Autore Joanna Russ
Titolo Vietato scrivere
SottotitoloCome soffocare la scrittura delle donne
EdizioneEnciclopedia delle donne, Milano, 2021 , pag. 264, cop.fle., dim. 14x21x2 cm , Isbn 978-88-99270-32-2
OriginaleHow to Suppress Women's Writing [1983]
PrefazioneJessa Crispin, Nicoletta Vallorani
TraduttoreDafne Calgaro, Chiara Reali
LettoreCristina Lupo, 2021
Classe femminismo , critica letteraria , storia letteraria , scrittura-lettura









 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  7  Prefazione
     di Jessa Crispin

 18  Prologo

 22  Divieti

 41  Malafede

 45  Negazione dell'agency

 53  Contaminazione dell'agency

 75  Due pesi e due misure

 91  Falsa categorizzazione

111  Isolamento

134  Anomalia

152  Mancanza di modelli

169  Reazioni

191  Estetica

211  Epilogo

229  Nota dell'autrice

232  Postfazione [dell'autrice]

246  Postfazione. Da Seattle a Kobane, e ritorno
     di Nicoletta Vallorani

253  Bibliografia


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 18

Prologo


GLOTOLOG, s., intergalattico standard, in uso: Organismi intelligenti di Tau Ceti 8 noti per la pratica del frument, una forma d'arte che unisce aspetti di discipline terrestri (richiamo per maiali), marziane (slittamento involontario sul ghiaccio) e del drof uraniano (covare amorevolmente cristalli a lenta maturazione avviluppandoli in tutti e otto i propri arti). Il frument, un'attività di alto prestigio nella società glotolog, è eseguito (secondo i resoconti ufficiali) quasi esclusivamente dai glotolog dalla pinna elicoidale (o "Pal-Mal"). Studiosi non-glotolog hanno trovato prove dì contributi significativi anche da parte di individui dalla pinna a falce di luna, pezzati o maculati, ma gli storici del frument (che quasi sempre appartengono alla forma dalla pinna elicoidale) tendono a ignorare tali contributi o a bollarli come mediocri, mal strutturati, di mero interesse tecnico o, soprattutto, na poi frumenti ("privi del vero spirito del frument"). Senza il fondamentale poi frumenti, secondo un celebre critico glotologgi, il frument perde le caratteristiche di arte e diventa «un mero schiamazzo informe, mentre si sbatte la pancia in modo assurdo e insensato su superfici eccessivamente scivolose» (cfr. Frument Kronologa).

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 20

Se si suppone che certe persone non abbiano la capacità di produrre "grande" letteratura, e se questa supposizione è uno dei mezzi utilizzati per tenere queste persone al loro posto, la situazione ideale (dal punto di vista sociale) è quella in cui si impedisce loro di produrre letteratura di qualsiasi genere. Ma imporre un divieto formale è come scoprire le carte: se i contadini si mantengono analfabeti, prima o poi a qualcuno verrà in mente che l'analfabetismo preclude in modo assoluto la letteratura scritta, buona o cattiva che sia; e se la letteratura significativa può essere prodotta per definizione solo in latino, l'usanza di non insegnare il latino alle femmine spingerà qualcuno, prima o poi, a chiedersi che cosa succederebbe se la situazione cambiasse. Gli argomenti in supporto di questo tipo di status quo sono troppo circolari. (E in effetti, domande del genere sono state poste più e più volte in Europa negli ultimi secoli, portando infine all'attuazione di molte riforme).

In una società teoricamente egualitaria, la situazione ideale (dal punto di vista sociale) è quella in cui chi appartiene ai gruppi "sbagliati" ha la libertà di dedicarsi alla letteratura (o ad altre attività altrettanto significative) ma non lo fa, dimostrando in tal modo che non ne è in grado. Purtroppo, però, basta concedere a questi individui la minima libertà effettiva e ne approfitteranno davvero. Allora il trucco diventa rendere la libertà quanto più teorica possibile e poi - visto che questo o quello ne approfitteranno comunque - sviluppare varie strategie per ignorare, condannare, o sminuire le opere d'arte risultanti. Se attuate correttamente, queste strategie portano a una situazione sociale nella quale le persone "sbagliate" sono (apparentemente) libere di commettere letteratura, arte, eccetera, ma ben poche lo fanno, e quelle che lo fanno (a quanto pare) lo fanno male, quindi possiamo tornare tutti a casa per pranzo.

I metodi menzionati sopra sono svariati, ma tendenzialmente si svolgono in certe aree chiave: divieti informali (compresi la disincentivazione e l'inaccessibilità di materiali e formazione), negazione dell'attribuzione dell'opera in questione (questo schema va dalla semplice scorretta attribuzione a sottigliezze psicologiche che fanno venire le vertigini), sminuimento dell'opera stessa in diversi modi, isolamento dell'opera dalla tradizione cui appartiene e di conseguenza sua presentazione come anomala, asserire che l'opera è indicativa della cattiva reputazione di chi l'ha scritta e che quindi è d'interesse solo perché scandalosa o non avrebbe dovuto essere creata (no, questa strategia non è finita nell'Ottocento) e infine, semplicemente, ignorare le opere, chi le ha prodotte, e l'intera tradizione: la tecnica adottata più di frequente e la più difficile da combattere.

Quanto segue non va considerato come una storia. È piuttosto la bozza di uno strumento analitico: schemi ricorrenti nella repressione della scrittura delle donne.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 22

Divieti


Nel prendere in esame la letteratura scritta da donne nel corso degli ultimi secoli in Europa e negli Stati Uniti (mi concentrerò su quella anglofona, con qualche esempio tratto da altre letterature e dalla pittura), non troviamo il divieto assoluto alla scrittura delle donne in quanto donne che ha (per esempio) insabbiato così tanta della tradizione poetica e retorica degli schiavi neri d'America, anche se molti degli stessi meccanismi vengono utilizzati per screditare quest'ultima quando riesce ad arrivare sulla pagina; in una cultura della maggioranza in cui conta ciò che è scritto, è facile occuparsi della «vecchia stirpe di grandi poeti, tra i più grandi dopo Omero» di James Baldwin. Ci si può occupare dei frammenti che restano semplicemente ignorandoli anche se, quando riemergono, entrano in gioco metodi più sofisticati di cui parleremo più avanti. (Per esempio, all'inizio l'istruzione era illegale. Poi, dopo l'emancipazione, è diventata poco diffusa, di qualità inferiore e sottofinanziata. Ecco il progresso).

Ma alcune donne bianche, donne nere, uomini neri e altre persone di colore hanno preso comunque la brutta abitudine di mettere le cose nero su bianco, e alcune di queste cose vengono stampate, e la carta stampata, soprattutto i libri, finisce nelle librerie, tra le mani della gente, nelle biblioteche, a volte persino nei programmi universitari.

Cosa facciamo, allora?

Prima di tutto, è importante capire che l'assenza di un divieto formale al commettere arte non esclude la presenza di divieti informali altrettanto potenti. Per esempio, la povertà e la mancanza di tempo libero sono di certo deterrenti efficaci; è molto improbabile che un operaio britannico dell'Ottocento, dopo quattordici ore di lavoro in fabbrica, dedicasse la propria vita alla ricerca del sonetto ideale. (Certo, quando la letteratura della classe lavoratrice riesce ad emergere, come ha fatto e continuerà a fare, si può affrontare con gli stessi metodi utilizzati contro l'arte delle donne. E, naturalmente, le due categorie si sovrappongono). Si suppone in genere che la povertà e la mancanza di tempo libero non abbiano ostacolato le persone di ceto medio nel secolo scorso, e invece lo hanno fatto, quando queste persone erano donne. Sarebbe più accurato chiamarle "donne legate a uomini del ceto medio", perché erano pochissime quelle che potevano restare all'interno del ceto medio grazie a una propria attività economica indipendente; se erano attrici o cantanti diventavano persone non rispettabili (ne parlerò più avanti) e, se sposate, per gran parte del secolo in Inghilterra non avevano diritto a possedere beni (l'approvazione del Married Woman's Property Act risale al 1882). Il meglio a cui una donna non sposata potesse aspirare era lo status di governante, quella posizione sociale anomala a metà strada tra nobiltà e servitù. Ecco una Miss Weeton nel 1811 che, salvata dall'oblio da Virginia Woolf nelle Tre ghinee, ardeva «dal desiderio di imparare il latino, il francese, le arti e le scienze, qualunque cosa», un desiderio forse esacerbato dai suoi doveri di governante che oltre alle lezioni includevano cucire e lavare i piatti. Trent'anni più tardi scopriamo che l'autrice di Jane Eyre era pagata venti sterline l'anno, «cinque volte il costo di lavare il guardaroba non particolarmente esteso di una governante» (quattro sterline l'anno erano scalate dallo stipendio per il lavaggio) e «circa undici volte il prezzo di Jane Eyre», secondo Ellen Moers in Grandi scrittrici, grandi letterate. M. Jeanne Peterson riporta che Sewell, nel 1865, equiparava lo stipendio di una tata con quello di una domestica personale, quello di una governante non particolarmente esperta con quello di un valletto e quello di una governante con un alto livello di istruzione con quello di un cocchiere o di un maggiordomo. Emily Dickinson non aveva soldi: doveva chiedere al padre i francobolli o il denaro per comprare i libri. Come sottolinea Woolf in Una stanza tutta per sé: Villette, Emma, Cime tempestose e Middlemarch, «tutti quegli ottimi romanzi», sono stati scritti da donne «talmente povere che non si potevano permettere di comprare più di due o tre risme di carta alla volta». Quanto al tempo libero che si potrebbe pensare andasse di pari passo con questo strano tipo di povertà, Emily Dickinson parrebbe averlo avuto (anche se contribuiva alle faccende domestiche e accudì la madre durante la malattia che le fu fatale); ma, stando al biografo Gordon Haight, il tempo della celebre Marian Evans (nota in seguito come George Eliot) era occupato, fin quasi ai suoi trent'anni, dalla gestione della casa e dalle cure al padre morente, che «assisteva giorno e notte... sembrava un fantasma». Nel 1859, dopo dieci anni di sistemazioni provvisorie, la famosa romanziera e George Henry Lewes comprarono una casa; era lei a essere «responsabile delle faccende domestiche: comprare i mobili, trovare e gestire una domestica, organizzare i pasti; compito, quest'ultimo, che a volte si assumeva Lewes per lasciarla libera di lavorare». La biografa di Marie Curie, la figlia Eve, descrive la madre intenta a pulire, comprare il cibo, cucinare e occuparsi dei figli, tutti compiti non condivisi con Pierre Curie e che si aggiungevano alla giornata di lavoro nei primi anni della vita famigliare di Madame Curie, che furono anche gli inizi della sua carriera scientifica.

La situazione non cambia di molto nel Novecento.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 134

Anomalia


Non l'ha scritto lei.

L'ha scritto lei, ma non avrebbe dovuto.

L'ha scritto lei, ma guarda di che cosa ha scritto.

L'ha scritto lei, ma "lei" non è davvero un'artista e "l'oggetto" non è davvero serio, o del genere giusto; insomma, non è davvero arte.

L'ha scritto lei, ma ne ha scritto soltanto uno.

L'ha scritto lei, ma è interessante/inserito nel canone per un motivo unico e limitato.

L'ha scritto lei, ma quelle come lei sono rare.


Ecco di seguito alcune antologie e rassegne accademiche, scelte in maniera casuale, che ci aiutano a capire quanto siano rare quelle come lei.

Il Golden Treasury of English Songs and Lyrics, curato da Francis Turner Palgrave nel 1861, ha avuto una nuova edizione cent'anni dopo, a cura di Oscar Williams.

[...]

Ecco quindi le percentuali di entrambe le edizioni: le autrici scelte da Williams rappresentano l'8 per cento del totale degli autori citati; aggiungendo quelle selezionate da Palgrave si arriva all'11 per cento.

[...]

Quando le donne vengono inserite in una bibliografia, in un programma didattico o in un'antologia, ecco arrivare anche gli uomini; al calare del numero degli uomini, le donne spariscono misteriosamente.

Ciò nonostante, come nota Van Gerven;

«il fatto che siano incluse soltanto le donne più straordinarie [ma non soltanto gli uomini più straordinari] distorce la rilevanza delle poche [...] che rimangono. Poiché le donne sono spesso isolate in tal modo nelle antologie [...] appaiono strane, insolite e quindi marginali.»

E aggiunge:

«Quando Dickinson, o del resto qualsiasi altra poeta, viene isolata da chiunque altro scriva nella sua generazione e nelle successive, risulta bizzarra, irrilevante [...]. Isolate in tal modo, le scrittrici spesso non rientrano nel "panorama coerente della cultura letteraria globale" dello storico della letteratura [...]. E mano a mano che ogni generazione di donne [...] è esclusa dalla memoria letteraria, i collegamenti tra una scrittrice e l'altra si fanno sempre più fumosi, il che a sua volta giustifica l'ulteriore esclusione di altre donne sulla base del fatto che sono anomale; sono sempre fuori posto.»

La contaminazione della qualità attraverso l'anomalia somiglia alla contaminazione dell'agency attraverso l'anormalità. Perciò R. P. Blackmur, scrivendo di Emily Dickinson, può parlare del suo

«rapporto privato ed eccentrico [...] con l'attività poetica. Non era una poeta professionista né dilettante; era una poeta nel privato, che scriveva instancabilmente come altre donne cucinano o lavorano a maglia [...] Spinta verso la poesia piuttosto che verso i centrini. Né l'istruzione ricevuta né le norme della società in cui viveva [...] potevano farle presagire che la poesia fosse un'arte razionale e oggettiva.»


E così l' anomalia di Dickinson come poeta, in parte attribuibile alla sua mancanza di istruzione formale, porta a un'affermazione della sua eccentricità personale (contaminazione dell' agency attraverso l'anormalità) che, insieme alla ricategorizzazione di Dickinson come non-poeta e delle sue opere come oggetti analoghi a centrini, porta dritti al giudizio finale: la sua poesia non è ciò che la poesia dovrebbe essere. Blackmur scrive nel 1937, [...]

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 148

Ed eccone un'altra: il romanziere Samuel Delany ha sostenuto che al di fuori di specifiche situazioni sociali (come le feste), gli americani sono addestrati a "vedere" un gruppo nel quale gli uomini rappresentano dal 65 al 75 per cento come composto per la metà da uomini e per la metà da donne. Sul lavoro e per strada, gruppi in cui le donne rappresentano il 50 per cento vengono solitamente percepiti come composti da donne per più della metà. Non è escluso che un simile meccanismo inconscio decida del numero delle scrittrici che appaiono abbastanza "adeguate" da essere incluse nelle antologie o nei testi critici. (Mi viene in mente la saggezza popolare diffusa tra le accademiche: una volta, prima di una riunione alla quale eravamo le sole donne presenti, una collega mi ha sussurrato: «Non sederti vicino a me o diranno che stiamo prendendo il potere»).

Qui ci sono tre elementi: una promessa, restrizioni numeriche e una marginalità permanente. Abbiamo visto le restrizioni sulla dose di visibilità concessa alle scrittrici: la rappresentazione che si attesta sempre tra il 5 e l'8 per cento. La qualità si può controllare con la negazione, la contaminazione dell' agency e la falsa categorizzazione. Credo che l'anomalia della donna che scrive - che risulta dalla valutazione del contenuto con due pesi e due misure e dall'isolamento delle singole autrici dalla tradizione letteraria femminile - sia il mezzo definitivo per assicurare la marginalità permanente.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 179

Le tecniche descritte finora sono modi di gestire le varie forme prese dall'affermazione Le donne non sanno scrivere, ma non entrano apertamente in conflitto con l'affermazione stessa. In vari modi, ridefiniscono i termini "donne" e "scrivere"; Nin, di fatto, ri-categorizza lo "scrivere" (in un modo che mi sembra fittizio), come le altre ri-categorizzano, in un modo o nell'altro, "le donne" in un tutte tranne me. Altre scrittrici attaccano in modo diretto l'affermazione. Uno di questi attacchi, centrato sul contenuto della scrittura delle donne, si potrebbe definire come un appello alla verità.

Le donne sanno scrivere perché riescono a vedere delle verità che agli altri [agli scrittori maschi] sfuggono. Questo ragionamento assomiglia alla difesa ottocentesca del realismo, anche se i realisti di quel periodo, Zola per esempio, non si difendevano da accuse di inettitudine basate sul sesso. L'appello si riduce, in fin dei conti, a dire semplicemente: È vero. Il brano seguente, tratto da Villette di Charlotte Brontë, è una difesa di questo tipo:

«Non dimenticherò mai quella prima lezione, né le correnti sotterranee di vita e di carattere che essa mi rivelò. Fu allora che cominciai per la prima volta a vedere esattamente la grande differenza che passa tra la jeune fille ideale dei romanzieri e dei poeti e la jeune fille così com'è.»


Se Villette è il classico del femminismo che io ritengo che sia, questo non dipende da nessuna esplicita dichiarazione di femminismo contenuta nel testo, ma dalla sua costante e appassionata insistenza che le cose stanno in questo modo, e non in quell'altro, [...]

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 184

[...] Per esempio Sylvia Plath non era una femminista, ma se c'è una cosa che l'ha resa un'eroina di culto femminista è stato il suo categorico e veemente rifiuto dei consigli di Woolf alle scrittrici, nel suo Una stanza tutta per sé:

«È fatale per una donna accentuare seppure minimamente la sue lagnanze; difendere qualunque causa, anche la più giusta; parlare in qualunque modo con la consapevolezza di essere donna.»


Non che Woolf abbia sempre seguito i suoi stessi consigli. Ci sono i brani cancellati dal discorso "Professioni per le donne", dove si parla di armi, vetrine in frantumi e carri armati, e quelli non cancellati (ma che poi ha pensato Leonard Woolf a censurare): l'immaginazione «in uno stato di furia [...] ansimante di rabbia e delusione» nel momento in cui si rende conto che ci vorranno altri «cinquant'anni» prima che una donna possa dire la verità sul proprio corpo. Anche se Woolf aggiunge, nello stesso discorso, che le donne non dovrebbero aggiungere «il fardello dell'amarezza» ai loro altri fardelli, nelle Tre ghinee di amarezza se ne trova in abbondanza. Woolf scrive di aver provato «un sollievo e una pace immensi» dopo aver finito di scrivere questo libro, e aggiunge che «ora sono libera da quel veleno e quella frenesia» (corsivo mio).

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 211

Epilogo


Mentre lavoravo a questo scritto dalla forma e dalle dimensioni insolite è maturata in me una convinzione.

Esiste molta, molta più buona letteratura scritta da donne di quanto si pensi.

[...]

E che dire delle influenze su Emily Dickinson?

Se è per questo, anche gli autori della classe lavoratrice (come Melville) entrano nel canone solo dopo essere stati isolati dal proprio contesto. Ho letto diversi saggi critici su Bartleby lo scrivano , e anche se in un caso si metteva a confronto la posizione di Melville con l'Eterno No di Carlyle, nemmeno uno cominciava chiedendo: «Avete mai lavorato in una catena di montaggio per dieci anni?» (o ai grandi magazzini Woolworth per sei mesi, o battuto a macchina indirizzi su etichette anche per una sola estate?). Sono domande molto pertinenti, per come la vediamo io e H. Bruce Franklin. D'altra parte, io ho lavorato come segretaria per tre anni e ho battuto etichette soltanto per sei settimane; e quelle sei settimane sono bastate a farmi capire la situazione di Bartleby molto meglio dei vent'anni spesi a leggere critica letteraria. (In una recente raccolta di racconti di Melville, Harold Beaver conclude le sue osservazioni su Bartleby come segue:

«Bartleby non può essere compreso in toto né [...] come figura cristologica, né come artista o santo ascetico [...] il racconto non si esaurisce in queste interpretazioni. Alla sua radice giace un tema più interessante: il Doppelgänger [...] la figura della morte [...] dietro lo "schermo verde" della vita».


L'effettiva natura del lavoro di Bartleby - l'isolamento, la ripetitività, l'intollerabile noia - e la relazione sociale datore di lavoro-lavoratore, come lo sciopero con occupazione di Bartleby e gli affiati progressisti del suo padrone, non vengono nemmeno menzionati).

La quantità delle esperienze che restano escluse dal canone letterario ufficiale è semplicemente sconcertante.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 216

Ho il sospetto che la scrittura delle donne (in questo caso mi riferisco alle donne bianche della classe media, come risulterà chiaro ben presto) tenda a prendere certe forme e utilizzare certe tecniche alle quali non siamo abituati. Tanto per cominciare, tende a essere visionaria, come le poesie di Dickinson , come quei magnifici passaggi che si aprono all'improvviso nei libri di Charlotte Brontë , nei quali la visione interiore rompe di colpo la superficie della vita di tutti i giorni (uno di questi passaggi è la pazzia di Lucy nel corso della lunga vacanza in Villette; un altro la visione personificata della luna in Jane Eyre). Come Blake, del resto, o Melville, o il predicare appassionato che rende imperfetto - e impreziosisce - Daughter of Earth di Agnes Smedley. In fin dei conti, chi appartiene alla classe lavoratrice non sa un bel niente del "buon gusto" e dell'unità di tono e stile (nessuno glieli ha insegnati, a quei poveracci), e quando infine li incontra sarà incline a vedere tutte quelle sottigliezze come superflue ed esasperanti; un po' come Aphra Behn , che ringhia con quei suoi modi rozzi e illetterati (che cosa triste) contro le «ammuffite regole di unità, e Dio sa cos'altro». E le donne della classe media, sebbene siano state educate ad apprezzare le forme riconosciute, si trovano nella stessa posizione della classe lavoratrice: nessuno dei due gruppi può utilizzare le forme riconosciute per esprimere cose che quelle forme non sono state create per esprimere (e anzi spesso nascondono attivamente). In più le donne, per il solo fatto di essere tali, si portano dietro il fardello della "ristrettezza" della propria esperienza. Da qui la mancanza di unità, le oscillazioni e le fratture del libro quando le forme inadeguate si tendono fino allo stremo o al collasso, o lo sforzo straziante di mantenere il calor bianco della visionarietà acceso per l'intera durata di un romanzo; Virginia Woolf ed Herman Melville sono sorella e fratello in questo, Woolf convinta della propria scarsa esperienza (nei suoi saggi parla spesso della ristrettezza dell'esperienza femminile e della propria mancanza di istruzione universitaria), Melville di avere un'esperienza del tipo sbagliato.

Com'è possibile che nessuno abbia mai notato l'estrema irregolarità di stile e tono in Moby Dick? È un'opera piena di discontinuità, sbalzi, strappi improvvisi, cambi di marcia; è difettosa, anche se probabilmente non avrebbe potuto essere scritta in altro modo. E leggere Pierre o delle ambiguità è un po' come cercare di domare un cavallo selvaggio. Entrambi questi libri sono consanguinei, a mio parere, della tendenza di Woolf a saldare ogni cosa in un grosso nodo della più intensa soggettività. Woolf e Melville sono entrambi alle prese con il tentativo di esprimere qualcosa di indicibile usando le forme accettate. Joyce , che certe forme le ha perfezionate per poi arricchirle e spalancarle fino a trasformarle in qualcosa di nuovo, non mi sembra impegnato nello stesso processo. Lui è alle prese con il desiderio di dire di più di quanto possa dire il realismo contemporaneo, ma non cerca di esprimere qualcosa di altro. I suoi cambiamenti di stile, per esempio nell' Ulisse , sono fortemente letterari e sotto controllo; quelli di Melville, a mio parere, no, anche se gli studiosi moderni - dopo averlo trasformato in quella figura sacra: il grande scrittore - hanno fatto i salti mortali per attribuirgli un'unità di stile e tono che non possiede. (Il capitolo 37 ["Tramonto"], e poi il 39 ["Primo quarto di notte"] e il 40 ["Mezzanotte, castello di prua"] di Moby Dick si trasformano all'improvviso in soliloqui e dialoghi teatrali. Questi passaggi di prosa enfatica mi sono sempre parsi i più destabilizzanti di tutto il romanzo). E mi pare che D. H. Lawrence , un altro figlio della classe lavoratrice, faccia parte della stessa compagnia; la sua scrittura è tanto polemica, spasmodica e spezzata quanto - poniamo - Daughter of Earth.

[...]

E poi è stata prestata così poca attenzione ai romanzi scritti dalle donne nel Settecento, o ai racconti duri e fantastici di Rebecca Harding Davis, storie di donne che erano artiste e furono severamente punite per questo. Nemmeno quei racconti sono spuntati dal nulla. Ormai sappiamo che Kafka (un tempo considerato un artista del tutto anomalo) aveva alle spalle tutta una tradizione di letteratura fantastica yiddish (i cui autori hanno continuato a scrivere serenamente fino all'inizio del Novecento). Una volta ammesso che l'arte non deve essere "unificata", "comprensiva" e "lunga", per essere "grande" (significativa, questa confusione tra "lungo" e "grande", no?), chissà quali tesori troveremo! Di nuovo, se una cosa la fa Byron , possiamo lasciar passare (anche se i critici moderni sono un po' a disagio con le opere romantiche di Byron e lo preferiscono come autore satirico), ma se la fa Louisa May Alcott , nessuno sa nemmeno che esiste.

(Quando [al college] mi sono resa conto che la mia esperienza era "inadeguata", ho scelto la fantasia. Convinta di non avere nessuna vera esperienza di vita, dal momento che la mia non rientrava certo nella Grande Letteratura, ho preso la decisione consapevole che avrei scritto di cose di cui nessuno sapeva niente, maledizione! Così ho adottato un realismo travestito da fantastico, vale a dire la fantascienza).

Leggere i lampi di illuminazione dei visionari come difetti strutturali, il fantastico come un fallimento del realismo, la sovversione come un meccanismo che agisce meramente in superficie significa condannare automaticamente la scrittura delle minoranze, tra cui quella delle donne. Quando i critici sono alle prese con un inglese diverso, scatta anche la trappola di leggere la differenza come un fallimento. Con l'anglo-indiano o con l'anglo-africano (come quello di Chinua Achebe) si riescono ormai a evitare giudizi simili, ma quando chi scrive vive negli Stati Uniti e dovrebbe parlare inglese... be', sappiamo tutti che cos'è l'inglese, e non è quello.

"La letteratura" ha un falso centro. Non è solo bianco, maschio, di classe media (o più elevata) ma anche europeo/costa orientale [degli Stati Uniti]. Che fine ha fatto quella splendida esplosione di americanità consapevole che ha prodotto gente come Willa Cather , Sherwood Anderson , Carl Sandburg , Sinclair Lewis e (poco più tardi) Thomas Wolfe ? I critici di oggi sembrano trovarli imbarazzanti. Preferiscono l'espatriato Hemingway , l'espatriato Eliot , l'espatriato Pound. Sembra che "universale" non includa "americano". Eppure l'altro giorno mi sono imbattuta in un passaggio di Main Street [di Sinclair Lewis] che mi ha fatto venire la pelle d'oca dalla delizia. Mentre in Canada, Alice Munro e Margaret Lawrence hanno ricominciato con quella storia del regionalismo. Non sembrano preoccuparsi molto del fatto che questo le renda tanto non-universali.

Quello che segue potrà forse spiegare perché.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 224

L'arte delle minoranze, scritta in volgare, è un'arte marginale. Solo ai margini cresce qualcosa. Ecco perché, se guardiamo al movimento femminista, La politica del sesso è stato scritto da una scultrice, Amazon Odyssey da una filosofa dell'arte (Ti-Grace Atkinson) e Man's World, Woman's Place da una romanziera. Ed ecco perché io stessa, che sono una scrittrice di fantascienza e non un'accademica, mi trovo alle prese con questo mostro sgraziato nello scarso tempo libero di cui dispongo. Perché non l'avete scritto (preferibilmente, un secolo fa) voi. Voi critici.

Se non vi piace il mio libro, scrivetene uno vostro.

Prego, accomodatevi!

Ma ricordatevi che non si può assumere nel canone l'arte delle minoranze facendo finta che parli delle stesse cose o che usi le stesse tecniche di quella della maggioranza. È molto probabile che non sia così. Potrà sembrarvi qualcosa di mai visto prima sulla faccia della terra. Quando la fantascienza entrò nel mondo accademico, i critici presero granchi davvero grotteschi. E continuano a farlo, di tanto in tanto. Questo non era dovuto soltanto alla mancanza di cultura scientifica - per esempio, alcuni critici vedevano come incubi deliranti le classiche storie di alieni perché erano inconsapevoli dell'accuratezza del contesto e di quanto questa fosse il punto centrale della storia - ma anche alla totale ignoranza delle convenzioni e della storia di questo genere letterario (compreso il fatto che avesse una storia e delle convenzioni).

[...]

Un brillante critico marxista francese, Gérard Klein, ha analizzato di recente il pessimismo della fantascienza statunitense degli ultimi dieci anni, ritenendolo poco sincero e politicamente disonesto, facendo notare «l'assenza di qualsiasi Utopia, di qualsiasi progetto sociale» e affermando che coloro che hanno «interiorizzato e accettato» i valori che sostengono il gruppo dominante di una cultura possono trasmettere quei valori oppure distruggerli, mentre solo «le periferie sociali e culturali hanno il potenziale di produrre valori diversi e originali, valori del futuro». Non potrei essere più d'accordo. Ma perché Klein non ha usato il controesempio del tutto calzante che aveva a disposizione, la cruda, brillante utopia femminile pubblicata nel 1969 dalla sua connazionale femminista, Monique Wittig ? Dov'è finito Le guerrigliere?

Da nessuna parte, ecco dove. Non viene citato nemmeno per criticarlo. (Quanto alla sensibilità di Klein per altri problemi, del romanziere Samuel Delany dice che «c'è solo uno scrittore nero di fantascienza negli U.S.A. e lo si potrebbe prendere per bianco». Si può solo sperare che Delany non degni di uno sguardo questa ennesima stereotipizzazione).

La seconda parte dell'articolo di Klein parla invece di Ursula K. Le Guin , autrice de I reietti dell'altro pianeta e La mano sinistra delle tenebre, nei quali il critico trova «suggerito in maniera indiretta quello che una cultura femminile potrebbe essere [:] acentrica, tollerante, liberata [...] dal modello culturale maschile della conquista ripetuta». Le Guin, sostiene lui, può «proporre un mondo privo di un principio centrale, privo di un sistema unificante, privo di dominio, perché è una donna».

Si tratta certamente di un giudizio positivo, ma i termini nei quali è espresso ricordano le virtù convenzionalmente femminili; in un passaggio successivo dello stesso saggio Klein attribuisce il successo artistico di Le Guin alle sue qualità accudenti [...]

[...] Mi ricordo che all'inizio degli anni Settanta un professore di mia conoscenza, un progressista impegnato che insegnava anche in un carcere, mi confessò il suo disincanto nei confronti della letteratura. Non sembrava anche a me, mi disse, che leggere fosse, insomma... un lusso? Non c'era qualcosa di pigro e lussurioso e terribilmente frivolo nello starsene seduti in una stanza a leggere un libro?

Rimasi di stucco. Mi vennero in mente La politica del sesso e Small Changes (tanto per cominciare).

Oh, no, dissi. No. Oh, mio dio. Oddio, no.

Be', come per le cellule e per i germogli, la crescita avviene solo ai margini di qualcosa. Dalle periferie, come dice Klein.

| << |  <  |