Autore Frédéric Pajak
Titolo Manifesto incerto
Sottotitolocon Walter Benjamin, sognatore sprofondato nel paesaggio
EdizioneL'orma, Roma, 2020, Kreuzville 24 , pag. 192, ill., cop.fle., dim. 16,5x22,5x2,2 cm , Isbn 978-88-31312-03-5
OriginaleManifeste incertain - volume I. Avec Walter Benjamin reveur abimé dans le paysage
EdizioneNoir sur Blanc, Lausanne, 2012
TraduttoreNicolò Petruzzella
LettoreRiccardo Terzi, 2020
Classe viaggi , storia sociale , storia: Europa , illustrazione , regioni: Campania , regioni: Sicilia












 

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Indice


Premessa                                         7


«Ma non avevi più quell'umida gioia...»         11

Elogio del malinteso                            23

«Nient'altro che il cielo»                      37

Il vento delle cose                             75

«Sognatore sprofondato nel paesaggio»          103

Due fascisti                                   127

1933                                           137

Gli Spiriti                                    171


Fonti dell'autore                              189

 

 

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Pagina 11

«Ma non avevi più quell'umida gioia...»

Mia nonna mi ha coccolato e amato molto. Ero il suo primo nipote, il suo nontiscordardimé, la sua gioia. L'ho conosciuta tardi, perché sono stato messo al mondo di nascosto da lei e dal resto della famiglia.

I miei si erano incontrati ad Amburgo. Mio padre diceva di non avere famiglia, di essere orfano; quanto a mia madre, aveva perso il papà a due anni e sua mamma si era risposata con un notabile di Colmar. Quando questi era venuto a sapere della relazione tra i miei genitori aveva messo mano alla pistola e urlato: «Se ti azzardi a uscire con quello zingaro giuro che uccido prima te e poi tua madre!». Detto da lui, zingaro significava polacco, o straniero in genere.

Così sono stato concepito in Corsica e mi hanno tirato fuori col forcipe in una clinica universitaria di Suresnes. Mia madre studiava alla Sorbona. Mio padre era arruolato in un reggimento di stanza a Versailles. Sono finito in un brefotrofio in cui non dormivo, non mangiavo, non mi divertivo. Il fine settimana lo trascorrevo con mia madre nel suo monolocale di avenue Bolivar.

Dopo mesi passati a deperire in questa vita clandestina, i miei rivelarono la mia esistenza alle rispettive famiglie, ed è stata la mia nonna paterna a prendermi con sé.

Mi ricordo il suo odore, l'odore del suo piccolo appartamento, il tappetino fatto con la pelle del siamese morto, una piccola cicogna basculante di plastica che beccava in un vaso di fiori, i muretti traforati che separavano i balconi, in quel quartiere della Strasburgo del dopoguerra accanto al parco dell'Orangerie, dove andavamo a vedere gli animali nelle gabbie. E la loro tristezza, lo strano fetore del procione, e poi i calpestii, i gemiti che si levavano tra gli alberi gelati. Non c'è sole nei miei ricordi: soltanto un cielo madido.

Le parole dolci mescolate ai ricordi ingombranti della guerra: i bombardamenti, le sirene, i militari tedeschi poco più che ragazzi, famelici nelle loro uniformi troppo grandi, lasciati soli e allo sbando in attesa della definitiva disfatta. Strasburgo puzzava di guerra, di piscio sui muri dei palazzi diroccati, di tristezza.

Ho conosciuto la guerra ascoltandola parola per parola. Nei racconti di mia nonna, Eugénie Poulet - «la Poulette», come la chiamava mio zio -, ho visto morire i vicini di casa, gli amici, i nemici. Con lei ho scoperto l'amore, la tenerezza, i baci affettuosi, le carezze di un asciugamano sul corpo nudo. Il calore di un altro corpo nel letto.

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Pagina 37

«Nient'altro che il cielo»

Amburgo, 7 aprile 1932. Il cargo Catania ha appena finito di imbarcare le merci; è la volta dei passeggeri. Walter Benjamin sale a bordo con pochi bagagli, tra i quali probabilmente una ventiquattrore in «fibra vulcanizzata» che ripone sotto il letto della sua cabina di terza classe.

Di media statura, robusto, è all'apparenza un uomo come tanti. Indossa un abito scuro, ha il viso paffuto, capelli a spazzola brizzolati sulle tempie e un paio di baffi neri che nascondono a malapena le labbra carnose di un «epicureo sensibile». Gli occhi si rimpiccioliscono dietro le lenti spesse degli occhialetti tondi.


Il viaggio per Barcellona dura undici giorni, i primi quattro dei quali passati nel bel mezzo di una tempesta. Da lì si imbarca sul Ciudad de Valencia alla volta di Ibiza.

Anche sette anni prima, nel 1925, aveva lasciato la banchina del porto di Amburgo a bordo del Catania, sempre in terza classe. Da bibliomane, si era deciso ad acquistare meno libri per risparmiare qualcosa e concedersi qualche viaggio.

Oltrepassate le coste olandesi, francesi e portoghesi aveva intravisto, commosso, il profilo dell'Africa dallo stretto di Gibilterra. Poi la nave aveva proseguito la sua rotta e si era gettata nel Mediterraneo, azzurro sotto il cielo azzurro.


Approfittando degli scali, Benjamin aveva visitato Cordoba e Siviglia, abbastanza da «respirare a pieni polmoni l'architettura, il paesaggio e i costumi della Spagna meridionale». Aveva spedito cartoline agli amici. Le cartoline: un pallino che non gli passerà mai.

A Barcellona si era subito lasciato andare ai suoi «perseveranti vagabondaggi», gironzolando tra le stradine e i bar più reconditi dei quartieri popolari.

Barcellona: «selvaggia città portuale, che imita felicemente, in scala ridotta, i boulevard di Parigi».


Il Catania aveva attraccato a Genova, Livorno, Pisa e, finalmente, Napoli. Da lì enjamin era arrivato a Capri. La vita sull'isola era molto economica. Gli ultimi scampoli di spensieratezza. Sotto il sole sfacciato di mezzogiorno aveva scritto, in calce a una lettera: «La parola è il peggiore oltraggio».

La parola? Quale parola? E quale oltraggio?

Benjamin venera le parole al punto da lasciarle in balia della loro vertiginosa eccedenza, della loro luminosa oscurità, «poiché è quando le parole vengono meno che, puntualmente, si presenta un paradosso».

Adesso, in quel 7 aprile 1932, nel porto di Amburgo, quello che strascina i piedi sulla passerella che conduce nel ventre della nave è un Benjamin prossimo ai quarant'anni. È uno scrittore. Scrittore? O forse un pensatore, un lettore, un traduttore?... Di sicuro ha la fama di essere un autore incomprensibile. Un filosofo?

Che definizione dà di sé Benjamin nel suo curriculum vitae? Ne redige sei versioni, e ciascuna è il racconto di una vita diversa.

Dichiara di essere interessato alla filosofia, alla storia della letteratura tedesca e alla storia dell'arte, ma anche agli studi di cultura messicana.

Più tardi si presenta come ricercatore e scrittore indipendente, ateo, non affiliato a partiti politici. Dice di aver studiato scienza della letteratura.

Nel frattempo pubblica regolarmente recensioni di articoli scientifici per la «Frankfurter Zeitung» e il «Südwestdeutscher Rundfunk».

Più tardi ancora lavora come filologo e traduttore, in particolare di Baudelaire e Proust.

Da ultimo si dichiara interessato alla filosofia del linguaggio, alla teoria dell'arte e alla sociologia delle arti plastiche.

Ma per guadagnarsi di che vivere, o meglio di che sopravvivere, scrive sceneggiature radiofoniche e qualche articolo - «sciocchezze per la radio e per i giornali».

Benjamin non nasconde l'ambizione di diventare «il più importante critico della letteratura tedesca».

A proposito dei filosofi, afferma di sentirsi «disperatamente fuori luogo in quel mondo di professionisti» e aggiunge: «I filosofi sono i lacchè peggio pagati, perché più superflui, della borghesia internazionale».

In verità Benjamin trae ispirazione tanto dalla poesia romantica quanto dalla psicanalisi, dalla Storia, dalle utopie sociali e dalla filosofia - sogna di riuscire a rinvenire il filo che lega Platone , Spinoza e Nietzsche. Ma, soprattutto, cerca di conciliare l'inconciliabile: la tradizione ebraica, il comunismo - le cui finalità gli appaiono altrettanti «nonsense» - e gli ideali anarchici, che giudica tuttavia privi di valore.

1924. La Germania passa dall'iperinflazione alla rivalutazione: il Papiermark viene rimpiazzato dal Reichsmark. I tedeschi possono tornare a viaggiare. Benjamin va a Napoli per la prima volta, in treno, poi soggiorna a Capri da aprile a ottobre.

Il 16 settembre, a mezzogiorno, Benito Mussolini, il nuovo capo del governo italiano, sbarca sull'isola in pompa magna, attorniato dalla sua guardia personale, dai fedelissimi e da alcune schiere di miliziani. A dispetto delle aspettative, la parata e la scenografia imponenti suscitano nella popolazione una fredda indifferenza.

Benjamin è colpito dallo scarso carisma del dittatore: «Ha un aspetto diverso dal rubacuori che mostrano le cartoline illustrate: torbido, pigro e di un orgoglio untuoso, come se fosse cosparso di olio rancido. Ha il corpo goffo e flaccido come il pugno di un droghiere obeso». Nulla a che vedere con Hitler che, ancora rinchiuso in una confortevole cella della fortezza di Landsberg am Lech, detta ad alcuni collaboratori le pagine del suo futuro best seller, il Mein Kampf.

Per il momento, però, i tedeschi a Capri non fanno niente di male, a parte invadere le spiagge «come un'onda sbracata» di bagnanti.

Benjamin si abbona a «L'Action française», un quotidiano filomonarchico diretto da Charles Maurras. Trova che sia un giornale scritto egregiamente e, malgrado alcune riserve, la ritiene una lettura utile per vagliare i risvolti della politica tedesca senza rincretinirsi. Contemporaneamente si gode anche la lettura dei due tomi della «superba» Esegesi dei luoghi comuni di Léon Bloy , il più intransigente polemista del cattolicesimo francese - «Forse non è mai stata scritta una critica, o meglio una satira, contro la borghesia, più aspra di questo commento».


Per le strade di Firenze e Perugia si ritrova immerso tra la folla delle celebrazioni fasciste. «Se anziché lettore de "L'Action française" fossi stato il suo corrispondente dall'Italia, non avrei potuto fare altrimenti.»

Tra i miliziani nota una presenza massiccia di giovani. Le strade sono invase dai «cortei della gioventù, a cui partecipano tutti, appena sono stati svezzati».

La folla: a Roma, a Berlino, a Mosca, «questa folla cupa non attende forse una sciagura, grande abbastanza da far sprizzare la scintilla della sua tensione, un incendio oppure la fine del mondo, qualcosa che faccia rovesciare questo mormorio soffuso fatto di migliaia di voci in un solo grido, al modo in cui un colpo di vento scopre la fodera scarlatta del mantello? Perché l'acuto grido dell'orrore, il terrore panico, è il rovescio di ogni vera festa di massa. Lo brama ardentemente il brivido sottile che corre lungo le innumerevoli schiene».

Viaggiando attraverso la penisola mussoliniana si confronta da vicino con il fascismo nascente. «Fiat ars, pereat mundus - Sia l'arte, perisca il mondo» proclamava Marinetti già nel 1909. E nel Manifesto futurista aggiunge: «Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna».

E poi: «Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!».


Benjamin appartiene alla stessa generazione dei dadaisti eredi del futurismo. In Svizzera ha come vicini di casa Hugo Ball e la sua compagna Emmy Hennings, due tra i fondatori di quel Cabaret Voltaire in cui si svolgono le prime serate Dada. Frequenta inoltre i dadaisti Wieland Herzfelde e il fratello John Heartfield, e anche Hans Richter, artista e editore della rivista «H», per la quale traduce nel 1924 «una fanfaronata di Tristan Tzara» intitolata La Photographie à l'envers.

Benjamin non ignora le avanguardie, ma gli interessano poco. Non le contesta, semplicemente se ne tiene alla larga. Il suo scetticismo imbevuto di marxismo lo porta ad affermare: «In tutte le arti, i prodotti più avanzati e audaci dell'avanguardia hanno avuto come pubblico solo l'alta borghesia - in Francia come in Germania».


A Capri, sempre nel 1924, oltre a «L'Action française» e Léon Bloy legge Elisabeth Fórster - la sorella di Nietzsche - e soprattutto Storia e coscienza di classe del marxista György Lukàcs , libro che lo influenzerà a lungo e in profondità. Ma quale, tra queste letture così diverse, incontri davvero il suo gusto, è difficile dirlo. Ha in progetto di scrivere su quelli che ai suoi occhi sono i «tre grandi metafisici» che contano davvero: Franz Kafka , James Joyce e Marcel Proust ; divora romanzi gialli, in particolare quelli di Georges Simenon , del quale conserva quattordici libri nella sua biblioteca personale; e poi c'è Stendhal , a proposito del quale scrive all'amico Gershom Scholem: «Sto rileggendo La certosa di Parma. Spero che anche tu riesca a concederti questo piacere una seconda volta. Non mi pare si trovi molto di meglio, in giro».

Esteta, moralista, populista, amante risentito dell'alta dialettica, Benjamin vi si perde.

E in un'epigrafe, accidentalmente, per un lapsus o sotto l'effetto del1'hashish, si lascia sfuggire una frase scritta da un altro Benjamin, un Benjamin affrancato dalla ragione: «O Colonna della vittoria / dorata come un biscotto con zucchero d'infanzia».

Altrove, le sue parole risuonano come una confessione: «Perché non riconosco nessuno, perché confondo tra di loro le persone? Soluzione dell'enigma. Perché io stesso non voglio essere riconosciuto; perché io stesso voglio essere confuso con qualcun altro».

Le parole. Non si stanca mai di farle avanzare come indomiti pedoni verso la promozione a regina. Ha letto Karl Kraus : «Più si guarda una parola da vicino, più lei ti guarda da lontano». Una frase alla quale risponde, sornione: «Più si invecchia come scrittori, più si è sorpresi, di tanto in tanto, leggendo una parola che personalmente non si è mai usata. Una tale parola può dare inizio a un intero periodo creativo. Simili parole non sorprendono semplicemente di più col passare del tempo, ma anche sempre più spesso. Perché questo senso per lo smalto delle parole si risveglia assai tardi, quanto più spesso ci si imbatte in parole logore che già portano le tracce delle nostre manipolazioni».

Scavatore che scava nella cavità delle parole, incapace di sottrarsi a una «contraddizione a ogni costo», è instancabilmente alla ricerca di una nuova teoria capace di affondare la precedente, e da quella essere affondata a sua volta, per riformularsi entrambe a loro volta in un'altra ancora. All'inizio del 1927 Benjamin sembra aver abbandonato ogni illusione a proposito dell'ideale sovietico. Di ritorno da Mosca, dopo lunghe riflessioni e temporeggiamenti, decide a malincuore di non aderire al Partito comunista tedesco. Ciononostante, due anni dopo, ancora in parte persuaso delle virtù del bolscevismo, si lancia in un violento attacco contro Georges Duhamel, che nel suo Le Voyage de Moscou osa scrivere: «La vera, radicale rivoluzione, quella che modificherà in una certa misura la natura dell'animo slavo, non si è ancora compiuta».

Secondo Benjamin l'affermazione di Duhamel sarebbe una «mistificazione della verità», tipica degli intellettuali della sinistra francese. Una presa di posizione che comunque non gli impedisce di spingersi fino ad asserzioni eretiche come: «Dopo Bakunin non c'è più stato, in Europa, un concetto radicale di libertà».

Marxista, nostalgico, anarchico e scettico allo stesso tempo, Benjamin è convinto che «il duplice compito degli intellettuali rivoluzionari sia quello di abbattere l'egemonia intellettuale della borghesia e trovare un decisivo contatto con gli intellettuali proletari». Non sa però se questa missione impossibile sarà portata a compimento da scrittori, pensatori e artisti proletari o se invece questi - come sostiene Trockij - nasceranno soltanto dopo la vittoria della rivoluzione proletaria. Ecco servito il dilemma, un dilemma che lo porta a interrogarsi seriamente sulla necessità di interrompere ogni «carriera artistica» nella società borghese.

Dichiara di essere molto attratto dal surrealismo - in particolare da Nadja di André Breton («vera sintesi creatrice tra il romanzo d'arte e il romanzo a chiave») e da Il paesano di Parigi di Louis Aragon , di cui la sera, a letto, non riesce a leggere più di tre pagine («il batticuore si faceva troppo forte») - ma sente di doversene distaccare quanto prima.

Ingenuo, vede nei surrealisti i soli intellettuali in grado di soddisfare le istanze del Manifesto del Partito comunista : «Sono i primi a liquidare il mummificato ideale moralistico umanistico di libertà del liberalismo». Ma, scettico e oscuro, conclude: «A uno a uno, essi offrono la loro mimica al quadrante di una sveglia che ogni minuto squilla per sessanta secondi».

Nel 1922, annunciando l'uscita della sua rivista «Angelus Novus» - che non vedrà mai la luce - proclama: «La grande critica non deve, come generalmente si pensa, insegnare attraverso l'esposizione storica o educare attraverso confronti, bensì arrivare alla conoscenza attraverso lo sprofondamento nell'opera». Tempo dopo, nei frammenti su Baudelaire redatti nel 1938, sposa un punto di vista diametralmente opposto: «Nessuna analisi di Baudelaire che voglia scrutare a fondo la sua opera può rinunciare a fare i conti con l'immagine della sua vita».

Contraddizioni e grandi ripensamenti, strani frammenti quelli su Baudelaire - che continua a stendere pressoché fino alla fine. Cominciano come una traduzione dei versi del poeta, poi assumono via via la forma di un prospetto «sull'apogeo del capitalismo» - laddove il lemma «apogeo» è, di fatto, davvero inappropriato. Ma questi due diversi approcci - lettura fedele dell'opera e lettura della biografia - sono figli dello scorrere del tempo. La vittoria del comunismo e del fascismo ha dissolto l'individuo nella massa. «Soggettività» è divenuta una parola impronunciabile. Benjamin si è autoespulso dalle storie della letteratura per dedicarsi alla Storia con la S maiuscola, la Storia politica e sociale, senza tuttavia escluderne la dimensione esistenziale. I suoi frammenti su Baudelaire hanno l'aria di un autoritratto.

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Pagina 88

Scicli, paesino del Sud della Sicilia. Un biliardino nella sala del vecchio Alcatraz. Non se ne vedono più tanti, di biliardini. A pochi chilometri di distanza la spiaggia di aprile, deserta sotto un sole perfetto, opalino.

Qui sopravvivono scampoli della vecchia Sicilia, le sue panchine assiepate di uomini con la coppola che si salutano ancora con abbracci calorosi. Sono uomini di un'altra epoca, in cui le donne restano nascoste nelle cucine. Una cittadina fatta di qualche facciata barocca e stretti vicoli scavati tra le falesie. Nessun visitatore.


Donnalucata, sul mare. Qualche abitante e nient'altro. Un banco di pescheria fremente di polpi, seppie e calamari, tesi come muscoli madidi. Altrove, a Siracusa, a Ragusa, lungo le autostrade e le statali, nelle vallate circostanti, questo mondo rurale non esiste più. È scomparso. Che fare, quindi? Niente. Rinchiudersi nella propria vongola.


Pranzare a Ragusa Ibla in una trattoria vuota, poi andare al mare, e cenare di nuovo nella stessa trattoria, vuota. Nel senso di totalmente vuota. Tra le otto e mezzanotte gli unici a mangiare lì dentro sono il proprietario, il figlio-cameriere, il nipotino col moccolo al naso e il cuoco.

È proprio quando non succede nulla che succede qualcosa.

Qui dentro si fuma. Come altrove in Sicilia. Si fuma e non si beve. Si mangia come si prega, si guarda la televisione a tutto volume senza proferir parola, l'eco dell'audio tra le volte spoglie. Niente assegni, niente carte di credito; si paga in contanti, e i contanti finiscono dritti nelle tasche del padrone. Il denaro: il denaro si tocca, si sfiora, si stropiccia, lo si fa sparire con le mani. Il denaro un odore ce l'ha.

Qui, dove i paesi si sdraiano sulle pendici dell'Etna, disgrazia e provvidenza hanno il medesimo volto. In questa stagione, in questo preludio d'entroterra, ci sono da vedere solo vestigia. Il centro storico con i suoi magnifici giardini, qualche piazzetta schiacciata tra i palazzi, stradine strette come un morso tutt'attorno a chiese e cappelle costruite dopo il terremoto dell'11 gennaio 1693. Barocco, sempre barocco.

La città nuova, Ragusa superiore, non ha assolutamente nulla da offrire agli sguardi dei visitatori, che d'altronde latitano. Tutta la bruttezza del mondo si è data appuntamento su questa rupe. Ma cosa farsene, della bruttezza?

Noto. Un'altra cittadina ricostruita dopo il terremoto. Ancor più barocca delle altre, di un barocco solenne, concentrato sull'arteria principale. In questo teatro il ruolo delle persone è sovrastato da quello della scenografia, la vera protagonista della pièce, specialmente di notte, grazie al talento dei tecnici delle luci.

Il grande corso lastricato è territorio dei giovani. È finito il tempo delle mamme bardate di nero e dei vecchi pietrificati sulle panchine. I ragazzi sfoggiano ciuffi all'insù, le ragazze vestono provocante, gonne inguinali, trucco pesante. Hanno tutti il telefono in mano.

Nei ristoranti anziani notabili aspettano la fine del mondo con la bocca piena mentre i figli si accalcano nei fast food in attesa di partire per costruirsi un'esistenza altrove, il più lontano possibile.

Piove una pioggia d'aprile, a scrosci obliqui. Le gocce si schiantano ed esplodono sugli ampi basalti neri della grande piazza per poi ricomporsi in semisfere perfette fatte di chissà cosa - schiuma, forse? Queste fragili perline scorrono via veloci sul marciapiede, poi scoppiano, di nuovo. C'è un che di scenografico nella danza della pioggia, per non parlare del suo tamburellio incessante e di quell'odore di quinte teatrali.


C'è un giardino, un giardino grande e vuoto, un giardino con le giostre, dove i cespugli odorano di bagno pulito, di detersivo. E invece sono fiori d'arancio, piccoli fiori bianchi profumatissimi, e qualche agrume sospeso come un pugno nell'aria bagnata.

Crescere non significa sempre diventare più grandi. Gli anziani, invecchiando, si fanno sempre più piccoli. Pensieri senza cittadinanza, sotto il cielo dell'infanzia.

Lido di Noto. Un hotel sulla spiaggia deserta di aprile, un hotel gigantesco, da centinaia di camere, costruito una decina di anni fa con l'avvento del turismo di massa. La hall sconfinata si affaccia su una veranda che a sua volta dà su un giardino e una piscina vuota. Dal balcone contemplo la spiaggia e le rovine dell'Antichità sulle rocce. Sembra quasi che tra quelle rovine e gli hotel del lungomare nulla sia mai esistito. La costa si srotola a perdita d'occhio nel silenzio della sera, rotto soltanto dallo sciabordio delle onde e dai garriti festosi delle rondini. Più in là, tre bambini librano in aria le canne da pesca a distrarre l'immobilità.


Stamane è morto qualcuno. Qualcuno che esisteva davvero. È stato il suo cane a dare l'allarme. Ho pensato a lui e pianto tutta la mattinata, non riuscivo a smettere. Una lunga crisi di pianto simile a quello caldo dell'infanzia. Piangere nella hall dell'hotel in mezzo alla distrazione degli altri avventori. La morte non ci insegna nulla.

Buffon la chiamava «l'ultima sfumatura della vita».

Chi può dire se un uccello sa ammirare se stesso, o se ammira i suoi simili, se è in grado di riconoscere la grazia di un battito d'ali, dell'incespicare delle zampe? Chi oserebbe affermare che la danza nuziale dei pesci impazziti sotto le cascate del sacro fiume Moladoque è davvero nuziale, che è effettivamente una danza e non una reazione meccanica delle pinne? Le spaventose meraviglie della creazione sono, appunto, così meravigliosamente spaventose perché non sono il frutto della creazione. Sono, semplicemente, come se fossero da sempre e forse, perché no?, per sempre.


La creazione umana è tutt'altra cosa. Nasce dalla nostra penombra, da questo sudore che ci bagna le dita delle mani, i muscoli tesi sulle viscere attorcigliate, una penombra più spessa dell'impenetrabilità della pietra in cui ci immergiamo come di straforo, in cui sguazziamo, in cui ci sotterriamo. La creazione del mondo proviene dalle viscere della Terra, contrariamente al lavoro che viene dal cielo. La creazione umana è estranea al lavoro, alle sue finalità in parte domestiche e in parte meccaniche. Non ha peso né misura, ma ha tutto il tempo dalla sua. Tutto? Forse.

Per ora, si limita a protrarvisi, a volte brutalmente. Una parola caccia l'altra un'immagine cancella l'altra, un pensiero smette di pensare.

Si può amare il lavoro, l'inclemenza dei gesti obbligati, certo. Ma si può anche amare il caos, l'esitazione, l'imbarazzo, l'errore. Si può amare il rifiuto di scegliere, e anche scegliere di non scegliere.

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È stato perché gli intellettuali non hanno saputo parlare al popolo se quest'ultimo ha finito con il soccombere davanti al fascismo. Hanno lasciato che a occuparsene fossero demagoghi e giornalisti.

Gli intellettuali si rivolgono solo agli intellettuali, e a quei pochi politici che concedono loro l'illusione di avere qualcosa da dire. Ma il popolo non sa che farsene dei loro capricci. È un essere opaco, una pulsazione sorda che batte a un ritmo tutto suo e d'improvviso s'arresta, esplode, per poi tornare a battere regolare. È lui a dettare il tempo, sempre. Il popolo: questa entità innominabile che sfugge a ogni definizione, questa massa che si esalta in tempo di guerra e agonizza in tempo di pace, che a volte esige di detenere la verità, di incarnare perfettamente la «saggezza popolare», e un attimo dopo è pronto ad acclamare il peggio. Il popolo è incomprensibile. Ma il popolo siamo tutti noi e, al contempo, nessuno di noi è il popolo. È un corpo estraneo. Gli intellettuali non fanno parte del popolo, perché sono intellettuali, e non sono l'élite, perché non lo governano, non lo influenzano. Chi è, il popolo?

Il popolo non si fida delle patate perché crede che diffondano la lebbra. E per convincerlo a mangiarle c'è bisogno che Luigi XVI acconsenta a portare un fiore di patata sulla corona.

Il popolo tedesco ama Adolf Hitler di un amore sincero e irrefrenabile. Il popolo italiano ama Mussolini del medesimo amore. I popoli sanno amare i propri tiranni e divenire loro stessi tirannici. Quegli intellettuali che rivendicano la propria appartenenza al popolo vorrebbero in verità essere tirannici a loro volta, e sono pronti a collaborare col primo tiranno venuto.

Chi può dire se a Berlino, o in qualsiasi altro posto, non tornerà un giorno un Reich millenario, se il popolo non invocherà una nuova follia? Allora gli intellettuali potranno anche fare fronte unito, non cambieranno niente. Ma anche gli intellettuali asserviti al fascismo sono inutili. Le parole non hanno mai ucciso nessuno.

Nel 1936 Walter Benjamin compie un gesto molto commovente: sotto lo pseudonimo di Detlef Holz pubblica in Svizzera venticinque lettere di tedeschi che a suo dire rappresentano il meglio della cultura germanica. Intitola il libro Deutsche Menschen, Uomini tedeschi. Gli era parso che l'altezza della lingua e dei sentimenti dei corrispondenti potessero essere un mezzo per redimere lo spirito di quel suo Paese già lanciato a tutta velocità verso il baratro.

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Due fascisti





Bologna, 2 agosto 1980. La mattina un'esplosione rimbomba tra le mura della stazione. È il più sanguinoso attentato degli anni di piombo: ottantacinque morti e più di duecento feriti. Vengono condannati alcuni militanti neofascisti, oltre a diversi ufficiali dell'esercito e a Licio Gelli, capo della loggia massonica P2. Ma i veri mandanti non saranno mai ufficialmente identificati.


Dicembre. Su Losanna muore lenta una neve grigia, soffici fiocchi sul marciapiede che si attaccano alle suole, soffici fiocchi sulla carreggiata spazzati via dalle auto. La sera si srotola, è l'ora dell'aperitivo. Vago senza meta fra le strade e il caso mi fa ritrovare faccia a faccia con Fizery. Saranno almeno dieci anni che non lo vedo. Ci abbracciamo, magari dopo tutto ci vogliamo ancora bene. Che cosa è diventato nel frattempo?

Decidiamo di bere qualcosa. Lui è di casa al bar du Caporal, un posto in cui non vado mai, ritrovo di alcuni fascistelli di Losanna. «Una bella combinazione,» mi fa Fizery «proprio stasera ho appuntamento con Strudel. Te lo ricordi Strudel?»

Me lo ricordo eccome, Strudel. Nei tre mesi che ho fatto da interno in collegio era in classe con me e Fizery. Era un posto per ragazzini ricchi rinnegati dai genitori oppure per quelli che, come me, avevano «gravi problemi scolastici». I primi erano bulletti arroganti senza scrupoli, veri e propri criminali in erba. Strudel, per esempio. Era stato eletto rappresentante di classe. Alto, belloccio, tipo attore americano, un vero stronzo. A volte capitava che restassimo in classe da soli con lui. Non appena il professore usciva dall'aula Strudel si esibiva in un saluto nazista, costringendo tutta la classe ad alzare il braccio. E se per caso qualcuno si permetteva di protestare lui gli andava incontro e lo colpiva sulla testa con la bacchetta del professore. Poi tornava verso la cattedra e disegnava una grossa svastica sulla lavagna. A quel punto si sedeva sulla poltrona del professore, i piedi apparecchiati sulla scrivania, e prendeva a inveire contro gli ebrei, e persino contro Hitler, che non era stato in grado di sterminarli tutti. Al suo posto, diceva Strudel, avrebbe fatto sicuramente di meglio.

Una volta si scagliò contro l'unica ebrea della classe, una ragazza bellissima dalla carnagione molto scura, di nazionalità portoghese - i suoi genitori erano commercianti vicini a Salazar. Di solito rispondeva a tono alle provocazioni di Strudel, che d'altronde mal celava la sua attrazione per lei. Ma quella volta la schiaffeggiò con tutta la forza che aveva. Lei cadde a terra, e lui continuò a colpirla sul costato. Dovemmo intervenire in tanti per placarlo. La storia arrivò in presidenza, Strudel fu sospeso dall'incarico di rappresentante e la cosa terminò lì grazie ai numerosi agganci del padre.

Passarono diverse settimane, poi un bel giorno Strudel sparì. Noi tutti eravamo a mensa e stavamo facendo il solito baccano di sempre quando d'un tratto comparve il preside. Ci intimò di fare silenzio e ci informò che la macchina dei genitori di Strudel si era schiantata contro un camion sulla strada per Monaco. Erano morti sul colpo. Per un po' non avremmo visto Strudel. Non volava una mosca. Nessuno disse niente, nessuno era triste. Gli stava bene, a Strudel.

Quanto a me, Strudel aveva smesso da tempo di insultarmi o di mettermi le mani addosso. Il giorno del mio arrivo era stato lui a organizzare la mia iniziazione. Lui e i suoi camerati mi avevano spinto nei bagni, riempito di calci e, dopo essersi slacciati i pantaloni, mi avevano pisciato addosso.

Subito dopo, era inverno pieno, mi avevano spogliato, buttato nudo nel cortile e bombardato di palle di neve belle compatte.

Non era finita lì. In refettorio avevano sputato a turno nella mia minestra e mi avevano costretto a svuotare il piatto. Poi Strudel aveva preso la mia forchetta per piegarne le due punte centrali a formare un uncino. Con quella mi aveva porto un pezzo di carne e, non appena avevo fatto per morderlo, mi aveva infilzato le labbra, fino al naso.

Mi dovettero portare in infermeria, la faccia ricoperta di sangue.


Era fatto così, Strudel, il piccolo orfanello. Quello che incontrerò di qui a poco al bar du Caporal.

[...]


«Abbiamo fatto un bel lavoro.»

«Ancora con questo "abbiamo". Ma che cosa c'entri, tu, con questa storia?»

«Siamo i padroni del mondo!»

A dar retta a loro due, quelli che hanno messo le bombe sono venuti qui, proprio da queste parti, forse addirittura al bar du Caporal. In ogni caso, sono scappati dall'Italia. E può darsi anche che Fizery e Strudel li conoscano. Devono aver pensato che fossi dei loro perché porto i capelli cortissimi. Fizery, comunque, non ci ha capito niente di questa storia di Bologna. È troppo matto. Ma chi lo sa, in fondo? Il massacro non gli fa né caldo né freddo, nel suo disordine mentale può anche darsi che lo consideri nella natura delle cose. Quanto a quel pallone gonfiato di Strudel, non so cosa pensare. Mi giudica, mi scruta, si pavoneggia, e fa parte di un gruppuscolo fascista. Gli faccio presente che dietro all'attentato c'è la P2, e con ogni probabilità i servizi segreti.

«I massoni. Una massa di froci.»

«È probabile che si siano serviti di voi.»

«Nessuno si serve di noi, siamo i padroni del mondo.»

«In classe non sei durato tanto, come padrone del mondo.»

Esco. Ha smesso di nevicare. Un vento gelido sferza le strade. Me ne vado in città, stanco di Strudel e Fizery. Eppure li rivedrò ancora.


E infatti una domenica ce ne andiamo insieme a sparare nel bosco con dei fucili di precisione. Fizery è più strano del solito, e le sue stranezze innervosiscono Strudel. Fizery sente sempre odori dappertutto.

«C'è puzza di gas, la sentite?»

«Ma se siamo in un bosco.»

«C'è puzza, vi dico! Ci vogliono asfissiare!»

E comincia a correre a rotta di collo, si arrampica in cima alla collina e si mette a urlare con tutta la voce che ha. «È fuso» sospira Strudel. «Quel tipo è completamente fuso.»

Torna verso di noi e si siede in macchina, sul sedile posteriore, la testa rovesciata all'indietro. È un bagno di sudore; respira a fatica.

Qualche giorno dopo, nel bel mezzo di un sopralluogo in cantiere con alcuni colleghi architetti, Fizery comincia a gridare: «Il gas! Il gas! Ci stanno gasando tutti!». Non c'è modo di calmarlo. Alla fine chiamano un'ambulanza che lo porta in ospedale.

La diagnosi degli psichiatri è disturbo mentale di natura paranoide. Internamento, non c'è altra soluzione. Io e Strudel andiamo a trovarlo in clinica. Non ci riconosce.

È l'ultima volta che lo vedo.


Un giorno per caso incontro Strudel in un bar. Sta bevendo un calice di bianco con First, il dentista, un tizio che conosco di vista. È un vecchio scorbutico, ma è molto colto e a volte persino divertente. Non gli piace nessuno e si lamenta per tutto: la decadenza dei costumi, l'imbastardimento della razza bianca. Ha il morbo di Parkinson, non può più esercitare. Strudel lo stima moltissimo.

Mi faccio un bicchiere con loro, poi un altro e un altro ancora. First è bello ciucco. Inveisce contro chiunque. D'un tratto si ferma e ci dice che presto la farà finita.

Si farà portare in cima alle Alpi in elicottero, con tutta l'attrezzatura da scalata e tre bottiglie di bianco nello zaino. Lì si sdraierà ben bene nella neve e si scolerà le bottiglie una a una, ubriacandosi lentamente. A quel punto si addormenterà nel gelo della notte, per sempre.


Qualche giorno dopo sfogliando il giornale leggo che una squadra di soccorritori ha trovato due corpi congelati su una cima delle Alpi: quello del dentista First e quello di un uomo più giovane, di nome Strudel.

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1933





Il 28 febbraio 1933 Benjamin scrive a Scholem: «Quel poco di compostezza con cui nel mio ambiente si è risposto al nuovo regime è rapidamente svanita, e ci si rende conto del fatto che l'aria è diventata praticamente irrespirabile; una circostanza che tuttavia risulta di minore importanza quando si è strangolati. In primo luogo sul piano economico».

Diversi suoi amici, tra cui Bertolt Brecht , Ernst Bloch e Siegfried Kracauer , hanno già lasciato la Germania. Ernst Schoen è stato arrestato e rilasciato.

11 aprile 1933. Il Ciudad de Malaga attracca a Ibiza. Dopo tredici ore di traversata, di nuovo in terza classe, in fuga dalla crescente ostilità del regime nazista ormai al potere, Benjamin sbarca sull'isola per la seconda volta. Si è lasciato alle spalle quasi tutto ciò che possiede, compresa la sua biblioteca. Tornerà in Germania in una sola occasione, per pochissimo tempo.

Il 10 maggio a Berlino migliaia di libri trafugati dalle biblioteche pubbliche e dalle librerie vengono dati alle fiamme sul selciato dell'Opernplatz. Tra i piromani ci sono, oltre ai militanti nazisti, diversi studenti e docenti universitari.

È una sorta di rituale pubblico. Joseph Goebbels presenzia alla cerimonia in prima persona e non perde l'occasione di ribadire i temi cari al nazismo, primo tra tutti quello della «purificazione» della Germania. Altri autodafé vanno in scena a Brema, Dresda, Francoforte sul Meno, Hannover, Monaco e Norimberga. Tra i testi bruciati figurano quelli di Bertolt Brecht, Alfred Diblin, Sigmund Freud, Heinrich Mann, Karl Marx, Kurt Tucholsky, Stefan Zweig e Walter Benjamin.

Sui manifesti stampati in caratteri gotici rossi si legge: «L'ebreo può pensare solo in quanto ebreo. Se scrive in tedesco, mente».

Una nota freddura di Benjamin recita: «Il Terzo Reich è un treno che non parte finché non sono tutti a bordo».

Ai suoi occhi il 30 gennaio 1933 è un netto spartiacque tra un prima e un dopo.

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Presto per Benjamin diviene molto complicato portare avanti le collaborazioni con le riviste tedesche, anche sotto pseudonimo. I nazisti passano al setaccio tutte le redazioni. Continua a scrivere, seppur con il contagocce, per l'Istituto per le ricerche sociali di Francoforte, ma i suoi rapporti con Max Horkheimer si fanno sempre più difficili, data la ritrosia di Benjamin ad accettare la doxa marxista del direttore (ampliamente condivisa da Adorno ).

Il marxismo, ovvero l'aspirazione a una società senza classi, è probabilmente un'arma che incoraggia Benjamin a rinnegare le sue origini borghesi. Ma, da inguaribile bastian contrario, in quanto marxista non può esimersi dal contestare i marxisti.

Se la teologia resta una valida risposta al materialismo storico è perché, secondo lui, la questione non è stata affrontata a dovere: non si è ancora portata a termine una vera critica della religione. Ma contro il marxismo Benjamin sfoggia un'arma ben più affilata della teologia: si chiama Lumpen, il sottoproletario privo di qualsiasi potere, avvenire e coscienza di classe.

Il marxismo non si occupa in nessun modo del Lumpenproletariat, e anzi pianifica la sua definitiva scomparsa nell'avvento della società senza classi. A Benjamin suona come una scorciatoia, e non manca di sottolineare come una società di tal fatta non possa instaurarsi «sotto il cielo libero della Storia» se non a patto di integrare gli ultimi degli ultimi, compresi i loro antenati, poiché per redimere davvero tutti bisogna rendere giustizia anche ai vinti del passato.

Il passato ha due volti: il passato dei vincitori, che vive a pieno diritto nel presente, e il passato dei vinti, che nel presente non esiste. «Per la Storia nulla di ciò che è avvenuto dev'essere mai dato per perso.»

Non può esistere nessuna Storia se il presente non si fa carico di riparare ai traumi del passato. L'ingiustizia perpetrata ai danni delle vittime della Storia deve essere riparata, anche e soprattutto perché «è più difficile onorare la memoria dei senza nome che non quella degli uomini famosi».

Agli occhi di Benjamin la pretesa di universalità della Storia difetta della voce muta degli oppressi. Se non si rimedia ai torti passati allora «universalità» diventa una parola senza significato.

Il filosofo Reyes Mate affermerà: «Non si dà nessuna universalità degna di questo nome se il suo prezzo è il malessere, anche quello di un singolo individuo. La vera universalità consiste nel riconoscere come attuali le ingiustizie passate commesse a discapito del più insignificante degli esseri umani».

Il compito dello storico rivoluzionario, o del filosofo, è secondo Mate quello di «fare i conti col passato, e cioè quello di elaborare una teoria della memoria capace di mantenere vive tutte le rivendicazioni delle generazioni passate». Un'affermazione alla quale Benjamin aggiunge: «Esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Siamo stati attesi sulla Terra».

Non basta sbandierare il benessere dei viventi: bisogna rimediare al malessere dei morti.

Il marxismo vede nel proletariato la classe detentrice della potenza rivoluzionaria, l'incarnazione del «soggetto della Storia», la sua spinta verso l'alto. Benjamin invece perora la causa dei deboli, degli emarginati, delle vittime - non è così distante, in fondo, dal messaggio cristiano che recita: «Quando sono debole, è allora che sono forte». E così, contro il marxismo, propende per un'utopia totale.

Al proletario eroico contrappone il Lumpen ma anche la puttana, il flâneur - che guarda ma non compra -, il cenciaiolo che rovista nei cassonetti. E si identifica con quest'ultimo, che «alle prime luci dell'alba solleva col suo bastone gli stracci linguistici, per gettarli nel suo carretto brontolando, caparbio e un po' ubriaco, non senza agitare nel vento del mattino, ogni tanto, l'una o l'altra di queste mussole sbiadite - l'"umanità", l'"interiorità", l'"approfondimento"».

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All'improvviso sentii un rumore di passi. Qualcuno aveva aperto la porta e si era infilato nel corridoio. Si udivano degli scricchiolii dal pavimento del piano di sopra. Era la Fatica, ne ero certo. Bisbigliava. La sentivo distintamente. Gridai:

«Ehi, Fatica! Con chi stai parlando?»

«Con la Stupidità e l'Impazienza. Ero sicura di aver chiuso per bene la porta e le imposte, ma chissà come sono riuscite a entrare lo stesso. Saranno passate per un buco, o una fessura. Ma non aver paura...»

Non avevo paura. Da sempre amavo la Stupidità, e così l'Impazienza. Mi facevano sentire coccolato. Fino a qualche tempo prima le avrebbero appese a testa in giù fino a farle divenire livide in volto. In verità, però, la Stupidità è tutt'altro che stupida, e l'Impazienza è abbastanza paziente. Sia come sia, erano al corrente di tutto, e sapevano anche cosa sarebbe accaduto nei giorni a venire. E ciononostante rifiutavano di parlare.

Cosa sarebbe successo, quindi, nei giorni seguenti, l'indomani, e poi ancora dopo, negli anni orribili che stavano arrivando?

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