovata, e lo schermo e il codice possono nutrirsi l'uno dell'altro e coesistere amichevolmente sulla stessa scrivania del lettore. Paragonando la biblioteca virtuale a quella tradizionale fatta di carta e inchiostro, dobbiamo tenere a mente parecchie cose: che la lettura spesso richiede lentezza, profondità e contesto; che la nostra tecnologia è ancora fragile e che, continuando a cambiare, ci impedisce molte volte di recuperare quello che è stato salvato in contenitori ormai superati; che sfogliare un libro o aggirarsi tra gli scaffali è un aspetto intimo della lettura che non può essere interamente rimpiazzato dallo scorrere di una pagina sullo schermo, così come un viaggio vero non può essere rimpiazzato da viaggi virtuali e da gadget tridimensionali.

Forse è questo il punto cruciale. Leggere un libro non equivale esattamente a leggere un testo sul monitor, indipendentemente da quale esso sia. Assistere a una rappresentazione teatrale non equivale a vedere un film, vedere un film non equivale a guardare un Dvd o una videocassetta, osservare un quadro non equivale a esaminare una foto. Ogni tecnologia fornisce un mezzo (quest'affermazione fu fatta nel 1964 da Marshall McLuhan) che caratterizza l'opera che incarna, e ne determina la forma ottimale di conservazione e di accesso. Una rappresentazione teatrale può essere messa in scena in spazi circolari che mal si adattano alla proiezione di un film; vedere un Dvd in uno spazio raccolto è diverso dal vedere lo stesso film sul grande schermo; le foto ben riprodotte in un libro possono essere apprezzate appieno, ma non vi è riproduzione che possa rendere l'appagamento della visione di un quadro originale.

Baker termina il suo libro con quattro raccomandazioni utili: che le biblioteche siano obbligate a rendere noti gli elenchi delle pubblicazioni che intendono scartare; che tutte le pubblicazioni spedite alla Library of Congress e da questa rifiutate siano inventariate e immagazzinate in edifici ausiliari messi a disposizione dallo stato; che i quotidiani siano periodicamente rilegati e conservati; che il progetto di ridurre a microfilm o digitalizzare i libri venga abolito o, quantomeno, che sia vietato distruggere gli originali dopo la trasposizione in formato elettronico. L'archiviazione elettronica e la conservazione fisica dei materiali stampati, assieme, garantiscono alla biblioteca di raggiungere almeno una delle sue ambizioni: l'essere onnicomprensiva.

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Pagina 80

In un caldo pomeriggio di fine Ottocento, due impiegati di mezza età si incontrarono su una panchina di Boulevard Bourdon a Parigi e divennero immediatamente ottimi amici. Bouvard e Pécuchet (i nomi che Gustave Flaubert diede ai suoi eroi comici) scoprirono attraverso la loro amicizia un fine comune: la ricerca della conoscenza universale. Per raggiungere questo scopo ambizioso, al cui confronto il risultato di Diderot appare deliziosamente modesto, tentarono di leggere il più possibile in ogni branca dello scibile umano, cogliendone i fatti e le idee salienti: impresa, naturalmente, infinita. Non c'è da stupirsi, dunque, che Bouvard e Pécuchet sia stato pubblicato incompiuto un anno dopo la morte di Flaubert, avvenuta nel 1880, ma non prima che i due ardimentosi avessero esplorato molte dotte biblioteche di agricoltura, letteratura, zootecnia, medicina, archeologia e politica, con risultati sempre deludenti. Quello che i due personaggi comici di Flaubert scoprirono è quello che sappiamo da sempre ma che stentiamo a credere: l'accumulo di conoscenza non è conoscenza.

L'ambizione di Bouvard e Pécuchet oggi è quasi diventata realtà, con tutta la conoscenza del mondo che sembra essere lì, a portata di mano, tremolante, dietro lo schermo tentatore. Anche Jorge Luis Borges, che un tempo immaginò una biblioteca infinita di tutti i libri possibili, inventò un personaggio simile a Bouvard e Pécuchet, che cerca di compilare un'enciclopedia universale così completa da non tralasciare nulla di ciò che esiste al mondo. Alla fine, come i suoi precursori francesi, fallisce nel suo tentativo, ma non del tutto. La sera in cui rinuncia al suo grande progetto, noleggia calesse e cavallo e fa un giro in città. Vede i muri di mattoni, la gente comune, le case, un fiume, il mercato, e sente che in qualche misura tutte queste cose sono la sua opera. Capisce che il suo progetto non era impossibile, ma semplicemente ridondante. L'enciclopedia mondiale, la biblioteca universale, esiste, ed è il mondo stesso.

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Pagina 182

Possiamo vivere in una società che si fonda sui libri eppure non leggere, oppure possiamo vivere in una società dove i libri sono ritenuti un semplice accessorio ed essere lettori nel senso più vero e profondo. La società greca, per esempio, era poco interessata ai libri, ma i greci, presi uno per uno, erano assidui lettori. Aristotele, i cui libri (così come li conosciamo oggi) erano probabilmente gli appunti delle lezioni presi dai suoi studenti, leggeva in maniera vorace, e la sua biblioteca fu la prima della Grecia antica di cui si abbiano notizie certe. Socrate, che disprezzava i libri perché li considerava una minaccia al dono della memoria e che non pensò mai di lasciare una parola per iscritto, scelse di leggere il discorso dell'oratore Lisia, per non sentirlo recitare dall'entusiasta Fedro. Potendo scegliere, forse Crusoe avrebbe preferito sentirsi recitare il testo. Questo rappresentante di una società giudaico-cristiana libro-centrica, pur leggendo «ogni giorno la Parola di Dio», come ci racconta lui stesso, non era comunque un lettore appassionato della Bibbia, il suo Libro della Forza (per mutuare la definizione di Lutero). La consultava quotidianamente, facendosi guidare da essa, come avrebbe fatto con Internet, se fosse esistita. Ma non faceva sua la Parola, come ci esortava sant'Agostino, «incarnando» il testo scritto. Si limitava ad accettare la lettura che ne aveva fatto la sua società. Se Crusoe fosse naufragato alla fine del nostro millennio, è ipotizzabile che dalla nave avrebbe recuperato non il Libro, ma un PowerBook.

Che cosa differenzia Crusoe da Defoe, quell'avido lettore, visto che entrambi sono membri della società del libro? Che cosa distingue una persona per la quale il libro è un mezzo di potere o di prestigio, ma che può essere contenta anche senza libri, o con un solo libro emblematico, da un lettore che si è scelto uno per uno libri che hanno un significato soltanto per lui? C'è un abisso incolmabile tra il libro che è stato decretato un classico dalla tradizione e il libro (quello stesso libro) che abbiamo fatto nostro per istinto, emozione e comprensione: con esso abbiamo sofferto, abbiamo gioito, l'abbiamo tradotto nella nostra esperienza e, nonostante ci sia giunto tra le mani sommerso da strati di lettura, in fondo siamo noi a scoprirlo per primi, un'esperienza sorprendente e inaspettata come vedere le orme di Venerdì sulla sabbia. «Il canto di Omero», sosteneva Goethe, «ha il potere di liberarci, seppure per fugaci momenti, dal terribile peso con cui la tradizione ci ha oppresso per migliaia di anni.» Essere i primi ad addentrarci nella grotta di Circe, i primi a sentire Ulisse che chiama se stesso Nessuno, è il desiderio segreto di ogni lettore, assicurato generazione dopo generazione a chi apre il libro dell'Odissea per la prima volta. Questo modesto ius primae noctis garantisce ai libri che chiamiamo classici la loro unica, utile immortalità.

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Pagina 190

Il 18 gennaio 1949, un americano di nome James T. Mangan depositò agli atti un documento stipulato con il Cook County Recorder of Deeds e dinnanzi al procuratore dell'Illinois rivendicò il diritto di proprietà sullo spazio intero. Dopo aver attribuito al vasto territorio il nome di Celestia, il signor Mangan notificò il proprio diritto a tutti i paesi della terra, li diffidò dall'intraprendere qualsiasi viaggio sulla luna, e presentò istanza alle Nazioni Unite per essere accolto tra i suoi membri. L'ambiziosa impresa del signor Mangan è ora perseguita, in senso più pratico, dalle società multinazionali. I loro metodi sono estremamente efficaci. Offrendo agli utenti elettronici l'illusione di un mondo controllato tramite la tastiera, un mondo in cui tutto è «accessibile» e tutto si può ottenere, come nelle fiabe, premendo semplicemente un tasto, le società multinazionali hanno ottenuto, da un lato, che gli utenti non si lamentino di essere trasformati in consumatori, perché credono di avere il «controllo» sullo spazio cibernetico e, dall'altro, che non imparino nulla di significativo su se stessi, su ciò che li circonda più da vicino o nel resto del mondo. Nel 2004, il famoso fumettista americano Will Eisner, commentando l'utilità del Web come strumento creativo, spiegava che, quando scoprì per la prima volta questo mezzo elettronico, pensava fosse una fonte quasi magica di nuove invenzioni artistiche, ma che ultimamente era diventato «un semplice supermercato dove i consumatori vanno a cercare il prodotto più economico».

Il gioco riesce ogni volta che un lettore si collega al Web, prediligendo la velocità sulla riflessione e la brevità sulla complessità, preferendo brandelli di notizie e byte di fatti a lunghe dissertazioni ed elaborati dossier, e affogando le opinioni fondate in un mare di chiacchiere inutili, consigli vani, fatti imprecisi e informazioni superficiali, il tutto reso allettante da marchi famosi e statistiche manipolate.

Ma il Web è solo uno strumento. Non dobbiamo incolparlo del nostro atteggiamento superficiale nei confronti del mondo in cui viviamo. La sua virtù è la brevità e la molteplicità delle informazioni; non ci può anche fornire concentrazione e profondità. I media elettronici ci possono aiutare (e lo fanno) in mille modi pratici, ma non in tutti, e non li si può accusare di non fare quello a cui non sono destinati. Il Web non sarà il contenitore del nostro passato cosmopolita, come un libro, perché non è un libro e non lo sarà mai, nonostante le infinite forme e gli innumerevoli gadget escogitati per forzarlo in quel ruolo. Né può essere una biblioteca universale, nonostante progetti ambiziosi quali il progetto Google e ancor prima il Progetto Gutenberg (PG) che, fin dal 1971, ha messo in rete circa diecimila testi, molti dei quali sono doppioni, e molti altri ancora sono inaffidabili, essendo stati scannerizzati in fretta e ancora pieni di refusi. Nel 2004, il critico inglese Paul Duguid osservava: «A una prima rapida ma critica occhiata ci si rende conto [...] che, se per molti versi PG richiama, e migliora, una biblioteca convenzionale, esso ricorda anche una di quelle bancarelle alle pesche di beneficenza in parrocchia, dove gemme e cianfrusaglie vengono tutte ugualmente benedette dal sacerdote per il solo fatto di essere state donate».

E il Web non ci fornirà nemmeno vitto e alloggio durante la permanenza in questo mondo, perché non è un luogo dove riposare né una casa, né la grotta di Circe né Itaca. Siamo soltanto noi, e non le nostre tecnologie, i responsabili delle nostre perdite, e siamo soltanto noi i colpevoli quando scegliamo volontariamente l'oblio anziché il ricordo. Siamo comunque abili nel cercare scuse e nell'escogitare ragioni per le nostre misere scelte.

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