Copertina
Autore Salvatore Settis
Titolo Azione popolare
SottotitoloCittadini per il bene comune
EdizioneEinaudi, Torino, 2012, Passaggi , pag. 230, cop.fle.sov., dim. 14x22x1,5 cm , Isbn 978-88-06-21293-3
LettoreRiccardo Terzi, 2013
Classe beni comuni , diritto , politica , storia sociale , economia , economia finanziaria , economia politica , paesi: Italia: 2010
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Indice


         Azione popolare

  3   I. Prima persona

 23  II. In nome di chi

 42 III. Tre specie di lontananza

 56  IV. Perché in comune

 56      1. Cercando la felicità
 61      2. Bene comune, "beni comuni"
 64      3. «Un altro modo di possedere»
 74      4. Diritto "continentale" e common law
 78      5. Proprietà pubblica: appartenenza e uso
 83      6. Commons e Anticommons: due opposte "tragedie"
 91      7. Strategie di saccheggio
104      8. Nuove mappe
107      9. Lo Stato-residuo

119   V. Un manifesto: la Costituzione

149  VI. L'Italia rinunzia?

199 VII. Anticorpi spontanei, azione popolare, class action


 

 

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Pagina 3

Capitolo primo

Prima persona


Indignarsi non basta. Negli anni feroci che stiamo attraversando, la stessa parola "indignazione" è stata a lungo bandita dal discorso pubblico in Italia, e chiunque la pronunciasse veniva tacciato di moralismo e invitato a non esser pessimista, pensare ad altro e godersi la vita. Per poter professare l'indignazione che ci bolliva dentro abbiamo dovuto aspettare che venisse di moda. Di moda, anzi, come un prodotto d'importazione. Abbiamo dovuto attendere che un francese piú che novantenne, Stéphane Hessel, urlasse da un fortunatissimo pamphlet il suo Indignez-vous! (ottobre 2010), e che le piazze della Spagna si riempissero di giovani indignados (maggio 2011), innescando un'onda mondiale di pacifiche proteste al grido di «Democrazia reale ORA!». Vecchi e giovani cominciavano dunque oltre frontiera a parlare a una voce, ribellandosi a una gestione della crisi economica che ne accolla il peso non a chi l'ha provocata con la complicità dei governi (grande speculazione finanziaria e imprese parassitarie), bensí a tutti i cittadini. «Siamo il 99 per cento!», proclama intanto l'efficace slogan della protesta Occupy Wall Street a New York (settembre 2011), dichiarando guerra alla concentrazione dei profitti e del potere decisionale nelle mani dell'1% dei cittadini, mentre il restante 99% paga i costi della crisi. Gli americani, accampati in Zuccotti Park seguendo l'esempio dell' acampada di Puerta del Sol, hanno denunciato una politica che indirizza grandi risorse pubbliche (per definizione proprietà di tutti) a sostenere il capitale privato, generando crescenti disuguaglianze e disagi. Risuona cosí anche a Manhattan la voce di Madrid: «Per i cittadini e non per i mercati: noi non siamo mercanzie in mano di politici e banchieri»; «Loro non ci rappresentano»; «Loro sono il capitano, noi siamo il mare». In un mondo dominato dai dogmi del mercato, i diritti individuali sembrano spesso l'unico riferimento non strettamente economico. Non esistono dunque piú valori collettivi? «Come pensare il bene comune in un contesto in cui la sfera politica è dominata dalle potenze economiche e finanziarie al servizio degli interessi privati?» Insomma, che fine ha fatto il bene comune?

Nessuno può dire se il coro che sembra levarsi dall'Europa all'America è un episodio passeggero o l'avvisaglia di una svolta mondiale. Esso segna comunque l'inizio di una presa di coscienza che fa centro sul bene comune e sui suoi avversari. Proprio per questo, è necessario specificare il bersaglio. Distinguere le imprese che investono nell'innovazione e nella qualità del lavoro da quelle che divorano risorse pubbliche per alimentare rendite di posizione. Analizzare le voragini del debito, chiedersi se la causa principale della crisi è davvero, come spesso si dice, il debito pubblico causato dalla spesa per i servizi sociali; o se non vi siano altre e piú gravi cause, per esempio l'accumulo del debito privato, spesso preso in carico dagli Stati; o ancora l'evasione fiscale e la corruzione dei meccanismi di spesa. Mettere sotto accusa lo scollamento fra economia produttiva e speculazione finanziaria, dato che già nel 2008 «le transazioni annuali di titoli azionari e obbligazionari mondiali sono 4 volte il Prodotto interno lordo (Pil) mondiale, quelle sui mercati dei cambi superano di 15 volte il Pil mondiale». Di fronte a dati come questo, l'indignazione è una risposta necessaria, una virtú preziosa, un antidoto all'indifferenza che uccide libertà e democrazia.

A questo vasto movimento mondiale, che si è intrecciato con le proteste della "primavera araba" al Cairo (gennaio 2011) e in altri Paesi del Nord Africa, in Italia è corrisposto ben poco. L'Onda, il movimento studentesco che ebbe breve vita tra la fine del 2008 e i primi mesi del 2009, aveva obiettivi piú limitati (scuola e università), che potevano però essere un buon inizio. Tuttavia negli ultimi mesi del 2010, quando (in coincidenza con la discussione in Parlamento della legge sull'università) la protesta sembrò riprender fiato, gli episodi di violenza in una manifestazione a Roma ne esaurirono lo slancio. Il corteo era stato deciso in un'assemblea studentesca alla Sapienza (17 ottobre), e la data scelta era 11 dicembre, poi impraticabile perché "occupata" da una manifestazione del Pd contro il governo. La nuova data, 14 dicembre, veniva a coincidere con un voto di fiducia alle Camere, dall'esito assai incerto: la nuova formazione politica creatasi intorno a Fini, che pure aveva votato la fiducia il 29 e 30 settembre, aveva infatti annunciato il voto contrario. Ma Berlusconi aveva avuto tutto il tempo, fra ottobre e dicembre, di erodere la nuova opposizione con una spudorata "campagna acquisti", e il 14 dicembre il governo ottenne la fiducia, anche se con margine strettissimo.

La coincidenza della protesta studentesca con il voto di fiducia accresceva il significato della manifestazione, congiungendo il fronte della battaglia per l'educazione pubblica con quello della lotta contro il governo. Se quel giorno il governo fosse caduto, ci saremmo forse risparmiati un altro anno di agonia dell'economia e della pubblica moralità. E se la manifestazione fosse stata interamente pacifica, avrebbe forse potuto segnare un momento di consapevolezza, del quale anche i piú sordi tra i politici dovessero tener conto («L'Onda sa pensare», Si disse a Pisa nel 2008). La protesta s'infranse invece, e a caro prezzo, non per mancanza di energie o di argomenti, ma perché di fronte ad alcune violenze si compattò sull'istante un solido fronte di benpensanti di destra e di sinistra, che nel ripudiare (giustamente) le "frange violente", finsero di non accorgersi di quanto fossero esigue e (sbagliando) accantonarono senza discuterle le ragioni civili della protesta. La riforma Gelmini venne approvata (dicembre 2010) e Berlusconi ebbe in dono ancora un anno per trascinare l'Italia verso il fondo dell'abisso. Per timore della violenza, meglio reprimere l'indignazione.

Questa infatti è la pesante anomalia italiana: ci siamo abituati a indignarci di meno perché avremmo robusti motivi per indignarci di piú. Le disuguaglianze evidenziate dalla crisi economica sono in Italia piú gravi che altrove. Maggiore è la divaricazione fra i redditi piú alti e quelli piú bassi, in una simmetria alla rovescia che dice piú di cento statistiche (i dieci italiani piú ricchi hanno un reddito pari a quello dei tre milioni di italiani piú poveri). Piú drammatica è la disoccupazione dei giovani, che si aggiunge alla svalutazione delle competenze e del merito creando infelicità personale e instabilità sociale. In questo regno della prevaricazione e dell'ingiustizia, ignorare i diritti costituzionali del cittadino è diventata la regola: e ogni lamento viene soffocato in nome della conclamata "mancanza di risorse", della crisi economica e dell'esorbitante debito pubblico. Si tace però che questo deficit si è formato nel tempo non tanto per pagare servizi ai cittadini, quanto perché governi d'ogni colore hanno pervicacemente protetto una gigantesca evasione fiscale (142,47 miliardi di euro di tasse non pagate nel 2011 secondo Confcommercio; 154,54 miliardi la proiezione per il 2012). Si tace che enormi fondi pubblici vengono destinati non alla spesa primaria (che assicura i bisogni essenziali dei cittadini, al netto degli interessi sul debito pregresso), ma proprio a pagare i crescenti interessi sul debito, provocando il deperimento delle istituzioni e il tracollo di servizi, come la sanità e la scuola, che potrebbero ridurre le disuguaglianze.

Ma mentre lo Stato batte in ritirata crescono irresponsabilmente incentivi e vantaggi, condoni e sanatorie, che troppo spesso sono il salvagente di aziende altrimenti fallimentari e incidono ulteriormente sulla spesa primaria. L'esito è miserevole: produttività e competitività non aumentano, in compenso vengono mortificati i diritti dei cittadini alla salute, alla cultura e alla scuola, accantonati i principi costituzionali di libertà, eguaglianza e democrazia. Un'esigua minoranza accumula privilegi, mentre la maggioranza dei cittadini perde diritti. È quella che Mario Draghi (allora governatore della Banca d'Italia) definí «macelleria sociale» (discorso del 31 maggio 2010): i piú deboli sono vittime di spietate dinamiche dell'esclusione, in balia dei bucanieri di una rampante economia di rapina. La tempesta dei mercati crea un'aria di crollo imminente che incrementa il cinismo speculativo e spesso spinge le pubbliche istituzioni non a tutelare l'interesse della collettività, ma a trasformarsi in comitati d'affari per favorire il profitto di pochi, e per giunta in fretta, prima che nella stanza dei bottoni entri qualcun altro. Si restringe lo spazio dei diritti e del bene comune, si estende quello di chi specula ai danni del pubblico bene.

Può sembrare che questo assalto alla diligenza, che con crescente tracotanza si sta dispiegando negli ultimi anni, non sia altro che la veste italiana, solo piú volgare e indecente che altrove, di un vasto processo mondiale, lo stesso contro cui da Madrid a Parigi a New York protestano gli indignados. Ma non è cosí. Il caso italiano ha alcune peculiarità che lo rendono non solo estremo, ma unico al mondo. Che dovrebbero provocare nei cittadini un'indignazione ancor piú profonda, e che al contrario hanno finito con il creare assuefazione, con il renderci insensibili, formando quasi una barriera di specchi deformanti che falsificano la realtà, ne distorcono la percezione, assorbono energie nel discorso pubblico, dirottano persino le nostre (ridotte) capacità di sdegnarci. Fra queste singolarità del caso italiano, scegliamone alcune: il cosiddetto federalismo; la favola della "seconda Repubblica"; la retorica dello "sviluppo", inteso come profitto delle imprese e non come crescita civile ed economica del Paese; la strisciante assimilazione di destra e sinistra. Infine, l'effetto Berlusconi: un fattore aggiuntivo di degrado, che rischia però di essere scambiato come la causa unica, indirizzando la nostra condanna su un falso bersaglio.

La parola d'ordine del federalismo nacque dal separatismo della Lega, cioè da un progetto anticostituzionale, ma è diventata universale. Fingiamo di non sapere che in bocca alla Lega "federalismo" è sinonimo di "secessione", anzi da anni la sinistra, per depotenziare la spinta eversiva della Lega, la insegue sul suo stesso terreno proponendo un "federalismo" un po' piú blando, come si provò a fare con la fallimentare riforma costituzionale del 2001. Senza denunciarne i costi altissimi, fingiamo di credere che il federalismo possa produrre benefici per il Paese. Dimentichiamo che nella storia il federalismo fu sempre indirizzato a unificare entità statali preesistenti (l'esempio massimo sono gli Stati Uniti d'America), e non a coprire un processo dissociativo, per giunta fondato sull'inesistente Padania, su riti "celtici" da filodrammatica di paese e su tangenze col razzismo neonazista alla Storm-front. Anziché reagire, si è lasciato che la Lega diventasse (contraddicendo se stessa) partito di governo, anzi si è avviato il cosiddetto "federalismo demaniale", un meccanismo perverso che trasferisce a Regioni e Comuni i beni pubblici di proprietà del demanio dello Stato (cioè di tutti i cittadini italiani), e simultaneamente li rende alienabili o disponibili alla privatizzazione. Il federalismo all'italiana si rivela il cavallo di Troia di un progetto centrato sullo smontaggio dello Stato e la spartizione delle spoglie.

Un'altra menzogna politica è la favola della "seconda Repubblica". L'espressione viene da lontano. A introdurla sulla scena italiana fu Edgardo Sogno, partigiano monarchico e poi membro della loggia P2 coinvolto in un'ipotesi di colpo di Stato e poi prosciolto (del 1974 è il suo libro La seconda Repubblica). Lo slogan fu condiviso da Randolfo Pacciardi e da Giorgio Almirante (segretario del neofascista Msi) per invocare un mutamento della Costituzione in senso autoritario, vagamente ispirato alla Francia gollista. Tramontato per qualche anno, è risorto dalle ceneri nei primi anni Novanta, per designare non piú un progetto (golpista) ma un fatto compiuto: la fine del vecchio sistema dei partiti dopo Tangentopoli e il passaggio a un bipartitismo all'americana, favorito da norme elettorali con premio di maggioranza. Nel gergo politico nostrano, la "seconda Repubblica" di cui oggi si parla (e straparla) ha in comune con quella ipotizzata da Sogno una vaga aspirazione alla stabilità dei governi, ma anche il riferimento implicito al modello francese, e in particolare a De Gaulle, figura che non ha un parallelo nemmeno remoto nello scenario italiano.

Non è solo per questa ragione che l'etichetta "seconda Repubblica", scopiazzata dal lessico politico francese, è una commedia degli equivoci. In Francia la prima Repubblica sorse dalla Rivoluzione del 1789, la seconda dai moti del 1848, la terza dalla caduta di Napoleone III nel 1870, la quarta si formò nel 1946 dopo la guerra mondiale e il collaborazionismo del governo di Vichy, la quinta nacque dalla crisi algerina e dal ritorno al potere di De Gaulle nel 1958, e dura ancora. Le prime tre Repubbliche sorsero dalle ceneri di altrettante monarchie, la quarta e la quinta segnarono profonde cesure istituzionali. Nulla di simile in Italia, dove fra "prima" e "seconda" Repubblica non è intervenuta nessuna lacerazione comparabile, nessuna nuova Costituzione. Ma in questa nostra "seconda Repubblica" vige davvero il bipartitismo? Facciamo una piccola verifica, confrontando la Camera del 1987 con quella del 2011 (il numero complessivo dei deputati è costante, 630). Nel 1987, 12 gruppi o raggruppamenti in tutto (piú 3 deputati non iscritti); nel preteso bipolarismo del 2011 i raggruppamenti sono diventati 21 (piú 14 deputati non iscritti); e le trasmigrazioni dall'uno all'altro gruppo, in un grottesco trasformismo, sono cronaca di ogni giorno. Insomma, quel che nel resto del pianeta si chiama frammentazione in Italia si traveste da "bipolarismo". Anzi, dopo la caduta di Berlusconi e l'avvento di un governo "tecnico", si è cominciato a parlare di "terza Repubblica". Questa fretta di "contare" il numero delle Repubbliche accontentandosi di cosí poco non è solo faciloneria. È una menzogna pericolosa, perché implica la convinzione che la "prima" Repubblica sia finita, e ne comporta dunque la svalutazione, allentando i vincoli di lealtà alla Costituzione del 1948, la sola che abbiamo. Suggerisce che, nel passaggio dalla "prima" alla "seconda" Repubblica, si sia generata dal nulla una pretesa "Costituzione reale" che ha poco a che fare con la Costituzione scritta, a cui il Presidente della Repubblica e i governi continuano peraltro a giurare fedeltà. Favorisce la retorica della "legittimazione da parte del popolo", al di fuori dei controlli democratici.

Una terza singolarità del caso Italia è il contrasto fra la martellante retorica dello "sviluppo" e l'assenza, sia a destra che a sinistra, di qualsiasi piano di sviluppo economico del Paese che punti, insieme, sulla sua crescita democratica. I governi Berlusconi non hanno trovato il tempo di pensarci, intenti com'erano a legiferare in favore del premier. Ma nemmeno le opposizioni hanno saputo elaborare un progetto originale, una propria idea di Italia. Al consueto bivio act or react, la sinistra si è mostrata capace di reagire ad alcune nefandezze del berlusconismo e della Lega, quasi mai di agire in proprio. Forse perché tramortita dalla fine delle ideologie, dalle lacerazioni intestine, dall'assenza di credibile leadership; forse perché troppo occupata a smarcarsi dall'ossessiva accusa di "comunismo" negando tutto, come san Pietro, a ogni cantar di gallo. Nessun barlume di un progetto di lungo respiro nemmeno dal governo Monti, che pure dovrebbe aver mobilitato le migliori competenze; ma, nella perfida strettoia fra le urgenze della crisi e la riluttanza di un Parlamento che è lo stesso di ieri, alterna una stanca retorica dello sviluppo ai tagli impietosi alla spesa sociale. Abbiamo cosí dato a una politica di destra una facciata presentabile e piú efficiente, ma «con il governo dei tecnici è circolata un'idea perniciosa: che la forza di un governo sia in proporzione della sua non rispondenza agli elettori».

"Crescita" e "sviluppo" sono le parole piú diffuse nel teatrino della politica. Parole, appunto. Secondo la Cnn, «l'economia italiana cresce allo 0,3% annuo, e cosí sarà nei prossimi anni: un tasso fra i piú bassi al mondo, che si unisce all'enorme debito pubblico, fra i piú alti al mondo. Perciò l'economia italiana non è in grado di generare risorse sufficienti a ripianare il debito»; anzi «siamo entrati in recessione. A inizio dicembre, Confindustria prevedeva per il 2012 una caduta del reddito dell'1,6%»; secondo Eurostat, nel secondo semestre 2011 il Pil è calato sensibilmente (-0,7%). Eppure chi parla di "sviluppo" di solito propugna, in questa o quella variante, il modello fallimentare che ci ha portato a questa paralisi. Un modello a una dimensione, quasi che avessimo convenuto di chiamare "crescita" il profitto delle sole imprese, anche se a danno dei cittadini e del bene pubblico. A questo danno immediato, ci vien detto, corrisponderà prima o poi un beneficio, perché la forza autoregolatrice del mercato finirà col redistribuire fra i cittadini i profitti delle imprese. Nulla ci ha dunque insegnato la constatazione che questo non sia finora avvenuto né in Italia né altrove. Nulla ci ha insegnato la crisi economica mondiale, nulla gli indignati di Wall Street secondo cui questa favola conviene solo all'"1%", mentre il restante "99%" ne è vittima.

In nome dello "sviluppo" abbiamo svenduto il territorio in favore di grandi opere e cementificazioni, condoni edilizi, sanatorie paesaggistiche, piani casa e altre misure illegali sancite da leggi compiacenti (si contano 63194 deroghe stabilite per legge). Abbiamo incoraggiato la morte dell'agricoltura di qualità, trasformando uliveti e vigneti in "parchi eolici" e distese di pannelli solari. Abbiamo promosso e difeso Tav e autostrade anche quando disseccavano fiumi e sorgenti. Abbiamo disseminato discariche nelle zone piú fertili della Campania, e dalla Lombardia alla Sicilia abbiamo incoraggiato il riuso dei rifiuti tossici nell'edilizia. Abbiamo protetto il contagio dell'aria e delle acque generato dalle industrie. "Crescita" c'è stata, certo: la crescita degli introiti dei soliti noti, mentre il benessere dei cittadini e l'occupazione continuano inesorabilmente a calare.

A questo "sviluppo" unidirezionale la sinistra ha reagito assai debolmente, con analisi monche e reticenti. Spesso anzi ha fatto di peggio, ha sposato la stessa politica di devastazione del territorio e di assalto ai beni pubblici, rivendicando a proprio merito di farlo "un po' meno" o "un po' meglio" delle amministrazioni di centro-destra. Insomma: nel peculiare caso Italia, destra e sinistra sembrano essersi tacitamente accordate nell'identificare lo "sviluppo" col profitto dei pochi e non col bene di tutti. Questa scelta dissennata viene etichettata con slogan vuoti e mendaci, che una diffusa omertà ha impedito di denunciare quanto e quando si doveva, come "modernizzazione" o "cultura del fare". Del fare qualsiasi cosa, purché a profitto delle imprese, e senza mai chiedersi se sia o no vantaggiosa per la comunità dei cittadini e per il pubblico bene.

L'assimilazione di fatto fra destra e sinistra non implica necessariamente patti scellerati dietro le quinte. Non per questo ci sconcerta di meno, non per questo genera nei cittadini meno diffidenza e meno fastidio per la politica, accreditando l'idea che i partiti siano "tutti uguali". Nulla sembra provarlo quanto l'iniqua legge elettorale nota come Porcellum (il nome indica un giudizio condiviso da tutti, a cominciare dall'on. Calderoli che la propose). I candidati vengono eletti secondo l'ordine in cui figurano in liste bloccate, interamente determinate dai partiti; gli elettori non possono esprimere preferenze, con la conseguenza che deputati e senatori senza vera base elettorale (e senza onore) cambiano bandiera al bisogno. Questa legge scellerata, è vero, è stata voluta dal centro-destra: ma prima ancora era stata introdotta da una regione di sinistra, la Toscana (che finora si è ben guardata dal modificarla). Il degrado civile del Paese è firmato dalla destra, ma la sinistra ne condivide la responsabilità: non foss'altro per l'incapacità, nei sette anni in cui ha pur governato il Paese (1996-2001, 2006-2008), di affrontare seriamente la corruzione della vita pubblica mettendo fuori legge il conflitto d'interesse, combattendo l'evasione fiscale e reprimendo il secessionismo leghista. E anche per questa scarsa reattività delle opposizioni che abbiamo accolto il tramonto di ogni valore collettivo con una sorta di stupefazione, un misto di incredulità e di rassegnazione.

C'è però nel caso Italia una peculiarità ancor piú singolare, e porta il nome di Silvio Berlusconi. Nessun Paese d'Europa ha avuto cosí a lungo in una delle sue cariche di vertice una figura tanto caratterizzata da giganteschi conflitti di interesse fra ruolo pubblico e tornaconto privato. Nessun Paese ha visto un tal profluvio di leggi ad personam, né un Parlamento cosí pronto a far quadrato intorno alle ipotesi di reato, di corruzione, di collusione con le mafie, persino di concussione e prostituzione minorile. Con l'argomento che bisognava "lasciar lavorare" il presidente del Consiglio proteggendolo dalla magistratura, il Parlamento si è ridotto a camera di decantazione delle accuse al premier e delle esternazioni in risposta. In nessun Paese si è visto un presidente del Consiglio dichiarare che l'evasione fiscale è «in sintonia con l'intimo sentimento di moralità» (discorso alla Guardia di Finanza dell'11 novembre 2004), che la magistratura è «la metastasi della democrazia» (13 dicembre 2008), che la Corte costituzionale «è diventata un organo politico e non di garanzia» (7 maggio 2011). E quando il Presidente della Repubblica aveva rivolto al governo qualche osservazione critica, Berlusconi ha minacciato di ridurre i suoi poteri modificando la Costituzione (6 febbraio 2009), e ha cercato di delegittimarlo in quanto «eletto da una maggioranza che non è piú maggioranza del Paese, la maggioranza di sinistra» (7 ottobre 2009), spingendosi fino a bollare la stessa Costituzione della Repubblica come «vecchia e filosovietica» (8 febbraio 2009).

Per dar forza a queste e ad altre affermazioni eversive, Berlusconi si è spesso vantato di essere legittimato da un'ampia maggioranza nelle elezioni del 2008 («il 70% degli italiani sono con me», ha dichiarato). L'"eletto dal popolo", questa la tesi, non può essere messo sotto accusa dall'opinione pubblica né dalla magistratura per il conflitto di interesse o per ipotesi di reato: tutti "trucchi" per sovvertire il responso delle urne. Abbiamo dunque dimenticato che nemmeno il leader di un partito che avesse il 99% dei voti sarebbe al di sopra delle leggi? E in ogni caso dobbiamo accettare passivamente la vanteria di Berlusconi sulla sua "valanga di consensi"? I numeri delle elezioni del 2008 raccontano un'altra storia. Contando (come è doveroso) le astensioni e le schede bianche o nulle, il Pdl ebbe il 32,3% di consensi alla Camera, il 30% al Senato. Anche se aggiungiamo i voti della Lega (poco piú del 6%), siamo ben lontani dalla conclamata "maggioranza assoluta degli italiani". Il vero "miracolo" di Berlusconi in questi anni è stato un altro: tenere insieme una maggioranza in cui un partito nazionalista come Alleanza Nazionale (confluito nel Pdl per poi defluirne in parte) ha convissuto con un partito secessionista come la Lega. Ed ecco un'altra peculiarità del caso Italia: questa alleanza impossibile, evidente fattore di instabilità, è stata scambiata per la fantasiosa creazione di una nuova Destra. È stata tutt'altro: un furbesco patto elettorale, un congegno per governare senza progetto. Ma senza che le opposizioni sapessero contrapporre al vuoto di idee una meta alta e nobile, ispirata al bene comune, costruita per forza di idee e lealtà alla Costituzione.

Noi italiani avremmo dunque ragione di indignarci non quanto gli altri, ma il doppio. Non solo perché, come altrove, i costi della crisi sono distribuiti in modo iniquo, favorendo l'impoverirsi dei piú e l'indebita crescita di profitti e privilegi delle caste piú parassitarie. Ma anche perché in Italia la crisi è stata enormemente aggravata dalle manovre di smontaggio dello Stato e di svendita dei beni comuni, dalla protezione dell'evasione fiscale, dalla corruzione della vita pubblica, dallo spazio dato alle mafie, dagli attacchi alla Costituzione e alla legalità, dallo svuotamento delle istituzioni. È stata coperta da un muro di menzogne: la finzione del federalismo, la democrazia controllata mediante norme elettorali inique, gli slogan bugiardi come "seconda Repubblica" e "modernizzazione", le connivenze fra destra e sinistra, il finto "sviluppo" che premia consorterie, mafie e appartenenze mortificando il merito e consegnando i giovani e i deboli alla macelleria sociale.

L'indignazione che pur c'è stata, contribuendo a provocare la caduta di Berlusconi, si indirizzava sulle sue vergogne private, sul conflitto d'interesse, sulle "campagne acquisti" e la corruzione della politica. Ma l'enormità di questi misfatti fa velo ai nostri occhi: ci impedisce di vedere che molte ignominie non sono colpa solo di Berlusconi e dei suoi accoliti, e perciò non spariranno con essi: perché coinvolgono imprese, banche, politici d'ogni osservanza. Negli anni in cui egli ha governato il Paese è giunto all'estremo il degrado del senso civile, della pubblica moralità e della buona amministrazione: da qui il dissesto della produttività e dell'economia. Ma questo processo degenerativo è cominciato prima di Berlusconi (lo dimostra la sua continuità con Craxi) e continuerà dopo di lui. Perciò Berlusconi è un falso bersaglio. Se lo scambiamo per il solo nemico da battere, e ancor di piú se crediamo di averlo già battuto, non riusciremo mai a sconfiggere il degrado che ci opprime e a invertire la rotta. Perciò è urgente sgombrare il campo dal pregiudizio infantile secondo cui, caduto Berlusconi, l'Italia può riprendere, quasi "in automatico", la propria strada. Quale strada, se ancora oggi, a sessant'anni di distanza, è irrealizzato il grande progetto di democrazia e di uguaglianza da cui nacque la Costituzione nella dolorante Italia del 1946-1947? Se anche un governo "tecnico", che pure è estraneo alla corruzione e ha persino (per la prima volta) attratto la pubblica attenzione sull'evasione fiscale, non riesce a combatterla efficacemente, e intanto corrode l'equità colpendo la spesa sociale con gli stessi "tagli lineari" (cioè ciechi) dei governi di destra, riciclandoli con l'etichetta di spending review?

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«Sa indignarsi solo chi è capace di speranza»: queste parole antiche non hanno perso nulla della loro forza, che rivela in un lampo le virtú dell'indignazione. L'incapacità di sdegnarsi davanti a vergogne e misfatti non è segno di ottimismo, ma di disperazione. Eppure vi fu una stagione, neanche tanto remota, in cui gli italiani seppero manifestare indignazione, elaborare speranze. Furono gli anni di Mani Pulite (1992-94), quando la corruzione fra i politici, dimostrata da magistrati e indagini di polizia, innescò un'ondata di sdegno che sommerse una casta di privilegiati intenti a svendere la cosa pubblica a proprio profitto. La fine subitanea di personaggi onnipotenti fino al giorno prima, come Craxi, non fu dovuta solo alle risultanze investigative, ma alla pubblica opinione; solo cosí si spiega il crollo repentino del Partito Socialista e della Democrazia Cristiana. Il sollievo per l'allontanamento di persone indegne dalle stanze del potere si intrecciò allora con la fiducia in una nuova fase per il Paese. Quella speranza andò delusa, perché la stagione di Mani Pulite sfociò nel governo di un pupillo di Craxi, Silvio Berlusconi. Un esito cosí sconfortante, anzi, è certo una delle cause della sfiducia nella politica che stiamo sperimentando. Della riluttanza a indignarsi, dell'incapacità di sperare, del rifugio nell'indifferenza.

Il tracollo di Berlusconi e l'avvento del governo Monti hanno qualche superficiale analogia con quanto accadeva vent'anni fa. Anche ora, come allora, indignazione e speranza paiono allearsi. Le dimissioni di un governo nemico del bene comune ci hanno regalato un respiro di sollievo, un momento di fiducia in un miglior destino per il Paese. Tuttavia, le differenze rispetto agli anni di Mani Pulite sono piú delle somiglianze. Il Parlamento è lo stesso che ha accompagnato il governo Berlusconi dal 2008 a ieri. L'ampio ma fragile accordo politico che rende possibile il governo "tecnico" sottopone la specificità delle singole forze politiche a un quotidiano logoramento, che rafforza la diffusa opinione secondo cui "i partiti sono tutti uguali" e fa precipitare l'indice di fiducia dei cittadini nei partiti (14% nel dicembre 2011, 4% nel giugno 2012, contro il 24% nella fase piú acuta di Tangentopoli). Ma la vita del Paese non è riducibile a quella dei partiti; alla loro crisi crescente, anzi, fa riscontro il formarsi di un vasto ambito di discorso e d'intervento, che va ridefinendo il territorio della politica. Perciò non dobbiamo disperdere nel nulla le speranze di questo momento comunque transitorio, ma nemmeno farci troppe illusioni: il degrado civile del Paese comincia prima di Berlusconi e può sopravvivere, con e oltre il governo "tecnico", anche senza che egli debba venir riesumato.

Per tenere viva la speranza e darle forma dobbiamo coltivare la nostra indignazione, non spegnerla come se riguardasse solo il passato. Dobbiamo saper leggere la profonda trasformazione dell'etica e del costume che ha travolto una parte di quella che, dalle banche alle imprese alla politica, fu la nostra classe dirigente. Dalle sue ceneri è nata una nuova casta, una rete di imprese improduttive che alimenta con risorse pubbliche la propria rendita di posizione. Che in nome del cieco profitto smantella lo Stato, saccheggia il bene comune, annienta memoria storica e valori della Costituzione.

Non sa o non vuole guardare lontano, non si cura delle nuove generazioni, esige guadagni immediati e crescenti, meglio se a spese dei piú giovani e dei piú deboli. Si arrocca sui privilegi di una rendita parassitaria, e la chiama "sviluppo", ma mentre proclama la superiorità dell'iniziativa privata arraffa per ogni dove fondi pubblici, sottraendoli alla gestione dei servizi per i cittadini, dalla sanità alla scuola ai musei. Quasi sempre incapace di innovazione, non reinveste i profitti in nuove attività produttive, ma li indirizza sull'edilizia di consumo, sulla cementificazione del territorio, sulla dispersione dei rifiuti nell'ambiente, sapendo di poter contare su complicità, sanatorie e incentivi elargiti dalla politica. Reprime la ricerca, che potrebbe suggerire nuove linee di produzione, e non apprezza il merito, costringendo all'emigrazione decine di migliaia di giovani talenti, vanificando l'investimento pubblico nella loro formazione, anzi "regalandolo" a Paesi piú lungimiranti. Dati allarmanti come il bassissimo tasso di competitività e l'impegno quasi nullo nell'innovazione bollano questa casta dimostrandone l'inettitudine.

Eppure è davanti a questa borghesia imprenditoriale generalmente incapace che lo Stato arretra in questi anni, mentre un coro di voci bianche, a destra e a sinistra, va ripetendo che per salvare i pubblici servizi bisogna privatizzarli: cioè affidarli a chi ha mostrato di non saper gestire decentemente nemmeno se stesso. La disfatta dello Stato viene giustificata con la carenza di risorse, e infatti le risorse disponibili sono sempre meno, perché quel poco che c'è viene regolarmente dispensato alle imprese. In questo mutuo soccorso, la casta imprenditoriale conta sulla complicità della casta politica, e con essa condivide il controllo del sistema dell'informazione. È in questa rete di connivenze che operano i «nuovi briganti» (Giorgio Ruffolo) di quel «blocco sociale» che raccoglie politici corrotti, mafie e imprenditori senza scrupoli (Pasquale Saraceno) e si alimenta rapinando le risorse pubbliche. La qualità della casta politica, intanto, è drammaticamente calata con la fine dei vecchi partiti e col nuovo sistema elettorale: come risulta da un recente libro di Boeri, Merlo e Prat, il livello culturale dei nostri parlamentari decresce, e con simmetria inversa cresce invece la loro retribuzione, la piú alta d'Europa; per non dire dei troppi parlamentari privi di qualsiasi etica e cultura istituzionale. Quanto piú incompetenti, anzi, tanto piú vulnerabili alle pressioni di imprenditori incapaci, ma ben decisi a cannibalizzare le risorse pubbliche. Domina intanto, specialmente fra i giovani, un diffuso sentimento di umiliazione,

la percezione drastica e irreversibile dello stato in cui almeno due generazioni vivono da tempo; un'umiliazione che si sostanzia non solo nell'attuale assetto socio-economico e nel relativo telaio infantilizzante che ne deriva, ma soprattutto in quella paradossale complicità che queste generazioni hanno mostrato nei confronti del telaio medesimo.

È davvero l'ora di indignarsi, di spezzare questo circolo vizioso. Ed è l'ora non solo di dare voce all'indignazione, ma di darle spazio. La sordità delle istituzioni nel rispondere all'indignazione dei cittadini e la riluttanza dei media a registrarne le manifestazioni pacifiche, che sono frequentissime, finisce con l'innescare meccanismi perversi, legittimando l'idea che per essere ascoltati o, che è quasi lo stesso, per avere visibilità mediatica, bisogna ricorrere a forme violente di protesta. Quando le ragioni dell'indignazione non trovano spazio e ascolto se non a prezzo di una rappresentazione pilotata del conflitto, i comportamenti degli indignati possono deviare, per un fatale processo, verso atteggiamenti sempre piú "visibili" (sempre piú violenti?) Il silenzio delle istituzioni (e dei media) rischia proprio questo: di educare alla violenza spingendo a considerarla un ingrediente necessario. Per poi reprimerla e schiacciare, con essa, anche le giuste ragioni di uno sdegno diffuso, allontanando ancor di piú i cittadini dallo Stato.


Ma che cosa si aspettano gli indignati d'Italia? Un forte cambiamento, certo. Ma quale? Secondo alcuni, vincere la partita non si può senza un rivolgimento radicale, che abbatta i fortilizi della finanza e delle imprese. Secondo altri, una rivoluzione come questa è solo una temibile utopia: meglio rassegnarsi a restare al margine, levando qua e là qualche protesta. Da questa impasse nasce «la finta neutralità dell'antipolitica», che si esprime nell'astensionismo "mirato" di chi non vota questa sinistra perché la vede troppo simile alla destra; ma anche in un movimentismo la cui bandiera di comodo è la protesta, e non l'elaborazione di proposte alternative. Si dimentica cosí che il campione massimo dell'antipolitica negli ultimi vent'anni è Berlusconi: proprio agitando questa bandiera egli è riuscito a raccogliere l'armata Brancaleone dei suoi governi. Perché "antipolitica" non vuol dire solo la fine delle ideologie, vuol dire la morte delle idee e dei progetti, sostituiti da slogan passe-partout, che si travestono da buon senso dell'uomo qualunque, mettendo insieme nazionalisti e secessionisti in nome del nulla. L'antipolitica si confonde con l'anti-Stato, crea uno spazio vuoto (vuoto di Stato, di Costituzione, di legalità) dove presto s'insedia il piú furbo, sbandierando un vacuo efficientismo. Non è da qui che può nascere l'Italia che vorremmo.

Davanti alla sordità dei partiti (tutti) di fronte al grande tema del bene comune, alla loro incapacità congenita di elaborare una visione lungimirante di governo del Paese, alla loro alleanza di fatto nel devastare ambiente e paesaggio, la nascita spontanea di movimenti e associazioni di cittadini (almeno ventimila negli ultimi anni) è un segnale positivo di enorme importanza e di straordinarie potenzialità. Questi movimenti stentano a trovare un'agenda comune e a coordinarsi fra loro, ma partire dalla propria diretta esperienza, per quanto limitata e occasionale, facendo mente locale, può essere il primo passo per una piú vasta presa di coscienza. Quale può esserne una meta praticabile, a portata di mano? Non certo strappare d'incanto capitali e potere alla casta "dell'1%", ma cingere d'assedio le istituzioni (anche se invase dalla casta dei politici), e farlo con le ragioni della legalità e del pubblico bene.

È tempo di ricordarsi che non i partiti, ma i cittadini sono i protagonisti della politica, in quanto titolari della sovranità (art. 1 della Costituzione). Noi, i cittadini, dobbiamo rivendicare il diritto di parola, dobbiamo essere l'anima pensante della polis, di cui i partiti dovrebbero essere espressione, secondo il progetto della nostra Costituzione, «la grande incompiuta» (Calamandrei). Perciò è tempo di cercare nelle associazioni di cittadini il meccanismo-base della democrazia, il serbatoio delle idee per un'alternativa di governo, per un'idea di Italia declinata al futuro. "Politica" è, per etimologia ma anche per le ragioni della storia e dell'etica, non un "mestiere" a sé, ma libero discorso da cittadino a cittadino; un discorso sulla polis, dentro la comunità dei cittadini e a suo beneficio. A noi tocca, nel degrado dei valori e dei comportamenti che appesta il tempo presente, impegnarci in una riflessione alta e meditata, non macchiata da personali interessi, sul grande tema del bene comune, cuore della nostra Costituzione, nel solco di una tradizione culturale e giuridica che in Italia non ha meno di due millenni di vita, e che oggi si trova sotto attacco. Ridare dignità alla politica non delegittimando i partiti, ma guarendoli dalle loro sordità con la forza delle idee.

Ma indignarsi non basta. Gli anticorpi spontanei che i movimenti stanno esprimendo sono un segno di buona salute della democrazia, ma esigono la pazienza e i tempi dell'analisi. Richiedono la saggezza necessaria per non identificare i governi (spesso nemici del bene comune) con lo Stato. L'orgoglio necessario per ricordarci che lo Stato siamo noi, i cittadini; e che è nostro dovere alzare la voce in nome della legalità anche, anzi soprattutto, quando a violare la legalità è il governo. La speranza necessaria per difendere le alte ragioni del bene comune, per imporle anche alle forze politiche piú cieche. L'intelligenza necessaria per raccogliere informazioni, sviluppare argomentazioni, identificare obiettivi di lungo periodo, perché «nessun vento è favorevole, se il marinaio non sa dove andare» (Seneca). Per pensare senza delegare nessuno, sapendo quel che vogliamo. Assumendoci la nostra responsabilità di cittadini. In prima persona.

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Capitolo terzo

Tre specie di lontananza


Il vostro amore del prossimo è cattivo amore per voi stessi. Vi consiglio io forse l'amore del prossimo? No, vi consiglio piuttosto la fuga dal prossimo e l'amore verso i piú lontani. Piú nobile dell'amore per il prossimo è l'amore per i piú lontani e per l'avvenire. Il futuro e quel che è piú lontano siano dunque per te la causa che genera l'oggi.


In questa pagina di Nietzsche il precetto evangelico dell'amore verso il prossimo viene svalutato e capovolto in nome della superiorità del futuro sul presente, della necessità di orientare le nostre azioni di oggi in base ai loro effetti nel futuro, anche remoto. Si rovescia cosí il rapporto causa-effetto: il futuro va pensato come causa del presente e non viceversa. È questo il «fantasma» di cui parla Nietzsche nello stesso passo: «questo fantasma che corre davanti a te, fratello, è piú bello di te; perché dunque non gli dài la tua carne e le tue ossa? Ma invece ne hai paura, e corri a confonderti col tuo prossimo». Il futuro, fantasma inconoscibile, può far paura, ma è la sola dimensione dove possa aver luogo il mondo (la bellezza) che vorremmo.

Il tono profetico di queste parole corrisponde al registro visionario del pensiero di Nietzsche e alla sua concezione di un nuovo tipo di uomo ("super-", o meglio "oltre-uomo"); ma non c'è bisogno di esserne adepti per raccogliere la forte spinta propositiva, la centralità del futuro per orientare le nostre azioni nel presente. Né per intendere il rischio che presentismo ed egoismo ("cattivo amore per noi stessi") oscurino ogni nostra capacità di previsione e ogni spinta etica verso gli altri. Ma per praticare l'amore dei lontani non è affatto necessario professare la fuga dal prossimo. Vi sono infatti tre specie di lontananza: chi è lontano da noi nel tempo (i posteri) e chi lo è nello spazio (gli abitanti di un altro continente); chi, infine, pur vicino nel tempo e nello spazio, è da noi lontano per condizioni di vita, di salute, di diritti e di lavoro. I lontani nello spazio sono per noi oggi i diseredati della terra, centinaia di milioni di uomini, donne e bambini che vivono in una terribile povertà, senza cibo né farmaci (invano la dichiarazione di Alma Ata del 1978 impegnò gli Stati a raggiungere entro il 2000 per tutti gli uomini della Terra «un livello di salute che consenta loro una vita socialmente ed economicamente produttiva»). Lontano da noi è anche chi vive o va precipitando nella povertà o in condizioni di vita intollerabili, come gli abitanti delle favelas che ormai assediano molte città d'Europa, o chi (anche in Italia) abita in aree pesantemente inquinate, e dall'aria che respira o dall'acqua che beve non trae vita, ma morte.

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[...] Quali che siano, a livello internazionale e nei diversi Paesi, le concrete misure e norme di diritto ambientale (un campo in continua evoluzione), esse si fondano sempre sull'estensione all'ambiente della nozione di pubblico interesse, che dà ai cittadini titolo per agire in giudizio contro le devastazioni ambientali. Pubblico interesse, tutela della biosfera, diritti delle generazioni future e "amore dei lontani" devono necessariamente essere tutt'uno, nel nostro orizzonte sempre piú vasto, sempre piú instabile.


L'idea di traguardare verso il futuro per costruire il presente non è nuova, anzi si è dispiegata per secoli assumendo spesso la forma, letteraria e filosofica, dell'utopia. Ma nell'ultimo secolo la crescita tecnologica e la sua invasione del mondo hanno trasformato l'utopia in stretta, urgente necessità. Dobbiamo però chiederci: quale utopia? Vi sono tratti del pensiero dominante che passano per razionali, ma hanno carattere marcatamente utopico: tale è ad esempio la cieca fiducia in una crescita infinita, che divori le risorse della Terra quasi fossero inesauribili. Tale è la perpetua genuflessione innanzi al mito di un'autoregolazione del mercato che produca una qualche equità. Sono utopie che non sappiamo riconoscere come tali; che, anzi, passano per verità indiscutibili, e perciò governano gli orizzonti della politica. L'una e l'altra utopia hanno una comune matrice: la tecnocrazia che, innescata dalle conquiste della scienza, se ne è fatta padrona per proprio vantaggio. L'una e l'altra contengono in sé il verme della propria autodistruzione (l'esaurimento delle risorse, la finanza speculativa senza alcun rapporto con la produzione).

Non è di tali utopie negative, né della loro falsa razionalità, che ha bisogno il nostro futuro. Dobbiamo costruire un'utopia-progetto pienamente ragionata, dobbiamo proiettarla in un futuro possibile, che va edificato a partire da oggi. Un progetto di autodifesa della stirpe umana e dei suoi "lontani", ma anche della Terra. Difesa da noi stessi in primo luogo, poiché l'uomo è diventato

[un] Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l'economia imprime un impulso incessante; [questo inedito orizzonte] esige un'etica che mediante autorestrizioni impedisca alla potenza dell'uomo di diventare una sventura per se stesso.


Il programma baconiano di finalizzare scienza e tecnica al dominio della natura per migliorare la vita e il destino degli uomini ha avuto troppo successo, scrive Jonas. Produzione industriale e consumo delle risorse hanno raggiunto dimensioni talmente smisurate da capovolgere il segno di quel programma, e anziché migliorare il proprio destino l'uomo, accanendosi contro la natura, condanna anche se stesso. «La comunanza dei destini dell'uomo e della natura, riscoperta nel pericolo, ci fa riscoprire anche la dignità propria della natura, imponendoci di conservarne l'integrità». Il nesso feroce che lega il nuovo capitalismo al crescente saccheggio del mondo impone un'etica nuova, che deve espandere enormemente il proprio orizzonte. Perciò non basta piú l' etica (antropocentrica) della prossimità che abbiamo praticato finché le conseguenze delle nostre azioni erano limitate nel tempo e nello spazio. Dobbiamo costruire un' etica della lontananza fondata su una consapevole empatia; un'etica del futuro, non solo degli uomini ma della biosfera. Quella che dobbiamo evocare dal futuro (ma per nostro uso) è un'etica della responsabilità, che Jonas traduce nella formula "imperativo ecologico". Converge su questo obiettivo l'antico precetto evangelico "amerai il prossimo tuo come te stesso", se inteso nel suo senso piú largo e piú profondo, e cioè come inclusivo dell'"amore dei piú lontani". Se, come propone Enzo Bianchi, esso va oggi radicalmente rideclinato: "Amerai la Terra come te stesso".

Senza un ingrediente propriamente etico, tecnologia ed economia possono apparire oggi come forze distruttive, congegni ciechi che una volta innescati divorano fatalmente l'ambiente e la vita, in una spietata corsa inerziale che nulla può arrestare. Solo entro una rigorosa dimensione etica esse potranno recuperare la radice preziosa dei nobili saperi da cui provengono, la scienza della natura e la scienza dell'uomo. Al momento della rivoluzione scientifica che fra Sei e Settecento impresse una brusca accelerazione al controllo dell'uomo sulla natura, umanesimo e scienza formavano ancora una superiore unità. Né Copernico né Vesalio, né Bacone né Galileo immaginarono mai un mondo in cui le conquiste della scienza e della tecnologia o le astrazioni matematiche della finanza si facessero nemiche del pensiero filosofico che le aveva generate e del progetto di felicità per gli uomini che ne era il lievito. Ma anche sanare la biforcazione fra scienza e umanesimo, anche negare le quotazioni "di mercato" che oggi gettano in soffitta la filosofia e le arti perché non producono utili immediati, anche questo richiede memoria storica, tensione etica, responsabilità. Richiede capacità predittiva e forza progettuale, ma intrise di coscienza storica.

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Fra res communes e res publicae non vi è identità; esse si pongono tuttavia entro una sequenza coerente, formando una sorta di continuum il cui carattere distintivo è un'appartenenza collettiva cosí forte e radicata che ad essa può, e in certi casi deve, corrispondere l'inalienabilità del bene. L'appartenenza pubblica di un gran numero di beni inalienabili, ben presente nel diritto romano, mette in ombra, o meglio assorbe, le forme di proprietà collettiva (per le quali abbiamo usato sopra l'etichetta di "usi civici"), ma in nome di un piú forte e stabile dominio delle istituzioni pubbliche. I sistemi di common law, al contrario, contemplano sí forme di proprietà collettiva o commons, ma sostanzialmente ignorano la categoria giuridica dei beni pubblici inalienabili (demanio). Le acque, per esempio, non sono proprietà pubblica, ma nemmeno dei privati nei cui terreni esse scorrono; ne è tuttavia riconosciuto l'uso comune, disaccoppiando proprietà (del terreno) e uso (delle risorse idriche). La categoria giuridica di commons si riferisce dunque all'uso e non all'appartenenza, anzi si applica trasversalmente sia alle risorse naturali indivisibili (come l'aria o il mare) sia alle proprietà private, che possono esser gravate di diritti consuetudinari d'uso comune.

Vediamo cosí inscenarsi, con conseguenze oggi molto importanti, una netta biforcazione fra i diritti italiani di tradizione romanistica e quelli anglosassoni di common law. I primi prevedono tre regimi di proprietà (pubblica, collettiva e privata), dove tuttavia la proprietà collettiva può essere sussunta sotto quella pubblica; nei sistemi di common law, invece, la stessa idea di una proprietà pubblica inalienabile (demanio) resta fuori della porta, mentre vi ha luogo quella di "beni comuni" o commons, anche perché favorita dalla netta disgiunzione fra appartenenza e disciplina d'uso dei suoli e delle risorse. Nonostante questa differenza di fondo, tuttavia, negli ultimi decenni il ricorso a categorie di common law è diventato sempre piú frequente in Italia, a rimorchio di una dominante economia di mercato secondo il modello americano.

C'è una causa specifica di questa evoluzione (o involuzione); ed è il focalizzarsi del discorso politico nostrano sui problemi gravi ma contingenti del debito pubblico, e non su prospettive di lungo periodo come l'uso virtuoso dei beni pubblici per il generale interesse. È come se la natura stessa del debito, legata ai titoli finanziari e ai loro mercati, avesse sospinto le proprietà pubbliche (anche le Alpi) verso una sorta di immaterialità virtuale, facendone il corrispettivo di altrettanti pacchetti azionari: è di qui che nasce l'idea di cartolarizzare i beni pubblici, di cui diremo; è per questo che il Ministero delle Finanze ha voluto fissare al centesimo il "prezzo" delle Dolomiti e dei templi di Paestum. Scelte politiche come queste, fatte o subite all'insegna del risanamento del debito pubblico, comportano un netto slittamento verso i linguaggi e le pratiche di common law, che introducendo «una certa liquidità della proprietà» (l'espressione è di Rodotà) meglio si prestano a favorire i processi di privatizzazione, sbandierando la smaterializzazione del diritto di proprietà per occultarne gli effetti. Si è in tal modo affievolita la tradizione giuridica radicata nel diritto romano, e in suo luogo ha preso tacitamente piede la dissociazione, piú o meno dichiarata, dell' appartenenza pubblica dei beni comuni, cuore e lievito dei sistemi di civil law come nominalmente è ancora il nostro, dal loro uso. Questo processo è stato favorito dal fatto che in una diffusa tipologia di "usi civici" italiani, come abbiamo visto, proprietà e uso dei beni possono per consuetudine essere disaccoppiati. Si perde cosí tuttavia una delle principali ricchezze della tradizione di matrice romanistica, quel continuum tra res communes e proprietà pubblica che dovrebbe essere il punto di partenza per un radicale ripensamento della natura e delle finalità dei beni pubblici, anche nella fattispecie di beni comuni (in quanto cose materiali), in funzione del bene comune (come valore). Troppo spesso questa conseguenza vien data per inevitabile. Occorre, al contrario, interrogare non solo la nostra tradizione storica ma le categorie del nostro ordinamento vigente (cioè della legalità) per chiedersi se e come la proprietà pubblica, anche nella fattispecie dei beni comuni, possa rispondere a un disegno coerente con le finalità della Costituzione.

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6. «Commons» e «Anticommons»: due opposte "tragedie".

Negli ultimi vent'anni molti commentatori e politici, a quel che pare, si sono convinti che ogni aspetto dei beni comuni che abbia natura etica, storica e giuridica debba essere archiviato, anzi messo in soffitta come fastidioso residuo di un tempo che fu. Il loro angolo visuale è un altro, e uno solo: la redditività immediata dei beni comuni. Si dà per scontato che, in questo come in ogni altro ambito della vita, il supremo valore-guida debba essere necessariamente la ricerca del massimo profitto e la cieca obbedienza a pretese leggi universali del mercato. È con questo presupposto che si parla sempre piú spesso di "tragedia dei beni comuni" (tragedy of the commons). Questa fortunata espressione corrisponde a una drammatizzazione dello scenario socio-economico, che quasi narrativamente si traduce in una sorta di apologo, questo: la proprietà indivisa di beni comuni spinge inevitabilmente ciascuno degli aventi titolo a goderne, nel proprio interesse, senza limiti; ma proprio perché quei beni sono accessibili a tutti, si innesca un sovraconsumo che finisce col dilapidare le risorse fino a renderle insufficienti per la comunità che le possiede. Se per esempio un pascolo è condiviso da molti pastori, sarà interesse di ciascuno non solo sfruttarlo al massimo per le proprie pecore, ma anche accrescere le dimensioni del gregge; quando le pecore diventano troppe, l'erba del pascolo non basta piú, l'economia del villaggio crolla di botto, e la comunione del pascolo, che all'inizio era stata economicamente produttiva, si traduce fatalmente in un meccanismo distruttivo. L'apologo dei commons dà per assodato non solo che la comunità di riferimento sia incapace di autoregolarsi, ma che sarebbe certamente inefficace anche una disciplina pubblica delle risorse (da parte dello Stato o di altre istituzioni, come in Italia potrebbero esserlo Regioni, Province, Comuni o Comunità montane). Non resta dunque che un'unica soluzione: privatizzare i beni comuni.

L'etichetta "tragedia", applicata a un processo (o a un racconto) come questo, ha una doppia valenza retorica: da un lato, come nelle tragedie in cui vien pugnalato dietro le quinte un personaggio inerme ma positivo, rende omaggio ai beni comuni come a qualcosa di teoricamente nobile. Dall'altro, come in tutte le tragedie che si rispettano, lo snodarsi degli eventi risponde praticamente a una spietata fatalità. Non c'è scelta, la "tragedia dei beni comuni" può avere un lieto fine, e uno solo: seppellita la vittima (la proprietà collettiva), entra in scena il vincitore, la proprietà privata.

Non era questa, a dire il vero, l'intenzione di Garret Hardin, il biologo americano che in un famoso articolo su «Science» (1968) parlò per primo di The Tragedy of the Commons. In esso, è vero, si menziona fra l'altro il caso dei suoli di uso comune (con l'esempio del pascolo, poi sempre ripetuto), e si parla della proprietà privata come «ingiusta ma necessaria»; ma il vero tema di Hardin era il rapporto fra crescita (illimitata) della popolazione mondiale ed esaurimento delle (limitate) risorse del pianeta. E rispetto a questo macro-problema che egli raccomanda una forte regolazione, mediante forme di «mutua coercizione concordata», che nell'interesse del genere umano e del pianeta deve limitare l'uso delle risorse (aria, acque, terre) e frenare la crescita demografica, anche a costo di violare le libertà personali degli individui. Poiché le risorse del pianeta sono limitate, egli argomenta, per evitarne l'esaurimento non basta diffondere la coscienza del problema, non basta un diffuso senso di colpa o di ansietà, non basta un generico richiamo alla responsabilità dei cittadini. Non solo: secondo Hardin, un problema di questa portata non ammette soluzioni tecniche, cioè tali da potersi mettere in opera senza modificare la scala dei valori etici. Esiste una famiglia di "problemi senza soluzioni tecniche" (no technical solution problems), di cui questo è uno. Perciò il rapporto fra sovrapopolazione e finitezza delle risorse va affrontato modificando il costume e i valori correnti alla luce dei problemi di oggi: cioè mediante una rivoluzione squisitamente etica, che inneschi e regoli nuovi comportamenti.

Occorre dunque, per Hardin, ridefinire la responsabilità, sulla scia del filosofo Charles Frankel, come «il prodotto di specifici assetti sociali», cioè connettendola strettamente a una regolazione pubblica dell'uso delle risorse. Ma «si può imporre per legge la temperanza (legislate temperance)?», egli si chiede. La sua risposta è: si può, anzi si deve. Il principio di Adam Smith (1776), secondo cui «l'individuo che pensa solo al proprio profitto è guidato da una mano invisibile a promuovere il pubblico interesse» si è rivelato falso, e lo sarà tanto piú quanto piú il nostro pianeta diventa affollato. I problemi dell'oggi esigono un profondo ripensamento della moralità, che va ricalibrata su un mondo in pericolo: per esempio, gettare in campagna un po' di spazzatura era forse tollerabile cento anni fa, ma è diventato oggi un delitto perché la civiltà industriale produce rifiuti ben piú abbondanti e piú dannosi della civiltà contadina da cui veniamo; e anche perché siamo già troppi, troppo è il suolo occupato dalle discariche, troppo il danno che esse fanno alla salute umana. Il riferimento esplicito è alla situation ethics, una moralità espressamente chiamata a ripensare se stessa a seconda delle circostanze (l'aveva teorizzata in quegli anni Joseph Fletcher, un pioniere della bioetica). Quello che Hardin considera il traguardo del liberalismo, e cioè «il maggior bene possibile per il maggior numero possibile di uomini» è irrealizzabile in una società del laissez-faire. Occorre ripensare quale sia il maggior bene, o il pubblico interesse, alla luce di una nuova etica capace di generare nuove norme e nuova responsabilità.

Come si vede, la formula della tragedy of the commons, per chi l'ha inventata, era calibrata sull'ecologia a scala planetaria, e non mirata a contestare le forme di proprietà collettiva in nome della superiorità della proprietà privata. Le categorie usate da Hardin sono ovviamente quelle della common law, e perciò il confine fra commons e regolazione pubblica delle risorse non coincide con quello dei diritti di tradizione romanistica, ma il punto centrale è un altro. La sua battaglia in favore di una «estensione sostanziale della moralità» condannava perentoriamente ogni "soluzione tecnica", che lasci intatta la scala dei valori etici; eppure la "tragedia dei beni comuni" che egli per primo ha messo in scena viene citata spesso, in forma distorta o di seconda mano, proprio per raccomandare una "soluzione tecnica": la privatizzazione dei beni comuni. Una soluzione che, con movimento rivelatore, lascia intatta, anzi conferma ed esalta, quella scala dei valori che per Hardin doveva urgentemente essere riformata.

Ma sugli scenari del presente la "tragedia dei beni comuni" non è sola: le fa compagnia da qualche tempo il suo rovescio, la "tragedia dei beni anticomuni". Inventore della formula è stato Michael Heller, un giurista (anch'egli americano) esperto in diritti della proprietà immobiliare. Il suo articolo, The Tragedy of the Anticommons, è uscito sulla «Harvard Law Review» nel 1998, a trent'anni esatti da quello di Hardin a cui simmetricamente corrisponde. Il sottotitolo indica chiaramente il punto di partenza: Property in the Transition from Marx to Markets. Nel turbolento processo di privatizzazione delle proprietà pubbliche in Russia e nell'Europa orientale dopo il crollo dei regimi comunisti ("da Marx ai mercati", appunto), è accaduto infatti che i beni, o i relativi diritti, siano stati frammentati e segmentati all'eccesso, in modo da accontentare il maggior numero possibile di compratori. La conseguenza è che le singole quote proprietarie sono insufficienti a generarne usi redditizi, e che entrando in competizione fra loro innescano meccanismi di sottoconsumo, riducendo significativamente gli introiti o addirittura paralizzando la produttività dell'insieme. Gli esempi di Heller sono vari: la suddivisione dei diritti in Russia, dove fu possibile vendere separatamente la proprietà di un immobile, il diritto di occuparlo, quello di affittarlo e quello di modificarne l'uso; la minuta ripartizione delle terre nelle riserve indiane in America, con un frazionamento progressivo tanto spinto da portare nel 1934 a un reddito nominale pro capite di 1 cent al mese; l'assoluto diritto di proprietà su particelle assai piccole che ha vanificato la ricostruzione di Kōbe (Giappone) dopo il terremoto del 1994: un isolato, per esempio, non si poté ricostruire nonostante il pieno finanziamento pubblico perché occorreva, e mancò, l'accordo unanime fra gli oltre trecento proprietari, affittuari e occupanti dei singoli lotti.

Se mettiamo sulla scena in simultanea le due opposte "tragedie", il risultato è chiaro: la proprietà collettiva non funziona perché conduce al sovrasfruttamento delle risorse; la quotizzazione molecolare non funziona perché ne provoca il sottosfruttamento. Ne risulta un mirabile equilibrio: l'unica soluzione virtuosa che resta sul palcoscenico dopo aver sgominato i "cattivi" della commedia (o della tragedia) è la proprietà privata concentrata in poche mani. Perciò un economista norvegese, Rögnvaldur Hannesson, ha potuto proporre la privatizzazione degli oceani secondo il sistema delle enclosures". Se questo è il punto d'arrivo, non ci voleva poi tanto. Si poteva fare a meno delle categorie di common law, fare a meno di inventare la tragedia dei commons e quella degli anticommons. Stando allo scenario italiano, bastava ripescare dalla storia patria la questione della demanialità nelle province meridionali, dove senza ricorrere a professori americani accadde proprio questo: la privatizzazione delle immense proprietà collettive e pubbliche, passando talora attraverso una fase di suddivisione in piccole quote, fini con l'innescare processi di accorpamento, sfociati in grandi latifondi. Che questo sia stato un processo virtuoso, che abbia generato ricchezza diffusa, senso civico, democrazia, equilibrio nello sfruttamento delle risorse, davvero io non direi.

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Interessante riprova: il modello supremo dei privatizzatori a oltranza, la "ricetta Thatcher", si è rivelata in tal senso un fallimento. Come ha dimostrato Massimo Florio, dopo 18 anni di privatizzazioni dei governi Thatcher e Major (1979-97) il livello del debito pubblico tornò a essere quello di prima, intorno al 40% del Pil. Negli stessi anni, il valore del patrimonio pubblico netto calava dal 70-80% del Pil a meno del 15%: insomma, gli introiti da privatizzazioni sono stati dirottati in gran parte sulla spesa corrente, e dunque ingoiati dal bilancio, senza produrre benefici permanenti per il Paese, anzi peggiorandone il conto patrimoniale. Ma c'è di peggio: contro la party line secondo cui gli investimenti pubblici rendono assai meno di quelli privati, di fatto nel Regno Unito i privati hanno acquistato in prevalenza beni e servizi pubblici che avevano già raggiunto una buona redditività. Per esempio, la piú importante fra le imprese pubbliche che furono privatizzate, la British Telecom, aveva raggiunto un reddito operativo pari al 21% del fatturato; una volta passata in mani private, il reddito, dopo una piccola impennata di un anno, rimase esattamente lo stesso. Le dismissioni hanno dunque danneggiato la finanza pubblica e hanno causato un forte disinvestimento sui servizi, che non è stato affatto compensato da investimenti privati. Alla fine del ventennio Thatcher-Major, le imprese sono diventate piú ricche, i cittadini piú poveri e peggio serviti.

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Nessuno, intanto, si è preso la briga di spiegare ai cittadini quanta parte delle proprietà pubbliche (dallo Stato alle Regioni ai Comuni) sarebbe giusto alienare. Nessuno ha argomentato perché mai dovremmo considerare piú virtuoso alimentare la spesa pubblica non piú (o non solo) in deficit, bensí (anche) finanziandola mediante la svendita del patrimonio pubblico, cioè privandone per sempre le generazioni future. Nessuno ha chiarito come evitare che, esaurito il patrimonio, il debito pubblico torni a crescere in modo incontrollato. Nessuno ci ha detto che cosa accadrà quando dei beni pubblici accumulati nei secoli non sarà rimasto piú nulla. La dominante idolatria dei mercati copre di falsi orpelli la politica delle dismissioni: giustificata con la necessità di abbattere il debito, essa in realtà ne modifica la struttura, ma impoverendo lo Stato a vantaggio di banche e imprese. Non pone rimedio al saccheggio, ne accresce la portata.

Da vent'anni governi d'ogni segno tentano di risolvere il problema del debito pubblico attingendo ai beni pubblici come se fossero un pozzo senza fondo. Il maggior guasto prodotto dal piú radicale di questi tentativi, messo in opera da Tremonti nel 2001-2002, non è però nella nuda lista delle dismissioni, ma nella reazione di giuristi d'ogni scuola, molti dei quali, di fronte a quelle leggi eversive, si sono industriati a produrre interpretazioni che le mettano in qualche modo in armonia con la Costituzione, con il Codice civile e con altre leggi. Che ciascuno di essi lo abbia fatto per servile ossequio al governo allora in carica o per piú nobili ragioni importa, in fondo, assai poco. Piú rilevante è che molti giuristi, anche "di sinistra", abbiano ritenuto doveroso avallare una normativa apertamente ostile al bene comune, che abbiano speso la propria sapienza e il proprio ingegno per ripensare o stravolgere categorie un tempo solidissime. Alcune delle soluzioni proposte, estremiste e implausibili, si spingono a reinterpretare la Costituzione alla luce di fonti di rango inferiore (le leggi Tremonti); altre puntano a frammentare lo statuto giuridico dei beni pubblici, distinguendovi la proprietà, la funzione, la destinazione, la disciplina d'uso, i vincoli che vi gravano, gli obblighi e oneri che ne discendono. La party line, insomma, è che non importa chi sia il proprietario di un bene pubblico, purché siano comunque rispettati alcuni vincoli d'uso: foglia di fico poco persuasiva, visto che nessuno dice chi debba garantire, e con quali mezzi, l'osservanza dei vincoli; mentre lo Stato è in disfacimento, andrà forse affidata alla "mano invisibile" del mercato? Il risultato netto è un altro: nessuna garanzia sul rispetto dei vincoli d'uso, bensí una selvaggia deregulation che fa leva sulla segmentazione dello statuto della proprietà pubblica in un bundle of rights secondo le pratiche di common law.

Ma fermiamoci a pensare: nel 2001-2002, un governo Berlusconi abolí con un colpo di scure la differenza fra demanio inalienabile e patrimonio disponibile, aprendo la strada alla morte della proprietà pubblica. Tuttavia, non modificò altre norme (prima fra tutte il Codice civile), dove quella differenza continua a leggersi, né cambiò la Costituzione che la presuppone e la sancisce. La "sinistra" criticò aspramente quelle norme, ma tornata al potere col successivo governo Prodi non fece nulla per correggerle, e ben presto un nuovo governo Berlusconi poté su di esse innestare nuove norme come il "federalismo demaniale". Leggi incostituzionali ed eversive penetrano in tal modo nell'ordinamento, trovano nelle università esegeti arrendevoli, e anche se cozzano contro altre leggi ordinarie, e contro gli stessi principi della Costituzione, insidiano la coerenza del sistema e tendono a soppiantarlo. Come se fossimo già in regime di common law, quel che non viene contestato acquista forza di legge «by a combination of time and precedent», rafforzando i precedenti col passare del tempo. Si dà per avvenuto il trionfo della common law, e con esso un nuovo statuto "liquido" della proprietà che, si favoleggia, sarebbe determinato da implacabili norme europee. Le quali, al contrario, «lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri».

Svuotando la proprietà pubblica della sua anima comunitaria (della sua continuità con le proprietà collettive e del suo legame coi valori del bene comune), anzi riducendo persino il demanio a una sorta di superflua proprietà privata dello Stato-persona, si prepara cosí la strada al finale trionfo della proprietà privata concentrata in poche mani. Questa strategia sembra ormai invincibile. È penetrata a fondo nel discorso pubblico. Insidia il bene comune, pregiudica il diritto, erode la Costituzione.

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Capitolo quinto

Un manifesto: la Costituzione


Perché l'irrompere dei mercati e delle loro turbolenze sulla scena pubblica genera piú reverenza che indignazione, piú obbedienza che rivolta? Perché tanto fervore nel piegarsi, a proprio svantaggio, alla dittatura delle Borse o degli spread? In questo cupio dissolvi che infetta non solo banchieri e politici ma (quasi) tutti i cittadini c'è una rassegnazione all'ineluttabile che ha qualcosa di sacrale, e infatti per descrivere la soggezione della politica ai mercati ricorre a un linguaggio quasi religioso. Come mai? Forse perché, come ha scritto Carl Schmitt delineando la propria teoria della sovranità, «tutti i concetti decisivi della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati», cioè tolti dal linguaggio delle chiese cristiane e trasferiti nel lessico e nelle pratiche della politica.

Piú radicale e pertinente l'analisi di Walter Benjamin, in un appunto scritto a ventinove anni, nel 1921: «il cristianesimo dell'età della Riforma non ha favorito il sorgere del capitalismo (come voleva Max Weber), bensí si è tramutato nel capitalismo». Il capitalismo è divenuto esso stesso una religione, «serve ad appagare le stesse ansie, tormenti e inquietudini a cui una volta si cercava risposta nelle religioni». «Parassita del cristianesimo», l'economia del capitale è «l'inaudito caso di un culto che non conosce redenzione ma genera la colpa, anzi la rende universale martellandola nelle coscienze»; che non dona salvezza, ma disperazione e solitudine. «Tramontata è la trascendenza divina, ma Dio non è morto, è incorporato nel destino dell'uomo», ormai dominato da un Dio occulto, «una divinità perennemente incompiuta» che non ha credo né teologia, ma esige il tributo di riti incessanti: le pratiche del mercato e del consumo, della fabbrica e della Borsa.

Politica ed economia del nostro tempo sono entrambe insediate nell'antico nido della teologia e si alimentano del suo linguaggio. Nessuno lo ha mostrato meglio di Giorgio Agamben, che in pagine documentate e incisive ha analizzato la silenziosa transizione dall'antico discorso teologico sull' "oikonomia divina" alla prassi e agli enunciati di un'economia integralmente umana, ma posta ormai al centro della storia. Divenuta, anzi, il faro abbagliante che squarcia la notte e segna la strada di tutte le scelte politiche. Quella nascosta matrice sacrale spiega la perpetua genuflessione davanti all'altare dei mercati, le incessanti litanie sull'inesorabile dominio della finanza, la quotidiana abdicazione dello Stato per bocca di politici d'ogni osservanza che dovrebbero rappresentarlo.

La devozione ai miti e ai riti di un inafferrabile governo dell'economia, sopranazionale ed extrademocratico, ha innescato una sorta di misticismo che impone (e ottiene) pronta e prona reverenza, attutisce le coscienze, spodesta ogni discorso sull'equità e la giustizia, sfratta la libertà, la democrazia, la morale. Vittime immolate alle liturgie del potere e del denaro, i cittadini sono (siamo) addestrati a chiudere gli occhi, a non capire, cercando rifugio in una dimensione privata fatalmente schiacciata dalla forza dei mercati. L'onnipotenza del mercato sottomette lo Stato e ne fa il proprio strumento di dominio, infrangendo l'identità fra Stato e comunità dei cittadini, che sarebbe propria della democrazia. La dipendenza dello Stato dai mercati, con la sua occulta genealogia religiosa, impregna di sé la politica. Erode e vanifica sovranità e democrazia.

Due sono gli scenari su cui questo tema andrebbe affrontato: quello globale e quello nazionale. Il mercato signoreggia sull'uno e sull'altro, forza senza volto e perciò invincibile. Ne parliamo come di un'entità astratta (divina, appunto) che opera sulla base di leggi immutabili come la gravitazione universale. La stessa formula della "mano invisibile" introdotta da Adam Smith, o piuttosto il suo uso come slogan-chiave del neoliberismo, è una metafora che pretende di descrivere le dinamiche economiche ricorrendo a un linguaggio religioso. Dietro la mano invisibile dei mercati (che dovrebbe generare l'equilibrio virtuoso non solo dell'economia, ma della società) si cela infatti l'antico feticcio della mano invisibile della Provvidenza, o di Dio. Si occultano cosí dietro una cortina di fumo (o d'incenso) le mani visibilissime di chi manovra i mercati per proprio vantaggio, dalle grandi multinazionali agli operatori della finanza. La natura incorporea delle manovre di Borsa, che muovono enormi somme di denaro senza il minimo rapporto né con la produzione né con il lavoro, contribuisce a dematerializzare questa forza opaca, a renderla inafferrabile e onnipotente. A generare nei cittadini un effetto di sudditanza, un senso di frustrazione che ci acceca e ci rende impotenti di fronte alla devastazione del mondo.

Un solo esempio. La crisi dell'agricoltura, l'aumento dei costi del cibo, la riduzione delle superfici agricole dei Paesi avanzati in seguito all'urbanizzazione selvaggia hanno generato, specialmente dal 2007, quel che si chiama land grabbing (incetta dei suoli). Imprese, fondi immobiliari, qualche governo (come quello cinese) stanno comprando a prezzi bassissimi enormi estensioni di suoli fertili (e relative acque da irrigazione) nei Paesi piú poveri, specialmente in Africa, scacciandone le comunità locali e destinandoli all'agricoltura industrializzata e alla produzione energetica da biomasse. Oltre 200 milioni di ettari (piú o meno sette volte l'Italia) sono già passati di mano legalmente, condannando alla fame chi ne traeva sostentamento; un solo investitore norvegese si è assicurato 180000 ettari al costo di 7 centesimi di dollaro l'anno per ettaro, per 99 anni. Questo nuovo trionfo del mercato ha un cuore antico: è, con maquillage neoliberale, la stessa logica delle enclosures, di un nuovo colonialismo. Sarà dunque forse questa «la sanguinosa mano invisibile» della «notte che tutto acceca, che benda l'occhio pietoso del giorno».

Su questo scenario globale, i beni comuni vengono saccheggiati, il privato ingoia il pubblico, la finanza spodesta la produzione e il lavoro. La politica si fa ancella dell'economia, il mercato asservisce la legge e uccide i diritti del cittadino, la giustizia è bandita. Secondo Michael Sandel,

il nostro piú grande errore è stato credere che se funziona l'economia funzionerà tutto il resto. Ma il mercato non stabilisce né giustizia né eguaglianza né democrazia: al contrario, la cieca fede nel mercato ha eliminato dalla scena ogni dibattito pubblico sull'etica e sulla giustizia sociale, generando crescenti disuguaglianze.

È dunque oggi in atto un duro scontro fra due posizioni incompatibili: da un lato le millantate virtú di un mercato divinizzato, dall'altro un'etica pubblica laica, fondata su valori comunitari che esprimono una ricca tradizione umanistica e racchiudono il meglio della storia d'Europa e del mondo dal 1789 a oggi: sovranità popolare, giustizia, democrazia, solidarietà, equità sociale, libertà, cultura.

Sulla scena italiana, l'imponenza e l'impellenza del contesto globale vengono chiamate in causa ogni giorno come argomento decisivo per espellere dall'ambito del discorso ogni altra dimensione (per esempio il bene comune, per esempio la Costituzione). Ma l'orizzonte specificamente nazionale, italiano, è assolutamente essenziale, se professiamo un'etica della legalità. Se crediamo che la Repubblica, e proprio per aver voce nel concerto delle nazioni, debba cominciare col rispettare la propria memoria storica, la propria identità, la propria Carta fondamentale, i propri cittadini. Se, insomma, siamo convinti che l'Italia esista ancora.

L'indebolirsi della prospettiva nazionale ha fra le sue cause la triplice cessione di sovranità oggi in corso: cessione verso il basso (le Regioni); verso l'alto (l'Unione Europea); e in senso radiale, verso i mercati. Dimensioni tutte ispirate, anche se con qualche orpello e mascheratura, ai soli principi del profitto. Le devoluzioni alle Regioni nascono dalle rivendicazioni leghiste contro "Roma ladrona"; il "federalismo fiscale" e il "federalismo demaniale" non hanno motivazioni ideali, bensí l'intento di rimpinguare le casse delle Regioni piú ricche (o di chi le amministra). Quanto all'Unione Europea, il grande impulso ideale che ne innescò la nascita all'indomani della guerra, il progetto di una nuova autocoscienza per l'Europa (e di un suo nuovo ruolo nel mondo), si è inaridito coagulandosi in vuota retorica. L'Unione dei Trattati è stata costruita solo intorno all'economia, privilegiando il settore privato e marginalizzando ogni altro tema, per esempio la cultura e l'equità, per favorire l'integrazione finanziaria e la metamorfosi del cittadino in consumatore. Come ha scritto Guarino, per effetto dei Trattati

il ruolo del mercato non è subordinato al volere dello Stato, né è revocabile [...] Il mercato è divenuto un dio assoluto. Il confine tra pubblico e privato, tra mercato e autorità, non è segnato dall'autorità, ma dal mercato, a cui è assegnato uno spazio quasi totalizzante.

Queste due cessioni di sovranità, verso le Regioni e verso l'Europa, si sommano in un'affannosa rincorsa, diretta a svuotare lo Stato e a soffocare la stessa categoria giuridica dei beni pubblici in una palude di privatizzazioni. Ma almeno le Regioni e l'Unione sono entità istituzionali tangibili, la cui politica è modellata da chi le governa, persone e partiti individuabili per nome. Piú oscura, e perciò piú possente e temibile, è la terza perdita di sovranità, la piú "centrifuga": quella verso il "mercato globale". Essa intride di sé non solo i rapporti internazionali dell'Italia, a cominciare dall'Unione Europea, ma anche la vita politica interna, creando un universo di regole che sovrasta le leggi e la Costituzione, mortifica lo Stato, ignora i diritti civili. Stentano intanto a prender forma le nuove coordinate di un ipotetico diritto globale che prenda il posto della deregulation oggi regnante, di una «democrazia oltre lo Stato» di là da venire.

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Capitolo settimo

Anticorpi spontanei, azione popolare, class action


In un mondo devastato dalla dittatura di chi manovra i mercati globali è ancora possibile riguadagnare sovranità? O dobbiamo collocare ogni discorso, ogni aspirazione, ogni progetto, sullo sconsolato versante di un'utopia irrealizzabile? Secondo Eduardo Galeano , «l'utopia è come l'orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L'orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l'utopia? Serve per continuare a camminare». Ma davvero dobbiamo rassegnarci a camminare senza meta? Non è dunque possibile mirare a un orizzonte che sia un ben definito obiettivo, un traguardo su cui piantare la nostra bandiera? Non vi sono dunque mete necessarie come la legalità, la giustizia, la democrazia, la difesa dei diritti umani e della biosfera? È, deve essere possibile, di fronte alle urgenze che viviamo e a quelle che ci attendono, disegnare un orizzonte che non si dissolva nell'utopia ma si traduca nella politica.

Ogni cambiamento rilevante appare un'utopia se ci adagiamo in un presentismo fatalista, se «il presente è divenuto il solo orizzonte», se esso «genera a ogni istante il passato e il futuro di cui in quel momento ha bisogno» (Hartog). Esistono però orizzonti piú vasti: nello spazio, nel tempo, nei desideri. L'orizzonte spaziale segna l'ambiente in cui viviamo, le città e le campagne, le montagne e le spiagge, il mare e i fiumi, i boschi e i campi coltivati. In Italia esso si è formato nei secoli sotto il segno della bellezza, dell'armonia, del gusto di vivere, dell'agricoltura di qualità. Integrando natura e cultura in un equilibrio miracoloso, che fece dell'Italia il "giardino d'Europa". Questo orizzonte è ora sfigurato dalla crescita di informi periferie che cancellano il delicato trapasso città-campagna, dall'invasione di rifiuti tossici, dalla pessima architettura che ci assedia. Possiamo reagire a questa metamorfosi solo se allarghiamo lo sguardo, comparando le pinete costiere conservate con quelle coperte dal cemento, le valli e le città fedeli a se stesse con quelle sfregiate dalla speculazione, le acque incontaminate con quelle infette. Se comprendiamo che queste devastazioni fanno tutt'uno con il degrado civile che mina alla radice la società e i diritti. Con l'indignazione dei giusti, Andrea Zanzotto ha scritto che «se durante la guerra c'erano i campi di sterminio, adesso siamo arrivati allo sterminio dei campi: fatti che, apparentemente distanti fra loro, dipendono tuttavia dalla stessa mentalità». La violenza sull'ambiente è il rovescio e l'identico della violenza dell'uomo sull'uomo: esprime energia e vitalità, ma lo fa a spese delle generazioni future; si autogiustifica in nome della vita, ma si compie sotto il segno della morte. Ai corti orizzonti di un presente senza alternative dobbiamo contrapporre una prospettiva piú vasta, piú generosa, piú degna: quella del bene comune.

L'orizzonte temporale è oscurato da quella che Tommaso Padoa Schioppa ha chiamato La veduta corta. Essa non affligge solo la finanza, travolge anche i governi e le leggi. Sbaraglia i controlli pubblici che dovrebbero bilanciare il tornaconto privato, e impone come legge suprema l'immediato profitto di pochi, mandando in esilio la democrazia e il futuro. Alimentata nei santuari della finanza, la "veduta corta" contagia e appesta la politica, ma anche i media, anche l'opinione pubblica. Legittima la grande rapina a scapito della Terra, della società, dei diritti umani, della legalità. Entro questo orizzonte, l'avidità insaziabile di chi accumula enormi fortune divorando risorse naturali e umane viene spacciata come sorella del consumismo spicciolo che tutti pratichiamo. Un'etica individualistica di cortissimo respiro assimila i nuovi padroni alla generalità dei cittadini, drogati da un effimero benessere ma spogliati di democrazia e di diritti. Catturati da un'ideologia interclassista promotrice di valori e di voleri a senso unico, le vittime del mercato adottano il punto di vista dei suoi padroni, piegandosi senza saperlo a una masochistica «identificazione con l'aggressore» (Theodor W. Adorno).

Scompare dalla scena quella lungimiranza bifronte che sa da dove vengono la democrazia e i principi di equità, di legalità e di giustizia, e che per questo vuol trasmetterli alle generazioni future. Evapora nel nulla la storia ricca e generosa che l'Italia potrebbe vantare: perché i "diritti delle generazioni future" di cui oggi tanto si parla si chiamarono un tempo "pubblica utilità" o bonum commune, valori sempre indicati come la bussola del buon governo nelle norme dei Comuni e degli Stati italiani prima dell'unità. A questo disperato presentismo dobbiamo contrapporre ben piú alti traguardi: quelli del bene comune, per noi e per le generazioni future.

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Nel nuovo scenario, anche la natura progettuale della nostra Costituzione e il suo carattere incompiuto possono essere una straordinaria ragione di forza. Se la Carta fondamentale della Repubblica è «un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere», se i suoi principi sono, scrive ancora Calamandrei, «grandi parole preannunciatrici del futuro», essa è piú che mai adatta a fare da manifesto di una nuova etica del bene comune e di un'agenda politica che ne discenda. Perciò va battuto il «disfattismo costituzionale» (ancora Calamandrei), il «disprezzo di tutto quello che di nuovo e di rinnovatore ha la Costituzione, l'irrisione quotidiana dei diritti fondamentali che essa aveva voluto garantire ai cittadini della nuova Italia democratica». Tale disprezzo si esprime oggi in tentativi di stravolgere il dettato della Carta, mostrando con ciò stesso quanto essa sia attuale, quanto vitale sia ergersi a sua difesa, imporne - come è nostro diritto - la piena attuazione. Perché

quando si getta via un elemento della costituzione, dopo di questo diventa piú facile alterare un elemento un po' piú importante, finché gradualmente si riesce a distorcere l'intero ordinamento (Aristotele).


Le radici, la tessitura e lo spessore della nostra Costituzione sono un'eredità impegnativa. Ci spingono a usarla come un'arma potente nella battaglia per il bene comune. Rendono il "caso italiano" altamente rappresentativo nello scenario internazionale, e dunque accrescono la nostra responsabilità. Ci obbligano a pesare le forze in campo e i loro argomenti. Da un lato, la politica delle istituzioni (partiti, parlamento, governi), che identificando se stessa con la contabilità dei mercati perde di vista l'orizzonte dei diritti; dall'altro associazioni volontarie e comitati, coi loro anticorpi spontanei che corrispondono allo spirito della Costituzione. Fra una posizione e l'altra, il discrimine è precisamente la priorità del bene comune e dell'interesse collettivo, un valore che è il cuore stesso dei movimenti e che le organizzazioni e istituzioni politiche ufficiali hanno invece esiliato dalla propria agenda. Dobbiamo dunque chiederci: i movimenti devono lavorare contro le istituzioni, o vanno intesi al contrario come altrettanti laboratori per la democrazia rappresentativa? Chi può parlare in nome della Costituzione, i politici che la tradiscono o i cittadini che ne rivendicano i principi? Quel che è in gioco in questi interrogativi è la concezione stessa della democrazia, nella necessaria dinamica fra organi rappresentativi e cittadinanza.

In un Paese in cui partiti e governi d'ogni sorta e d'ogni colore hanno identificato il bene comune con la cieca ubbidienza ai mercati, i cittadini non possono accontentarsi del ruolo di elettori, subendo passivamente ogni decisione. Come ha scritto Nadia Urbinati, in una democrazia rappresentativa è cruciale «l'idea che il popolo sovrano conservi un potere negativo che gli consente di vigilare, giudicare, influenzare e censurare i propri legislatori». Il "potere negativo" dei cittadini non nega la rappresentanza politica e non si sostituisce a essa, ma ne è l'indispensabile contrappeso e complemento: «la sovranità informale che esiste al di fuori delle istituzioni statali allo stesso tempo fornisce quell' esprit che rende tali istituzioni legittime agli occhi degli individui». Questa adversary democracy ha una genealogia che risale almeno alla Declaration of Rights della Virginia (1776), secondo cui

se un governo si rivela inadeguato o contrario all'utilità generale, la maggioranza della comunità ha il diritto indubitabile, inalienabile e irrinunciabile di riformarne, modificarne o abolirne gli atti, rendendoli favorevoli al pubblico bene.

[...]

Nella nostra Costituzione il "potere negativo" dei cittadini c'è già. Suo fondamento è la sovranità popolare (art. 1), l'insistenza sulla collettività e sulla Nazione, il ruolo chiave dei diritti di cittadinanza, la centralità del lavoro e «l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3). L'etica dell'intervento civile è definita dal dovere di ogni cittadino di svolgere attività e funzioni «che concorrano al progresso materiale o spirituale della società» (art. 4) e «di essere fedele alla Repubblica e osservarne la Costituzione» (art. 54). Sue condizioni sono la libertà di riunione, di associazione, di pensiero e di parola; suoi strumenti le leggi di iniziativa popolare (art. 71), le petizioni alle Camere «per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità» (art. 50), i referendum (artt. 75, 123, 138); infine, «l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale» (art. 118).

[...]

«Azione popolare» non è un'espressione generica, né tanto meno "populista". Nasce, anzi, da un antico e nobile istituto giuridico, l' actio popularis del diritto romano. Essa era fondata sulla piena identità fra il populus nel suo insieme e i cittadini (cives): perciò il singolo cittadino poteva agire giuridicamente in nome del popolo, promuovendo un'azione popolare in difesa di interessi pubblici, e in particolare delle cose in usu publico, come le strade, i fiumi e le rive, le cloache. In questi casi «chi agisce in giudizio, difendendo l'interesse del popolo, difende anche il proprio» (Jhering), esercitando un «ruolo attivo, di potere e di responsabilità, svolto dal cittadino in quanto tale» (Di Porto). Secondo il principio base dell'azione popolare, insomma, anche un cittadino singolo (e a maggior ragione un gruppo di cittadini) può agire contro il governo in nome dello Stato: può rivendicare di rappresentare, anche individualmente, valori fondamentali e collettivi che uno o piú atti di governo hanno disconosciuto. Questa invenzione giuridica dell'antica Roma non è un reperto archeologico da riesumare, anzi è stata messa in grande onore in alcune recenti Costituzioni, come quella del Brasile (1988), dove l' ação popular, su esplicito modello romanistico, si applica al patrimonio pubblico e all'ambiente; quella della Bolivia (2009), di cui già abbiamo detto (cap. II); o ancora quella della Colombia (1991), dove l' accion popular riguarda «il patrimonio, lo spazio, la sicurezza e salubrità pubblica, la morale amministrativa, l'ambiente». Una giurista cinese ha perfino proposto di introdurre l'azione popolare nell'ordinamento della Cina, e proprio «in opposizione alla cementificazione selvaggia». In alcuni ordinamenti (Spagna, America latina, Filippine) è previsto un ricorso di legittimità costituzionale da parte dei cittadini (recurso de amparo, o "di rifugio").

[...]

Senza aspettare, se mai verrà, una normativa generale sull'azione collettiva, è necessario almeno sapere che la class action (tipica della tradizione di common law) è ben diversa dall' actio popularis di matrice romanistica. Mentre la class action autorizza ad agire in giudizio solo chi abbia un interesse individuale alla causa, nell'azione popolare i cittadini agiscono in nome del popolo, cioè degli interessi generali della comunità, identificata con lo Stato. Questa modalità è piú coerente con la nostra architettura costituzionale; ma in ogni caso è urgente appropriarsi da subito di ogni possibile via per dare ai cittadini e alle associazioni tutte le armi legali in nostro possesso, compresa la class action. Dobbiamo aver coscienza che possiamo già oggi agire come soggetto plurimo, facendo riferimento non solo alle norme specifiche ma alle categorie costituzionali, a cominciare dalla sovranità popolare, e dall'art. 24 Cost., secondo il quale «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi».

[...]

Viene in tal modo rimessa pienamente in onore la legittimazione ad agire delle comunità dei cittadini (azione popolare), e il loro spazio come soggetto plurimo si può egualmente estendere anche alla difesa di ogni altro diritto fondamentale, nello spirito della Costituzione e del "potere negativo" connaturato alla sovranità popolare. Le proposte di leggi di iniziativa popolare sul paesaggio e sulle acque in alcune regioni (Marche, Lazio) rientrano a pieno titolo in questo movimento di riappropriazione dei diritti che può, se lo vorremo, crescere impetuosamente.

L'azione popolare non va intesa come la soluzione di tutti i problemi, ma come una fase intermedia, necessaria perché i cittadini facciano sentire la propria voce, perché esercitino una forte influenza sulle organizzazioni politiche e le istituzioni di governo, spingendole a cambiare radicalmente la rotta. Per ricreare la cultura che muove le norme, ripristina la legalità, si fonda sulla sovranità, fa perno sull'interesse collettivo e sulla progettazione del futuro, l'idea di bene comune e quella di azione popolare sono due facce della stessa medaglia. Azione popolare è diritto e dovere di resistenza collettiva al degrado delle città e delle campagne, alla razzia del paesaggio, all'esilio della cultura e del lavoro, alla spoliazione dei diritti; è promuovere singole azioni di contrasto agli atti dei poteri pubblici che vadano contro il pubblico interesse, ma anche metterle in rete fra loro; è costruire una larga base d'informazione, di analisi, di consapevolezza. Vuol dire far esplodere le contraddizioni insanabili fra il dettato costituzionale e le leggi che lo ignorano e lo aggirano, tra le norme di garanzia e le deroghe e i condoni che le annientano. Vuol dire riconquistare, in prima persona, un pieno diritto di cittadinanza, in nome della sovranità popolare, della moralità e della legalità costituzionale. Vuol dire esercitare con responsabilità e nella sua massima estensione il potere negativo dei cittadini, e farlo sia in presenza di norme esplicite (come quelle citate sopra) sia quando esse appaiano carenti.

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