Autore Simone Oggioni
Titolo Lucio Magri
SottotitoloNon post-comunista, ma neo-comunista
EdizioneEfesto, Roma, 2021, Prima Repubblica , pag. 358, cop.fle., dim. 12x16,5x2,2 cm , Isbn 978-88-3381-247-2
PrefazioneLuciana Castellina, Famiano Crucianelli
LettoreLuca Vita, 2021
Classe biografie , politica , movimenti , paesi: Italia: 1960









 

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Indice


PREFAZIONE
di Luciana Castellina                                 9

INTRODUZIONE                                         13

RINGRAZIAMENTI                                       17


La vita di Lucio Magri nel contesto
dell'Italia e del mondo                              21


Il convegno di Marzabotto: «La storia dei
comunisti in Italia e le nostre prospettive:
da dove veniamo, dove vogliamo andare»              193

Spazio e ruolo del magrismo:
attualità e nodi aperti                             257

La lettera di Jean Paul Sartre a Lucio Magri,
27 luglio 1962                                      341

BIBLIOGRAFIA                                        343

POSTFAZIONE
di Famiano Crucianelli                              351


 

 

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Pagina 9

PREFAZIONE
di Luciana Castellina



Nella copertina di questo libro è riprodotta una lettera a Lucio Magri spedita ormai sessant'anni fa da Jean Paul Sartre. L'ho ritrovata per caso dopo la sua morte solo perché un'amica me l'ha mandata dopo averla a sua volta rinvenuta dentro un libro di suo marito dove chissà come era andata a finire. Lucio non aveva ancora 30 anni quando la ricevette, e chiunque altro - tenuto conto del prestigio internazionale del mittente, che vi esprimeva entusiasti elogi per uno scritto poi pubblicato su Temps Moderns sulle tendenze del neo-capitalismo - l'avrebbe incorniciata. Lui invece l'ha persa e non l'ha nemmeno mai mostrata agli amici più stretti. Perché così era Lucio Magri: sembrava molto arrogante (e perciò generalmente antipatico a chi lo conosceva poco), ed era invece la persona meno autoreferenziale che io abbia mai incontrato; e più intellettualmente generosa, gli interessava che quel che pensava fosse socializzato, non attribuirsene la paternità. Quando aveva scritto qualcosa di impegnativo, generalmente si perdeva il testo (una volta persino un intero libro): non importa, diceva, perché scrivere su quel problema mi ha aiutato a capire meglio. Pazienza.

Anche per questo è accaduto che l'enorme quantità di problemi che ha analizzato, su cui ha riflettuto e ha poi cercato di tradurre in pratica politica, risulti oggi largamente sconosciuto. In Italia, debbo aggiungere, perché all'estero quello che era andato pensando è stato invece molto studiato, tant'è vero che proprio in questi giorni sto scrivendo per la rivista annuale del partito della sinistra europea "Transform" una storia dei 100 anni dalla nascita del Pci "usando - mi hanno raccomandato i compagni tedeschi che me l'hanno commissionato - il punto di vista critico di Lucio Magri". Ma questo si capisce: in Italia era stato troppo spesso scomodo. Anche per la sua mai abbandonata abitudine a sottoporre ogni sua iniziativa o analisi a una costante severissima autocritica che non piaceva affatto a chi vi si era prima associato e avrebbe dunque dovuto condividerla. Penso in particolare a quella della nuova sinistra italiana che si fece in un seminario a Bellaria nel 1977: ripensamento non solo su quanto fatto dagli altri gruppi, ma anche, e, anzi, in primo luogo, dal Manifesto e dal Pdup, cioè in larga parte autocritica, non - come diceva sempre ironicamente Amendola - "autocritica degli altri, specialità italiana".

Mi sono soffermata su questi tratti caratteriali di Magri per ringraziare con maggior forza Simone Oggionni per essersi impegnato a scrivere questo libro. Leggerlo sarà per molti, infatti, una vera scoperta, non parliamo per i più giovani che non sanno nemmeno cosa è stato il Pdup. Sanno, per fortuna, del Manifesto, che è tutt'ora vivo e per fortuna ancora vegeto e proprio quest'anno festeggerà il suo cinquantesimo anniversario. Nel giornale c'è tantissimo Lucio, ovviamente, ma da quando lui vi ha scritto con continuità è ormai passato tempo infinito. E poi un giornale è un giornale.

[...]

Simone è nato a Treviglio, cioè Bergamo, come Magri e come parecchi altri del singolare gruppo di giovani Democristiani che all'inizio degli anni '50 si avvicinarono, e poi entrarono, per divenire protagonisti di primo piano del suo dibattito, nel Pci: Chiarante, Baduel, fra gli altri. Anche per questo, apportando molte informazioni poco conosciute su quella stagione che in Bergamo ebbe uno dei suoi centri più significativi, è capace in queste pagine di spiegare bene l'importanza, e la specificità, del rapporto comunisti-cattolici in Italia. Ed è molto interessante il modo in cui questa sua memoria viene ricollegata al pensiero di Papa Francesco. Proprio di Bergamo, fra l'altro, era un altro straordinario papa, Giovanni XXIII, di cui - ricordo - una popolana romana in fila a via Botteghe Oscure per rendere omaggio alla bara di Enrico Berlinguer disse: "Se non fosse deceduto poco tempo fa sono certa che sarebbe venuto anche papa Giovanni a questa camera ardente." Lo pensammo in molti.

Gennaio 2021

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Pagina 25

Città bianca, quella orobica. Cattolica, laboriosa, solidale, profondamente legata alla sua Curia ma anche capace di autonomia e di accompagnare con un crescente spirito di iniziativa sociale quel processo di modernizzazione che tra la fine dell'Ottocento e la prima guerra mondiale vede sorgere, proprio nel connubio con le istituzioni cattoliche, un reticolo vitale di organismi d'assistenza, casse rurali, cooperative, società di mutuo soccorso e istituti di formazione e di educazione. Il cattolicesimo bergamasco è un cattolicesimo naturalmente sociale, che vive sul territorio, a stretto contatto con le sue contraddizioni. Dentro il Ventennio fascista non tutto il mondo cattolico si piega. Una parte partecipa alla Resistenza e si organizza nelle Brigate Verdi e qui, soprattutto, nelle Brigate del Popolo.

Così, nel dopoguerra, quella bergamasca è una Democrazia Cristiana che guarda a sinistra. È attiva, attenta al suo popolo e dunque al rapporto con le masse contadine e anche con la classe operaia che in città e in provincia esiste, sebbene sia più debole di quella milanese e del complesso della Lombardia occidentale. Il cattolicesimo bergamasco nasce nelle campagne e cresce nella dimensione nuova della fabbrica. Esiste qui un popolo lavoratore che nel primissimo dopoguerra pone alla politica bisogni, istanze di sviluppo e di progresso, ma anche di equità. E che trova in primo luogo nella Dc una sponda e un luogo di ascolto e mediazione. Non sorprende che dentro questa Dc sia forte, a Bergamo, la componente di Giuseppe Dossetti.

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Pagina 42

Il primo passo per "uscire dalla clandestinità" consiste nell'abbandonare la Dc e Magri lo compie, già nel settembre 1955, insieme a Boiardi, Baduel, Leidi, Piero Asperti, Enzo Lauletta, Gian Mario Corbani, Antonio Parimbelli, Luigi Granelli e molti altri. Una parte importante di questo gruppo è formato da bergamaschi. Sono delusi e disillusi dalla chiusura del dialogo a sinistra, provati dall'isolamento e dalla censura. Per molti di loro l'adesione al Pci è la conseguenza rigorosa e inevitabile della battaglia politica condotta negli anni precedenti.

Insieme a Magri, si iscrivono al Pci anche Giuseppe Chiatante, Carlo Leidi, Piero Asperti, Mario Melloni. Appena alle spalle vi è il 1956: un anno che solo a pronunciarlo trema la voce, spartiacque per la storia mondiale, per quella dei comunisti europei e anche per quella dei comunisti italiani. È l'anno che si apre in febbraio con il XX congresso del Pcus, quello in cui Chrušcëv avvia la destalinizzazione, addossando su Stalin con cinismo approssimativo la responsabilità esclusiva degli errori del regime; e che si chiude tra l'ottobre e il novembre con la repressione armata della breve rivolta di Budapest, un'insurrezione che in dieci giorni provoca la morte, tra gli insorti e i soldati dell'Armata Rossa, di 3500 uomini, aprendo una ferita dolorosa nel cuore dell'Europa.

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Pagina 49

Palmiro Togliatti, e il Pci con lui, e Magri ormai dentro il Pci, nel 1956 coglie la durezza straordinaria dei tempi e la vastità dei problemi che si aprono di fronte al mondo comunista: recepisce il terremoto che viene dalla fine dello stalinismo e dalla repressione di Budapest e vi risponde non soltanto con la suggestione del policentrismo e con la proposta che ogni paese, pur dentro il campo del socialismo d'osservanza sovietica, precisi i caratteri di una propria via originale al socialismo, ma con la definizione puntuale e solida della via italiana. Sono i temi che qualificano l'VIII Congresso: se il mondo «è diventato policentrico» anche all'interno dei poli occorre riconoscere e valorizzare un'articolazione nella quale possa nascere una prospettiva socialista di tipo diverso. Non ha senso, in altre parole l'«imitazione servile del modello sovietico», perché il campo comunista «deve avere [...] una sua unità», ma una «unità che si crei nella diversità e originalità delle singole esperienze».

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Pagina 56

Ma qui occorre raccontare qualcosa in più, restituire la storia ai suoi protagonisti. Perché se la politica è parte della storia sociale e ha qualche superficie di contatto con i processi economici (e all'epoca è senz'altro così), la Milano in fermento di quegli anni è anche il laboratorio di una nuova sinistra interna al Pci. Anzi: è il luogo in cui si sviluppano due sinistre interne, simili ma allo stesso tempo molto diverse, che fanno della questione operaia il perno della propria riflessione ma che tra loro non si intendono e, in fin dei conti, non si intenderanno mai. La prima è quella con cui Lucio Magri stringe i rapporti, e che si riverserà negli anni successivi in larga parte nell'area ingraiana e nei suoi dintorni. Anzi: a ben vedere è già una parte del nucleo di quello che sarà dieci anni dopo il collettivo de il manifesto: da Rossana Rossanda, allora nella segreteria della federazione milanese, a Luca Cafiero, che diventerà con Capanna e Salvatore Toscano il leader del Sessantotto milanese e che già qui inizia a stringere con Magri un rapporto di amicizia che rimarrà sempre intensissimo, da Aniello Coppola a un pezzo importante della Fgci milanese, a partire dal suo segretario, Michelangelo Notarianni, altro amico fraterno di Magri, e poi Achille Occhetto, Lia Cigarini e molti altri. Da Roma giungono spesso Luciana Castellina, che fino al 1962 dirigerà il settimanale dei giovani comunisti, Nuova generazione, e Beppe Chiarante, che in quegli anni lavora già a Paese sera. È una sinistra che incontra proprio nel riemergere della conflittualità operaia alcuni settori sindacali, a partire da Bruno Trentin e dal suo Ufficio studi, che iniziano a riflettere sulla nuova organizzazione del lavoro in fabbrica. Questa sinistra, di cui Magri è naturalmente parte, si cimenta su di un terreno anche immediatamente intellettuale, non provinciale ma europeo: parla la lingua del dibattito francese (da Sartre a Merleau-Ponty) e della letteratura marxista meno ortodossa (da Lukács a Korsch).

Vi è però anche una seconda sinistra, che a Milano conta molto: non nasce in questi anni perché ha una storia più lunga, che affonda le radici direttamente nella Resistenza.

[...]

Ma più che per la dialettica rispetto a Togliatti e al togliattismo, che lo impegnerà per tutta la vita - come dimostra l'importante convegno di Milano su Togliatti organizzato con il Pdup nel 1975 -, questi anni sono fecondissimi sia per la sistematizzazione intellettuale del suo pensiero sia per il suo posizionamento all'interno del Pci. Tra la fine degli anni Cinquanta e i primissimi anni Sessanta Lucio Magri inizia a definire un'originalità di approccio che esploderà in tutta la sua potenza nella seconda metà degli anni Sessanta, quando scriverà tra i saggi più importanti della sua vita, quelli che per lui sarebbero addirittura rimasti per sempre - come lui stesso era solito ripetere - i più interessanti.

A trent'anni è all'inizio del culmine di una vivacità intellettuale che manterrà intatta - ci permettiamo di dire - fino agli ultimi giorni. Da un lato porta a maturazione e a sintesi le letture della sua formazione autodidatta degli anni immediatamente precedenti, nei quali, oltre a Jacques Maritain e Augusto Del Noce e alle prime opere tradotte di John Kenneth Galbraith, trovano spazio la scuola di Francoforte, Keynes e György Lukacs, la prima lettura di Tolstòj e ovviamente Antonio Gramsci, che rimarrà per sempre un punto di riferimento per lui indispensabile. Tutte insieme, queste letture definiscono i connotati di un marxismo originale, fondato sul rifiuto delle vulgate scolastiche ed economicistiche. Riscopre, affascinato dalle polemiche anti-storicistiche di Galvano della Volpe e Lucio Colletti, anche il Marx del Capitale, l'analisi dei rapporti di produzione. È acuta l'osservazione di Crucianelli: il marxismo di Magri inizia a vivere di una «idea progettuale della politica, che deve non solo cambiare l'economia ma anche la società». È la dote antica e ormai scomparsa di chi sa svolgere contemporaneamente una funzione politica e una funzione intellettuale o, meglio, di chi sa concepire e fare politica soltanto in relazione a un'analisi del mondo. Analisi complessa, organica, non solo economica e non solo filosofica, non solo storica, alla base della quale vi è l'indagine sul capitalismo e del capitalismo come premessa per l'azione politica. Non si tratta di euristica, di disquisizioni metodologiche astratte: Magri capisce che può agire solo nella misura in cui l'azione si dota di un'analisi esatta di ciò che accade di fronte a lui: la ripresa della lotta operaia che si estende da Milano a Mirafiori e poi tra i tessili; il nuovo protagonismo di una generazione di ragazzi che riscopre l'antifascismo a Genova, nella lotta contro il governo Tambroni che apre al Movimento Sociale; i nuovi caratteri di una emigrazione di massa che sradica e ri-radica al Nord masse di proletari; e, collocato per intero nella grande trasformazione del neocapitalismo in corso, nei profondi mutamenti nell'organizzazione della società e del mondo che il neocapitalismo determina, l'insieme di questi fattori. Magri si cimenta concretamente con questo grumo di questioni.

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Pagina 69

È difficile, con il senno del poi, cioè con il vantaggio dell'approccio contro-fattuale alla storia che Lucio Magri utilizza a più riprese come metodo interpretativo nel suo Il sarto di Ulm , non rilevare però due aspetti: che il Pci era parte di uno schieramento internazionale ed era, allo stesso tempo, parte dell'Europa occidentale. Entrambi i fattori consigliavano gradualismo, realismo, l'allusione a un programma di conquiste mirate e progressive che lasciavano poco spazio alla profezia della critica al modello di sviluppo. Allo stesso tempo la forza dell'analisi di Magri è avere colto quelle linee di tendenze che di lì a breve avrebbero mutato profondamente i caratteri del sistema capitalistico, rendendo sempre più evidente la parabola storica che iniziava a spingere fuori dall'orbita del compromesso keynesiano il liberalismo occidentale. Per questo, di quelle posizioni assunte nel confronto al Gramsci nel 1962, vorrei mettere in rilievo il fatto che fossero tutto fuorché piegate a un dibattito meramente italiano. Le posizioni che Magri propone e difende dialogano indirettamente e direttamente, oltre che con Sartre, con Serge Mallet, Touraine, Gorz in Francia, con la nuova sinistra inglese (la New Left Review che inizia le sue pubblicazioni nel 1961) e, soprattutto negli Stati Uniti, con la cultura debitrice dell'opera dei francofortesi e non solo, da Paul Sweezy a Wright Mills. Senza dimenticare la teoria della dipendenza di Gunder Frank e la voce di chi provava a dare voce come Franz Fanon ai dannati della terra, ai soggetti non più passivi del nuovo colonialismo.

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Pagina 83

È nella nuova veste di semplice iscritto, senza incarichi, senza emolumenti e senza neppure il consenso di Ingrao alla determinazione di una forma, sia pura abbozzata, di organizzazione a cui riferirsi, che Lucio Magri assiste all'esplosione della contestazione sessantottina. Non è sorpreso da ciò che vede: ne ha studiato con largo anticipo le premesse, ne ha immaginato la genesi. Il Sessantotto è un fenomeno dirompente, il primo evento globale della storia moderna, più capillare del Quarantotto ottocentesco. A est e a ovest della cortina di ferro, nel Nord e nel Sud del pianeta: un evento che raccoglie, interpreta e catalizza le trasformazioni avvenute nel decennio che si lascia alle spalle e che dà vita a processi molecolari permanenti di trasformazione culturale, mediatica, dei consumi, dei costumi. Cohn-Bendit ha scritto che la sua è stata la prima generazione della storia a vivere «attraverso un flusso di immagini e suoni la presenza fisica quotidiana della totalità del mondo»: è un'immagine potentissima. Il Sessantotto è un principio di rivoluzione che si ciba di ragioni soggettive (la nuova dimensione di massa dell'accesso ai livelli più alti della formazione, l'irruzione nella società globale della baby boom generation, il ruolo dei media, la forza e l'estensione del capitale, umano e non, investito nelle nuove generazioni e bruciato dall'inadeguatezza ricettiva del sistema) ma anche di fattori oggettivi: l'assetto bipolare di Usa e Urss e il segno della sua crisi in Vietnam e Cecoslovacchia, una camicia di forza troppo vecchia e stretta cui un'intera generazione sembra ribellarsi.

Con uno spirito di curiosità e solidarietà Lucio Magri corre immediatamente a Parigi insieme a Rossana Rossanda e Filippo Maone. Se Rossanda scrive L'anno degli studenti , che è una registrazione in presa diretta dell'irruzione della nuova soggettività sociale studentesca sulla scena politica italiana, Lucio Magri si concentra ancora di più sugli eventi francesi. E scrive, come Rossanda per l'editore Di Donato, qualcosa di più di un libro di cronaca: Considerazioni sui fatti di maggio. Se del Pcf racconta l'esibita estraneità e gli imbarazzanti ritardi, al partito italiano Magri chiede di più. Non basta l'apertura di un dialogo con i capi romani del movimento, come Oreste Scalzone e Alberto Olivetti, quale Longo attiva nel maggio del '68, e l'autocritica per non avere svolto, a sufficienza e per tempo, un ruolo di cerniera: la convinzione di Magri è che il bagaglio di analisi accumulate negli ultimi anni e l'apertura critica, la capacità di ricezione cui una parte del partito aveva dato prova sono elementi sufficienti per tentare di costruire, in quei mesi, un ponte politico virtuoso tra il Pci e i movimenti studenteschi, un ponte ideale tra la tradizione comunista e il nuovo che maturava nelle teorie dei movimenti di massa.

[...]

Negli stessi mesi il vento del Sessantotto riscalda Praga. Salgono in cattedra, e sulle barricate, due generazioni di quadri politici e di intellettuali: i giovani universitari, curiosi della cultura occidentale, e i quarantenni che hanno costruito sin lì la democrazia popolare e creduto nella destalinizzazione. Milan Kundera, Vaclav Havel, Ludvík Vakulik e soprattutto Alexander Dubcek criticano la cautela con cui Novotny dà seguito, nel paese con la struttura industriale più avanzata e moderna tra tutte le realtà statuali dell'est Europa, alle indicazioni contenute in quello che allora è chiamato il «piccolo benessere brezneviano». La crisi economica morde e la pianificazione centralizzata stenta a dinamizzare l'economia. Dubcek chiede un piano di riforme che apra l'economia al mercato. Il congresso del partito nel 1966 lo approva. Una commissione dell'Accademia delle Scienze suggerisce di spingere lo sviluppo economico attraverso una maggiore democrazia. Sull'onda di questi impulsi nel gennaio 1968 si giunge alle dimissioni di Novotny e alla promozione di Alexander Dubcek a segretario del partito. Ma l'inconciliabilità tra le istanze di Dubcek (che non riesce a frenare la richiesta di maggiore autonomia dall'Urss e di ulteriori misure di liberalizzazione che provengono da una parte della maggioranza che lo sostiene) e quelle di Breznev (che invece ai primi di agosto pone come condizione per evitare l'intervento armato il rifiuto del multipartitismo e la conferma della fedeltà al patto di Varsavia) innescano il cortocircuito. Alle luci dell'alba del 21 agosto i militari sovietici irrompono nella sede centrale del partito e arrestano Dubcek. Mezzo milione di soldati appartenenti agli eserciti sovietico, ungherese, bulgaro, polacco e tedesco-orientale occupano la Cecoslovacchia.

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Pagina 92

Siamo a un ulteriore passaggio fondamentale. L'impressione è che, fallito il tentativo di convincere Ingrao a strutturare una componente organizzata, quale Magri attua anche in un incontro a casa di Rossanda, al quale partecipano Reichlin, Trentin, Garavini, Castellina e Pintor, rimanga da giocare una carta diversa, alla quale forse crede di meno: l'espressione di un'opposizione più radicale ma meno efficace, di un dissenso più profondo ma più minoritario. Per questo prova a evitare l'impatto dirompente - e inevitabilmente fallimentare - della organizzazione di una corrente (gli ingraiani senza Ingrao) e tenta di volare più in alto. In una stanza dell'hotel Orologio, a un passo da piazza Maggiore, insieme a Luciana Castellina, Valentino Parlato, Luigi Pintor, Rossana Rossanda, ma anche Aldo Natoli e Massimo Caprara, per vent'anni autorevole segretario particolare di Togliatti, avanza l'ipotesi di dare vita a una rivista. Anzi: consolida un'idea nata già nei mesi precedenti a Roma quando, come racconta Luciana Castellina, Magri aveva immaginato per la rivista un nome machiavelliano e gramsciano, Il Principe. E ancora prima ne aveva parlato a Parigi con Filippo Maone, che nella prefazione al libro sul Sessantotto di Lucio Magri lo scrive espressamente, confermando che l'esperienza nel cuore del maggio francese con Rossana Rossanda aveva fatto maturare l'idea della rivista. Che prenderà alla fine un nome non meno impegnativo di quello ipotizzato a Roma: il manifesto. Manifesto di Marx ed Engels, manifesto come doveva e voleva essere il loro dissenso, manifesto come il tazebao maoista che affascina il collettivo. Nella sua direzione Magri è affiancato da Rossana Rossanda: prende corpo una rivista che è qualcosa di più di un mensile, e cioè il punto di riferimento politico e culturale di un'area che sta già iniziando a crescere. Il primo numero, che esce il 23 giugno 1969, sarà distribuito in 75mila copie.

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Pagina 112

Il 24 agosto 1972 Magri scrive per il manifesto un articolo illuminante: Breve la vita felice di Lord Keynes un titolo hemingwayano per una analisi lucida non di quello che c'è ma di quello che, appunto, sta per accadere. In poche righe Magri condensa concetti decisivi: la crisi economica è iniziata, finisce una fase espansiva e di sviluppo («sviluppo autopropulsivo»), comincia una notte lunga. Entrano in crisi «le categorie di fondo, le ipotesi interpretative, su cui si è costruita, negli anni Sessanta, l'ideologia della programmazione economica, dell'economia mista a direzione pubblica e con finalità sociali». Risulta evidente, per Magri, la miopia interpretativa di un'intera classe politica e intellettuale - marxisti compresi - che fatica a cogliere il carattere strutturale e totale della crisi. Lo stesso Foa la considera niente più che una crisi di ciclo, accusando più avanti Magri di «catastrofismo». Ma già in quell'articolo dell'agosto 1972, sibillinamente, Magri ricorda a tutti, Pci compreso, che l'economia critica è sempre critica dell'economia politica.

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Pagina 140

Quel 1977 è un anno decisivo. Magri è sconcertato dalla residualità, dalla marginalità e dall'ambiguità della sinistra più radicale. Il movimento del Settantasette ha vita breve: muore il 12 marzo '77 nella manifestazione che a Roma termina tra gli spari. Il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro e poi le esecuzioni di Ezio Tarantelli, Vittorio Bachelet fino a quelle di Walter Tobagi e Guido Rossa non sono eventi così lontani. Nel 1978 Franco Piperno, ricordando l'anno appena alle spalle, esalterà la lotta armata, con parole di un delirio inequivocabile: «coniugare insieme la terribile bellezza di quel 12 marzo 1977 per le strade di Roma con la geometrica potenza dispiegata in via Fani diventa la porta stretta attraverso cui può crescere o perire il processo rivoluzionario». Una irresponsabilità sciagurata, un velleitarismo avvenrurista e criminale. Magri è per cultura politica incompatibile con una deriva individualista, ferocemente minoritaria e violenta, non condivide i toni di chi vive la politica come campagna di scontro frontale con quello che viene definito il regime Dc-Pci. Il partito di cui è segretario non è neppure tangenzialmente sfiorato dalla deriva che alimenta di suggestioni e di uomini il terrorismo. Le sue basi politico-culturali sono ben solide. Magri capisce sempre più nitidamente che occorre mantenere, anzi rafforzare, un rapporto e un dialogo con il Pci, perché la classe operaia continua a esistere come soggetto politico - insieme a ogni reale progetto trasformativo - essenzialmente dentro il Pci e non certo in quella sinistra extraparlamentare devastata dalle frammentazioni e dalle sirene della lotta armata.

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Pagina 153

[...] La difesa delle istituzioni democratiche è, in altre parole, il presupposto per il loro cambiamento, non certo la conferma della volontà di conservarle.

Ciò è possibile - sostiene Magri - soltanto a condizione che ora però il Pci cambi linea, abbandoni l'illusione di trascinare la Democrazia Cristiana in una trasformazione progressiva della società italiana. Su questo cambio di linea del Pci Magri investe tutta la sua forza e la sua credibilità, sollecitando, stimolando, pungolando Berlinguer. L'omicidio di Aldo Moro costringe a cambiare passo. Il Pci deve prendere atto che lo spazio per la politica delle larghe intese e per lo stesso compromesso storico non c'è più. Nel gennaio '79 il Pci esce dalla maggioranza che sostiene il governo e passa all'opposizione. La storia corre veloce: nell'arco di pochi mesi l'Unione Sovietica interviene in Afghanistan e la Fiat inizia il suo braccio di ferro con i sindacati e i lavoratori, annunciando 15mila licenziamenti. Al culmine di una lunga e tenace resistenza operaia, Berlinguer il 26 settembre si presenta ai cancelli di Mirafiori e promette l'appoggio del Partito comunista a qualunque scelta i lavoratori avessero deciso di intraprendere. È questo il simbolo - occorre sottolinearlo - di un rapporto non solo istituzionale, non mediato, non burocratico con la classe operaia, che il Pci riconquista, legittimando e rilegittimandosi nel rapporto con la classe.

La lotta finirà male e la cosiddetta marcia dei quarantamila, a metà ottobre, avrà per l'Italia lo stesso valore periodizzante della stroncatura da parte di Margaret Thatcher dello sciopero dei minatori britannici o del licenziamento di llmila controllori di volo da parte di Reagan negli Stati Uniti. È il sigillo contro-egemonico del neo-liberalismo, l'ipoteca su ogni tentativo di avanzamento. Berlinguer, consapevole del tornante che la storia ha imboccato, ha schierato il Pci incondizionatamente dalla parte dei metalmeccanici.

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Pagina 191

Dopo il 2004 c'è soltanto la sua casa di salita del Grillo e la scrittura, lunga, meditata, meticolosa, intensa, appassionata de Il sarto di Ulm , il suo testamento intellettuale. Gli incontri con gli amici e i compagni di una vita, la condivisione del dolore incurabile per la morte della moglie Mara, le presentazioni diffuse del libro, la voglia di difendere le ragioni di una passione e di una scelta che hanno accompagnato una vita straordinaria. Ingrao ha scritto del «senso tragico di sconfitta che ha dominato i suoi ultimi anni». Vorrei dire che quella sconfitta possiede una dimensione collettiva che è in capo a una comunità intera, persino a chi non l'ha vissuta in prima persona. E vorrei dire che se le parole di Ingrao hanno un senso, in Magri la tragedia ha il valore etimologico del termine, di una catastrofe che chiarisce il tutto, a ogni curva, e lo fa attraverso una coscienza e un'autocoscienza sempre più profonde.

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Pagina 337

Siamo arrivati a noi. E siamo ancora al punto di quel suo ultimo intervento per la rivista del manifesto, Le ragioni del commiato, del dicembre 2004: «il tema sul quale ci scervelliamo [...] è quello della rifondazione di un pensiero e di un soggetto politico. Dopo il crollo del socialismo reale e l'eclissi della socialdemocrazia [...] si è creato un vuoto». Mario Tronti, ripensando all'occasione mancata del 1989, con straordinaria capacità narrativa ha scritto che «l'esperienza comunista del movimento operaio meritava qualcosa di più dell'alternativa che poi si è data, o una cancellazione o una rifondazione. Erano sbagliate tutte e due le soluzioni, il nuovo inizio e la vecchia identità». Noi, la sinistra italiana, ci ritroviamo oggi senza identità e senza apparente possibilità di inizio. Proprio per questo occorre tentare e ritentare, «cercare ancora», come suggeriva Claudio Napoleoni. Ricostruire un pensiero e un partito che gli sia amico. Un partito dei nuovi sfruttati, dei nuovi subordinati e dei nuovi insubordinati, aperto ai movimenti che ci sono e a quelli che servirebbero. Aperto ai giovani, a una generazione cui manca la memoria delle lotte ma non l'immaginazione e la fantasia per il futuro. Senza avere paura di quelle che Ingrao chiamava le «sgrammaticature» della lingua dell'alternativa. Perché soltanto una grammatica che non ha paura del carattere spurio della realtà è capace di intuire le nuove contraddizioni e i nuovi bisogni, le nuove paure e le nuove speranze. Un partito adatto al nostro tempo, che ricucia una frequentazione e una prossimità con la condizione materiale del lavoro e che allo stesso tempo decifri e provi a ricomporre il conflitto tra le ultime generazioni del secolo scorso e le prime del nuovo secolo. Un partito che trovi le risposte giuste alle domande giuste: come si reagisce alla rivoluzione passiva che annulla l'uomo, la persona, la capacità di esprimere coscienza di sé? Come si organizza una nuova umanità al tempo dell'alienazione, della solitudine, di quello che, ben oltre questi mesi, è il distanziamento sociale, fisico, inter-relazionale tra noi? Come si forma un nuovo umanesimo sociale, una nuova antropologia in grado di federare le fragilità, di riscattare in forma collettiva la disperazione trasformando in forza la debolezza? Il titolo di questo volume, di questo mio omaggio a Lucio Magri, è Non post-comunista, ma neo-comunista. È la dedica che mi regalò a penna con Il Sarto di Ulm. Noi ci crediamo ancora.

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