Autore Alberto Manguel
Titolo Il computer di sant'Agostino
EdizioneArchinto, Milano, 2005 [1998], Le mongolfiere , pag. 178, cop.fle., dim. 10,5x18x1,2 cm , Isbn 978-88-7768-446-2
OriginaleHow Pinocchio Learned to Read - Into the Looking-Glass Wood
CuratoreGiovanna Baglieri
LettoreSara Allodi, 2015
Classe scrittura-lettura , critica letteraria , libri












 

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Indice


Il lettore nel bosco al di là dello specchio              5

Borges innamorato                                        23

Le porte del Paradiso                                    61

Prender lucciole per lanterne                            81

La musa nel museo                                        95

Giona e la balena                                       107

Come Pinocchio imparò a leggere                         129

Il computer di sant'Agostino                            149


 

 

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Pagina 5

Il lettore nel bosco al di là dello specchio



                        «Vorresti dirmi di grazia quale strada prendere per
                        uscire di qui?»
                        «Dipende soprattutto da dove vuoi andare» disse il
                        Gatto.
                                Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie

                        I sofismi innati nell'uomo! Cambiare le cose,
                        cambiandone i nomi!
                                                          Karl Marx citato nell'
                                      Origine della famiglia di Friedrich Engels



Quando avevo otto o nove anni, in una casa che ormai non esiste più, mi fu regalata una copia delle Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo Specchio. Come molti altri lettori, ho sempre avuto la sensazione che l'edizione in cui si legge un libro per la prima volta rimanga, per il resto della vita, quella originale. La mia, grazie al cielo, era impreziosita dalle illustrazioni di John Tenniel ed era stampata su carta spessa color crema che odorava misteriosamente di legna arsa.

C'erano parecchie cose che non capivo in quella mia prima lettura di Alice, ma non sembrava avere grande importanza. Imparai in tenerissima età che, salvo si legga per scopi diversi dal puro piacere (come tutti a volte dobbiamo fare a causa dei nostri peccati), si può tranquillamente volare rasentando perigliosi acquitrini, farsi strada in giungle intricate, saltare d'un balzo solenni e monotone pianure, e lasciarsi semplicemente trasportare dalla vigorosa corrente del racconto. Alice, che non vedeva l'utilità di un libro «senza figure e senza dialoghi», sarebbe stata senz'altro d'accordo.

Per quanto ricordi, quelle avventure mi sembrarono un vero e proprio viaggio nel quale io stesso accompagnavo la povera Alice. Cadere nella buca del coniglio e attraversare lo specchio non erano che inizi, banali e meravigliosi quanto salire su un autobus. Ma il viaggio! A otto o nove anni, la mia incredulità non era tanto sospesa quanto ancora inesistente, e la narrazione a volte mi sembrava più vera della vita di ogni giorno. Non che pensassi che un posto come il Paese delle Meraviglie esistesse davvero, ma sapevo che era fatto della stessa materia della mia casa e della mia strada, dei mattoni rossi della mia scuola.

Un libro cambia ogni volta che lo leggiamo. Quella prima Alice di quando ero bambino fu un viaggio, come l' Odissea o Pinocchio, e io mi sono sempre sentito più un'Alice che un Ulisse o un burattino di legno.

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Pagina 16

Le letture vere sono sempre sovversive, sono fatte controvoglia, come Alice – lettrice sensata – ha avuto modo di scoprire nel mondo oltre lo specchio, popolato da gente che dà nomi insensati. Un primo ministro canadese smantella la ferrovia e lo chiama «progresso»; un uomo d'affari svizzero traffica in merce rubata e lo chiama «commercio»; un presidente argentino protegge degli assassini e la chiama «amnistia». Per ribellarsi a questi termini impropri il lettore può cercare tra le pagine dei suoi libri. In questi casi la lettura ci aiuta a rimanere coerenti nel caos, non a eliminarlo; a far progredire l'esperienza al suo ritmo vertiginoso, non a imbrigliarla in strutture verbali; ad attingere dall'oscurità, non a fidarci della superficie scintillante delle parole.

La misera mitologia del nostro tempo sembra aver paura di spingersi oltre la superficie. Diffidiamo della profondità, ci facciamo beffe dei riflessi differiti. Immagini di orrore scorrono sui nostri schermi, grandi e piccoli, ma non vogliamo rallentarle con il commento: vogliamo veder cavare gli occhi a Gloucester ma non vogliamo assistere al riposo di Lear. Una notte, qualche tempo fa, mi è capitato di guardare la televisione in una camera d'albergo e di fare zapping da un canale all'altro. Forse era soltanto un caso, ma tutte le immagini che rimanevano per qualche secondo sullo schermo mostravano persone uccise o picchiate, facce stravolte dall'angoscia, auto e palazzi che saltavano in aria. Ad un tratto mi sono reso conto che una delle scene che mi erano passate davanti agli occhi non faceva parte di un serial drammatico ma di un servizio sulla Bosnia. Tra le altre immagini che, considerate nel loro insieme, servivano a diluire l'orrore della violenza, avevo guardato, impassibile, una persona vera colpita da un proiettile vero.

George Steiner ipotizzava che l'olocausto avesse tradotto in una realtà di carni e ossa bruciacchiate gli orrori del nostro inferno immaginario; forse questa traduzione segnò l'inizio della nostra incapacità di immaginare la sofferenza di un'altra persona. Nel Medioevo, ad esempio, i raccapriccianti tormenti inflitti ai martiri, presenti in innumerevoli dipinti, non venivano mai considerati come semplici immagini di orrore: illuminati dalla teologia (per quanto dogmatica e catechistica fosse), che li alimentava e li definiva, la loro rappresentazione doveva aiutare lo spettatore a riflettere sulla sofferenza nel mondo. Non è detto che tutti gli spettatori avrebbero colto quanto stava oltre la pura morbosità della scena, ma si apriva comunque sempre uno spiraglio per una riflessione più profonda. Del resto, un'immagine o un testo possono soltanto offrire l'opportunità di leggere qualcos'altro o di leggere più attentamente, ma il lettore o lo spettatore possono anche respingere questa possibilità, perché in definitiva testo e immagine altro non sono che segni sulla carta e pennellate su una tavola o sulla tela.

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Pagina 66

Raggomitolato nella poltrona della biblioteca di mio padre e in altre poltrone ancora, in più case di quante possa ricordare qui, scoprii che Eros appare in continuazione nei luoghi più inaspettati. Sebbene le esperienze a cui si alludeva o che erano descritte sulla pagina privata fossero di una natura personale, quei racconti mi colpivano, mi stuzzicavano, mi bisbigliavano segreti.

Non condivideremo le esperienze, ma possiamo condividere i simboli. Trasportata in un altro regno, separata dal suo tema, la scrittura erotica raggiunge talvolta qualcosa di quell'atto essenzialmente privato, come quando i deliqui e gli spasimi del desiderio diventano un ricco vocabolario metaforico per l'incontro mistico. Ricordo con quanta smania lessi per la prima volta l'unione erotica descritta da San Giovanni della Croce.


    O notte che guidasti!
    O notte amabile più dell'aurora!
    O notte che hai unito
    l'Amato con l'amata,
    l'amata nell'Amato trasformata!
    [...]

    Dimentica, acquietata,
    il volto reclinai sull'Amato,
    tutto cessò e rimasi,
    lasciando ogni mia cura,
    circondata da gigli, obliata.



E poi John Donne , per il quale l'atto erotico/mistico è anche atto di esplorazione geografica:


    Dai licenza alle mie mani errabonde, e lascia che vadano
    dietro, davanti, in mezzo, sopra, sotto.
    O mia America! Mia Terra-Nova?



Ai tempi di Shakespeare, la consuetudine della letteratura erotica di attingere dal lessico geografico era così diffusa da essere oggetto di parodia. Nella Commedia degli equivoci, lo schiavo Dromio di Siracusa descrive al suo padrone le dubbie lusinghe della sguattera che lo concupisce – «è sferica come un mappamondo. E potrei trovarcene di paesi» – e prosegue, scoprendo l'Irlanda nel fondoschiena, la Scozia nel palmo indurito della mano, l'America nel naso, «tempestato di rubini, carbonchi, zaffiri, esposti al fiato ardente della Spagna».

William Cartwright, il nebuloso autore seicentesco dello Schiavo Reale, (una commedia che venne elogiata sia da Carlo I che da Ben Jonson), merita di essere ricordato per i seguenti versi, che restituiscono l'amore spirituale alla sua fonte autentica:


    Ero quel nonnulla che un tempo fu spinto
    a praticare questo sottile Amore;
    risalendo dal Sesso all'Anima, dall'Anima al Pensiero;
    ma pensando lì di muovermi,
    a spron battuto cavalcai dal Pensiero all'Anima, e poi
    dall'Anima scesi di nuovo al Sesso.



Nelle mie letture erratiche scoprii anche che una singola immagine può determinare la riuscita dell'intera poesia. Intorno al 1700 a.C. una poetessa sumera scrisse:


    Donandomi al mio giovane consorte –
    diventerò mela
    aggrappata al ramo,
    avvolgerò il picciolo
    con le mie dolci carni.

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Pagina 70

In gran parte delle lingue esiste un vocabolario ricco e variegato che rende abbastanza bene, se affidato alle mani di un artista esperto, le azioni e gli elementi con cui una società si sente a proprio agio, il bric-à-brac quotidiano dei suoi animali politici. Ma ciò che la società teme o non riesce a comprendere, ciò che mi ha obbligato a guardare con prudenza la soglia della biblioteca di mio padre, ciò che diventa proibito, perfino innominabile in pubblico, non trova nomi adatti per essere definito. «Scrivere un sogno, che assomigli al vero svolgimento di un sogno, con tutta la sua inconsistenza, le sue eccentricità e vacuità», annotava Nathaniel Hawthorne nei suoi Taccuini americani, «fino a questa tarda età del mondo, mai una tal cosa è stata scritta.» Altrettanto avrebbe potuto dire dell'atto erotico.

Le cose si complicano in particolare nella lingua inglese, per il semplice fatto che è sprovvista di un vocabolario erotico. Gli organi e gli atti sessuali prendono a prestito le parole dalla biologia o dal turpiloquio. Scientifici o scurrili, i termini per descrivere le meraviglie della bellezza fisica e l'estasi del piacere condannano, rendono asettico o deridono ciò che dovrebbe essere celebrato con stupore. Lo spagnolo, il tedesco, l'italiano e il portoghese presentano la stessa lacuna. Il francese, forse, è un po' più fortunato. Baiser per accoppiarsi, che deriva semanticamente da «bacio»; verge per pene, equivalente a «verga di betulla» che, associato ad «alberi», dà verger ossia «giardino»; petite mort, «piccola morte», per il momento d'estasi dopo l'orgasmo, in cui l'effimera tenerezza strappa l'eternità alla morte, mantenendo al contempo la sensazione di abbandonare beatamente questo mondo – hanno ben poco a che fare con le gomitatine e gli ammiccamenti suscitati da «fottere», «cazzo» e «venire». La vagina (udite, udite) è trascurata tanto in francese quanto in inglese, e non si può dire che con sia molto meglio di «fica». Per scrivere o tradurre un racconto erotico in inglese, l'autore deve usare i mezzi a sua disposizione in modi nuovi ed efficaci, e condurre il lettore, attraverso la grana del significato o immaginando un linguaggio a sé stante, in un'esperienza che per decreto della società rimarrà «inespressa». «Abbiamo collocato il sesso», disse il saggio Montaigne , «entro i confini del silenzio.»

Ma perché abbiamo deciso che Psiche deve ignorare Eros?

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Pagina 79

Post scriptum: Credo che la lettura, come l'atto erotico, debba in fondo rimanere un atto anonimo. Dovremmo essere in grado di infilarci in un libro o nel letto come fa Alice attraversando il bosco oltre lo specchio, sbarazzandoci dei pregiudizi del nostro passato e abbandonando per quell'attimo che ci vede uniti i nostri orpelli sociali. Leggendo o facendo l'amore, dovremmo essere in grado di perderci nell'altro, nel quale – per mutuare l'immagine di san Giovanni – siamo trasformati: il lettore nello scrittore nel lettore, l'amante nell'amante nell'amante. Jouir de la lecture, «godere della lettura», come dicono i francesi, che usano la stessa parola per definire il piacere che si trae dall'orgasmo e dalla lettura.

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Pagina 82

Vladímir Nabokov , criticato dall'amico Edmund Wilson per aver fatto una traduzione di Evgenij Onegin «con pecche e tutto», rispondeva che compito del traduttore non è quello di migliorare o commentare l'originale, ma quello di fornire al lettore ignorante di una certa lingua un testo riformulato con tutte le parole equivalenti di un'altra lingua. Pare che Nabokov ritenesse (anche se stento a credere che il maestro artigiano intendesse proprio questo) che le lingue sono «equivalenti» sia per significato che per suono, e che quanto si immagina in una lingua può essere ri-immaginato in un'altra – senza dover ricreare tutto ex-novo. Ma come ogni traduttore scopre all'inizio della prima pagina, la verità è che la fenice immaginata in una determinata lingua non è altro che un pollo ruspante in un'altra, e che per investire quel particolare volatile della maestosità dell'uccello risorto dalle proprie ceneri, è possibile che un'altra lingua richieda la scelta di una creatura diversa, estrapolata da bestiari che abbiano una propria concezione di stranezza. In inglese, ad esempio, la parola phoenix conserva tuttora un'eco esotica ed evocativa, mentre in spagnolo, ave fénix fa parte della pomposa retorica ereditata dal Seicento.

Nell'alto Medioevo, traduzione (dal participio passato del latino transferre) significava trasportare le reliquie di un santo da un posto all'altro. Talvolta queste traslazioni erano illegali, come quando le spoglie sacre venivano trafugate da una certa città per accrescere la gloria di un'altra. Fu così che i resti di san Marco furono trasportati da Costantinopoli a Venezia, nascosti in un carro carico di carne di maiale, che le guardie turche ai cancelli della città si rifiutarono di toccare. Sottrarre qualcosa di prezioso e farlo proprio con ogni mezzo possibile: forse questa definizione si adatta alla traduzione letteraria meglio di quella di Nabokov.

Nessuna traduzione è mai innocente. Ogni traduzione implica una lettura, la scelta di un soggetto e di un'interpretazione, il rifiuto o la soppressione di altri testi, la riformulazione con termini imposti dal traduttore che, per l'occasione, usurpa il titolo di autore. Poiché una traduzione non può essere imparziale, non più di quanto possa essere oggettiva una lettura, l'atto del tradurre implica una responsabilità che si estende ben oltre i limiti della pagina tradotta, e non riguarda soltanto il passaggio da una lingua all'altra, ma spesso si manifesta all'interno della stessa lingua, passando da un genere all'altro, o dagli scaffali di una letteratura all'altra. Ecco perché non tutte le «traduzioni» sono riconosciute come tali: quando Charles e Mary Lamb trasformarono le commedie di Shakespeare in racconti in prosa per bambini, o quando Virginia Woolf incluse generosamente le versioni di Turgenev fatte da Constance Garnett nel «gregge della letteratura inglese», gli spostamenti di quei testi alla nursery o alla British Library non furono ritenuti «traduzioni» in senso etimologico. Vuoi si tratti di Pork, Lamb, o Woolf, ogni traduttore maschera il testo dietro un altro significato, avvincente o denigratorio.

Se la traduzione fosse un semplice atto di scambio, non offrirebbe più occasioni di distorsione e di censura (o di miglioramento e di spiegazione) di quante ne offra una fotocopia o, al massimo, una scriptorium transcription. Ma ahimè, con buona pace di Nabokov, non è così. Se riconosciamo che ogni traduzione, per il semplice fatto di trasferire il testo in un'altra lingua, in un altro luogo e in un altro tempo, lo modifica in meglio o in peggio, dobbiamo anche riconoscere che ogni traduzione — traslitterazione, nuova narrazione, nuova etichettatura — aggiunge al testo originale una lettura prét-a-porter, un commento implicito. Ed è qui che entra in scena la censura.

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Pagina 90

Al tempo dell'espulsione dei gesuiti dal Paraguay, il cronista spagnolo Fernàndez de Oviedo disse di coloro che avevano «civilizzato» il popolo guaraní quello che un britanno, Calgaco, si riporta abbia detto dopo l'occupazione romana della Britannia: «Rubare, massacrare, rapinare, questo essi, con falso nome, chiamano impero e là dove hanno fatto il deserto, dicono d'aver portato la pace».

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Pagina 133

Da sempre chi sta al potere guarda con scarso entusiasmo alla lettura. Non a caso nel Settecento e nell'Ottocento furono varate leggi per proibire agli schiavi di imparare a leggere, perfino la Bibbia, visto che, come giustamente si obiettava, chi sa leggere la Bibbia sa anche leggere un trattato abolizionista. Gli sforzi e gli stratagemmi escogitati dagli schiavi per imparare a leggere sono prove più che sufficienti del nesso esistente tra libertà civile e potere del lettore, e della paura che quella libertà e quel potere fanno a governanti di ogni sorta.

Ma nella cosiddetta società democratica, prima ancora di considerare la possibilità di imparare a leggere, le leggi devono soddisfare una serie di bisogni fondamentali: il cibo, la casa, la salute. In un vibrante saggio su società e apprendimento, commentando gli sforzi della repubblica per diffondere il sistema scolastico obbligatorio in Italia, Collodi dice: «Secondo me, finora abbiamo pensato di più al cervello che allo stomaco delle classi bisognose e sofferenti. Pensiamo ora un po' più allo stomaco». Pinocchio, che non era estraneo alla fame, ha chiaro in mente questo bisogno primario. Immaginando quello che potrebbe fare se possedesse centomila monete e diventasse un ricco gentiluomo, si augura un bel palazzo con una libreria «tutta piena di canditi, di torte, di panattoni, di mandorlati e di cialdoni colla panna». I libri, come Pinocchio sa bene, non riempiono uno stomaco vuoto. Quando i suoi cattivi compagni gli lanciano addosso i libri con una mira così imprecisa da farli cadere in mare, frotte di pesci corrono a fior d'acqua, ma dopo aver assaggiato qualche pagina inzuppata, la risputano subito, pensando: «Non è roba per noi: noi siamo avvezzi a cibarci molto meglio!».

In una società in cui i bisogni elementari dei cittadini rimangono insoddisfatti, i libri sono un magro nutrimento; se usati in modo sbagliato, possono essere addirittura letali. Quando uno dei ragazzi scaglia un grosso manuale di aritmetica contro Pinocchio e, invece di colpirlo, centra un altro ragazzino alla testa, lo uccide. Inutilizzato e non letto, il libro è un'arma mortale.

Ma se, da un lato, la società appronta un sistema per soddisfare i bisogni primari e per introdurre l'obbligatorietà scolastica, dall'altro offre al contempo a Pinocchio distrazioni da quel sistema e la lusinga di svagarsi senza sforzi. Queste distrazioni si presentano dapprima sotto le spoglie del Gatto e della Volpe che avvertono Pinocchio che è stata la scuola a renderli rispettivamente cieco e zoppa, e poi con la creazione del Paese dei balocchi che Lucignolo, l'amico di Pinocchio, descrive in modo così allettante:

Lì non vi sono scuole: lì non vi sono maestri: lì non vi sono libri... Ecco un paese, come piace veramente a me! Ecco come dovrebbero essere tutti i paesi civili!

Giustamente Lucignolo associa i libri alla fatica e la fatica (nel mondo di Pinocchio come del resto nel nostro) ha assunto un significato negativo che non sempre ha avuto in passato. L'espressione latina, «per ardua ad astra», attraverso le asperità raggiungiamo le stelle, è quasi incomprensibile a Pinocchio (come a noi) perché pensiamo di poter ottenere tutto con il minimo sforzo possibile.

Ma la società non incoraggia questa necessaria ricerca di difficoltà, questo arricchimento di esperienza. Dopo che Pinocchio ha affrontato le prime disavventure, ha accettato la scuola ed è diventato un bravo studente, i compagni iniziano a prenderlo in giro, perché è quello che oggi chiameremmo un «secchione» e lo deridono perché «hai parlato come un libro stampato... non ti vergogni a mostrarti tutti i giorni così preciso e così diligente alla lezione?». Il linguaggio consente a chi parla di fermarsi alla superficie del pensiero, di dar voce a slogan dogmatici e a luoghi comuni che dividono il mondo in bianco e nero, di trasmettere messaggi piuttosto che significato, di porre il peso epistemologico su chi ascolta (come nel caso di «capisci cosa voglio dire?»). Ma il linguaggio può anche tentare di ricreare un'esperienza, di dar forma a un'idea, di esplorare in profondità e non soltanto in superficie una rivelazione soltanto intuita. Per gli altri ragazzi, questa distinzione è invisibile. Per loro, il fatto che Pinocchio parli «come un libro stampato» è sufficiente per etichettarlo come emarginato, come traditore, come un recluso nella sua torre d'avorio.

Alla fine la società mette sul cammino di Pinocchio una serie di personaggi che gli fanno da guida morale, come Virgilio, nell'esplorazione dei gironi infernali di questo mondo. C'è ad esempio il Grillo, che Pinocchio schiaccia contro il muro in uno dei primi capitoli e che miracolosamente sopravvive per aiutarlo in seguito; la Fata turchina che all'inizio si presenta a Pinocchio con le sembianze di una bambina dai capelli turchini in una serie di incontri inquietanti; il Tonno, un filosofo stoico che, dopo essere stato inghiottito dal Pescecane, dice a Pinocchio che non possono far altro che «rassegnarsi e aspettare che il Pescecane ci abbia digeriti tutt'e due!...». Ma tutti questi maestri abbandonano Pinocchio alla sua sofferenza, incapaci di fargli compagnia nei momenti bui e di smarrimento. Nessuno di loro gli insegna a riflettere sulla propria condizione, nessuno lo incoraggia a capire che cosa significhi quel suo desiderio di «diventare un ragazzo». Come se recitassero una tiritera dai libri di testo, incapaci di sollecitare interesse per le letture personali, queste figure autorevoli si preoccupano soltanto della parvenza accademica dell'istruzione, in cui l'attribuzione dei ruoli maestro/allievo dovrebbe bastare per realizzare l'«apprendimento». Come maestri sono inutili, perché credono di dover rendere conto soltanto alla società e non all'allievo.

Nonostante tutti questi ostacoli – distrazioni, scherno, abbandono – Pinocchio riesce a salire i primi due gradini della scala dell'apprendimento prevista dalla società: impara l'alfabeto e impara a leggere un testo almeno superficialmente. E lì si ferma. I libri diventano luoghi neutri dove esercitare questo codice appreso per trarne alla fine una morale convenzionale. La scuola lo ha preparato a leggere la propaganda.

Non avendo imparato a leggere in profondità, a entrare nel libro per sondarne i limiti talvolta irraggiungibili, Pinocchio ignorerà per sempre che le sue avventure hanno profonde radici letterarie. La sua vita (anche se non lo sa) è in realtà una vita letteraria, un mosaico di storie antiche nelle quali un giorno forse riuscirà a riconoscere la propria biografia (quando saprà leggere sul serio). E questo è vero per ogni lettore maturo. Le avventure di Pinocchio riecheggiano una moltitudine di voci letterarie. È un libro sulla quest di un padre che cerca un figlio e di un figlio che cerca un padre (la trama secondaria dell' Odissea che avrebbe poi scoperto Joyce). È un libro sulla ricerca di se stessi, come nella metamorfosi fisica dell'eroe dell' Asino d'oro di Apuleio e nella metamorfosi psicologica del Principe Hal nell' Enrico IV; è un libro sul sacrificio e sulla redenzione come vengono narrati nelle storie della Vergine Maria e nelle saghe dell'Ariosto; è un libro sui riti di passaggio archetipici, come nelle fiabe di Perrault (che Collodi tradusse), e nella terrena Commedia dell'Arte; è un libro sui viaggi nell'ignoto, come nelle cronache degli esploratori del Cinquecento e in Dante. Ma poiché Pinocchio non considera i libri come fonti di rivelazione, i libri non riverberano su di lui l'immagine della sua esperienza. Vladimir Nabokov, insegnando ai propri studenti a leggere Kafka, sottolineava che l'insetto in cui si trasforma Gregor Samsa è in realtà uno scarafaggio alato, un insetto che sulla schiena, sotto la corazza, nasconde le ali e che, se soltanto Gregor le avesse scoperte, gli avrebbero consentito di volare via. E poi Nabokov aggiungeva: «Sono molti i Dick e le Jane che crescono come Gregor, ignorando di avere ali per volare».

Nemmeno Pinocchio l'avrebbe saputo se fosse capitato nella Metamorfosi. L'unica cosa che sa fare, dopo aver imparato a leggere, è scimmiottare il linguaggio del testo. Assimila le parole scritte sulla pagina, ma non le digerisce: non fa veramente propri i libri perché, giunto alla fine delle sue avventure, ancora non è in grado di applicarli all'esperienza che ha di sé e del mondo. L'aver imparato l'alfabeto lo porta, nel capitolo finale, a nascere con un'identità umana e a guardare al burattino che era con soddisfazione divertita. Ma nel volume che Collodi non scrisse mai, Pinocchio deve ancora affrontare la società con una lingua immaginativa che i libri avrebbero potuto insegnargli attraverso i ricordi, le associazioni di idee, l'intuizione, l'imitazione. Girata l'ultima pagina, Pinocchio è finalmente pronto per imparare a leggere.

L'esperienza della lettura superficiale di Pinocchio è esattamente opposta a quella di un altro eroe (o meglio eroina) errante. Nel mondo di Alice, il linguaggio ritorna alla sua ricca ed essenziale ambiguità, e ogni parola (Humpty Dumpty docet) può significare quello che il parlante vuole che significhi. Anche se Alice rifiuta queste ipotesi tanto arbitrarie («Ma "piglia su e porta a casa" non è proprio come dire "ecco un argomento che ti stende"» obiettò Alice), questa epistemologia spicciola è la norma nel Paese delle Meraviglie. Se nel mondo di Pinocchio il significato di una storia stampata è privo di ambiguità, nel mondo di Alice il significato di «Jabberwocky», tanto per fare un esempio, dipende dalla volontà del lettore. (Sarà qui utile ricordare che Collodi scriveva nel periodo in cui la lingua italiana si andava formando ufficialmente per la prima volta, attingendo da svariati dialetti, mentre l'inglese di Lewis Carroll era una lingua ormai «codificata» da molto tempo, che poteva quindi essere smontata e messa in discussione con una certa tranquillità.)

Quando parlo di «imparare a leggere» (nel senso più pieno a cui accennavo prima), intendo dire qualcosa che sta tra questi due stili o filosofie. Pinocchio reagisce alle costrizioni della scolastica che era stato il metodo di apprendimento ufficiale in Europa fino al Cinquecento. Nella classe scolastica, lo studente imparava a leggere come imponeva la tradizione, in base a commentari fissi accettati dalle autorità. Il metodo Humpty Dumpty è un'esasperazione delle interpretazioni umaniste, un punto di vista rivoluzionario secondo cui ogni lettore deve confrontarsi con il testo alle proprie condizioni. Umberto Eco restringe opportunamente questa libertà e nota che «i limiti dell'interpretazione coincidono con i limiti del senso comune», al che, ovviamente, Humpty Dumpty avrebbe potuto replicare che ciò che è senso comune per lui può non esserlo per Eco. Ma, per la maggior parte dei lettori, la nozione di «senso comune» mantiene una certa chiarezza condivisa che deve bastare. «Imparare a leggere» significa dunque acquisire gli strumenti per appropriarsi di un testo (come fa Humpty Dumpty) e partecipare anche all'appropriazione fatta da altri (come avrebbe potuto suggerire il maestro di Pinocchio). In questo terreno scivoloso tra appropriazione e riconoscimento, tra identità imposta dagli altri e identità scoperta da soli, si colloca, credo, l'atto della lettura.

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Pagina 144

In alcune società in cui l'atto intellettuale è prestigioso in sé, come in molte società indigene sparse per il mondo, l'insegnante (l'anziano, lo sciamano, l'istruttore, il depositario della memoria della tribù) è facilitato nell'espletare il proprio compito, perché in quelle società la maggior parte delle attività sono subordinate all'insegnamento. Ma ci sono società, come ad esempio quella canadese, dove l'atto intellettuale non gode di alcun prestigio. Ne è testimonianza il fatto che il nostro conio rende omaggio a uccelli, paesaggi e politici, ma non agli artisti; nelle nostre città non ci sono targhe a ricordo di scrittori; i fondi destinati all'istruzione sono i primi a venire tagliati; la maggior parte dei nostri governanti sa a malapena leggere e scrivere; i nostri valori nazionali sono esclusivamente economici. A parole tutti riconoscono il valore della cultura e ufficialmente i libri sono celebrati, ma in realtà, nelle scuole e nelle università qualsiasi risorsa finanziaria disponibile viene utilizzata per acquistare apparecchiature elettroniche (dietro la spinta forsennata dell'industria) piuttosto che testi stampati, con la scusa tendenziosa che i supporti elettronici sono più economici e durevoli di carta e inchiostro. Ne consegue che le nostre biblioteche scolastiche perdono costantemente terreno. Le nostre leggi economiche favoriscono il contenitore piuttosto che il contenuto, perché il primo, più seducente, può essere commercializzato con maggior lucro: ecco perché l'economia spinge la tecnologia elettronica. Per venderla, la nostra società ne pubblicizza le due qualità principali: la velocità e l'immediatezza. «Più veloce del pensiero» dice la pubblicità di un certo computer portatile, uno slogan che la scuola di Pinocchio avrebbe senza dubbio condiviso. La contrapposizione è fondata, perché il pensiero richiede tempo e approfondimento, le due caratteristiche essenziali della lettura.

L'insegnamento è un processo lento e difficile, due aggettivi che ai nostri giorni sono diventati difetti anziché qualità. Oggi sembra quasi impossibile convincere la maggior parte di noi che lentezza e sforzo deliberato siano importanti. Eppure, Pinocchio imparerà soltanto se non avrà fretta di farlo, e diventerà un individuo maturo attraverso lo sforzo che un lento apprendimento impone. All'epoca di Collodi, quando i libri venivano imparati a pappagallo, come pure ai nostri giorni che traboccano di una sfilza quasi infinita di fatti rigurgitati, è tutto sommato facile imparare ad alfabetizzarsi a un livello superficiale, seguire una sit-com, capire una battuta pubblicitaria, leggere uno slogan politico, usare un computer. Ma per andare oltre e più in profondità, per avere il coraggio di affrontare i nostri timori, i nostri dubbi e reconditi segreti, per mettere in discussione l'operato della società nei confronti nostri e del mondo intero, dobbiamo imparare a leggere in un altro modo, diverso, dobbiamo imparare a pensare. Alla fine delle sue avventure Pinocchio diventerà un ragazzo, ma in fondo penserà sempre come un burattino.

Quasi tutto quel che ci circonda ci incoraggia a non pensare, ad accontentarci dei luoghi comuni, del linguaggio dogmatico che spacca il mondo in bianco e nero, in bene e male, in noi e loro. È il linguaggio dell'estremismo, che sbuca da ogni parte ai giorni nostri, per ricordarci che non è scomparso. Di fronte alla difficoltà di riflettere sui paradossi, sui quesiti irrisolti, sulle contraddizioni e sulle situazioni caotiche, rispondiamo con l'antichissimo grido di Catone il Censore al Senato romano: «Cartago delenda est!». Nessuna tolleranza per le altre civiltà, il dialogo va evitato, la legge deve essere imposta mediante l'esclusione o la distruzione. Questo è il proclama di decine di politici contemporanei. Questo è un linguaggio che finge di comunicare ma che per molti versi non fa altro che prevaricare; non si aspetta alcuna risposta se non un rispettoso silenzio. «Metti giudizio per l'avvenire, e sarai felice», dice alla fine la Fata turchina a Pinocchio. Molti slogan politici possono essere ridotti a questo vano consiglio.

Allontanarsi dal ristretto vocabolario di ciò che la società considera «giudizioso e buono» per avventurarsi in un vocabolario più vasto, ricco e soprattutto più ambiguo, è un'impresa spaventosa, perché quest'altro regno di parole non ha confini e comprende pensiero, emozioni, intuito. Questo vocabolario infinito ci si aprirà davanti agli occhi se troveremo il tempo e faremo lo sforzo di esplorarlo: nel corso dei secoli esso ha forgiato parole tratte dall'esperienza per riverberarla nuovamente a noi, per consentirci di comprendere il mondo e noi stessi. È un regno più grande e durevole della biblioteca ideale di Pinocchio tutta piena di canditi, perché metaforicamente la include, e di fatto può condurre ad essa, permettendoci di immaginare modi per cambiare una società in cui Pinocchio muore di fame, è picchiato e sfruttato, un mondo in cui gli viene negata la condizione di bambino, gli viene chiesto di obbedire e di essere felice di farlo. Immaginare significa dissolvere le barriere, ignorare i confini, sovvertire la visione del mondo che ci viene imposta. Anche se Collodi non è stato in grado di garantire al suo burattino questa finale scoperta di sé, ha intuito, credo, le potenzialità del potere immaginativo. E anche quando afferma che il pane è più importante delle parole, sa bene che ogni crisi della società è in ultima analisi una crisi dell'immaginazione.

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Il computer di sant'Agostino



                                Dobbiamo lasciare esistere le contraddizioni,
                                capirle in quanto tali e afferrare quel che si
                                nasconde dietro.
                                                                Hannah Arendt,
                                               Il concetto d'amore in Agostino



All'inizio del Cinquecento, gli anziani della Scuola di San Giorgio degli Schiavoni a Venezia commissionarono all'artista Vittore Carpaccio la realizzazione di una serie di dipinti raffiguranti episodi della vita di san Gerolamo, il celebre lettore e studioso del IV secolo. L'ultima scena, che ora è collocata in alto a destra nel piccolo e buio ingresso, non è un ritratto di san Gerolamo, ma di sant'Agostino di Ippona, suo contemporaneo. In un racconto noto fin dal Medioevo, si narra che sant'Agostino era seduto al suo tavolo, intento a scrivere a san Gerolamo per interrogarlo sulla beatitudine eterna, quando la stanza si riempì di luce e Agostino udì una voce che gli annunciava che lo spirito di Gerolamo era asceso al cielo.

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Agostino sapeva (mentre noi spesso ce ne dimentichiamo) che ogni lettore crea uno spazio immaginario, uno spazio costituito dalla persona che legge e dal regno delle parole lette – quello che Keats definiva il «purpureo palazzo del dolce peccato». Questo spazio di lettura esiste o nel mezzo che lo rivela o lo contiene – il libro o il computer – oppure nella sua essenza testuale e incorporea, ossia nelle parole conservate nel corso del tempo in un angolo della mente del lettore. A seconda che si trovi all'inizio o alla fine di una certa civiltà e che noi la consideriamo come il risultato di un processo creativo (come facevano i greci) oppure come la sua fonte (come facevano gli ebrei), la parola scritta può diventare o meno la forza trainante di questa stessa civiltà.

Intendo dire questo: per i greci, che scrivevano copiosi trattati filosofici, opere teatrali, liriche, lettere, discorsi e transazioni commerciali e che, pure, consideravano la parola scritta un mero aiuto mnemonico, il libro era un'appendice alla vita civile, mai il suo fulcro; ecco perché la rappresentazione materiale della civiltà greca è da ricercare nello spazio, nelle pietre della loro polis. Per gli ebrei, invece, le cui transazioni quotidiane erano orali e la cui letteratura era in larga parte affidata alla memoria, il libro – la Bibbia, la Parola di Dio rivelata agli uomini – divenne il centro della civiltà e sopravvisse nel tempo, non nello spazio, attraverso le migrazioni di un popolo nomade. In un commento alla Bibbia, Agostino, attingendo direttamente dalla tradizione ebraica, notò che le parole tendono ad avere le stesse qualità della musica che, priva di una collocazione geografica specifica, trova la sua essenza nel tempo.

Il mio computer sembra appartenere non alla tradizione «libro-centrica» ebraica di sant'Agostino, ma alla tradizione greca, priva di libri e bisognosa di monumenti di pietra. Nonostante il world wide web simuli sul mio schermo uno spazio illimitato, le parole che io evoco quasi per incanto devono la loro esistenza al tempio familiare del computer, che si erge con il monitor simile a un portico sopra la spianata acciottolata della tastiera. Come il marmo per i greci, queste pietre di plastica parlano (parlano letteralmente grazie alle funzioni vocali che ho menzionato prima). E il rituale per accedere al cyberspazio è, per certi versi, simile a quello necessario per avvicinarsi a un tempio o a un palazzo, cioè a uno spazio simbolico che richiede preparazione e convenzioni apprese, stabilite da fanatici invisibili e apparentemente onnipotenti.

I rituali di lettura di Agostino, eseguiti attorno alla scrivania e nei confini della sua stanza, potevano essere trascurati o, quanto meno, erano in continuo cambiamento. Agostino poteva gironzolare per la stanza leggendo un libro, sdraiarsi a letto con il codice, lasciare la stanza e andare a leggere in giardino (come stava facendo quando udì le parole che lo portarono alla conversione), o nel deserto solitario. Il libro di Agostino, in quanto «contenitore» di testi, era per sua natura variabile. Per l'umanista dei tempi di Carpaccio, questo variare divenne fondamentale e portò all'invenzione del libro tascabile di Aldo Manuzío. Nel corso dei secoli, il libro si è trasformato sempre più in un oggetto portatile, multiplo, rimpiazzabile; lo si può leggere dovunque, in qualsiasi posizione, in qualsiasi momento.

I miei rituali al computer dipendono invece da una complessa tecnologia che va al di là delle conoscenze dell'uomo della strada. Anche se un portatile mi permette di trasportare le mie letture sulle rocce del Gran Canyon (come negli annunci pubblicitari della Macintosh), il testo deve tuttavia la sua esistenza alla tecnologia che lo ha creato e che lo mantiene in vita e richiede che io mi arrenda al «monumento» fisico della macchina stessa.

È per questo motivo che, secondo Agostino, le parole sulla pagina – non la pergamena deperibile o il codice sostituibile che le contiene – hanno una loro solidità fisica, una presenza visibile, bruciante. Per me, invece, la solidità risiede nel costoso edificio del computer, non nelle fuggevoli parole. Quando è muto, il fantomatico testo, che si materializza misteriosamente sullo schermo e che svanisce con un semplice tocco delle dita, è molto diverso dalle lettere nere, vigorose, rassicuranti e perfino autoritarie composte meticolosamente sulla pergamena o stampate sulla pagina. Io sono separato dal mio testo elettronico da un pannello di vetro, che mi impedisce di baciare le parole come può avere fatto Agostino nella sua devozione, e non posso inalare il profumo della pelle e dell'inchiostro come facevano i contemporanei di Carpaccio. Ecco perché sono costretto a usare un vocabolario diverso da quello di Agostino per descrivere l'atto della lettura. Agostino parla di «divorare» o «assaporare» un testo – un'immagine culinaria tratta da un brano di Ezechiele, in cui l'angelo ordina al profeta di mangiare un libro, come accadrà anche nella Rivelazione di san Giovanni. Io, invece, parlo di «navigare» nella rete, di «scannerizzare» un testo. Per Agostino, il testo possedeva una qualità materiale che ne richiedeva l'ingestione. Per il lettore computerizzato, il testo esiste solo su una superficie che sfiora quando «cavalca le onde» delle informazioni, passando da una cyber-area a un'altra.

Tutto questo significa, allora, che la nostra attività di lettura è in declino, che ha perso le sue qualità più preziose, che si è svilita o impoverita? O significa, invece, che è migliorata, progredita, che si è perfezionata dai tempi incerti di sant'Agostino? Oppure, queste domande sono prive di significato?

Per molti anni abbiamo profetizzato la fine del libro e il trionfo dei mezzi elettronici, come se si trattasse di due corteggiatori che si contendono lo stesso avvenente lettore sul medesimo campo di battaglia intellettuale. Inizialmente il cinema, poi la televisione e infine i videogiochi e le videocassette sono stati additati come i distruttori del libro e certi scrittori – Sven Birkets, ad esempio, nelle Elegie di Gutenberg – non esitano a utilizzare un linguaggio apocalittico pieno di appelli alla salvezza e di invettive contro l'Anticristo. Ogni lettore può essere in cuor suo un luddista, ma io penso che ciò potrebbe accendere troppo i nostri entusiasmi. La tecnologia non arretrerà né d'altro canto sembra diminuire il numero di nuovi libri stampati ogni anno, nonostante innumerevoli titoli profetizzino il tramonto della parola stampata.

Di certo avverranno dei cambiamenti. Si sa che in genere le forme tecnologiche esistenti prima delle grandi trasformazioni attraversano un periodo di fioritura, un ultimo exploit. Dopo l'invenzione della stampa, il numero di manoscritti prodotti in Europa aumentò vertiginosamente e i dipinti su tela proliferarono come funghi subito dopo l'invenzione della fotografia. Ed è assai probabile che certi generi oggi disponibili principalmente sotto forma di volumi, verranno diffusi in formati diversi più adatti al loro scopo, anche se oggi il numero di libri pubblicati è più elevato che mai. Le enciclopedie, ad esempio, troveranno una migliore collocazione in CD-Rom, quando la tecnologia avrà sviluppato un sistema intelligente di riferimenti incrociati che sostituirà quello che si limita a rintracciare qualsiasi esempio, anche il più irrilevante, con nonchalance meccanica. Con questi strumenti più sofisticati, sarà molto più facile per un computer compulsare un'enciclopedia su disco che per uno studioso consultare i ventinove volumi dell' Enciclopedia Britannica per trovare tutti gli articoli che contengono il termine «lettura».

Queste trasformazioni sono ovvie. L'importante è che nulla di prezioso vada perso. Potrebbe accadere che le qualità che noi, nostalgicamente, desideriamo mantenere nei libri come li conosciamo oggi e come li immaginavano i lettori umanisti riappaiano, in forme intelligenti, nei mezzi elettronici. Possiamo già scarabocchiare su agendine elettroniche ed esistono portatili e libri digitali così piccoli da stare nel palmo della mano. La signora che legge un romanzo tascabile in metropolitana e il signore che, seduto accanto a lei, ascolta la musica martellante del suo walkman o la studentessa che prende appunti sui margini del suo manuale e il bambino che, di fianco a lei, gioca con un Nintendo tascabile potranno riunire le diverse funzioni (come già succede per i computer di casa) in un solo strumento portatile che offrirà tutte queste possibilità testuali: mostrare il testo, declamarlo, dare la possibilità di prendere appunti e di proporre metodi di ricerca divertenti in un unico piccolo schermo portatile o attraverso qualche altro congegno non ancora inventato. Il CD-Rom (o quello che lo rimpiazzerà nel futuro prossimo) è come il Gesamtkunstwerk di Wagner, una sorta di mini-opera nella quale tutti i sensi devono entrare in gioco per ricreare un testo.

E allora perché abbiamo paura del cambiamento?

Difficilmente la lettura perderà, nell'era della rivoluzione elettronica, le sue qualità aristocratiche. Nei confusi primordi del passato, la lettura appare come un dovere destinato a preservare un certo concetto di autorità (come negli scriptoria della Mesopotamia e del Medioevo europeo) oppure come uno svago di classe che attraversa tutta la nostra storia, una distrazione concessa a chi aveva mezzi e usurpata da coloro che non ne avevano. La maggior parte delle nostre società (di certo non tutte) si sono raccolte attorno a un libro e per queste le biblioteche sono diventate un simbolo di potere. Simbolicamente, il mondo antico è finito con la distruzione della Biblioteca di Alessandria; simbolicamente, il Novecento finisce con la ricostruzione della biblioteca di Sarajevo.

Ma l'idea di una lettura davvero democratica è un'illusione. Le biblioteche ottocentesche di Carnegie erano templi per il suo ceto, in cui i lettori comuni potevano entrare solo se consapevoli della loro posizione e pronti a venerare l'autorità stabilita. La lettura può portare un certo cambiamento sociale, come credeva Matthew Arnold, ma può anche diventare un modo per ammazzare il tempo o per rallentarlo prima del comune destino di morte, che arresta con arroganza la monotona cadenza del tempo trascorso al lavoro, a «scontare la pena», per così dire, nei numerosi luoghi di sfruttamento, miniere, campi e fabbriche piene di analfabeti su cui sono state edificate le nostre società.

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Presi dalle nostre paure, dimentichiamo che ogni testo è, essenzialmente, «interattivo», perché cambia rispetto al lettore, al momento e al luogo. Ogni lettura trascina il lettore nella «spirale dell'interpretazione», come l'ha definita lo storico francese Jean Marie Pailler. Nessuna lettura ne è immune, ogni lettura aggiunge un giro alla sua vertiginosa ascesa. La «lettura pura» non è mai esistita: quando si legge Diderot, l'atto si confonde con la conversazione, quando si legge Danielle Steele con l'eccitazione; quando si legge Defoe con il reportage; in altri casi con l'istruzione, con il pettegolezzo, con la lessicografia, con la catalogazione, con l'isterismo. Sembra che non esista l'archetipo platonico di lettura, e neppure l'archetipo platonico di libro. L'idea di un testo «passivo» esiste solo in astratto: a partire dagli antichi rotoli di pergamena fino alle esposizioni della tipografia del Bauhaus, ogni testo codificato, ogni libro in qualsiasi forma, è portatore, implicitamente o esplicitamente, di un'intenzione estetica. Non sono mai esistiti due manoscritti uguali, come facevano notare gli infaticabili catalogatori di Alessandria che, costretti a scegliere versioni «definitive» dei libri che stavano conservando, stabilirono la regola epistemologica della lettura, secondo la quale ogni nuova copia supera necessariamente la precedente, poiché la include. E mentre la stampa di Gutenberg, rinnovando il miracolo dei pani e dei pesci, moltiplicava il medesimo testo migliaia di volte, ogni lettore personalizza la sua copia con scarabocchi, macchie, segni di qualsiasi tipo, tanto che nessuna copia, dopo essere stata letta, è identica a un'altra. Questa miriade di variazioni, questa sfilza di copie piene di ditate non ci hanno tuttavia impedito di parlare della «mia copia» dell' Amleto o di Re Lear proprio come parliamo dell'«unico e irripetibile» Shakespeare. I testi elettronici troveranno nuovi modi per generalizzare e per definire, e i nuovi critici troveranno una terminologia abbastanza generosa da permettere il cambiamento.

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A queste prospettive di lettura futura, ne vorrei aggiungere altre tre, immaginate non molto tempo fa da Ray Bradbury.

– In uno dei racconti delle Cronache marziane, intitolato «Cadrà dolce la pioggia», una casa completamente automatizzata offre ai suoi abitanti, come diversivo serale, la lettura di una poesia e, non ricevendo alcuna risposta, sceglie e legge una poesia per conto suo, ignara del fatto che l'intera famiglia è stata distrutta in una guerra nucleare. Questo è il futuro della lettura senza lettori.

– Un altro racconto, «Usher II», presenta le vicende di un eroico seguace di Poe in un'epoca in cui la narrazione non è considerata come una fonte di idee, ma come qualcosa di pericolosamente reale. Dopo il bando delle opere di Poe, questo appassionato lettore erige a santuario del suo eroe una casa strana e insidiosa, attraverso la quale distrugge sia i suoi nemici che i libri che vuole vendicare. Questo è il futuro dei lettori senza lettura.

– Il terzo e più famoso racconto, «Fahrenheit 451» , descrive un futuro in cui i libri vengono bruciati e gruppi di amanti delle lettere memorizzano i libri preferiti, portandoli con sé, come biblioteche itineranti. Questo è un futuro in cui i lettori e la lettura per sopravvivere si fanno una cosa sola, seguendo il precetto di sant'Agostino.

Una lettura automatizzata che non ha bisogno di lettori; la lettura lasciata in mano a maniaci nostalgici del passato che non vedono nei libri dei mostri ma dei luoghi privilegiati di dialogo; libri trasformati in una memoria che continua fino a che la mente non vacilla e lo spirito non viene meno... Questi scenari si adattano perfettamente agli ultimi anni del nostro secolo; la fine dei libri contro la fine del tempo, il tramonto del secondo millennio. Alla fine del primo millennio, gli Adamiti bruciarono le biblioteche prima di unirsi ai loro fratelli in attesa dell'Apocalisse, per non portare inutile saggezza nel Regno dei Cieli che era stato loro promesso.

Le nostre paure sono endemiche, radicate nella nostra epoca. Non si spingono nel futuro inconoscibile, richiedono una risposta esaustiva, qui e ora. «La stupidità», scrisse Flaubert, «sta nel desiderio di concludere».

Proprio così. Ogni lettore sa che l'essenza, la qualità fondamentale della lettura, adesso e sempre, è il suo tendere verso una fine che non si può prevedere, verso una non conclusione. Ogni lettura è il prolungamento di un'altra, iniziata un pomeriggio di migliaia di anni fa e della quale non sappiamo niente; ogni lettura proietta la sua ombra sulla pagina successiva, fornendole contenuto e contesto. È così che la storia cresce, strato dopo strato, come la pelle della società la cui storia è conservata dall'atto stesso di leggere. Nel dipinto di Carpaccio, Agostino siede, attento come il suo cane, la penna in pugno, il libro che splende come uno schermo, lo sguardo dritto verso la luce, in ascolto. La stanza e gli strumenti cambiano in continuazione, le copertine dei libri sulla mensola si disfano, i testi raccontano storie con voci non ancora nate.

L'attesa continua.

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