Copertina
Autore Simona Morini
Titolo Il rischio
SottotitoloDa Pascal a Fukushima
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2014, Temi 244 , pag. 116, cop.fle., dim. 11,5x19,5x1 cm , Isbn 978-88-339-2503-5
LettoreRenato di Stefano, 2014
Classe scienze cognitive , psicologia , sociologia , economia , natura-cultura , energia
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Indice


          Il rischio

  9   1.  Il rischio come avventura

 20   2.  Dalle speranze alle aspettative

 30   3.  La percezione del rischio

 42   4.  La società del rischio

 52   5.  Chi decide? Esperti contro senso comune

 58   6.  L'accettabilità del rischio: privata e pubblica

 65   7.  Responsabilità

 73   8.  Il ritorno dell'avventuriero

 81   9.  La tecnologia del rischio

 92  10.  Ideologia e razionalità della precauzione

105       Conclusioni

113       Bibliografia

 

 

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Pagina 9

1. Il rischio come avventura


Il rischio è, tecnicamente, la probabilità che si verifichi un evento indesiderato. Quanto più grande è la probabilità e quanto più è indesiderato l'evento, maggiore è il rischio. Semplice, elegante, ineccepibile: razionale.

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Un'altra importante caratteristica dell'avventura è che manca della interpenetrazione con tutte le parti adiacenti che costituisce la vita-come-un-tutto: «È come un'isola nella vita - che definisce il suo inizio e la sua fine secondo una dinamica propria - e non come una parte di un continente, che si sviluppa all'interno della dinamica dei territori adiacenti». In questo l'avventura è paragonata da Simmel all'arte, che «ritaglia» dal flusso continuo della percezione una zona autonoma, staccata dal resto e tenuta insieme da una sua logica compositiva interna. Il tempo dell'avventura è l'«ora», l'adesso, il subito. Per l'avventuriero il presente - il contingente - inghiotte passato e futuro con la forza di una necessità.

Questa modalità dell'esistenza contrasta nettamente con il funzionamento della razionalità che agisce, invece, come un filo che serve a «cucire» in una trama il flusso disordinato degli eventi e delle passioni della vita, collegando il presente da un lato all'esperienza passata, dall'altro alla previsione del futuro. È chiaro che se l'avventura è un modo di vita che opera uno «strappo» in un tessuto di eventi, la sua organizzazione interna (che pure segue una propria logica) è diversa da quella della vita quotidiana. In questo senso qualsiasi definizione «tecnica» della razionalità, qualsiasi modello teorico, qualsiasi «logica dell'incerto» non è altro che un tentativo di «domare» il caso e quindi di «ricucire» lo strappo dell'avventura.

Questo spiega perché il giocatore si rifiuta di calcolare, anche se questo forse aumenterebbe le sue probabilità di vincita: non vuole «ricucire» lo strappo. Vuole vivere nella dimensione dell'avventura, dell'eccezione, fuori dalla quotidianità: svincolato dai suoi fini e dalle sue regole. L'avventura (il rischio non domato dalla razionalità) è una affermazione estrema e radicale di libertà, una forma di anarchia. Non cerca di domare il fato, o il caso, o l'incertezza. Lo sfida apertamente, incurante delle conseguenze. E infatti il giocatore quasi sempre si rovina.

La probabilità, al contrario, contrasta ogni forma di fatalismo, nega risolutamente che ci siano Parche, o altri più o meno divini influssi, che tessono la trama della nostra vita, e ha l'ambizione di insegnarci a «cucire da soli», usando la ragione, la stoffa della nostra esistenza (non è un caso che il calcolo delle probabilità si sia sviluppato solo a partire dal Seicento, agli inizi della rivoluzione scientifica e parallelamente al formarsi della nozione moderna di individuo). È anch'essa, quindi, una affermazione di libertà, anche se di tipo molto diverso. In un caso si assume che il Fato esista e lo si sfida, nell'altro semplicemente «la Fortuna non esiste», come proclamava nel secolo scorso il matematico italiano Bruno de Finetti. Esistono solo le nostre umane incertezze, e l'esigenza di tenerle sotto controllo.

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Nel corso della lunga storia che va dalla «geometria del caso» di Pascal alla «logica dell'incerto» di Bruno de Finetti, fino agli sviluppi più recenti in economia, sono accadute altre svolte significative. Quello della probabilità è un calcolo che può essere variamente interpretato: come misura del nostro grado di credenza o «fiducia» nel verificarsi di un dato evento (la cosiddetta probabilità «soggettiva»), oppure come la «registrazione» della frequenza con cui accade un evento che può ripetersi più volte (per esempio, quante volte esce «testa» in cento lanci di una moneta, o lo zero in una serata alla roulette): la cosiddetta «frequenza» o «probabilità oggettiva». De Finetti ha contestato questa distinzione dal punto di vista matematico, mostrando come l'interpretazione frequentista non è che un caso particolare di quella soggettivista.

Resta il fatto che, prima del Novecento, queste due accezioni del probabile hanno ispirato interpretazioni (e usi) differenti del calcolo delle probabilità, che hanno dato vita, anche storicamente, a culture e discipline distinte: il calcolo delle probabilità sviluppatosi a partire dal Seicento, la statistica che fiorisce nell'Ottocento e la matematica attuariale novecentesca. Sono ottiche diverse: scienze, problemi e relative filosofie differenti. Semplificando un po', possiamo dire che la probabilità è uno strumento paragonabile alla visione di un bosco quando ci troviamo al suo interno e dobbiamo prendere decisioni sulla base degli elementi di cui disponiamo. Ma se avessimo la possibilità di vedere il bosco dall'esterno è chiaro che acquisiremmo su di esso un tipo di conoscenza che, come individui che ci camminano dentro, non possiamo avere. Per esempio, il tipo di conoscenza «d'insieme» dei fenomeni fornita dalla statistica. Tali interpretazioni generano diverse «filosofie» e «politiche» del rischio. Anzi, si potrebbe sostenere che il concetto stesso di rischio, in senso proprio, si sviluppa nel suo significato attuale solo dopo l'avvento della statistica. Al libertino e all'avventuriero dovremo quindi aggiungere «lo statistico» o, meglio, «l'assicuratore».

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Ebbene, non è così. Il modo di ragionare delle persone e il loro comportamento nelle situazioni di scelta della vita reale si discosta notevolmente da quanto prescritto dalle teorie normative della razionalità, che «calcolano» i rischi moltiplicando probabilità con utilità. Quando c'è di mezzo un pericolo, i nostri istinti entrano in conflitto con i nostri ragionamenti. Verrebbe quasi da dire, se non fosse filosoficamente molto grossolano e perfino illecito, che la nostra «natura» entra in conflitto con la nostra «cultura». In realtà, le due dimensioni sono strettamente connesse e interrelate già a livello neurofisiologico, e questo delicato meccanismo di reazione individuale si traduce, a livello pubblico, in un conflitto tra il senso comune dei cittadini e gli «esperti» che sono chiamati a prendere per conto degli altri decisioni (possibilmente) razionali in situazioni rischiose.

Il quadro delle nostre «irrazionalità», che - ripetiamolo - sono giustificate rispetto agli obbiettivi biologici primari che condividiamo con gli altri animali (sopravvivenza e riproduzione), è stato ben delineato grazie agli esperimenti condotti dagli psicologi nella seconda metà del secolo scorso.

Nel loro insieme costituiscono una particolare modalità di ragionamento. Herbert Simon la chiamava «razionalità limitata»; Daniel Kahneman parla di pensiero «veloce», contrapponendolo al pensiero «lento», tipico dell'attività del calcolare e dell'esercizio della logica; Gerd Gigerenzer lo definisce pensiero «rapido ed economico» (fast and frugal): una sorta di «cassetta per gli attrezzi» mentale (adaptive toolbox, come la chiama lo psicologo tedesco) in cui riponiamo le euristiche e le «scorciatoie» di cui il nostro cervello si serve per far fronte in modo economico ed efficiente agli imprevisti che si susseguono incessantemente nella vita di tutti i giorni e a cui dobbiamo far fronte in tempi rapidi e, il più delle volte, senza avere tutte le informazioni necessarie per decidere.

Pensare comporta un notevole dispendio di energie, anche fisiche. Dentro la nostra cassetta degli attrezzi sono quindi immagazzinati ricordi ed esperienze passate, soluzioni usate in occasioni analoghe, cose che sono capitate ad altri e i tanti modi in cui da un flusso disordinato di sensazioni riusciamo di solito a ricavare una immagine del mondo abbastanza regolare e controllabile, la nostra personale idea di come le cose vanno «normalmente».

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D'altra parte, l'incertezza e l'imprevedibilità sono due meccanismi fondamentali dal punto di vista evolutivo. Si potrebbe sostenere, per usare le parole della scrittrice Ursula K. Le Guin , che «L'unica cosa che rende possibile la vita è il suo permanente, intollerabile stato di incertezza: il non sapere cosa ci aspetta». Read Montague ha dato una convincente spiegazione di questo apparente paradosso, osservando come l'incertezza abbia esercitato una pressione evolutiva sui meccanismi di apprendimento, e come gli esseri viventi che sono riusciti a ridurre efficacemente rischi e incertezza sviluppando conoscenze siano sopravvissuti meglio di quelli che non sono riusciti a farlo. E tuttavia, egli osserva giustamente, «non tutte le incertezze si equivalgono».

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6. L'accettabilità del rischio: privata e pubblica


Quando ci interroghiamo sul rischio, dunque, ci muoviamo su piani di indagine distinti, benché strettamente collegati. Possiamo, per esempio, distinguere, più che altro per comodità di esposizione, un rischio «reale», un rischio «percepito» e un rischio «accettabile».


- Il rischio «reale» riguarda questioni sostanziali (alcuni, ma non tutti, direbbero «oggettive»). Si tratta di stimare i rischi (in questo caso, sì, le probabilità che si verifichino effetti indesiderati) connessi alle nuove scoperte scientifiche o a eventi naturali: il clima, le nanotecnologie, la genetica, gli OGM, i farmaci, le fonti di energia e innumerevoli altre questioni relative alla nostra salute e alla nostra sicurezza. «Sicurezza», qui, è la parola chiave. Una situazione rischiosa, infatti, comporta la possibilità che si verifichino eventi che potrebbero in varia misura danneggiarci (come individui, o come cittadini, gruppi ecc.) e da cui dobbiamo difenderci.

- Il rischio «percepito» riguarda la valutazione soggettiva del pericolo. Abbiamo visto che le nostre assegnazioni «spontanee» di probabilità si discostano notevolmente dai valori di probabilità scientificamente calcolati (dai rischi reali), creando inevitabilmente una frattura tra la teoria e l'intuizione, tra gli «esperti» e le «persone comuni». Secondo alcuni studiosi, «i risultati, scopi e valori che comporta una valutazione del rischio devono essere tenuti distinti dai valori culturali associati ai risultati. Tali valori sociali, infatti, sono fattori che influenzano le decisioni e possono anche discostarsi dalle stime di rischio che hanno la stessa probabilità». Secondo altri, invece, i modelli scientifici non riescono a catturare alcuni problemi (per esempio, problemi di equità nella distribuzione dei rischi) che però vengono perfettamente colti dalle nostre intuizioni.

- Il rischio «accettabile», infine, comporta questioni normative di metodo e di procedura, che riguardano il modo in cui prendiamo decisioni pubbliche in condizioni di incertezza. Cioè questioni etiche o politiche relative ai principi che ispirano le regole, le norme, le leggi, nonché le misure di prevenzione del rischio.


Non è sempre possibile trattare questi aspetti separatamente. Nel loro insieme costituiscono un «ecosistema» che si stabilizza su equilibri delicati e precari, difficili da cogliere nel loro insieme. All'interno di questo sistema, l'elemento destabilizzante è la paura, un meccanismo psicologico (o meglio, un «sentimento») essenziale, come abbiamo visto, alla nostra sopravvivenza e quindi connesso a uno degli obbiettivi primari della specie animale a cui apparteniamo; ma che è anche all'origine dei comportamenti che chiamiamo «irrazionali», ove per razionalità si intenda una conquista culturale, uno strumento normativo di inibizione o di correzione non solo delle nostre intuizioni, ma anche dei nostri istinti primari (sopravvivenza e riproduzione). Quella che si chiama «intelligenza» del rischio.

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Il passaggio dalla geometria del caso - probabilistica, soggettiva, individualistica - alla tecnologia del rischio - pubblica, oggettiva e spersonalizzata - è segnato dalla nascita e dallo sviluppo della statistica. Si potrebbe dire che la probabilità sta all'incertezza come la statistica sta al rischio, anche se è solo per comodità - e per mettere in luce un cambiamento di mentalità importante - che distinguo il «libertino» dallo «statistico», che semplicemente usano e interpretano probabilità e statistica - cioè un calcolo - in modi diversi. Messo da parte e stigmatizzato - teoricamente e legalmente, ma certo non nella vita di tutti i giorni - l'azzardo, l'Ottocento si presenta come il secolo della prudenza, esatto opposto dell'avventura. Ovviamente, questa virtù non piace all'avventuriero: «La prudenza è una ricca e brutta zitella corteggiata dall'Incapacità». Sembra un motto neoliberista, e invece è una citazione di William Blake , il poeta, pittore e visionario inglese la cui vita, negli anni della Rivoluzione francese, è stata un capolavoro di imprudenza.

La prudenza è una nozione più sfuggente e difficile da catturare in una definizione univoca dell'azzardo, o dell'avventura. Presenta accezioni e sfumature che variano nelle culture e nel tempo. Per esempio, la prudenza del libertino è diversa dalla prudenza dello statistico; e ovviamente entrambe sono diverse dalla phronesis, cioè dalla prudenza aristotelica, intesa come forma di saggezza pratica successivamente trasformatasi, nel pensiero cristiano, in una delle virtù cardinali. Bisogna qui notare il termine «virtù». La prudenza del libertino non è infatti una virtù, o una qualità dello spirito, o un valore morale, ma un'arte (alcuni direbbero una scienza) le cui regole sono quelle della razionalità pratica prefigurata nella scommessa di Pascal: si deve agire «massimizzando l'utilità prevista», cioè basandosi sul calcolo delle probabilità e dell' utilità. Anziché usare il temine «utilità», potremmo dire «bene», o «valore» di un'azione, in modo da evitare il luogo comune - o meglio l'errore comune - di chi confonde razionalità e virtù, per cui il nostro libertino sarebbe un egoista interessato solo al proprio tornaconto. In realtà, sta semplicemente calcolando cosa è meglio fare. Il carattere rivoluzionario della nuova logica di Pascal è infatti che prescrive scelte prudenti (nel senso di razionali) anche a individui che prudenti e virtuosi non sono, o non ci paiono troppo.

Il libertino è, lo abbiamo visto, un individuo che «tesse da sé» la trama della propria esistenza, che sa «governare l'incertezza» e calibrare i rischi e i vantaggi delle varie azioni possibili. Come tale, è l'unico responsabile delle proprie scelte. Sul piano della cultura politica e del diritto, Ewald parla a questo proposito di un'epoca della responsabilità, che si consolida nel corso del XVIII secolo, in cui gli obblighi morali e personali, e la solidarietà (intesi come scelte razionali) sono più forti di quelli legali. Legalmente, l'unico obbligo è quello di non arrecare danni agli altri. Il libertino valuta il rischio e i possibili vantaggi di un'impresa e, se perde, paga le conseguenze, come Don Giovanni nel finale dell'opera di Mozart e Da Ponte.

Si tratta, sostanzialmente, di una logica per cui ognuno risponde delle proprie scelte: eventuali guai o insuccessi sono colpa sua. Non ci sono «vittime» in questo sistema di pensiero, ma solo errori di valutazione. E gli errori sono «colpe». In questo senso la razionalità pratica va di pari passo con il definirsi del nascente «spirito del capitalismo» pur essendo compatibile con le più diverse forme di liberalismo, in quanto, tecnicamente, l'utilità non si identifica - se non in relazione a una specifica cultura economica - con il profitto.

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[...] Il rischio torna dunque ufficialmente in scena. Mentre per il liberalismo classico e per il welfare state i rischi, per i lavoratori e le classi meno abbienti, sono principalmente negativi (sono ancora incidenti, appunto) e il problema è quindi di minimizzarli incentivando un'etica della frugalità, della prudenza e del risparmio, il neoliberalismo (o «neo-liberismo») rivaluta i lati positivi del rischio, che viene collegato alla imprenditorialità e allo spirito di iniziativa. Al punto da mettere in forse l'assistenzialismo, rimproverato di creare passività e «dipendenza» delle persone dall'intervento statale.

Così, il risparmiatore viene invitato a «integrare» la pensione di Stato, o altre forme di assistenza pubblica sempre più inefficienti. Ognuno si trasforma in uno shareholder - e quindi una parte «attiva» dell'economia. Da consumatore, il risparmiatore diventa in qualche modo imprenditore (senza però averne sempre le competenze). Inizialmente investe in borsa, su singoli titoli; poi, per ridurre le possibili perdite, «spalma» il rischio su pacchetti di titoli, fino al punto in cui il suo rischio viene gestito da altri: dai fondi di investimento, dalle banche, secondo meccanismi sempre meno chiari e trasparenti. Il risparmiatore/investitore è libero di scegliere quanto vuole rischiare (per esempio, tra rendimento fisso o variabile, o tra azionario, obbligazionario ecc.). È informato anche della composizione del suo portfolio. Ma resta nella maggior parte dei casi estraneo all'andamento dei movimenti finanziari determinati su scala globale dai grandi investitori, i veri «avventurieri» del XXI secolo. Qui non si tratta di «domare il caso», ma di giocarci.

Il neo-liberismo, esponendo gli investimenti degli assicuratori e delle istituzioni finanziarie, pubbliche e private, agli azzardi speculativi della borsa ha reintrodotto il gioco d'azzardo dalla porta principale, trasformandolo in una «industria» rispettabile. Senza quasi accorgersene, i risparmiatori che depositano i soldi in banca, corrono più o meno gli stessi pericoli degli avventurieri che vanno a giocare al Casinò: ma si divertono meno.

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Non è facile ricavare una morale univoca da questa storia. Molti giapponesi hanno partecipato a comprensibili manifestazioni contro la riapertura delle centrali nucleari. Rispetto agli oltre 20 000 morti provocati dal rischio «naturale» terremoto, i pochi casi accertati di malattie o decessi provocati dalle emissioni della centrale e le basse stime di malattie che potrebbero svilupparsi in futuro (al massimo un migliaio di casi, più verosimilmente poche centinaia, in base a una simulazione delle emissioni di materiale radioattivo effettuata da Mark Jakobson, ingegnere a Stanford) hanno portato il premio Nobel per la fisica Burton Richter alla conclusione che, dopotutto, il nucleare continua a essere meno pericoloso del gas e del carbone (sempre che, ovviamente, la rimozione delle barre di combustibile avvenga, come speriamo, senza incidenti).

Ma anche ammesso, e non concesso, che sia vero, i danni «non quantificabili» dell'incidente sono, appunto, «incalcolabili». Migliaia di persone sono state allontanate dalla zona contaminata, vivono in condizioni precarie e hanno dovuto abbandonare le loro case senza possibilità di farvi ritorno. La popolazione dell'intera Tokyo e di altre città della zona è costretta a vivere senza sapere con certezza se il cibo o l'aria che respirano siano contaminati o meno, e nel terrore di un nuovo terremoto o di un disastro ancora peggiore. Analisi e modelli teorici non riescono a cogliere elementi assolutamente banali o fortuiti, che pure hanno influito in modo significativo sugli avvenimenti di Fukushima (dal topo che avrebbe rosicchiato i fili elettrici dell'impianto di fortuna rocambolescamente messo insieme dai tecnici per garantire il raffreddamento del reattore provocando una delle prime esplosioni nella centrale, alle follie burocratiche per cui due camion dei pompieri messi a disposizione della diplomazia USA, che sarebbero stati utilissimi per fornire l'acqua necessaria a raffreddare i reattori, sono stati bloccati in quanto non erano registrati in Giappone e quindi non avevano il permesso di circolazione sulle strade). Analoghe «contingenze» potrebbero verificarsi di nuovo, oltre al fatto che non è facile raccogliere tutti i dati che sarebbero necessari agli scienziati per avere un quadro chiaro della effettiva situazione della centrale.

Sul fronte istituzionale le cose vanno anche peggio. Dalla stampa si ricavano notizie contraddittorie ed è chiaro che le fonti di informazione e l'industria hanno mentito ripetutamente. Le burocrazie di controllo si sono rivelate non solo inutili, ma addirittura di ostacolo nell'affrontare i problemi e nel prendere le decisioni. Il governo giapponese ha interesse a minimizzare la pericolosità della situazione, mentre le altre nazioni, Cina e Stati Uniti in primis, si muovono con prudenza, per evitare scontri politici in un'area già carica di tensioni. Le altre nazioni, che si sentono meno coinvolte, si disinteressano del caso. Tutti agiscono come se il problema riguardasse solo il Giappone, ma il già citato rapporto della Union of Concerned Scientists denuncia senza mezzi termini le ripetute pressioni esercitate, per esempio, negli Stati Uniti dall'industria nucleare per indebolire le norme di sicurezza e le stesse debolezze nei meccanismi decisionali, arrivando alla conclusione che analoghi incidenti si potrebbero verificare in altre parti del mondo.

Ho iniziato questo libro scrivendo che «il rischio è, tecnicamente, la probabilità che si verifichi un evento indesiderato. Quanto più grande è la probabilità, quanto più è indesiderato l'evento, maggiore è il rischio». La formula in teoria continua a essere semplice, elegante e ineccepibile - aggiungerei indispensabile, per contrastare i bias e le paure irrazionali innescate dal rischio -, ma è chiaro che in alcuni casi, come quello di Fukushima, non è sufficiente ad affrontare i nuovi problemi della «società del rischio». I modelli di cui disponiamo sono pensati per situazioni che possono essere caratterizzate da un numero finito di parametri, cioè situazioni «locali» sulle quali disponiamo di informazioni. Un sistema «globale», con un numero imprecisato di parametri e di informazioni, e quindi spesso imprevedibile, richiede strumenti di analisi differenti, nuovi modelli matematici e, con essi, nuovi strumenti culturali, politici e decisionali. Esattamente come Beck, anch'io «non riesco a comprendere come si possano usare sistemi di riferimento sviluppati nel XVIII e XIX secolo per capire la transizione al mondo cosmopolita post-tradizionale in cui viviamo oggi». Anche se forse potremmo dirlo in modo un po' diverso.

In che misura i rischi corsi a Fukushima sono solo rischi tecnologici e non piuttosto il frutto di errori decisionali, o di cattiva politica, o di una cultura inadeguata e obsoleta? Anziché proporre di tornare indietro, di «fermare il mondo», io credo che sia importante porsi il problema di come andare avanti. Anziché cercare di chiudere le centrali nucleari che, a conti fatti, sono comunque meno nocive dei sistemi alternativi di cui disponiamo oggi, introduciamo norme di sicurezza severe, cambiamo le procedure decisionali e svincoliamole degli interessi nazionali; impediamo alle lobbies di fare pressioni sulla politica e di influenzare decisioni che devono essere pubbliche, trasparenti e condivise da tutti i cittadini. Impediamo loro di frenare la ricerca scientifica sulle fonti alternative, cambiamo cioè la politica. È questa la grande sfida del mondo contemporaneo.

Benvenuti nell'era del rischio globale, dove c'è ancora molto da fare.

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