Autore Christian Marazzi
Titolo Diario della crisi infinita
Edizioneombre corte, Verona, 2015, Culture 138 , pag. 192, cop.fle., dim. 14x21x1,2 cm , Isbn 978-88-6948-011-9
PrefazioneFranco Berardi Bifo
LettoreRiccardo Terzi, 2015
Classe economia , economia finanziaria , economia politica , lavoro , globalizzazione , movimenti












 

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Indice


  7  PREFAZIONE — L'angelo sterminatore
     di Franco Berardi Bifo

 13  INTRODUZIONE

     DIARIO DELLA CRISI

 21  Maghreb e mercati finanziari: la logica del contagio
 23  Globosclerosi
 28  Ciclo, bolle e comune
 34  Il vuoto di sovranità in Europa
 38  Cinque domande sulla crisi
 50  I benefici del deficit e del debito
 52  Appunti su BCE, euro e scenari futuri
 59  Populismo strutturale
 61  Stato d'eccezione permanente
 63  Ghiaccio sottile
 65  Moneta e linguaggio
 67  Ma quale modello tedesco
 68  The Power of Fear
 72  Free work, ovvero lavoro non pagato
 74  L'invenzione dei lavori inutili
 76  Dalla colpa alla dignità
 78  QE con IQ
 80  Inversione di flusso

     INTERVISTE

 85  Stato del debito, etica della colpa
 91  Il baratro dell'economia liquida
 96  Dalla crisi dei Brics all'esplosione dell'euro:
     problemi e prospettive
105  Una moneta del comune per il reddito di cittadinanza
     in Europa
111  Il corpo tossico della finanza
116  La nemesi storica del capitale
126  La guerra diffusa della crisi

     RECENSIONI

137  Paradisi fiscali, un altrove solo apparente
140  Un orizzonte sovranazionale per rompere la trappola
     del debito
143  Il bilancio in rosso di un continente
147  La moneta corrente del liberismo
150  Effetto comune per la ricchezza
154  La ricchezza di Thomas Piketty
158  Fuga dall'austerità

     INTERVENTI

163  Moneta e capitale finanziario
177  La moneta del comune
184  Composizione di classe


 

 

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Pagina 7

PREFAZIONE

L'angelo sterminatore

di Franco Berardi (Bifo)


Questo libro di Christian Marazzi non è solo un diario dell'involuzione "austeritaria" che sta distruggendo la società europea, è anche un'indagine sugli effetti della piena realizzazione di un modello che lo stesso Marazzi aveva cominciato a delineare venti anni fa, ne Il posto dei calzini.

Nel 1994 quel libro anticipava gli effetti dell'integrazione linguistica dei processi produttivi, e al tempo stesso cartografava concettualmente il duplice mutamento che la svolta linguistica del capitale comporta.

Il primo aspetto del mutamento consiste nella sussunzione della dimensione comunicativa, affettiva, relazionale all'interno del processo di valorizzazione. Il secondo aspetto è la transizione che porta il denaro ad assumere sempre più una funzione pragmatica in quel ciclo della comunicazione umana che siamo abituati a chiamare "economia".

A partire dagli anni Novanta, la ricerca di Marazzi converge con la ricerca di quei filosofi del linguaggio che cercano di capire come il verbo si faccia carne, primo tra tutti, naturalmente Paolo Virno.

Il denaro è un caso particolare ma anche esemplare del farsi carne del linguaggio, ovvero del farsi merce del segno monetario. Lo sviluppo di questa analogia tra denaro e segno linguistico ci ha portato però molto lontano. Vediamo dove.

Uno dei punti di partenza della riflessione di Marazzi, negli anni in cui Il posto dei calzini stava formandosi nella sua mente, è stato un breve testo di Vittorio Mathieu, che nel 1988 fungeva da introduzione all'edizione italiana di un libro di Marc Shell dal titolo Money Language and Thought.

In questo breve testo, Mathieu scriveva che "il denaro agisce non per una vis a tergo, bensì per una previsione, dunque per una rappresentazione di ciò che (ancora) non c'è, che può ben chiamarsi idea, nel senso non platonico ma anglosassone della parola".

Pur partendo da queste considerazione, Marazzi però va ben oltre. Quelle parole di Mathieu permettevano di capire che il denaro funziona come previsione, come promessa, come ingiunzione, se vogliamo. Ma il denaro di cui parla Mathieu è pur sempre soltanto una rappresentazione di ciò che ancora non c'è, un'idea, come dice lui stesso.

La svolta linguistica, la transizione a quella forma compiuta di finanziarizzazione che a me piace chiamare "semiocapitale" comporta qualcosa di più. Qualcosa di decisivo in più. Il denaro non è più soltanto rappresentazione, non funziona più soltanto per la sua valenza semantica. Esso acquista una forza pragmatica diretta in quanto si fa agente semiotico capace di attivare una catena di implicazioni linguistiche indissociabili dalla sfera della produzione e dell'accesso al consumo.

Dal momento che "le tecnologie comunicative [...] sono dispositivi che concorrono a fare il mondo della nostra esperienza sociale", allora "non è più possibile misurare la produttività del lavoro separatamente dalla produttività del linguaggio".

Tutto bene? Sì, ma fino a un certo punto, perché la produttività del linguaggio implica simulazione, menzogna, inganno, violenza, insomma l'intera gamma delle risorse illusionistiche e coercitive di cui il potere dispone.

Analizzando la strabiliante avventura del cavalier Berlusconi con uno sguardo ironico e volto a comprendere, piuttosto che con sguardo moralistico volto a condannare, ne Il posto dei calzini Marazzi aveva scritto: "la menzogna fa parte dell'arsenale linguistico comunicativo che utilizza per produrre beni e servizi".

Quando il denaro era strumento di interpretazione e di valutazione quantitativa, quando funzionava solo semanticamente, aveva un potere di rappresentazione e di promessa. Ma ora, grazie all'integrazione delle tecnologie di comunicazione con il processo di produzione, il denaro funziona pragmaticamente. Non più solo come misuratore del valore, ma come produttore di valore. E quel che chiamiamo finanziarizzazione.

Saskia Sassen si esprime in termini particolarmente chiari quando dice che il denaro "funziona sempre meno come un mezzo di scambio e sempre di più come uno strumento con cui i governi e le corporation estraggono risorse dalle famiglie per volgerle a loro vantaggio spesso passando sopra i bisogni fondamentali della popolazione di un intero paese".

Marazzi aveva anticipato tutto questo processo quando, nel suo libro del 1994, aveva denunciato "l'insufficienza della scienza economica nelle analisi delle trasformazioni in atto, un'insufficienza che deriva dalla stessa 'missione' dell'economia, il suo obiettivo di eliminare dal campo della sua indagine l'analisi politica del potere e dei suoi effetti sulle grandezze micro e macro-economiche".

La violenza della finanza entra in campo come attore principale del dramma economico nel primo decennio del secolo nuovo. In Finanza bruciata (un libro del 2009 che esce l'anno successivo in America col titolo The violence of financial capitalism), il nucleo essenziale della sistematica predazione di cui siamo testimoni e vittime è sintetizzato in due righe: "Allo stato, cioè alla collettività, i titoli tossici, ai privati le good banks! È la solita musica: socializzare le perdite e privatizzare i benefici".

[...]

Cos'è il minus-valore? Diciamolo così: nei passati due secoli i lavoratori, pungolati dal bisogno, ricattati dal salario e sfruttati da un padrone, hanno prodotto un mondo di beni, quelli che ci permettono di vivere, di consumare, di viaggiare e di fare molte altre attività divertenti. C'è di più: essi continuano a farlo, perché in ogni parte del mondo ogni giorno ci sono milioni di lavoratori che producono beni fisici e beni semiotici. Essi rendono accessibili e fruibili le risorse della natura, essi inventano tecniche utili a ridurre la fatica, a curare le malattie eccetera, eccetera.

Ma la massa dei beni prodotti nei due secoli passati e dei beni che ogni giorno continuiamo a produrre sembra di notte ridursi, dissolversi, impoverirsi, languire, quasi sparire. Un quarto dell'apparato produttivo è sparito in Italia, mentre il sistema scolastico di questo paese è ridotto a un moncherino pietoso. In Spagna metà dei giovani debbono vivere di accattonaggio oppure emigrare. In Grecia le donne colpite dal tumore al seno che dieci anni fa venivano curate senza difficoltà, debbono oggi affrontare un calvario e sempre più spesso prepararsi a morire. E lo stesso succede dovunque, anche se di tanto in tanto viene fuori un cretino a comunicarci che la ripresa è alle porte. La vediamo negli Stati Uniti d'America la ripresa di cui si parla. Grazie a politiche più ragionevoli di quelle suicidare dell'austerità adottate in Europa, l'amministrazione Obama è riuscita a far ripartire l'occupazione. Ma il giornalista Frank Bruni ridimensiona l'entusiasmo avvertendo: "I nuovi posti di lavoro non sembrano essere così solidi come quelli del passato. Occorrono più ore di lavoro per avere lo stesso salario, o per sostenere lo stesso stile di vita. Gli studenti accumulano debiti. La mobilità verso l'alto sembra sempre più un miraggio, un mito".

Occorrono più ore di lavoro (molte più ore di lavoro) per avere lo stesso salario, per comprare le stesse merci e gli stessi servizi di un tempo. Perché? Perché la dinamica del capitalismo finanziario funziona come un'idrovora che succhia di notte quel che noi produciamo di giorno, funziona come un buco nero in cui scompare il prodotto di duecento anni di lavoro industriale. Ecco cos'è il minus-valore: accumulazione di capitale a mezzo di distruzione del prodotto comune.

Il vecchio modello industriale di accumulazione era fondato sul ciclo Denaro-Merce-più Denaro. Il nuovo modello di accumulazione sembra fondato sul ciclo Denaro-Prelazione-più Denaro, che implica però una conseguenza: Denaro-impoverimento sociale-più Denaro.

Questa è l'origine del buco nero che sta dissipando velocemente l'eredità del lavoro industriale e delle stesse strutture della civiltà moderna. Come attrattore e distruttore di futuro, il capitalismo finanziario cattura energie e risorse trasformandole in astrazione monetaria, cioè in nulla.

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Pagina 13

INTRODUZIONE


I testi raccolti in questo libro rappresentano una sorta di diario della crisi che, iniziata nel 2007 con l'esplosione della bolla dei subprime, si è in seguito allargata all'Europa e sta oggi contagiando i paesi emergenti. Si tratta di articoli, interventi puntuali e parziali, interviste e recensioni, scritti tra il 2011 e í primi mesi del 2015, che rimandano alla riflessione collettiva su come agire "dentro e contro" la crisi, lungo quali assi strategici, con quali obiettivi e modalità di lotta.

Una crisi globale a tutti gli effetti, ma anche una crisi che si sta rivelando di lunga, lunghissima durata, secolare, come sostiene addirittura uno studio del Fondo monetario internazionale uscito nel mese di aprile del 2015. Una "nuova realtà", secondo gli economisti del Fondo, uno stato normale di bassa crescita potenziale, di "cronica instabilità", in cui fattori sociali e demografici, una bassa produttività del capitale, i debiti pubblici e privati, la deflazione e le politiche austeritarie concorrono a indebolire, se non a vanificare, le spinte generate dalle innovazioni tecnologiche, le "riforme" liberiste del mercato del lavoro, le privatizzazioni e le liberalizzazioni, come pure le politiche monetarie espansive messe in campo prima dagli Stati Uniti, poi dall'Inghilterra e dal Giappone e infine dalla BCE.

La strutturalità della crisi, la sua cronicità, la devastazione sociale che ne è diretta conseguenza, ci costringono ad interrogarci sulla natura del capitalismo finanziario. Un capitalismo che si è imposto con la distruzione della società fordista alla fine degli anni Settanta e si è poi finanziarizzato a tal punto da stravolgere le stesse categorie di denaro, salario, profitto e rendita.

Se il lavoro salariato è andato in frantumi e lo Stato sociale è stato smantellato nella sua funzione di regolazione macroeconomica e sociale, se l'indebitamento privato ha preso il posto di quello pubblico nella creazione della domanda effettiva, se i mercati finanziari esercitano la loro sovranità al posto di quella statuale e se il denaro si è di fatto privatizzato per assecondare la sete di profitti delle imprese multinazionali e dei grandi investitori istituzionali, allora qualcosa di veramente profondo è accaduto in questi anni, qualcosa che ha intaccato alla radice la nozione stessa di capitalismo.

Il capitale come rapporto sociale si è spezzato, la creazione di ricchezza è ormai incapace di generare crescita e benessere, mentre produce disuguaglianze vertiginose e sofferenza diffusa. Distruggendo la classe operaia fordista, il capitale ha distrutto al contempo quella dinamica che gli permetteva di crescere. Non c'è crollo, ma crisi come forma permanente di accumulazione e comando politico.


Con l'inizio del 2015, anche l'Europa si è decisa ad avviare la politica monetaria di "allentamento quantitativo" (quantitative easing), la politica di creazione di ingenti quantità di liquidità da parte della BCE, da interpretare alla luce delle esperienze recenti negli altri paesi. Il contributo di questa politica monetaria non convenzionale in prospettiva di un'uscita dalla crisi sarà probabilmente minimo, mentre sarà molto forte il suo contributo all'aumento delle diseguaglianze e alla concentrazione della ricchezza patrimoniale ai vertici della piramide sociale. È quanto emerge dalle esperienze statunitense, inglese e giapponese. Quello a cui la BCE mira è la svalutazione dell'euro, per riprodurre su scala europea ciò che prima dell'avvento dell'euro si faceva su scala nazionale. È cioè il tentativo di uscire dalla stagnazione economica attraverso l'arma della svalutazione, favorendo l'aumento delle esportazioni. È però evidente che quando c'è un interscambio commerciale che per due terzi è interno all'eurozona, la possibilità di far uscire l'economia europea dalla stagnazione è alquanto ridotta. La vera svalutazione competitiva, almeno per il momento, sembra quella dei redditi, dei diritti e della salute.

L'altro problema è quello della trasmissione della liquidità così creata all'economia reale. È probabile che, come è successo in questi anni, tale liquidità resti all'interno dei circuiti finanziari senza "sgocciolare" nell'economia reale, senza quindi stimolare investimenti e consumo privati. Il quantitative easing europeo sembra anch'esso destinato a provocare un ulteriore gonfiamento dei valori borsistici e delle rendite finanziarie.

Si è arrivati a questa svolta monetaria perché, come ampiamente previsto, le politiche di austerità hanno essenzialmente aggravato la crisi. La riduzione del costo del lavoro e del reddito sociale non hanno per nulla contribuito all'uscita dalla crisi, mentre hanno aumentato i debiti pubblici. Le politiche di austerità hanno permesso di instaurare un sistema di aiuti e salvataggi con la sola finalità di soccorre le banche, consentendo loro di rientrare dalle posizioni fortemente esposte sui debiti pubblici dei paesi periferici. Il problema si è adesso spostato dalle banche private agli Stati. Lo si è visto con la Grecia: il tentativo di contrastare le politiche di austerità attraverso una riduzione o ristrutturazione dei debiti è stato subito neutralizzato dalla reazione alle proposte greche di Stati come l'Italia, la Francia e la Spagna. Una politica di riduzione progressiva del debito pubblico greco, contratto con quegli stessi Stati, non innesca nessun meccanismo di solidarietà. È questo il dato che ha contribuito a paralizzare la negoziazione tra la Grecia e le istituzioni della troika.

C'è allora da chiedersi in che misura la politica monetaria della BCE, per quanto non convenzionale (cioè non solo iniezione di liquidità, ma anche acquisto di bond e obbligazioni pubbliche e private), sia adeguata a far fronte alla situazione di stagnazione secolare.

Si apre qui il problema del rapporto tra euro e dollaro. Siamo in una situazione paradossale, in cui la svalutazione dell'euro provoca come conseguenza la rivalutazione del dollaro, che a sua volta rischia di mettere a repentaglio quella che sembrerebbe essere un'incerta ripresa dell'economia americana. È come se fossimo entrati in un circolo vizioso, a tal punto che la stessa Federal Reserve, dopo anni di politiche di quantitative easing, esita ad aumentare i tassi di interesse per sgonfiare i mercati finanziari.

Oltretutto, la politica di allentamento quantitativo in Europa si scontra con obbligazioni pubbliche e private che hanno già rendimenti nulli o addirittura negativi. Si è calcolato che la BCE riuscirà ad acquistare sul mercato secondario solo un 6 per cento di questo debito pubblico, mentre negli Stati Uniti e in Inghilterra la percentuale è stata ben superiore. Chi è già in possesso di obbligazioni con tassi di rendimento superiori non li venderà alla BCE, anche perché non saprebbe dove piazzare la liquidità così realizzata. Ci sarà dunque una forte domanda, a fronte di un'offerta inferiore.

Uno degli effetti più pericolosi, e del tutto inediti, della creazione di liquidità è quello di abbassare a tal punto i rendimenti (i tassi di interesse) sulle obbligazioni pubbliche e private da renderli negativi. A questo punto, i fondi pensione, che sono tra i maggiori acquirenti di questi titoli, li possono far rendere solo se la politica monetaria permane espansiva per lungo tempo, solo se il prezzo (non i rendimenti, che rispetto ai prezzi hanno un rapporto inverso) dei titoli obbligazionari continua ad aumentare. Da una parte, si stanno preparando le condizioni per una bolla dei titoli obbligazionari, dall'altra, si profila all'orizzonte una possibile emergenza pensionistica.


In questi anni, più volte ci siamo confrontati con l'ipotesi, presente nei programmi di partiti di destra e di sinistra, dell'uscita dall'euro o di una sua "inevitabile" rottura sotto la spinta delle sue interne contraddizioni. L'euro è una moneta senza Stato, un'unità di conto che copre come un velo un'Europa internamente divisa, priva di sovranità se non quella esercitata dai mercati finanziari e dalle grandi banche.

Nella sua incompletezza, in mancanza cioè di meccanismi compensatori tra i paesi membri, come l'unione fiscale e bancaria, l'euro funziona frammentando l'intero continente, imponendo la sua logica depressiva su popolazioni intere e ostacolando una ripresa economica in grado di dare ossigeno ai paesi dell'eurozona. "Tuttavia – sostiene Marco Bertorello – la crisi non è stata creata dall'euro, ma è frutto di contraddizioni più profonde, tanto che nessuna banca centrale al mondo è finora riuscita a invertire la mancata crescita capitalista. Non si salva la finanza per mezzo della finanza mantenendo inalterati i problemi sistemici e sottovalutanto i problemi strutturali della crisi".

La vittoria di Syriza in Grecia, íl rischio sempre più concreto di default e di una sua uscita dall'euro (Grexit), ripropongono il dibattito tra no-euro e sostenitori della moneta unica. Ma i termini della questione sono ormai mutati e sono interamente politici, riguardano cioè la possibilità o meno di riportare su scala europea la volontà di uscire dalle poltitiche di austerità, di riconquistare sul piano locale margini di sovranità tali da permettere politiche di rilancio della spesa sociale, dell'occupazione, della lotta contro le povertà. Il problema non è quello di riconquistare una sovranità monetaria nazionale, che peraltro non è mai esistita, neppure prima dell'euro, quando la Germania occidentale e il marco la facevano da padrone, determinando un sistema asimmetrico in cui l'onere dell'aggiustamento era sempre a carico dei paesi in disavanzo commerciale.

In termini monetari, la questione della sovranità si pone sul terreno della costruzione di una moneta del comune, una moneta dentro e contro l'euro, che permetta di redistribuire la ricchezza riducendo le disuguaglianze, che sia in grado di monetizzare i bisogni e i diritti di chi non ha più diritti, che affermi concretamente il principio del reddito di cittadinanza. La moneta del comune è un programma politico che si pone in alternativa alle politiche monetarie di quantitative easing perseguendo la creazione e la distribuzione della liquidità direttamente ai cittadini europei, fuori cioè dai circuiti finanziari, fuori dalla trappola del debito pubblico e privato.

Non è escluso che il primo passo nella direzione della moneta del comune sia fatto proprio in Grecia, una Grecia che ha bisogno di una Europa che rispetti la sua autodeterminazione e riconosca l'urgenza di andar oltre la miseria dell'austerità. "Non salvateci più" sta scritto su un muro di Atene. La creazione di una moneta parallela, evocata in questi mesi come forma di resistenza monetaria ai vincoli imposti dalla troika, potrebbe avviare un percorso in cui la forza dei movimenti sociali sia la vera sostanza di una nuova forma di governo.

Aprile 2015

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Pagina 50

I benefici del deficit e del debito


C'è qualcosa che rende simile l'economia alla religione, e cioè che, anche per l'economia, il suo meglio è che essa susciti eretici. Che nella scienza economica ci sia bisogno di eresia ce lo spiegano gli americani che da tempo guardano con inquietudine a quanto sta accadendo in Europa, in particolare a quella famigerata dottrina secondo cui occorre fare tutto il possibile per raggiungere il pareggio di bilancio. Il che significa mettere in atto politiche d'austerità a mezzo di tagli alla spesa pubblica e di aumenti del prelievo fiscale per ridurre deficit e debiti in un periodo di recessione. Un vero e proprio suicidio economico e sociale pagato a caro prezzo dai cittadini europei e di cui le banche sono le dirette beneficiarie, dato che i soldi prestati dalle banche centrali per evitare i fallimenti di Grecia, Portogallo, Spagna e Italia (per il momento) finiscono nelle loro tasche, senza in alcun modo contribuire a rilanciare la crescita dell'economia reale. Di fronte a questo autismo dottrinale, di cui i tedeschi sono la punta avanzata ma che ormai ha contagiato l'Europa intera, sta crescendo negli Stati Uniti una vera e propria scuola di pensiero capeggiata da James K. Galbraith , figlio di cotanto padre, John Kenneth Galbraith, studioso della Grande depressione e consulente economico di John E Kennedy. Ne ha parlato recentemente Feredico Rampini , corrispondente dagli Stati Uniti per "la Repubblica". La "Teoria moderna monetaria", così si chiama questa scuola di pensiero, sostiene che non ci sono tetti razionali al deficit e al debito sostenibile da parte di uno Stato, perché le banche centrali hanno un potere illimitato di finanziare questi disavanzi stampando moneta. E questo non solo è possibile, come già si vede con le politiche delle banche centrali americana, inglese, giapponese e della stessa BCE, ma è soprattutto necessario. "La via della crescita passa attraverso un rilancio di spese pubbliche in deficit, da finanziare usando la liquidità della banca centrale. Non certo alzando le tasse: non ora". Questa corrente di pensiero, peraltro ascoltata da Obama, ha questo di, per così dire, "rivoluzionario": non solo rifiuta il cretinismo della destra economica e la crociata contro la spesa pubblica sulla base dell'equivalenza tra il bilancio pubblico e quello di una famiglia che "non deve vivere al di sopra dei propri mezzi". Ma critica anche quelle posizioni, certamente più intelligenti, alla Paul Krugman o alla Joseph Stiglitz che, pur sostenendo la necessità di espandere la spesa pubblica per uscire dalla crisi, continuano a pensare che a lungo andare il debito crea inflazione, soprattutto se finanziato stampando moneta, e quindi andrà ridotto appena possibile. Secondo Galbraith e gli economisti di questa scuola, invece, il pericolo dell'inflazione è inesistente. "L'inflazione è un pericolo vero solo quando ci si avvicina al pieno impiego, e una situazione del genere si verificò in modo generalizzato nella prima guerra mondiale". L'aspetto più innovativo, rispetto alle politiche monetarie odierne e alla paranoia dell'inflazione, riguarda la proposta di erogare liquidità direttamente agli stati, comprando senza limiti titoli di Stato emessi dai rispettivi governi, senza quindi passare dal sistema bancario che di questa liquidità fa sistematicamente un uso speculativo, generando una bolla finanziaria dietro l'altra. Gli stati devono però attuare interventi volti a far aumentare la domanda interna con una più equa e sostenibile creazione della ricchezza. Esattamente l'opposto di quanto sta avvenendo oggi in Europa.

Pubblicato in "UniNomade", 23 febbraio 2012.

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Pagina 74

L'invenzione dei lavori inutili


Il più grande economista del secolo scorso, John Maynard Keynes , in un suo scritto del 1930 prevedeva che entro la fine del secolo lo sviluppo della tecnologia avrebbe permesso la riduzione della settimana lavorativa a sole quindici ore. Keynes basava la sua previsione sulla base della limitatezza dei bisogni materiali. Non solo questa sua previsione non si è avverata (la crescita dei bisogni si è rivelata inesauribile), ma la tecnologia stessa è stata utilizzata per inventare nuovi modi per farci lavorare tutti sempre di più. Un vero paradosso che viene di solito attribuito al consumismo, responsabile della creazione di un'infinità di nuovi lavori e industrie per soddisfare il desiderio di nuovi giocattoli e i piaceri più diversi.

Eppure, se si guarda all'evoluzione dell'occupazione dell'ultimo secolo si nota che tanto è crollata (come previsto) l'occupazione industriale e agricola come effetto dell'automazione, e tanto, anzi tantissimo sono aumentate le libere professioni, i lavori dirigenziali, d'ufficio, di vendita e di servizio, passando da un terzo degli impieghi complessivi a tre quarti. I lavori che veramente sono esplosi sono quelli amministrativi, con la creazione di intere nuove industrie come quella dei servizi finanziari o del telemarketing, di settori come quello giuridico-aziendale, dell'amministrazione accademica e sanitaria, delle risorse umane e delle pubbliche relazioni. Ai quali andrebbero aggiunti gli impieghi che forniscono a queste industrie assistenza amministrativa, tecnica o relativa alla sicurezza come pure l'esercito di attività secondarie, dai toelettatori di cani ai fattorini che consegnano pizze a chi lavora tanto tempo in altri settori.

I tagli all'occupazione, i licenziamenti e i pre-pensionamenti il più delle volte riguardano lavori socialmente utili, mentre aumentano le attività amministrative e il tempo di lavoro da dedicare a seminari motivazionali, ad aggiornamenti dei profili Facebook o a scaricare roba. Per non parlare di un altro paradosso, quello che vede i lavori che veramente giovano ad altre persone, come quello di infermieri, spazzini, badanti o meccanici, pagati una miseria.

È difficile dare una spiegazione economica a questo aumento delle attività amministrative e di controllo di lavori altrui. Come ricorda l'antropologo David Graber, nell'economia di mercato "questo è esattamente quel che non dovrebbe succedere", quello che la concorrenza di mercato dovrebbe correggere. Di fatto, l'ultima cosa che deve fare un'azienda desiderosa di profitti è sborsare soldi a lavoratori di cui non ha davvero bisogno.

Forse la spiegazione c'è, non è economica ma politica e morale: liberare tempo per sé, lavorare meno per lavorare tutti e meglio, è visto con sospetto, come se comportasse la perdita di potere sulla vita degli altri. Meglio quindi inventare lavori inutili, ma utili per piegare tutti all'etica del lavoro.

Pubblicato in "RSI Radiotelevisione svizzera, Rete Due - 'Plusvalore'", 12 dicembre 2014.

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Pagina 78

QE con IQ


Si è parlato molto in questi giorni di quantitative easing, altrimenti detto "allentamento quantitativo", ossia quella misura di creazione e iniezione di 60 miliardi di euro al mese per i prossimi diciannovi mesi da parte della BCE. Scopo di questa misura di politica monetaria non-convenzionale è quello di combattere il rischio di deflazione, sperando nel medesimo tempo di riaccendere il motore della crescita in Europa. Affinché questa strategia abbia qualche possibilità di successo è però indispensabile che la liquidità così creata arrivi nelle mani dei consumatori e delle imprese, così da poter rilanciare la domanda, sia di beni di consumo che di beni investimento.

Secondo alcuni economisti, questo programma della BCE rischia non solo di mancare il bersaglio, ma anche di aggravare le disuguaglianze che in questi anni di crisi si sono decisamente ampliate. Si parla di probabile "effetto Piketty" appunto per indicare, sulla base di quanto già successo in Inghilterra o negli Stati Uniti, l'aumento della ricchezza patrimoniale dell'1 per cento della popolazione più ricca derivante dall'aumento dei valori dei titoli borsistici indotto da questa stessa creazione di liquidità. E con tassi di interesse prossimi allo zero e rendimenti addirittura negativi sui buoni del Tesoro, un'ulteriore e massiccia iniezione di liquidità non servirà a tirare l'economia europea fuori dalla stagnazione.

Di fronte al rischio reale che la liquidità così creata vada a inondare i circuiti finanziari, senza sgocciolare nell'economia reale — se non nella forma di una pericolosa bolla immobiliare — alcuni economisti propongono di utilizzare direttamente questa quantità di denaro per investimenti in infrastrutture pubbliche e/o per distribuire a ciascun cittadino europeo qualcosa come 175 euro al mese per diciannove mesi. Grazie a questo aumento del reddito disponibile, i cittadini europei potrebbero diminuire i propri debiti o aumentare i consumi. In entrambi i casi, questa misura alternativa di quantitative easing ("QE for the people") porterebbe direttamente ad un aumento dell'occupazione e del consumo.

Inutile dire che tale proposta è destinata ad essere ignorata dalle autorità monetarie europee, più propense ad assecondare i mercati finanziari che non i bisogni della popolazione. Si dirà ad esempio che in tal modo si mischiano due cose distinte, la politica monetaria e la politica fiscale. Ma dato che la politica monetaria ha dato prova di non funzionare proprio perché non è in grado di stimolare la politica fiscale, perché non tentare nuove vie? Sarebbe un modo di trasformare il QE in IQ.

Pubblicato in "RSI Radiotelevisione svizzera, Rete Due - 'Plusvalore'", 18 marzo 2015.

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Pagina 150

Effetto comune per la ricchezza


Lo spessore non solo scientifico di un economista si svela nella sua interpretazione dello stato di cose presenti, nella sua attività giornalistica confrontata con eventi politici, economici e finanziari in continuo divenire. In questo esercizio da columnist Marcello De Cecco è il più bravo, superiore addirittura a Paul Krugman che, settimanalmente, dice la sua sul "New York Times" con lucidità e non poco coraggio. Ma la competenza storica, geopolitica e finanziaria di De Cecco è davvero unica, ed è condensata nel suo Ma cos'è questa crisi, dove sono ripubblicati i suoi interventi apparsi su "la Repubblica" tra il 2007 e il 2013.

"La crisi attuale è squisitamente finanziaria", ed è una crisi che ha negli Stati Uniti la sua vera variabile indipendente, il motore che determina il comportamento di tutti gli altri. De Cecco è fra i pochi, se non l'unico, ad aver richiamato, nell'analizzare gli inizi della crisi attuale (2007), quel che accadde nel 1907, la "conclusione di un ciclo di sviluppo mondiale altrettanto vorticoso di quello che l'economia mondiale sperimenta da più di un quindicennio [...] Anche un secolo fa, l'epicentro della crisi fu il sistema finanziario americano e l'economia reale degli Stati Uniti fu coinvolta quanto sembra esserlo già ora (col settore immobiliare) e minaccia di diventarlo ancor più nei prossimi mesi". Questo scrive De Cecco nel suo articolo del 17 settembre 2007 (le date sono importanti), forte del suo lavoro Moneta e impero. Il sistema finanziario dal 1890 al 1914, a tutt'oggi l' unico studio esistente di un periodo che vide lo sviluppo di alcuni grandi paesi, come gli Stati Uniti e la Germania, che vennero a sfidare l'egemonia dell'Inghilterra e della Francia, parallelamente all'industrializzazione di un insieme di paesi (che oggi chiameremmo Brics) come il Giappone, l'Italia e la Russia, con lo sfruttamento delle materie prime e lo sviluppo dell'agricoltura d'esportazione. Un periodo, come nel corso dei nostri ultimi vent'anni, in cui il mercato finanziario internazionale conobbe uno sviluppo "vorticoso e disordinato" ma potentissimo, che portò dritti alla crisi del 1907, seguita da una tregua di "keynesismo volgare" (il riarmo come misura anticiclica per contrastare la caduta delle importazioni), l'istituzione della Federal Reserve statunitense, e la crescita del populismo e del nazionalismo. E che sfociò nella Prima guerra mondiale.

Il 21 gennaio 2013 (L'ultima guerra delle monete), De Cecco si esprime sull'attualità della crisi del modello di capitalismo finanziario affermatosi negli ultimi due decenni. Una crisi che vede la FED e le banche centrali inglese e giapponese impegnate a garantire molto generosamente liquidità ai mercati e a intervenire sul mercato dei cambi per evitare rivalutazioni delle loro monete, ma con la BCE stretta tra le maglie dei suoi stessi Trattati, veri e propri "mostri giuridici", con un euro il cui valore è completamente lasciato nelle mani dei mercati finanziari che, rivalutandolo, vanificano gli sforzi per riequilibrare le bilance correnti, con le "bizze di neurotici governatori della Bundesbank" e il cretinismo dell'ordoliberalismo tedesco che pone l'austerità come prius della crescita, e con Mario Draghi che, da buon americano, cerca in tutti i modi di fare della BCE una banca centrale a tutti gli effetti, cioè di completare la costruzione dell'euro come moneta unica, ciò che ancora non è, essendo l'euro una moneta senza Stato.

"Se si affermano ora voci da destra e sinistra insieme, che in importanti paesi europei vogliono ridiscutere tale assetto, corriamo seri rischi per la governance europea, lasciata in balia di populismi di sinistra ma specie di destra". Di fronte a due posizioni, quella di destra, che auspica la fine dell'euro e il ritorno alla sovranità monetaria nazionale, e quella di sinistra che, nelle sue migliori (tecnicamente) formulazioni (vedi per esempio Frédéric Lordon e Jacques Sapir), auspica una riforma monetaria tipo SME con la creazione di un eurobancor, anch'essa nel nome di una riconquistata sovranità democratica nazionale, De Cecco spiazza tutti, indicando nella indipendenza della BCE la chiave di volta per affrontare i prossimi anni e gli enormi rischi che stiamo correndo. "Quanto ho appena affermato sarà letto con incredulità da chi mi conosce, che mi sa antichissimo nemico dell'indipendenza delle banche centrali dai propri poteri politici". Nel vuoto costituzionale europeo, nella latitanza politica che, dal Parlamento alla Commissione europea lascia ampi spazi alla Germania della Merkel di perseguire i suoi esclusivi interessi, "occorre sbrigarsi a vestire tale assetto di un'efficace modalità istituzionale di governance, prima che gli anni di Draghi governatore finiscano e ci ritroviamo in balia di un nulla politico, dal quale potrebbe benissimo non emergere un altro Draghi, per la determinazione di una nuova dirigenza tedesca".

Il rischio è serissimo, ben presto, già a partire dalle elezioni europee del 2014, la supremazia tedesca nell'Europa monetaria potrebbe essere assai superiore a quella che è stata in questi ultimi anni. È, quella di De Cecco, una scelta "tattica", certamente benevola nei confronti di Draghi, che pone come prioritaria la questione della costituente sull'unico piano oggi realmente possibile, ossia quello della costruzione concreta della democrazia su scala europea. Una costituente, quella di De Cecco, per così dire monetaria, cioè il passaggio dall'attuale moneta unica a un euro come moneta comune, una moneta dotata di poteri in ultima istanza (ma già siamo su questa strada, dato che la BCE monetizza alla grande, "whatever it takes", i debiti pubblici dei paesi deboli, in contraddizione con i suoi stessi principi costituzionali), una moneta, soprattutto, comune perché dotata di poteri federalistici volti a garantire, perlomeno con l'unione bancaria e quella fiscale, la costruzione di un'Europa più unita. Cosa che oggi non è, tanto che l'euro sta deflagrando in tanti euro quanti sono i paesi membri della zona (per tassi d'interesse e d'inflazione divergenti, con la rinazionalizzazione dei mercati dei buoni del tesoro, addirittura per la libertà di movimento di capitali, come nel caso di Cipro), con il populismo di destra e di sinistra che, nel nome di un'idea di democrazia (parlamentare?) tragicamente risibile, non fa che aggravare.

L'invito di De Cecco è da prendere molto sul serio. Così come oggi è, l'euro è un disastro, vero dispositivo di deriva economica e di sofferenza umana e sociale. La sua spaccatura, in qualsiasi forma la si voglia, sarebbe altrettanto un disastro, perché ci porterebbe diritti al nazionalismo, specie se si tien conto della tendenza in atto su scala mondiale alla deglobalizzazione indotta dal netto calo del commercio mondiale e dalla tentazione protezionistica presente un po' ovunque. L'opzione Draghi, l'americanizzazione della politica monetaria europea, non può d'altra parte ignorare i suoi forti limiti, che sono quelli di una politica monetaria di fatto a sostegno di un sistema bancario legato a doppio filo al debito sovrano. Una politica che non induce affatto crescita reale, in cui la disoccupazione e le disuguaglianze aumentano a dismisura, mentre la liquidità iniettata in grandi quantità rimane nei circuiti finanziari, non sgocciola laddove dovrebbe, alimentando inevitabilmente rischi di bolla. I soli, timidi segnali di ripresa, come in Spagna, si spiegano infatti sulla sola base della riduzione drammatica del costo del lavoro e di una povertà dilagante, tanto che lo stesso FMI considera come meramente congiunturali questi stessi segnali di "uscita" dalla crisi.

Il problema è che il tempo stringe, le forze politiche in gioco a tutti i livelli non sembrano permettere di uscire da questa impasse storica. Una nuova tattica per una nuova strategia è dunque necessaria. Né con la destra sfascista, né con la sinistra sovranista. Questa è la provocazione, non proprio implicita, di De Cecco che va colta pensando non tanto a Draghi, ma alla costruzione di un ciclo di lotte sul terreno della moneta del comune, un sistema monetario che sappia garantire una redistribuzione del reddito sulla base di diritti assoluti di cittadinanza.

Riusciranno i movimenti sociali, che si sforzano di portare sul piano europeo le istanze della moltitudine europea, a definire una costituente dell'Europa post-liberista e nuovi esperimenti istituzionali per la riappropriazione della ricchezza sociale?

Come diceva Benjamin, privi di illusione sull'epoca, ma ciononostante un totale pronunciarsi per essa.

Pubblicato in "il manifesto", 7 novembre 2013.

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La ricchezza di Thomas Piketty


Lo scorso mercoledì 1 ottobre Martin Wolf ha pubblicato sul "Financial Times" un articolo sulle ragioni che fanno dell'ineguaglianza un vero e proprio freno all'economia. Per dimostrare l'impatto economico delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e del capitale, in particolare una domanda debole e la regressione dei livelli di educazione, Wolf si basa su due studi, uno di Standard & Poor's e l'altro di Morgan Stanley, due istituzioni che difficilmente possono considerarsi di sinistra. Il quadro che emerge da queste analisi, che si riferiscono agli Stati Uniti a partire dagli anni Novanta, è tale da portare l'autore a concludere che in un'economia basata sul debito i costi maggiori dell'aumento delle diseguaglianze economiche e formative sono l'erosione dell'ideale repubblicano della "cittadinanza condivisa", in altre parole il rischio di deflagrazione economica e sociale del capitalismo medesimo. Curioso è il fatto che queste considerazioni vengano fatte sulle pagine dello stesso quotidiano finanziario che, in occasione della pubblicazione inglese del libro di Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo , aveva cercato di smontare in modo grottesco una delle tesi centrali del libro, la tendenza all'aumento verso l'alto della concentrazione della ricchezza. Basti questo per sottolineare l'importanza dello studio di Piketty il cui merito principale, oltre al terremoto scatenato dentro l'accademia egemonizzata dal pensiero neoliberale, consiste nell'aver descritto, "con precisione atroce e difficilmente confutabile", come ha scritto David Harvey , l'evoluzione nel corso degli ultimi due secoli della disuguaglianza sociale rispetto sia alla ricchezza sia al reddito.

Dalla sua pubblicazione in Francia nel 2013, il libro di Piketty è stato più volte recensito, ma è comunque utile riassumere in modo sintetico i risultati principali del suo studio. In particolare la conclusione teorica secondo cui, quando il tasso di rendimento del capitale (r) supera il saggio di crescita del reddito (g), le disuguaglianze aumentano fino a risultare "incompatibili con i valori meritocratici e i principi di giustizia sociale su cui si fondano le moderne società democratiche". Quando il "divenire rentier" del capitale a scapito di coloro che non possiedono altro che il proprio lavoro, aggravato dalla successione ereditaria della ricchezza accumulata, riproduce il capitale più velocemente dell'aumento della produzione, "il passato divora íl futuro", e la polarizzazione della ricchezza e del reddito cresce a dismisura. Sull'arco di duecento anni questa è stata la "regola", salvo nel periodo tra le due guerre mondiali che, a fronte dell'URSS come competitor, permisero per i trent'anni "gloriosi" del secondo dopoguerra l'introduzione di politiche di welfare e di redistribuzione della ricchezza. Nel periodo tra il 1920 e il 1980, il rendimento del capitale ha infatti conosciuto una relativa diminuzione (al 2,5/3,5 per cento), salvo poi ristabilirsi attorno al 4-5 per cento a partire dal 1980, lo stesso tasso del periodo tra il 1870 e il 1910, con una tasso medio di crescita del reddito pari a 1-1,5 per cento.

Ciò che resta opaco nella tesi centrale dell'analisi di Piketty è però proprio la causa della diseguaglianza tra rendimento del capitale e crescita del reddito. Lo dimostra bene Giorgio Gattei in un suo articolo: "la percentuale di reddito che va al capitale aumenta se cresce il tasso di rendimento e/o la propensione al risparmio, mentre diminuisce se aumenta il saggio di crescita del reddito". Si tratta di una formula tautologica che permette di descrivere i sintomi di un processo assai più profondo e complesso. Oltretutto, il fenomeno descritto da Piketty non può che essere temporaneo perché la parte dei benefici del capitale non può aumentare linearmente a dismisura, con la metà e oltre del reddito prodotto che va a rendimento del capitale, come Piketty esemplifica per dimostrare quel che potrebbe accadere entro la fine del XXI secolo. Dato che í lavoratori non vivono di aria, esiste un limite estremo di remunerazione percentuale del capitale, ed è un limite storicamente determinato.

Certo, le guerre e le rivoluzioni sono servite, e servono tuttora, per svalorizzare il capitale e in tal modo ridurre sperequazioni dei redditi alla lunga insopportabili. Ma c'è qualcosa di ancor più "costitutivo" che spiega l'origine della diseguaglianza tra rendimento del capitale e rendimento del reddito, ed è il ruolo dell'accumulazione originaria. All'origine della proprietà privata e dell'accumulazione del capitale si trova l'appropriazione violenta dei commons, una appropriazione-recinzione del comune, come ha spiegato magistralmente Sandro Mezzadra , che si ripete nel tempo perché la tendenza del capitale è quella di recintare di volta in volta le forme della cooperazione sociale nella sfera della produzione e in quella della riproduzione-conservazione della vita. Il divenire rendita del capitale descritto da Piketty è un processo storico di lotta tra appropriazione del comune, estrazione di valore-ricchezza e produzione sociale di nuovi spazi di cooperazione e condivisione. È questo che fa del capitale un rapporto sociale, una "processualità relazionale" (come scrive Davíd Harvey) di creazione artificiale di scarsità (per esempio del lavoro, ma anche dei beni immateriali) tale da permettere la realizzazione di rendite crescenti. In assenza di questa definizione del capitale, lo studio di Piketty rischia di limitarsi a una "storia del patrimonio", indipendentemente dall'uso capitalistico di questo stesso patrimonio.

Ha quindi ragione Russell Jacoby, nel suo Il pragmatismo dell'utopia, a mettere in evidenza l'assenza del lavoro nello studio di Piketty, il fatto che il capitale "ha bisogno della forza-lavoro e al tempo stesso cerca di farne a meno", creando una popolazione operaia eccedente relativa. Non solo il lavoro, le sue trasformazioni nel tempo storico, non sembra interessare l'economista francese indifferente ai movimenti sociali, "vaccinato a vita contro i discorsi anticapitalistici convenzionali e triti" (Piketty). Nella sua definizione di capitale (denaro, terreni, immobili, fabbriche e macchinari, attivi mobiliari) è assente il capitale cognitivo umano, quel capitale costituito da saperi, conoscenze, relazioni, cooperazioni, che permette di spiegare la concentrazione geografica della ricchezza ma anche il suo aumento e la sua diffusione come fattori di crescita. Un fattore cruciale, che svela la contraddizione tra rendimenti crescenti e concorrenza pura di matrice neoclassica.

Rendimenti crescenti che non sarebbero possibili senza il denaro, senza l'accesso al credito bancario e le diseguaglianze generate dall' economia del debito, come dimostra l'economista tedesco Daniel Stelter. Qui davvero si tocca una delle maggiori debolezze dell'opera di Piketty, l'assenza totale dell'analisi del debito come fattore decisivo nell'aumento delle disuguaglianze nel corso degli ultimi trent'anni. Nell'analisi di Stelter, le disuguaglianze del patrimonio provengono dalla politica monetaria a bassi tassi d'interesse orchestrata dalle banche centrali e dall'aumento dei debiti. L'attacco sistematico al salario, con l'aggiunta della caduta del muro di Berlino e l'apertura della Cina al capitalismo, ha permesso la crescita economica grazie all'indebitamento privato. I debiti, non solo negli USA, sono schizzati verso l'alto per sostenere l'aumento dei redditi e in Europa sono aumentati i trasferimenti sociali relativamente alla diminuzione del prelievo fiscale sugli alti redditi e sul capitale. Il debito è il problema chiave perché il debito concentra il rischio su quelli che meno possono sostenerlo, e quando il patrimonio in cui si è investito (come nel caso dei mutui subprime) si svaluta, aumenta la concentrazione delle perdite e la disuguaglianza di ricchezza. "Il debito introduce una non linearità nel sistema economico, che i modelli keynesiani trascurano".

Forse il vero merito de Il Capitale di Piketty risiede nel costringere un po' tutti a pensare marxianamente, a cercare in ciò che egli non dice ciò che noi vogliamo vedere per lottare.

Pubblicata in "il manifesto", 8 ottobre 2014.

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Fuga dall'austerità


"Nulla ci rende umani quanto l' aporia: quello stato di intenso disorientamento in cui ci troviamo quando le nostre certezze vanno a pezzi". Così inizia il libro di Yanis Varoufakis. Il ministro delle finanze greco si riferisce al settembre del 2008, i giorni della crisi della Lehman Brothers e di un'intera epoca, quella del capitalismo finanziario. Ma lo stato di aporia non si è certo dissolto, lo stiamo vivendo in questi giorni di negoziazione tra la Grecia e l'Unione europea, giorni di "guerriglia semantica" se non fosse per la posta in gioco, la conquista di un margine di tempo per avviare quel processo di ricostruzione interno di cui il popolo greco ha drammaticamente bisogno. Di cui tutti noi abbiamo bisogno, se è vero che l'esperimento Syriza, quell'essere "dentro e contro" il sistema monetario e finanziario europeo, rappresenta il primo tentativo di "verticalizzare" i movimenti, di far transitare bisogni, rivendicazioni, aspirazioni dai luoghi concreti e sofferti in cui si esprimono all'unico piano istituzionale adeguato, quello europeo in cui si gioca la partita decisiva. Vecchia tattica per una nuova strategia, e l'avvio, per quanto estenuante, convince.

Il Minotauro Globale è un saggio di macroeconomia marxista, scritto per essere letto oltre gli ambienti accademici, risultato di un lungo percorso iniziato con l'economista Joseph Halevi con un primo articolo pubblicato nel 2003 dalla "Monthly Review", poi confluito, con la collaborazione di Nicholas Theocarakis, in un libro accademico intitolato Modern Political Economics. Varoufakis cerca di rispondere alla domanda "cosa è realmente accaduto?" ponendo al centro della sua analisi lo squilibrio fondamentale che ha determinato, storicamente, forme diverse di governamentalità geopolitico-finanziaria. "La mia risposta evocativa è: il crack del 2008 ha avuto luogo quando un animale chiamato il Minotauro globale è stato ferito in maniera fatale. Finché governava il pianeta, il suo pugno di ferro era implacabile, il suo dominio spietato".

Il Minotauro della nostra epoca prende forma a partire dal 1971 e ha un nome preciso: si tratta dei deficit gemelli statunitensi, quello del bilancio del governo Usa e il deficit commerciale dell'economia americana, deficit che si erano andati accumulando verso la fine degli anni sessanta col venir meno delle eccedenze commerciali (esportazioni) americane e con la crescita delle economie tedesca e giapponese. Invece di ridurre i deficit gemelli, nel corso degli anni Settanta gli Stati Uniti decisero di trasformarli in una immensa aspirapolvere tale da assorbire i capitali provenienti dal resto del mondo. Attraverso questo prisma, questa chiave di lettura, scrive l'Autore, "tutto sembra più motivato: l'ascesa della finanziarizzazione, il trionfo dell'avidità, la diminuita importanza degli organismi di regolamentazione, l'egemonia del modello di crescita anglo-celtico. Tutti i fenomeni che hanno caratterizzato quell'epoca improvvisamente appaiono come meri sottoprodotti dei massicci afflussi di capitale per alimentare i deficit gemelli degli Stati Uniti", per nutrire il Minotauro.

Varoufakis sviluppa questa tesi con molta intelligenza ed eleganza lungo tutto il suo libro, passando dagli anni cinquanta del Piano globale all'epoca della finanziarizzazione, dal fordismo al post-fordismo, sviscerando tutti gli arcani "tecnici" della crisi del 2008 e i suoi effetti devastanti sull'Europa. Non è irrilevante osservare che nel pieno della crisi, già a partire dal 2009, sulle pagine del "Financial Times" e anche di giornali come l'"Economist" abbiamo avuto modo di leggere analisi simili alla sua. Si pensi solo agli articoli di Martin Wolf, certamente non marxista, ma tra i più convinti sostenitori della tesi dello squilibrio fondamentale. In una nota finale Varoufakis scrive: "Dal momento che il Minotauro è stato abbattuto dalla crisi del 2008, tutti ora riconoscono che gli squilibri globali sono un problema – sia a livello internazionale (surplus della Cina nei confronti degli Stati Uniti e dell'Europa), sia in Europa (surplus della Germania nei confronti del resto dell'eurozona". Ma, appunto, ci è voluta una crisi storica per illuminare la notte. E non sembra bastare.

Ora, cosa succede "quando il despota oppressore si ammala e le ancelle prendono il comando?" È il problema, oggi, dell'Europa e, per quanto riguarda l'Asia, della Cina. La crisi persiste ed è destinata a durare perché manca un meccanismo di riciclo delle eccedenze nel cuore di eurolandia. In assenza di tale meccanismo, lo squilibrio tra economie in surplus e paesi in deficit viene gestito con iniezione di liquidità da parte della BCE che però non sgocciola nelle economie reali in disavanzo, ma alimentano il circuito finanziario della speculazione. Le misure d'austerità, inoltre, non riducono certamente gli squilibri, ma li acuiscono, deprimendo la crescita e aggravando la povertà. La lotta della Grecia per intaccare questo squilibrio e l'assenza di una politica monetaria con una BCE che funga da vera banca centrale, ruota attorno a questo rompicapo. È l'Epilogo del libro di Varoufakis.

Su scala internazionale lo squilibrio fondamentale non sembra aver ancora colpito a morte il Minotauro. Oggi l'Europa ha un surplus commerciale trainato dalle esportazioni soprattutto tedesche (verso gli USA, ma anche verso la Cina e la Russia). La Cina, seppur in perdita di velocità, continua comunque ad esportare più di quanto importa. Ma, soprattutto, questi paesi, invece di investire al loro interno, continuano a preferire gli investimenti speculativi dei loro risparmi all'estero, e gli Stati Uniti sembrano aver riscoperto il gioco dell'aspirapolvere. Lo squilibrio fondamentale, almeno nel medio periodo, è destinato a rafforzarsi a causa di politiche monetarie divergenti da una parte e dall'altra dell'Atlantico, con gli Stati Uniti proiettati verso l'aumento dei tassi di interesse (e quindi un rafforzamento del dollaro) e l'Europa avviata verso politiche di espansione della liquidità (e quindi un indebolimento dell'Euro).

Questa volta, secondo l'"Economist", si possono prevedere due pericoli. Uno a breve termine, con la diminuzione delle esportazioni americane a causa sia del dollaro rivalutato e della scarsa domanda dei paesi importatori (come l'Europa e la stessa Cina), sia della riduzione degli investimenti interni, specie nel settore energetico (a causa del basso prezzo del petrolio). La ripresa statunitense rischia quindi di durare poco. L'altro pericolo, ma a medio termine, è una ripresa dell'indebitamento delle economie domestiche americane che, certo, è diminuito nel corso della crisi, ma sta già aumentando, specie nel settore immobiliare.

L'eterno ritorno dello squilibrio rende ancor più fondamentale la lotta della Grecia, e la lettura del libro di Varoufakis.

Pubblicata in "il manifesto", 24 febbraio 2012.

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