Copertina
Autore Carol Off
Titolo Cioccolato amaro
SottotitoloIl lato oscuro del dolce più seducente
EdizioneNuovi Mondi, Modena, 2009 , pag. 318, cop.fle., dim. 17,2x21x1,9 cm , Isbn 978-88-8909-163-0
OriginaleBitter Chocolate. Investigating the dark side of the world's most seductive sweet [2006]
TraduttoreMauro Gurioli
LettoreElisabetta Cavalli, 2009
Classe alimentazione , storia sociale , storia criminale , storia: Africa
PrimaPagina


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Indice


Introduzione  Nel giardino del bene e del male        9

Capitolo 1    Morire di cioccolato                   17

Capitolo 2    Oro liquido                            36

Capitolo 3    Processo al cacao                      53

Capitolo 4    Geopolitica del bacio di Hershey       81

Capitolo 5    Nessuna dolcezza                      104

Capitolo 6    Schiavi usa-e-getta                   127

Capitolo 7    Cioccolato sporco                     146

Capitolo 8    I soldati del cioccolato              170

Capitolo 9    Class action per il cacao             191

Capitolo 10   L'uomo che sapeva troppo              215

Capitolo 11   Il frutto rubato                      248

Capitolo 12   Una vittoria agrodolce                270

Epilogo       Quel che è giusto è giusto            302

Fonti bibliografiche                                309

Ringraziamenti                                      314


 

 

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Pagina 9

Introduzione

NEL GIARDINO DEL BENE E DEL MALE


"Nei miei sogni mi rimpinzo di cioccolato, mi rotolo nel cioccolato, e la sua consistenza non è croccante ma soffice come quella della carne, come se vi fossero migliaia di piccole bocche sul mio corpo, a divorarmi con morsetti voluttuosi. Morire per la loro tenera ingordigia costituisce il culmine di ogni tentazione a me nota".

- JOANNE HARRIS, Chocolat


SULLA CARTINA DELLA COSTA D'AVORIO, L'AMPIA AUTOSTRADA CHE CONDUCE fuori dalla città di Abidjan è indicata come strada principale a due corsie, ma quando ci lasciamo la capitale alle spalle si restringe rapidamente, trasformandosi in una viuzza piena di buche, non più larga di una strada d'accesso. Viti e arbusti intricati incombono sul nostro veicolo mentre ci inoltriamo in quello che ha tutto l'aspetto di un tunnel scuro e frondoso. L'umidità perenne (dalla tiepida foschia, agli acquazzoni torrenziali, al semplice vapore) sembra alimentare la crescita di nuove parti della giungla, proprio sotto i miei occhi.

Koffi Benoit è alla guida di questa escursione verso l'ignoto. È un ivoriano imperturbabile, e sarei pronta a fidarmi di lui in qualsiasi situazione. Ange Aboa è invece la nostra guida in quella che lui chiama la brousse, cioè la savana. Ange è un giornalista dell'agenzia di stampa Reuters e passa buona parte del proprio tempo nell'entroterra della Costa d'Avorio, tentando di dare un senso al mondo degli affari africano, torbido e confuso.

Insieme, ci stiamo dirigendo a ovest di Abidjan, nel cuore della foresta tropicale e presso quelle remote campagne che si estendono per centinaia di chilometri verso il confine con la Liberia. La nostra missione consiste nello scoprire la verità sul prodotto più prezioso della Costa d'Avorio: il cacao.

I miei due compagni conoscono bene la savana, ma saranno sempre estranei per questa gente che si fida solo dei propri clan: se vogliamo superare gli ostacoli prodotti dalla storia e dalla vegetazione, indagando sui misteri del luogo, dobbiamo farci aiutare dalle persone che vivono qui.

In un piccolo villaggio, incontriamo Noël Kabora, un pisteur di lunga esperienza che percorre ogni giorno le minuscole pistes dell'entroterra quando fa il giro delle fattorie per raccogliere i sacchi di semi di cacao dai contadini. Abbandoniamo dunque la relativa comodità del Renault di Benoit per salire sul camion scassato di Noël, uscendo dall'autostrada e addentrandoci nel cuore della savana. Ange si è spostato in fondo al camion per poter parlare con alcune persone del posto, io sono seduta nella cabina con Noël, mentre Benoit decide di rimanere dietro e prendere un té con alcuni degli amici appena conosciuti.

Quasi metà di tutto il cacao del mondo proviene da questa giungla umida dell'Africa occidentale, e va a finire poi nelle confezioni che allietano la dieta e l'umore degli amanti del cioccolato di tutto il mondo. I bonbon, i tartufi, la cioccolata calda, i biscotti, le torte, i gelati e le onnipresenti tavolette di cioccolato; i bocconcini dolci che recitano "Ti amo" il giorno di San Valentino, oppure "Buon Natale", "Buon compleanno", e i dolcetti di Halloween; le uova di Pasqua – tutte queste delizie si sono messe in viaggio verso le nostre pance partendo da questa fucina tropicale.

Eppure, mentre mi inoltro lungo questi sentieri sconnessi, attraversando le foreste color giada della Costa d'Avorio, non potrei sentirmi più lontana da quelle amate cerimonie, dallo sfarzo delle celebrazioni e dalla letizia che scandiscono la vita del mondo sviluppato.

Noël mi fa notare i boschetti di piante di cacao mischiati con alti banani, mango e palme. Baccelli di frutti verdi, gialli e rossi, grandi come zucche a mandolino, sono appesi precariamente ai tronchi lisci degli alberi il cui nome latino è Theobroma cacao: "il cibo degli dèi". I contadini tagliano coi machete i baccelli maturi e li aprono per raccogliere ciò che di prezioso contengono: decine di semi grigio-porpora grandi come mandorle, conficcati in una polpa di colore marroncino chiaro. Oltre gli arbusti, riusciamo a scorgere le reti e le stuoie su cui viene messo a fermentare per giorni il contenuto dei baccelli, esposto al calore e all'umidità. Si genera così una meravigliosa alchimia, nella quale i semi macerano nel succo dolce e appiccicoso prodotto dalla polpa che si scioglie sotto il torrido sole dei Tropici. Nella massa fetida si mettono al lavoro i microrganismi, che attivano circa 400 sostanze chimiche e organiche diverse. Queste ultime, come per magia, trasformano un seme insignificante nella materia prima che costituisce l'essenza del dolce più seducente al mondo. Dopo cinque o sei giorni di macerazione, i semi vengono messi ad asciugare sulle reti. Nel corso della storia questa delicata serie di operazioni, unitamente alle tecniche di produzione, ha reso milioni di persone di ogni parte del mondo dipendenti dal cioccolato. I bambini sono pronti a investire le loro magre paghette per accaparrarsene un boccone, certe donne dicono di preferire il buon cioccolato al sesso, e la scienza moderna sostiene che esso ha una miriade di potenziali effetti benefici sulla salute: dall'abbassamento del colesterolo all'aumento della libido. Il cioccolato incarna la tentazione, creando un misterioso rapporto di dipendenza, che a sua volta sostiene imponenti scambi commerciali internazionali e un'industria il cui appetito di materie prime appare insaziabile. La sopravvivenza dei capitani dell'industria del cioccolato dipende da queste fattorie remote e dai pisteur che si avventurano ogni giorno nella savana per raccogliere sacchi di semi di cacao che vengono accuratamente fatti fermentare e asciugare.

Noël si muove agevolmente lungo una strada incredibile, che di tanto in tanto sembra sparire completamente. Indica la cima delle colline dove i boschetti di piante di cacao si protendono a cercare la luce del sole e commenta con cognizione di causa la qualità della produzione di ciascun contadino, lodando quelli che hanno perfezionato l'asciugatura e la fermentazione e riprendendo quelli i cui semi sono sempre sporchi. Di tanto in tanto, scorgiamo qualche piccolo edificio scolastico formato da una sola stanza, oppure una minuscola cappella circondata da altrettanto minuscole case di fango in cui vive la gente che coltiva "il cibo degli dèi".

I contadini di questa regione non coltivano il cacao per tutto il mondo da molto tempo: lo fanno dagli anni Settanta e Ottanta, quando il dittatore illuminato e padre fondatore della Costa d'Avorio, Félix Houphouët-Boigny, si rese conto che in queste fertili campagne si poteva far crescere l'equivalente botanico dell'oro. Egli voleva trasformare la propria nazione post-coloniale, appena riscattata dal dominio francese, nel motore economico dell'Africa occidentale. Negli anni Sessanta Houphouët-Boigny annunciò di voler trasformare la giungla in un Eden e che tutti coloro che abitavano in quelle zone avrebbero goduto dei frutti del proprio lavoro. La visione creazionista funzionò e per qualche tempo la Costa d'Avorio fu senza dubbio il Paese più stabile e prospero del continente africano; ciò prevalentemente grazie al fatto che riforniva il mondo di cacao. Ma ora tutto è cambiato.

Le Vieux, così gli ivoriani chiamavano affettuosamente Houphouët-Boigny, era il leader indiscusso della nazione e alla sua morte, nel 1993, il potere passò a uomini di vedute assai meno ampie e di cupidigia ben maggiore. Da allora la Costa d'Avorio è scivolata lentamente nel caos e nella violenza, in particolare presso le agognate piantagioni di cacao dove, nonostante i cessate il fuoco, una guerra strisciante continua a relegare questo Paradiso al rango di Purgatorio, se non di vero e proprio Inferno. Gli scontri riguardano prevalentemente la proprietà delle terre in cui si produce il cacao, poiché gli eserciti e le organizzazioni paramilitari rivaleggiano tra loro per assicurarsi il controllo della sterminata ricchezza agricola della Costa d'Avorio. Tutte le persone coinvolte nella produzione del cacao sono costantemente a rischio di attacchi.

Noël Kabora è prudente mentre compie i suoi giri per raccogliere sacchi di juta pieni di cacao, che verranno poi spediti dai grandi porti del golfo di Guinea alle industrie, per raggiungere infine i banchi pasticceria del Nord America e dell'Europa.

A intervalli regolari vedo i sacchi fiduciosamente ammassati lungo la pista, a dispetto del pericolo incombente. Dopotutto, la guerra non è in grado di bloccare un'impresa commerciale che si presenta come la salvezza economica per chiunque viva in queste zone. I soldati vengono pagati grazie ai proventi ottenuti col cacao, e sanno abbastanza cose per non impedirne la circolazione. Ciò, tuttavia, non è sufficiente per far desistere i miliziani armati (che sono ovunque) dall'aumentarsi la paga ricorrendo all'estorsione. Ci imbattiamo in numerosi posti di blocco dove ci viene richiesto di pagare "tasse speciali". Elargiamo denaro a ceffi armati che puzzano di vino di palma e non si danno pena di mascherare il proprio disprezzo per una straniera come me. Noël dice che anche lui ogni giorno deve affrontare il loro odio. Qui è uno straniero: viene dal Burkina Faso, uno Stato confinante, perciò è spesso vittima di atteggiamenti razzisti e rapine da parte delle forze armate. Il nostro vecchio camion del cacao arranca e sibila mentre sale su una collina ripida, facendo girare le sue ruote lisce nel fango rosso sdrucciolevole per completare la scalata. Arriviamo così in una fattoria collettiva gestita da persone anch'esse originarie del Burkina Faso. Il villaggio si chiama Sinikosson, che nella lingua ufficiale della Costa d'Avorio, il francese, viene tradotto con Faite pour Demain (Fatto per Domani). In realtà sembra che gli abitanti del villaggio facciano tutto per... oggi, vivendo alla giornata e lasciando ben poco per il giorno a venire. Coltivano un po' di grano, manioca e banane, ma la loro attività principale consiste nel produrre cacao per il mercato internazionale. Così, vendendo il cacao guadagnano soltanto i soldi che servono per comprare il riso e l'olio per cucinare. Di solito oltre a questo non resta loro nulla. Si tratta della comunità più isolata e più povera che abbia incontrato nella regione. Sembrano tutti stanchi e affamati, ma almeno per ora il villaggio è stato risparmiato dalla violenza esplosa nelle campagne circostanti. I soldati ivoriani ubriachi che abbiamo incontrato all'ultimo posto di blocco non si sono dati pena di spingersi fin qui per conquistare o estorcere. L'arrivo di un visitatore da un paese molto lontano è un evento straordinario a Sinikosson. Nel giro di pochi minuti, le verande coperte della casa principale del villaggio si affollano di persone: sono tutti uomini e ragazzi. Le poche donne e ragazze che si vedono rimangono in disparte a preparare un pasto frugale a base di riso e mais. È ovvio, tuttavia, che stanno tentando di capire che cosa succede.

Gli anziani del villaggio vogliono scambiare informazioni. Che cosa succede per quanto riguarda la guerra? Arriveranno altre forze di pace francesi? Quelle che sono già nella regione, inviate a proteggere i villaggi dagli attacchi, non sembrano essere di grande aiuto. Ci saranno le elezioni, come ha promesso il governo?

Mi dicono che il loro villaggio sorge in quel luogo dal 1980, quando vennero prima a lavorare per i proprietari terrieri del posto, poi a coltivare il proprio cacao nell'ambito di un accordo per la spartizione del raccolto. Allora c'era molto terreno fertile ancora vergine e pochissima manodopera, così Le Vieux invitò migliaia di contadini poveri spingendoli ad abbandonare le terre sterili del Burkina Faso e del Mali per stabilirsi qui e contribuire al suo miracolo economico. Allora furono felici di farlo, ma oggi la loro esistenza è diventata assolutamente precaria. Nessuno ha mai dato a questi contadini del Burkina Faso il diritto di proprietà sulla terra che coltivano ormai da decenni. Non hanno atti o documenti che avvalorino le loro rivendicazioni sulla proprietà, tuttavia sono convinti che la terra sia loro. E, dal punto di vista morale, in effetti, è così. Il loro futuro qui, però, si regge su vaghi ricordi di strette di mano e promesse fatte mentre Houphouët-Boigny era ancora in vita. Nessuno finora ha mai seriamente contestato le loro rivendicazioni, ma è solo questione di tempo. Il sostentamento della comunità è assicurato dalla coltivazione del "cibo degli dèi", ma siamo ben lontani dal Paradiso. Nessun bambino qui va a scuola e non esistono i servizi: niente elettricità, niente telefoni, cliniche o ospedali. I contadini sbarcano il lunario tra le colline, in una terra infestata da banditi imprevedibili. Eppure sembrano soddisfatti. Anche nel bel mezzo del caos che regna intorno a loro, dicono di trovarsi in una condizione migliore rispetto a quella della loro madrepatria, afflitta dalla siccità, dove le persone hanno una fame atavica.

Spiego loro che sto scrivendo un libro sul cacao. Annuiscono tutti. Il cacao è una cosa che conoscono benissimo. La qualità dei semi, le piogge capricciose, l'imprevedibilità del raccolto, il costo dei pesticidi, il pericolo costituito dallo scopazzo (una malattia del Theobroma), i prezzi altalenanti e le tasse governative stratosferiche. Questi contadini sanno ogni cosa in merito alle difficoltà della coltivazione del cacao in questa regione. Chiediamo loro:

"Che cosa fareste se non poteste più coltivare il cacao?". "Sarebbe una catastrofe", risponde un uomo, e l'espressione di tutti s'incupisce.

"Questa è la nostra vita", dichiara il capo Mahamad Sawadago. Mi dice di avere 54 anni, ma sembra molto più vecchio. Tre delle donne presenti sono sue mogli. Ha 11 figli.

"Dove va a finire il cacao quando parte da qui?", chiede Ange agli abitanti del villaggio. C'è un silenzio pieno di confusione, tutti si girano verso Mahamad.

"Va al grande porto dì San Pedro", spiega il capo in tono autoritario, "e poi alla gente dell'Europa e dell'America". Tutti annuiscono.

"E cosa fa quella gente coi semi di cacao?"

Ancora silenzio, e tutti guardano il capo. Ma questa volta anche luì sembra spiazzato.

"Non lo so", risponde candidamente. È sicuro che ci facciano qualcosa, ma non sa che cosa. Ci fanno il cioccolato, spiego loro. "Qualcuno di voi l'ha mai assaggiato?" Un uomo dice di averlo fatto una volta quando era lontano dal villaggio e di averlo trovato buono. Ma tutti gli altri non sanno nemmeno cosa sia. Persino Ange Aboa, che realizza servizi giornalistici sull'industria ivoriana del cacao, è sorpreso dal fatto che questa gente sappia così poco del prodotto che coltiva e raccoglie.

Ange strappa un pezzetto di carta dal suo notes e lo arrotola a formare un tubo. Spiega che gli occidentali macinano il cacao e vi aggiungono moltissimo zucchero per fare barrette di quelle dimensioni. Le barrette sono dolci e squisite. A volte vi aggiungono latte e nocciole. I bambini europei e americani spesso le ricevono in dono.

Ange continua spiegando che una di quelle barrette costa circa 500 franchi dell'Africa occidentale (che corrispondono a meno di un euro). Gli occhi dei suoi ascoltatori si spalancano increduli. Quella somma gli sembra esorbitante per un dono così piccolo: è sufficiente per comprare un bel pollo o un intero sacco di riso. Equivale a più del valore di tre giorni lavorativi di un ragazzo (ammesso che quest'ultimo venga pagato, e non sempre avviene). Spiego loro che un bambino della mia nazione consuma una barretta di cioccolato nel giro di pochi minuti. I ragazzi sembrano sconcertati: giorni di duro lavoro consumati in un battito di ciglia dall'altra parte del mondo. Eppure non invidiano ai bambini nordamericani questo tipo di piacere: è raro che la gente dell'Africa occidentale si dimostri invidiosa. Mentre osservo i loro giovani volti, leggo le domande nei loro occhi: misurano l'abisso che separa i bambini che mangiano cioccolato mentre vanno a scuola nel Nord America da quelli che a scuola non ci vanno affatto, e che sin dall'infanzia devono lavorare per poter sopravvivere. E mi rendo conto del paradosso profondo di cui sono testimone: i bambini che si danno da fare per produrre le piccole delizie della vita proprie del mondo di cui faccio parte non hanno mai provato, né mai proveranno, quel tipo di piacere.

Questo ci dà un'idea di quanto siano distanti i nostri mondi, e di come tale distanza sia incredibilmente vasta... la distanza tra la mano che raccoglie il cacao e quella che afferra una barretta di cioccolato.

Ai ragazzi di Sinikosson, che non sanno cosa sia il cioccolato, dico che quasi nessuna delle persone della mia nazione sa da dove provenga il cioccolato che mangia. La gente del mio Paese non ha idea di chi raccolga i semi del cacao o di come vivano quelle persone. I ragazzi di Sinikosson pensano che non sarebbe una cattiva idea se lo spiegassi loro.

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Capitolo 1

MORIRE DI CIOCCOLATO


"Il maggior beneficio di questo cacao è una bevanda che chiamano cioccolata, che in quel paese ha un valore spropositato. Disgusta coloro che non vi sono avvezzi, perché in cima ha spuma e bolle... è una bevanda pregiata che gli indios offrono ai signori che attraversano le loro terre. E gli spagnoli — più le donne degli uomini — non riescono a fare a meno di questa cioccolata nera".

— JOSÉ DE ACOSTA, Istoria naturale e morale delle Indie, 1590


LA STORIA INIZIA AGLI ALBORI DELLA CIVILTÀ UMANA, OLTRE 3.000 ANNI FA. O meglio, questo è l'incipit che possiamo immaginare basandoci sui pochi documenti di un popolo meso-americano sul quale abbiamo soltanto notizie frammentarie: gli olmechi. E probabilmente inizia con le donne che raccolgono i frutti colorati dai rami screziati degli alberi del cacao selvatici, estraendo poi i semi dall'interno polposo e schiacciandoli fino a ottenere una sostanza appiccicosa e grassa. Questa, miscelata con acqua e amido, veniva poi dispensata ai membri dell'élite.

L'alimento base della dieta degli olmechi era il mais, che veniva tenuto per tutta la notte in grandi urne piene di acqua e legno di frassino, oppure di calce e gusci di lumaca polverizzati. Nella scarsa luce dell'alba, le donne toglievano dai contenitori il composto, lavando via i gusci dei chicchi ormai vuoti. Poi battevano il mais fino a ottenere una massa pastosa e la servivano ai padroni spesso irrobustita dalla magica sostanza nera che avevano estratto dal seme chiamato kakawa, a noi noto col nome di cacao.

Si trattava di un connubio gastronomico perfetto. Il mais ricco di amido assorbiva buona parte del burro di cacao (pesante e grasso) rendendolo più digeribile, mentre il gusto ricco del seme esaltava il sapore del composto. Le donne olmeche erano solite servire questa miscela, una bevanda densa e amara, stimolante, nutriente e - almeno così credevano - anche ricca di proprietà terapeutiche.

Anche i più saggi tra gli olmechi avrebbero incontrato difficoltà a spiegare le origini della misteriosa alchimia di questo additivo scuro e amaro, e a capire per quale motivo sembrasse in grado di rimettere in sesto i deboli e di rinvigorire i più forti; per quale motivo, sotto il suo influsso benevolo, tutte le avversità apparissero più facili da gestire e tutti i piaceri più intensi e in che modo li aiutasse ad affrontare le difficoltà di ogni giorno - la fatica fisica, la disperazione e, per quanto riguardava i guerrieri, anche la paura. In ogni caso, il tempo e l'abitudine avevano sviluppato una fiducia profonda e incrollabile nelle proprietà benefiche del cacao. Oggigiorno è impossibile riprodurre la purezza e la potenza di un cocktail di cioccolato olmeco: il bene di consumo prodotto e lavorato in serie che conosciamo col nome di cioccolato non ne è che un pallido surrogato. Una cosa, tuttavia, è rimasta immutata: oggi come allora, il cioccolato è un lusso che i privilegiati possono concedersi a scapito dei meno fortunati. Da migliaia di anni, il desiderio di cioccolato espresso dalle élite viene soddisfatto con il duro lavoro del sottoproletariato.


La pianta chiamata Theobroma cresce lungo una fascia che abbraccia l'equatore e prospera solo in presenza di temperature ideali e un alto tasso di umidità. Ma 3.000 anni fa, quando per la prima volta gli olmechi iniziarono a raccoglierne i ricchi frutti, il cacao cresceva soltanto nelle fitte foreste pluviali tropicali del Centroamerica e del Messico meridionale. Secondo gli antropologi americani Sophie e Michael Coe, lo stesso clima fecondo che permette al cacao di crescere rigoglioso ha determinato anche le condizioni perfette per la distruzione di tutti i documenti scritti relativi alla sua coltivazione, nonché di buona parte dei manufatti più fragili realizzati dagli olmechi. Gli oggetti che si salvarono dalla distruzione costituiscono alcuni dei reperti più rinomati e riconoscibili della civiltà meso-americana: teste di pietra giganti con volti tranquilli e imperscrutabili come la storia che il tempo ha cancellato. Secondo i Coe, gli olmechi furono probabilmente il primo popolo delle Americhe a dare vita a una società divisa in classi, nella quale pochi eletti riuscivano a condurre una vita agiata sfruttando la fatica di chi era meno fortunato. I clan olmechi fondarono villaggi stanziali, basando il proprio benessere economico sull'agricoltura. Sfruttando una classe di servi, idearono sofisticati metodi per la preparazione del cibo, tra cui anche le prime ricette a noi note relative al cacao. Gli archeologi non hanno mai appianato la disputa sulla relazione tra gli olmechi e i maya: non si sa se fossero loro discendenti, partner commerciali o semplicemente vicini. La civiltà olmeca svanì misteriosamente all'incirca nel periodo in cui i maya assunsero il controllo della regione, nel I-II secolo d.C. Tuttavia, è evidente che la civiltà maya si appoggiava a secoli di saggezza e conoscenze dei propri predecessori, tra cui anche la nobile arte della preparazione di bevande a base di cacao.

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Pagina 122

È convinzione diffusa che i delegati riunitisi a Bretton Woods nel luglio del 1944 volessero veramente che la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale (FMI) diventassero forze benevole nello scenario post-bellico. Era un periodo di grande ottimismo, e gli uomini lungimiranti e determinati avevano la possibilità di creare strutture che impedissero la recrudescenza del caos politico ed economico che aveva caratterizzato i decenni precedenti. Oggi, dopo oltre mezzo secolo di esperienza, "benevolenza" non è una parola che affiori facilmente sulle labbra dei clienti di queste due istituzioni internazionali. Le politiche impositive e manipolatorie nel mondo in via di sviluppo hanno lasciato dietro di sé una scia di disincanto e amarezza, insieme a difficoltà economiche reali. E il sentimento di rabbia è particolarmente profondo in Costa d'Avorio.

Alla fine degli anni Ottanta, la Banca Mondiale e il FMI si erano trasformati nelle istituzioni internazionali più potenti della storia, subendo sempre più l'influsso della politica monetaria e della politica estera neo-liberale americana, messe a punto a Washington D.C. e definite, spesso per irriderle, "il consenso di Washington". Spinte principalmente dalla visione ideologica del presidente americano Ronald Reagan e dei suoi consulenti economici (oltre che della sua anima gemella in campo politico, cioè il primo ministro inglese Margaret Thatcher), le due istituzioni divennero strumenti di un movimento intransigente, per imporre politiche capitaliste e monetarie rigide alle economie del Terzo Mondo in difficoltà – e ce n'erano tante, a causa della cattiva gestione e della corruzione di leadership indigene autocratiche.

Il fatto che le politiche fiscali e i programmi economici imposti agli Stati clienti andassero generalmente più a beneficio delle banche, delle tesorerie e dei funzionari d'azienda del mondo sviluppato non fece che amplificare un cinismo già diffuso tra le nazioni in difficoltà di Asia, America Latina e Africa. Il FMI, e in particolare la Banca Mondiale, i cui leader sono scelti da Washington, furono ben presto considerati degli scagnozzi dell'ideologia della Reaganomia. La liberalizzazione era la parola che andava di moda in quel momento e che richiedeva lo scioglimento di consigli commerciali, enti regolatori nei singoli Stati, di dazi, sussidi e di qualsiasi programma che potesse compromettere la dinamica "naturale" del mercato globale. Le nazioni in via di sviluppo i cui leader avevano tentato di alleviare il disastro accumulando debiti ingentissimi (che spesso servivano a coprire la loro avarizia) ora si rivolgevano alla Banca Mondiale in cerca di salvezza. La Costa d'Avorio era diventata una delle nazioni più indebitate del mondo, e Félix Houphouët-Boigny si allineò alle altre nazioni chiedendo aiuti finanziari.

La Banca Mondiale e il FMI avevano una sola ricetta per tutte le nazioni debitrici che si presentavano nelle loro sale d'attesa: la terapia shock della liberalizzazione. I Paesi in bancarotta avrebbero dovuto smantellare i loro consigli agricoli, smettere di dare sussidi alle industrie e attenersi strettamente al loro ruolo simbolico nelle questioni economiche che li riguardavano. Le direttive insistevano sul fatto che tutti i programmi governativi dovevano essere tagliati o eliminati, che l'amministrazione statale doveva essere ridotta all'osso, e che l'assistenza sanitaria, l'istruzione e le infrastrutture pubbliche dovevano essere ridotte al minimo. Alla gente fu detto di aspettarsi di dover pagare anche solo per andare dal dottore. Le monete nazionali dovevano essere svalutate. Le nazioni debitrici si ritrovarono a coltivare prodotti da esportazione pur importando gran parte del cibo, prevalentemente dagli Usa.

Le imprese statali furono privatizzate e vendute, in genere a multinazionali straniere, e i prodotti grezzi si muovevano senza regole sul mercato, dove in genere venivano venduti al prezzo più basso possibile. Furono definiti "programmi di aggiustamento strutturale" (PAS). In inglese SAP, un acronimo che descriveva perfettamente i loro effetti sulla linfa vitale di quelle società sofferenti: il verbo "to sap" significa infatti "indebolire".

Houphouët-Boigny si sottopose alla cura, o meglio, lo fecero i cittadini. La Costa d'Avorio si affidò alle due istituzioni nel 1989, proprio quando fu completata la grandiosa basilica, contraendo sei "prestiti per l'aggiustamento strutturale" con la Banca Mondiale nei cinque anni successivi e tentando di assorbire il dolore atroce provocato dai PAS. La Banca Mondiale si concentrò sull'agricoltura e in particolare sull'industria del cacao.

Houphouët-Boigny aveva istituito un ente denominato CAISTAB (Le Caisse de Stabilization) per garantire un prezzo base ai coltivatori di cacao, indipendentemente dal comportamento imprevedibile dei mercati. Secondo la terapia shock della liberalizzazione, il CAISTAB doveva essere abbandonato. Gli agricoltori, molti dei quali privi d'istruzione, incapaci di comprendere i dati del mercato, si ritrovarono bloccati, gettati senza alcun punto di riferimento nel mare del liberalismo Reaganomico. Il mercato del cacao diventò una amalgama, e gli agricoltori, senza i sussidi del CAISTAB, iniziarono a perdere grandi somme di denaro. In passato erano stati messi a disposizione prestiti per le piccole imprese, ma con l'introduzione dei PAS essi non esistevano più. Il potere d'acquisto dei produttori e delle piccole imprese da cui dipendevano iniziò a scendere drasticamente quando la valuta della Costa d'Avorio perse valore sul mercato del cambio estero. E come se non bastasse, il prezzo dei semi di cacao sul mercato internazionale toccò il livello più basso mai raggiunto da decenni. Nulla di tutto ciò comportò qualche conseguenza sulle industrie del cioccolato e sulle multinazionali che esportavano cibo: tutt'altro. I prezzi erano bassi e gli agricoltori stavano aumentando la produzione nel disperato tentativo di generare un reddito maggiore. Le esportazioni di cacao dalla Costa d'Avorio aumentarono via via che il prezzo calava. Allo stesso tempo più nazioni, prevalentemente in Asia, ora producevano cacao incoraggiate dalla Banca Mondiale e dal FMI, inondando il mercato di semi e spingendo ulteriormente i prezzi al ribasso.

La liberalizzazione trionfò per tutti gli anni Ottanta e Novanta, mentre il valore del cacao saliva e scendeva con pochissimo riguardo per la realtà economica. La Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) inserì il cacao nella lista delle materie prime più instabili e imprevedibili del mondo. Dichiarò, in una delle sue analisi che in genere erano molto più prudenti, che l'ideologia della liberalizzazione era la causa diretta della caduta libera nel prezzo del cacao.

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A Washington, mesi prima della scadenza fissata per l'eliminazione delle forme peggiori di lavoro infantile nella catena di produzione del cacao, il deputato Engel e il senatore Harkin sentirono il bisogno di far sentire la propria voce.

Il 14 febbraio 2005 i due politici pubblicarono un articolo d'opinione sui giornali americani in cui condannavano le industrie del cioccolato per il fatto che si sottraevano alle loro responsabilità. Il biglietto di San Valentino ai colossi del cioccolato rivelava che i funzionari dell'industria del cacao avevano informato i membri del Congresso di non poter rispettare la scadenza del 1° luglio.

"Invece", scrivevano i legislatori, "hanno pianificato l'avvio di un piccolo progetto pilota in Ghana e forse in Costa d'Avorio. Anche se si tratta certamente di un passo positivo, è di portata enormemente inferiore alle azioni massicce promesse nel protocollo".

I politici parlarono del programma di certificazione di Washington per le gemme preziose, imposto all'industria pochi anni prima, che dichiarava fuorilegge negli Usa la vendita dei cosiddetti "diamanti insanguinati", le pietre africane estratte e commerciate per raccogliere fondi a sostegno della guerra civile.

Harkin ed Engel avvertivano che un simile tipo di coercizione poteva rendersi necessario anche per il cacao e dichiaravano: "Non è più tempo di parlare. I bambini stanno soffrendo", e concludevano: "In questo giorno di San Valentino, buona parte del nostro cioccolato avrà un sapore dolce-amaro, macchiato dalle sofferenze di Aly Diabate e di innumerevoli altri schiavi del cacao".

Dopo la pubblicazione dell'articolo, Eliot Engel mi disse al telefono che lui e Harkin volevano dare una scossa alle industrie del cioccolato in modo che iniziassero ad agire in modo congiunto, ma "non siamo intenzionati a cedere", avvertiva. "Sanno che facciamo sul serio".

La International Cocoa Initiative, l'intruglio fatto di ONG, sindacati, attivisti per i diritti umani e organizzazioni che rappresentavano le industrie del cacao, ammise che non c'erano stati molti progressi. Alcuni partecipanti, tuttavia, in particolare l'Organizzazione internazionale del lavoro (ILO), furono incoraggiati dal "sentimento di slancio" e dal fatto che le stesse industrie del cioccolato sembravano ancora votate al concetto di cioccolato "pulito". Il governo della Costa d'Avorio ricordava opportunamente ai riformatori che la sua nazione era nel pieno di una guerra e difficilmente ci si poteva aspettare che si occupasse del lavoro infantile mentre era impegnata a combattere i "terroristi" – la parola alla moda dopo l'11 settembre che il governo aveva adottato per descrivere i ribelli del nord. La reazione sobria poteva essere in qualche modo legata a questioni di denaro? Varie ONG avevano suggellato collaborazioni coi colossi del cioccolato dopo la firma del protocollo. Quando fu interpellata sugli sforzi compiuti per migliorare le condizioni dei coltivatori nell'Africa occidentale, la Fondazione mondiale del cacao (WCF) dichiarò di essere impegnata in "progetti multimiliardari" in sinergia con ILO, Banca Mondiale, ministero del Lavoro statunitense e Agenzia internazionale per lo sviluppo canadese. Bill Guyton della WCF afferma che, complessivamente, i grandi del cioccolato quest'anno stanzieranno volontariamente 6 milioni di dollari (a fronte di un profitto stimato di 13 miliardi di dollari) per le "collaborazioni" con le associazioni umanitarie.

Anita Sheth, spina nel fianco dei colossi del cioccolato, dice che la WCF ha offerto alla sezione canadese di Save The Children la propria collaborazione, offerta che l'associazione ha rifiutato anche perché la cifra di denaro stanziata era vergognosamente modesta. Altri invece accettarono qualsiasi tipo di proposta.

Nel frattempo i semi di cacao ivoriani continuavano ad arrivare in un flusso continuo alle industrie europee e nordamericane. Il Canada, schierato in prima linea contro l'utilizzo del cacao che poteva essere stato prodotto col lavoro dei bambini, a partire dallo scoppio della guerra aveva in realtà raddoppiato le importazioni di cacao dalla Costa d'Avorio.

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Marx-Vilaire Aristide, ricercatore del Fondo internazionale per i diritti dei lavoratori (ILRF) a Washington, aveva fatto enormi progressi nella ricerca della verità sul lavoro infantile in Costa d'Avorio. Dopo il suo primo viaggio nella regione, nella primavera del 2002, era tornato molte volte, entrando in contatto con molti informatori importanti che gli fornivano notizie essenziali. Aristide e l'ILRF stavano preparando la causa contro il mondo dell'industria quando subirono un duro colpo: nel novembre del 2004, su una superstrada a nord-ovest di Washington, Aristide morì quando il suo veicolo fu travolto da un SUV rubato. Gli operatori dell'ILRF persero un amico e un collega appassionato del proprio lavoro, ma la sua morte significò anche la perdita dei contatti e di conoscenze preziose sul tema del lavoro infantile. Ci vollero mesi per recuperare, cosa che fecero prevalentemente grazie alle indagini temerarie di un'altra ricercatrice dell'ILRF, Natacha Thys, che aveva accompagnato Aristide nell'ultimo viaggio e riuscì a recuperare molti dei suoi contatti in Africa occidentale. Nel corso dell'inverno e della primavera seguenti svolse le proprie indagini e trovò ciò che cercava: persone che volevano fare causa alle parti che consideravano responsabili degli abusi nel settore della produzione del cacao.

Il 14 luglio 2005, l'ILRF fece causa a Nestlé, Cargill e Archer Daniels Midland presso una corte federale distrettuale in California, accusando le tre imprese con sede negli Usa di essere coinvolte nel traffico, nella tortura e nella coscrizione dei bambini che coltivano e raccolgono i semi di cacao importati dall'Africa.

Questa class action fu avviata per conto dei bambini del Mali che erano oggetto di compravendita in Costa d'Avorio "obbligati a lavorare 12-14 ore al giorno senza essere pagati, con poco cibo a disposizione e sottoposti a frequenti pestaggi".

I tre querelanti furono indicati solo con soprannomi fittizi: John Doe I, John Doe II e John Doe III. L'ILRF nella sua relazione affermò che i bambini dovevano restare nell'anonimato per motivi di sicurezza.

La causa prese il via in un momento ben preciso, e l'ILRF, nei suoi comunicati stampa, dichiarò che l'azione legale era stata intrapresa in quel modo perché l'industria non aveva rispettato la scadenza del 1° luglio. "Una parte fondamentale del protocollo [Harkin-Engel] era costituita dall'obbligo, per le industrie, di porre in essere un sistema indipendente e credibile, finalizzato al monitoraggio delle fattorie, alla certificazione e alla verifica per i fornitori, per potersi accertare che non fosse sfruttato in alcun modo il lavoro infantile", si legge nella nota dell'ILRF.

Le vie legali sono uno dei nuovi terreni su cui si muovono gli attivisti meno teneri negli Usa, utilizzando strumenti potenti come l'Alien Tort Claims Act (ATCA) per perseguire le multinazionali. L'atto permette ai non-cittadini degli Stati Uniti di servirsi delle corti federali per chiamare gli americani a rispondere delle violazioni al diritto internazionale. Vi sono alcuni lavoratori oppressi, in particolare i bambini, che non potrebbero portare una multinazionale di fronte a un tribunale agendo da soli, ma spesso l'ILRF sposa la loro causa. L'organizzazione ha denunciato Exxon Mobil, DynCorp e Coca-Cola, sempre ai sensi dell'Alien Tort Claims Act. Nel 2004, ha fatto causa alla DaimlerChrysler per conto delle famiglie dei nove sindacalisti di uno stabilimento della Mercedes-Benz vicino a Buenos Aires, che erano "scomparsi" durante la dittatura militare argentina. E ha portato in tribunale anche il colosso alimentare Del Monte, responsabile di violazioni dei diritti umani fondamentali, agendo per conto di cinque ex sindacalisti del Guatemala.

Naturalmente, le grandi aziende americane hanno a loro volta fatto petizioni, chiedendo alla Corte Suprema di annullare l'Alien Tort Claims Act. Esse sostengono che provoca un ingiusto svantaggio competitivo nei confronti delle società americane, dal momento che le imprese di altre nazioni non devono affrontare questo tipo di azioni legali. Considerato il fatto che l'atto riguarda unicamente schiavitù, tortura, omicidi extragiudiziali, crimini di guerra, crimini contro l'umanità e detenzione arbitraria, preoccupa il fatto che le imprese americane credano che la legge possa ostacolare la loro competitività nel mercato globale. La causa "Class Action per il risarcimento dei danni" contro le industrie del cacao che vede come querelanti "gli ex bambini schiavi" non chiama in causa soltanto l'Alien Tort Claims Act, ma anche il Torture Victim Protection Act.

Tra le molte accuse mosse, in essa si ipotizza che le azioni di Nestlé, Cargill e Archer Daniels Midland abbiano "costretto gli ex bambini schiavi, contro la loro volontà e sotto la minaccia di abusi a lavorare a vantaggio economico degli imputati, e così facendo gli ex schiavi bambini rischiavano seriamente la vita". Nell'azione legale si precisa che i bambini avevano un'età compresa tra 12 e 14 anni quando erano stati portati via da casa; anche se ciò non è specificato nella relazione, ora i tre John Do probabilmente hanno più di 18 anni. Mentre, nel 2005-2006, la class action compiva il suo lento iter giudiziario negli Usa, lo status quo restava immutato. La Costa d'Avorio manteneva il proprio ruolo di primo produttore mondiale di cacao, così come aveva promesso Le Vieux, a dispetto di scandali, guerre, protocolli firmati a Washington e azioni legali. Ma il settore economico del cacao in Costa d'Avorio era a sua volta malato, di una malattia probabilmente devastante come il flagello dello scopazzo che affligge la pianta del cacao. Perché il cacao, in Costa d'Avorio, era sempre più contaminato dal flagello del crimine organizzato.

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Epilogo

QUEL CHE È GIUSTO È GIUSTO


                Cinque centesimi per una barretta di cioccolato:
                Otto centesimi non abbiamo mai pagato!
                Cinque centesimi per una barretta di cioccolato,
                Cinque centesimi per il cioccolato!

                — Canzone composta dai bambini della
                  "protesta del cioccolato" del 1947



LA "CROCIATA DEL CIOCCOLATO" DELLA PRIMAVERA DEL 1947 FU UNO DEGLI scioperi più strani avvenuti nel XX secolo in Canada — in realtà, uno dei più strani del mondo. Iniziò come orgoglioso accesso di giovanilismo, emblematico delle nuove libertà recentemente conquistate sul campo, un richiamo al senso di giustizia e di equità. L'entusiasmo di un manipolo di bimbi sull'isola di Vancouver si diffuse ben presto in ogni angolo del Paese. Sfilate di ragazzini si facevano largo nelle strade di Regina, Ottawa e Quebec City; folle di giovani portavano cartelloni fatti in casa in ogni angolo delle Province Marittime; e una grande folla rumorosa prendeva d'assalto l'amministrazione provinciale di Victoria. L'obiettivo della campagna era chiedere un mondo migliore per i bambini, almeno per quelli abbastanza privilegiati da potersi permettere il cioccolato. Le grandi aziende produttrici di barrette avevano aumentato il prezzo a otto centesimi l'una; i ragazzini di tutto il Canada pensavano che dovesse essere venduto ancora a cinque centesimi, il prezzo standard praticato da Milton Hershey negli Usa e dai fratelli Ganong del New Brunswick. I bambini scesero nelle strade per protestare contro una cosa che ritenevano ingiusta.

Crispy Crunch, Jersey Milk, Aero Bar, Coffee Crisp, O Henry!, Sweet Marie, Burnt Almond e Malted Milk erano tra le delizie che si potevano comprare con un nichelino in Canada e negli Usa durante gli anni Trenta e l'inizio degli anni Quaranta, ma secondo i produttori, quel prezzo era eccessivamente basso. Con la fine della guerra e del controllo su prezzo e salari, le società produttrici di barrette di cioccolato avrebbero dovuto pagare un prezzo più che doppio rispetto a prima per i semi di cacao e una cifra significativamente maggiore per la manodopera (dagli anni Trenta, gli stipendi erano quasi raddoppiati). Queste spese extra si sarebbero dovute in qualche modo ripercuotere sui consumatori. Tutti i prezzi erano in aumento e, con l'eccezione di pochissimi gruppi di casalinghe senza peli sulla lingua, la gente accettava controvoglia l'inflazione come effetto collaterale della normalizzazione dell'economia. I bambini, però, non la pensavano così. La crociata ebbe inizio nella pacifica Ladysmith e nella vicina Chemainus sull'isola di Vancouver, dove i giovani Bruce Saunders, Parker Williams, Bert Gisborne e Gerald Williams radunarono gli amici per dimostrare davanti alla gelateria Wigwam, dove compravano abitualmente i dolciumi e le barrette di cioccolato a un nichelino. Quando seppero della protesta, altri bambini dell'isola lanciarono le proprie campagne, e nel giro di pochi giorni entrarono in massa nell'assemblea legislativa della Columbia Britannica, al grido di "Ridateci le nostre barrette da un nichelino", interrompendo per parte del giorno i lavori della Camera.

Il movimento prese piede ben presto a Regina e Weyburn, nel Saskatchewan; poi a Winnipeg, St. John e Halifax. Oltre 3.000 ragazzini marciarono in Bloor Street a Toronto una volta usciti da scuola e manifestarono di fronte a un negozio di dolciumi di Lippincott Avenue. A Ottawa, si affollarono sulla collina del Parlamento e intonarono slogan in cui dicevano che avrebbero preferito mangiare vermi anziché barrette da otto centesimi. Una giungla di cartelloni di protesta fatti in casa iniziò a spuntare in tutta la nazione: "Non fare lo sfigato! Non comprare le barrette da otto centesimi!", "Barrette da otto centesimi? Bleah!", "I dolci son perfetti, ma per otto centesimi niente dolcetti!", "Diamoci dentro per difendere le barrette da un nichelino". Il più emblematico in assoluto era: "La nazione ha bisogno di una buona barretta da cinque centesimi".

La crociata non tardò a fare breccia nell'immaginario degli adulti, scontenti per l'aumento dei prezzi generalizzato, che fino ad allora si erano astenuti dal protestare per spirito patriottico. Ora il movimento godeva di un enorme sostegno sia da parte dei mass media che da parte dei politici, tutti stanchi di veder aumentare il costo della vita. Inizialmente, i produttori di dolciumi tentarono di dialogare coi bambini. Il consumo di barrette di coccolato crollò dell'80% nel giro di poche settimane, così la Rowntree, divenuta una grande multinazionale la cui produzione avveniva in Canada, pubblicò lettere aperte ai propri clienti, per spiegare le cose dal suo punto di vista. In esse denunciava il maggior costo dei semi di cacao acquistati da terre lontane dell'Africa equatoriale e dell'America Centrale. C'era anche l'aumento del prezzo dello zucchero di canna importato dai Caraibi, e infine il problema determinato dalla piena occupazione del periodo post-bellico, in seguito alla quale la società aveva più difficoltà a reperire la manodopera, diversamente da quanto avveniva nel periodo della Grande Depressione.

La Rowntree pubblicò appelli sui giornali che terminavano con questo slogan: "Le barrette di cioccolato della Rowntree sono una fonte nutriente e gradevole di cibo integrativo: comprane qualcuna oggi!".

I portavoce della multinazionale del cioccolato usavano le frequenze radio per parlare a ragazzine e ragazzini della dura realtà delle forze del mercato e delle pressioni globali sui prezzi delle materie prime. Ma i bambini non volevano saperne. Avevano messo i grandi del cioccolato con le spalle al muro, e non avevano intenzione di allentare la presa.

Improvvisamente, però, una confluenza di interessi si rivoltò contro gli scioperanti, interrompendo con successo la sollevazione e mandando a casa i suoi giovani leader. Dopo varie settimane di proteste efficaci, il giornale di destra Toronto Evening Telegram rimproverò in modo paternalistico i bambini e i loro sostenitori, avvertendoli in modo sinistro che "i dolci sono un'arma sublime". Quasi immediatamente sacerdoti, ufficiali di polizia, associazioni giovanili, presidi e genitori si mobilitarono per fermare quella che era stata improvvisamente descritta come una minaccia alla sicurezza nazionale. Secondo i leader della comunità, guidati principalmente dalla Royal Canadian Mounted Police, che temeva che i bambini fossero delinquenti che minacciavano l'ordine pubblico, la protesta non era poi così innocente. Il boicottaggio rientrava nell'ambito della cosiddetta "minaccia rossa", orchestrata a Mosca sotto la direzione di Stalin. Come tale, non poteva essere tollerato. Lo sciopero fu ribattezzato "crociata comunista" dal Telegram, che formulava tra l'altro l'accusa secondo cui c'erano sovversivi in agguato che manipolavano i giovani della nazione.

"Barrette di cioccolato e rivoluzione mondiale potrebbero sembrare poli opposti, ma per la contorta mentalità comunista tra esse c'è una relazione stretta", scriveva il Telegram. "Gli studenti indignati che manifestano coi cartelloni per chiedere le barrette da cinque centesimi sono diventati un altro strumento della grandiosa strategia finalizzata a determinare il caos".

Winston Churchill aveva appena dichiarato che la "Cortina di ferro" era scesa sull'Europa. Il nervosismo determinato dalla guerra fredda si sarebbe ben presto trasformato in isteria nell'intero pianeta. Il senatore Joe McCarthy stava dando il via a una potente teoria del complotto che avrebbe rabbuiato gli Stati Uniti per buona parte degli anni Cinquanta. Ottawa era stata l'epicentro di una sollevazione internazionale nel 1945 in seguito alle rivelazioni sensazionali sull'esistenza di un transfuga di nome Igor Gouzenko e sul fatto che i sovietici avevano una rete di spionaggio attiva in Canada e negli Usa. I comunisti erano ovunque, e ovunque suscitavano sdegno, anche quando si trattava di barrette di cioccolato da otto centesimi.

Non fu certo d'aiuto la scoperta che, in effetti, esisteva un influsso socialista attivo nella "crociata comunista" che chiedeva giustizia nel settore dei dolciumi. La National Federation of Labour Youth, affiliata al partito comunista canadese, contribuì a organizzare molti dei raduni più importanti, mentre i gruppi giovanili socialisti erano tra coloro che animavano le proteste.

Leggendo in modo obiettivo i resoconti giornalistici di quel periodo e le interviste della CBC, emerge invece l'essenziale spontaneità che animava il movimento. Era l'espressione genuina del desiderio dei bambini di poter controllare almeno in parte il complesso universo del cioccolato. Gradualmente, l'isteria si placò. Il tono della reazione nei confronti dei bambini divenne più moderato, ma non meno rigido. Nel maggio del 1947 il Telegram scriveva: "Nessuno è più ansioso di questo giornale di assistere al ritorno della barretta di cioccolato da cinque centesimi, e per la verità anche al ritorno della bibita e del sigaro da un nichelino. Sono tutti simboli straordinariamente significativi di quello strano stile di vita che chiamiamo democrazia. In realtà, ci sono poche prove del fatto che tali beni siano disponibili anche a Mosca a un prezzo equivalente".

Ma il brano conclude con la considerazione che in gioco vi sono valori di portata più ampia. In una democrazia, i bambini devono semplicemente capire quale sia il costo reale dei dolciumi, che presumibilmente va a sostegno del capitalismo. Nel 1947, fu detto ai bambini canadesi che la democrazia che i loro padri e i loro nonni avevano difeso combattendo comprendeva il privilegio di poter acquistare il loro cioccolato al prezzo di mercato. I bambini alzarono così bandiera bianca in quella che fu una battaglia persa in partenza. Il prezzo aumentò a dispetto delle loro azioni. Non era giusto, ma loro continuarono a comprare le barrette di cioccolato.


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La storia del cioccolato è molto legata al concetto di giustizia. Bartolomé de las Casas, Henry Woodd Nevinson, Guy-André Kieffer, Marx Aristide e molti altri erano animati da un senso di giustizia di natura intuitiva. Ognuno di essi, nel suo periodo storico, era offeso da ciò che vedeva nelle piantagioni di cacao delle colonie ed ex colonie equatoriali. Tutti cercavano la disapprovazione da parte dei potenti per dare voce alle loro idee scomode. L'onestà e la sua sorella maggiore, la giustizia, imponevano condizioni e accordi migliori per i produttori di materie prime per beni di lusso come il cioccolato.

Ma esse furono ignorate o sconfitte da forze più potenti della rettitudine morale. Onestà e giustizia si scontravano con le élite e l'insensibilità dei mercati sul piano etico. L'impedimento maggiore era costituito dall'ambiguità morale di un pubblico di consumatori che era sempre stato pronto a denunciare l'ingiustizia, ma anche determinato a godere dei frutti della terra al prezzo più basso possibile. Molti consumatori ritengono che questo sia un loro diritto sacrosanto.

Dopo la crociata del cioccolato, i prezzi crebbero in modo costante fino al livello attuale. Oggi una barretta di cioccolato a otto centesimi è una cosa impensabile, come lo è la benzina a 40 centesimi al gallone. Eppure, con poche eccezioni, le persone che faticano per produrre la materia prima necessaria per le barrette di cioccolato restano escluse dai benefici determinati dai prezzi più alti e dalla domanda senza precedenti che caratterizzano oggi l'universo del cioccolato.


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In primavera, quando si scioglie la neve e i rifiuti di tutto l'inverno restano appesi agli steccati e ai cespugli del mio quartiere di Toronto, quello più comune è l'incarto delle barrette di cioccolato. Centinaia di confezioni vuote dai colori vivaci, di carta normale e stagnola, rimangono incastrate negli arbusti spogli, come decorazioni luccicanti appese agli alberi di Natale che vengono gettati via in gennaio insieme al resto della spazzatura. Mars, Snickers, Mr. Big, Kit Kat, Almond Joy, Mounds, Reese's Peanut Butter Cups e Caramilk decorano il paesaggio urbano scialbo della primavera, promettendo delizie sensoriali d'ogni sorta.

Guardo i ragazzini che escono dal vicino discount della catena 7-Eleven tenendo in mano barrette di cioccolato che divoreranno nel giro di pochi secondi. Costano tutte un dollaro, una somma modesta per quasi tutti i teenager del nostro mondo privilegiato. Nei supermercati, le mamme danno le barrette di cioccolato ai bambini scalmanati per comprarne il silenzio durante le loro battute di shopping. Cioccolato al latte, torte al cioccolato, gelato al cioccolato, dolcetti di Halloween e biscotti al cacao sono tuffi abbondanti e a buon mercato. Gruppi di giovani battono i quartieri vendendo scatole di mandorle ricoperte di cioccolato per raccogliere fondi per le gite scolastiche e le attrezzature sportive. E tutto questo sembra giusto e ragionevole.

Il cioccolato è divenuto un lusso universale, capace di superare divisioni etniche, religiose e nazionali – una frivolezza dal prezzo abbordabile per tutti, salvo coloro che non lo hanno mai sentito nominare o non possono permettersi di comprarlo. Paradossalmente, tra questi soggetti che nessuno invidia ci sono proprio le persone che producono il suo ingrediente fondamentale.

I ragazzini del Mali che ho incontrato erano partiti all'avventura per la Costa d'Avorio in cerca di lavoro, passando parte della loro vita in schiavitù per coltivare il cacao: essi hanno appreso quanta fatica vi sia dietro il vero prezzo di una barretta di cioccolato, anche se non ne hanno mai vista una. Ora sanno che quel prezzo comprende il costo incalcolabile della riduzione in schiavitù di centinaia di bambini come loro, bambini che non sanno e non sapranno mai che sapore ha il cioccolato. Ora sanno che la vera storia del cioccolato è stata scritta col sangue e col sudore di infinite generazioni di persone più o meno simili a loro. E per quel che si può immaginare riguardo al futuro, è assai poco probabile che questa ingiustizia antica e persistente possa essere in qualche modo sanata.

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