Copertina
Autore Joost Smiers
CoautoreMarieke van Schijndel
Titolo La fine del copyright
SottotitoloCome creare un mercato culturale aperto a tutti
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2009, Eretica , pag. 168, cop.fle., dim. 12x16,8x1,2 cm , Isbn 978-88-6222-108-5
OriginaleAdieu auteursrecht en vaarwel culturele conglomeraten [2009]
TraduttoreClaudia Di Palermo, Isabella Massardo
LettoreFlo Bertelli, 2010
Classe copyright-copyleft , diritto , economia , informatica: politica , informatica: reti
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Indice


Introduzione                                               3

Capitolo 1
Argomenti contro il diritto d'autore                      14

La proprietà intellettuale                                14
Originalità e divismo                                     18
È davvero un incentivo?                                   24
L'accordo "TRIPS"                                         28
La lotta alla pirateria contrapposta a priorità
    più importanti                                        31
Le industrie creative: il revival del copyright?          34
Una serie di motivazioni                                  37

Capitolo 2
Alternative insoddisfacenti                               41

Sconfinato e poco auspicabile                             41
Ritorno al passato                                        43
Proprietà collettiva                                      52
Riscossione collettiva e fiscalizzazione                  61
Nuove restrizioni oppure Creative Commons?                68

Capitolo 3
Un terreno di gioco dalle pari opportunità per la cultura 74

Dal diritto all'economia                                  74
Il diritto alla concorrenza                               79
Un gran numero di imprenditori culturali                  86
Nessuno spazio per i furbi                                89
Diversità culturali                                       95
Considerazioni strategiche                                97

Capitolo 4
L'inimmaginabile?                                        103

Brevi casi di studio                                     103
L'editoria                                               109
La musica                                                114
Il cinema                                                119
Arti figurative, fotografia e design                     128

Conclusione                                              136

Dubbi crescenti                                          136
Un paragone con altri diritti di proprietà intellettuale 137
Una miriade di artisti                                   145

Bibliografia                                             146



 

 

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Questo libro viene distribuito secondo i termini della licenza Creative Commons Attribuzione 3.0 Italia. Pertanto l'utente può riprodurre, distribuire, comunicare al pubblico, esporre in pubblico, rappresentare, eseguire, recitare e modificare quest'opera — purché ogni volta ne vengano esplicitamente indicati autori ed editore, e ogni volta che si usa o distribuisce ulteriormente l'opera va fatto secondo i termini di questa stessa licenza, che va comunicata con chiarezza.

Per maggiori dettagli e per il testo completo della licenza, si veda:

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INTRODUZIONE


Oggi il copyright garantisce agli autori il controllo esclusivo sull'uso di un numero sempre maggiore di espressioni artistiche. Spesso non sono gli autori i titolari di tali diritti, ma le imprese culturali cresciute a dismisura, che controllano contemporaneamente la produzione, la distribuzione e la promozione su ampia scala di film, musica, teatro, letteratura, musical, soap-opera, spettacoli, arti figurative e design. Per tale motivo, queste imprese sono in grado di esercitare un vasto controllo su ciò che vediamo, ascoltiamo o leggiamo, sul contesto in cui ciò avviene, e soprattutto su ciò che "non potremo" vedere, ascoltare o leggere.

Va da sé che la naturale diffusione dei contenuti digitali potrebbe portare alla riorganizzazione di questo scenario controllato in maniera rigida e finanziato in misura eccessiva. Ma non possiamo esserne così sicuri. Il volume degli investimenti nell'industria dello spettacolo è considerevole e le attività sono diffuse a livello mondiale. La cultura è un prodotto redditizio per eccellenza. Al momento non vi è motivo per ipotizzare che gli odierni giganti dell'industria culturale possano rinunciare facilmente al predominio sul mercato, sia per quanto riguarda il settore delle opere tradizionali sia per quello digitale.

Il nostro è quindi un tentativo di suonare un campanello d'allarme. Quando un numero limitato di multinazionali esercita un forte controllo sul settore collettivo della comunicazione culturale, è a rischio la democrazia stessa. La libertà di comunicare che spetta a ciascuno di noi e il diritto individuale di partecipare alla vita culturale della propria comunità (come sancito nella Dichiarazione universale dei Diritti Umani) può indebolirsi di fronte al diritto esclusivo di alcuni manager e investitori, che mirano soltanto al raggiungimento dei propri obiettivi ideologici ed economici.

Siamo convinti che non sia questa l'unica opzione prevedibile per il futuro. È possibile creare un level playing field, un terreno di gioco dalle pari opportunità, e nella nostra tesi il diritto d'autore rappresenta un ostacolo al raggiungimento di tale obiettivo. Nel contempo constatiamo gli effetti negativi dei best-seller, dei film di cassetta e dei grandi nomi promossi dai giganti della cultura che dominano il mercato senza lasciare spazio alle opere di numerosissimi altri artisti, costretti ai margini, la cui esistenza continuerà probabilmente a essere ignorata dal grande pubblico.


Nel primo capitolo del libro analizzeremo le molteplici obiezioni al diritto d'autore, da cui si deduce l'illogicità di puntare ancora granché su questo sistema. Ovviamente non siamo gli unici ad aver compreso come il copyright sia divenuto uno strumento problematico. Il secondo capitolo è infatti dedicato alle correnti che cercano di riportare il diritto d'autore sul giusto binario. Sebbene positivamente colpiti dagli argomenti e dall'impegno dei movimenti che si sforzano di proporre delle alternative, siamo dell'opinione che nel XXI secolo vi sia bisogno di un approccio più drastico e sostanziale. A questo è dedicato il terzo capitolo, dove proviamo a delineare il quadro di un terreno di gioco che offra pari opportunità a un gran numero di imprenditori culturali, artisti inclusi. In base alla nostra analisi, in questo campo di gioco non c'è più spazio per il diritto d'autore, né per le imprese culturali che dominano a qualsiasi livello i mercati culturali.

Quali le aspettative di un simile approccio?

— Senza la tutela dell'investimento offerta dal diritto d'autore, non sarà più produttivo investire smodatamente in film di cassetta, best-seller e grandi nomi, che pertanto non potranno più dominare i mercati.

— I rapporti di mercato non consentiranno più di investire cifre esorbitanti per la produzione, la distribuzione e il marketing. La legislazione in materia di concorrenza, unitamente alle norme sulla proprietà, è lo strumento ideale per portare a un livellamento dei mercati.

— Il nostro patrimonio, presente e passato, di espressioni culturali, il pubblico dominio di conoscenza e creatività artistica non verrà più privatizzato.

A questo punto il mercato sarà talmente aperto da consentire a numerosi artisti di comunicare con il pubblico, senza interferenze da parte dei "grandi" della cultura (che non saranno più così grandi) e di conseguenza tali artisti potranno vendere più facilmente le proprie opere. Allo stesso tempo il pubblico, non più saturato dal marketing, potrà operare scelte culturali con maggior libertà, in base ai propri gusti e curiosità. Nel quarto capitolo, sulla base di alcuni brevi casi di studio, cercheremo di illustrare i possibili effetti delle nostre proposte.


Siamo perfettamente consapevoli di quanto appaiano radicali le nostre proposte d'intervento sul mercato. A volte, il solo pensiero di metterle in pratica può generare nervosismo. L'obiettivo è quello di ripartire il flusso di denaro in circolazione nei principali segmenti delle nostre economie nazionali e mondiali — questo rappresentano in fondo i settori culturali odierni — in porzioni di proprietà assai più ridotte. Ciò comporta una ridistribuzione di capitale di portata gigantesca e finora quasi impensabile. La conseguenza delle nostre proposte è che le industrie culturali e mediatiche, con fatturati di svariati miliardi, andranno incontro al fallimento. Non molti prima di noi hanno proposto, con la nostra stessa coerenza, la costruzione di relazioni di mercato completamente nuove per il settore culturale, o per lo meno hanno provato a gettarne le basi teoriche. La nostra consolazione è che neppure Franklin D. Roosevelt avesse idea delle conseguenze quando lanciò il New Deal, senza per questo volerci lontanamente paragonare a lui. Eppure Roosevelt riuscì nel proprio intento, dimostrando come fosse possibile attuare una profonda riforma delle relazioni economiche.

Tutto ciò c'incoraggia a presentare questa analisi e queste proposte, al fine di favorire la discussione e stimolare ulteriori riflessioni in futuro. Siamo rimasti piacevolmente sorpresi dalla dichiarazione di Paul Krugman, vincitore del Premio Nobel per l'economia nel 2008, riportata da "The New York Times" il 6 giugno 2008: "Gradualmente tutto ciò che può essere digitalizzato verrà digitalizzato, rendendo la proprietà intellettuale sempre più facile da copiare e ancora più difficile da vendere a un prezzo superiore a quello nominale. E saremo costretti a trovare modelli commerciali ed economici che tengano conto di questa realtà". Definire e presentare nuovi "modelli commerciali ed economici" è esattamente l'obiettivo di questo libro.

Scorrendo l'indice, risulta chiaro che questa non vuole essere una pubblicazione sulla storia del diritto d'autore e sul suo attuale funzionamento. A tale proposito è possibile consultare vari testi eccellenti, a cui dobbiamo molto (ad esempio: Bently 2004, Dreier 2006, Goldstein 2001, Nimmer 1988 e 1994, Ricketson 2006 e Sherman 1994). Per un'introduzione ai principi di base del copyright e alle controversie che lo circondano, suggeriamo di fare riferimento alla relativa voce inglese su Wikipedia (http://en.wikipedia.org/wiki/Copyright) o anche a quella italiana (http://it.wikipedia.org/wiki/Copyright).

La nostra ricerca non è orientata verso aspetti marginali come il pessimismo o l'ottimismo culturale. Quel che ci guida è un concreto realismo: se il diritto d'autore e le attuali relazioni di mercato non sono giustificabili, ci sentiamo obbligati a chiederci cosa sia possibile fare per modificare la situazione. Neppure c'interessa la ripartizione fra produzioni artistiche ritenute superiori o inferiori, e tra cultura elitaria, di massa e popolare: un film è un film, un libro è un libro, un concerto è un concerto, e così via. La questione essenziale è: quali sono le condizioni per la produzione, la distribuzione, il marketing e il recepimento di tutte queste opere belle o brutte? E, in seconda battuta, in che modo tali condizioni influiscono su di noi, come individui e come collettività? È evidente che bisognerà lottare parecchio: chi ha il potere di decidere quale artista debba essere lanciato nel firmamento delle celebrità, per quali motivi e nell'interesse di chi? E tutti coloro che invece non riusciranno a sfondare, o rischiano addirittura di finire in carcere per il contenuto delle proprie opere? Ciò che vogliamo evidenziare con questo studio è come l'effettiva diversità e, di conseguenza, la pluralità delle forme di espressione artistica abbiano pieno diritto di esistere e come sia possibile creare le condizioni economiche perché ciò venga realizzato.


Usiamo qui indistintamente i termini "diritto d'autore" e "copyright"; che per noi sono equivalenti. Ovviamente sappiamo benissimo come i due concetti abbiano origini, ma anche una forza e un'intenzione, ben diverse tra loro. Il diritto di copiare è fondamentalmente diverso dal diritto concepito per tutelare gli interessi degli artisti (gli autori, come generalmente vengono indicati). Tuttavia nel tempo questi concetti, la legislazione internazionale che ne è alla base e la prassi che li riguarda, sono andati sempre più uniformandosi. Le sfumature e le differenze residue non sono rilevanti per le analisi presentate in questo libro, poiché lo scopo finale è l'abolizione del diritto d'autore, ovvero del copyright. Inoltre, nei capitoli successivi, con il termine "opera" ci riferiamo a qualsiasi tipo di brano musicale, film, prodotti d'arte figurativa e design, libri, teatro e danza.


Le trasformazioni neoliberali degli ultimi decenni, come descritte ad esempio da Naomi Klein nel volume Shock economy: l'ascesa del capitalismo dei disastri (2007), hanno inciso anche sulla comunicazione culturale. Siamo sempre meno autorizzati a strutturare e organizzare i mercati culturali in modo che la diversità delle forme espressive possa svolgere un ruolo significativo nella coscienza di un vasto numero di persone. Si tratta di un problema molto rilevante.

Le espressioni culturali sono elementi essenziali alla formazione della nostra identità personale e sociale, aspetti assai delicati della vita il cui controllo non dovrebbe essere lasciato nelle mani di un esiguo gruppo di individui che ne detengono i diritti. Tale controllo è esattamente ciò che oggi viene esercitato, tramite il possesso di milioni di diritti d'autore, sul contenuto dei nostri scambi culturali.

Su questo terreno delicato — l'ambito delle creazioni e delle rappresentazioni artistiche — operano migliaia e migliaia di artisti che ogni giorno propongono un gran numero di forme espressive assai diverse fra loro. È questo l'aspetto positivo che non dobbiamo dimenticare. Tuttavia, la triste realtà è che — essendo il mercato dominato dalle grandi imprese culturali e dai loro prodotti — la sotterranea diversità culturale esistente viene quasi bandita dallo spazio pubblico e dalla coscienza collettiva.

È necessario ripristinare un pubblico dominio in cui poter mettere in discussione le varie espressioni culturali. In questo senso occorre qualcosa di più di una critica approfondita all'attuale status quo culturale. Ciò che dunque proponiamo in questo saggio è una strategia del cambiamento. A nostro avviso è possibile forgiare i mercati in modo che la proprietà dei mezzi di produzione e della distribuzione venga a trovarsi nelle mani di un gran numero di individui. In questo modo, in base alla nostra analisi, nessuno potrà controllare in larga misura il contenuto e l'uso delle forme espressive attraverso il possesso di diritti di proprietà esclusivi e monopolistici. Con la creazione di mercati culturali fruibili per una miriade di espressioni artistiche, noi cittadini saremo di nuovo in grado di disporre della nostra vita culturale. I mercati della cultura devono essere integrati nel più vasto ambito delle nostre relazioni sociali, politiche e culturali.

In seguito alla crisi economica iniziata nel 2008, si è tornati a ipotizzare che i mercati possano e vadano regolati in modo da giovare non solo ai poteri finanziari, bensì tenendo in considerazione anche il peso di molti altri interessi. Particolarmente utile in tale contesto, fra gli strumenti legali già a nostra disposizione, è la politica a tutela della corretta concorrenza, la cui applicazione consente di eliminare la presenza di partiti dominanti sul mercato. Torneremo sull'argomento nel terzo capitolo.

Tuttavia il tema principale di questo libro è il diritto d'autore. Perché? Si tratta di una questione alquanto delicata, su cui grava il preconcetto che esso rappresenti l'espressione della nostra civiltà: ci prendiamo cura dei nostri artisti garantendone il rispetto delle opere. Si potrebbe dire parecchio sul perché il diritto d'autore non soddisfi tali aspettative, mentre minori spiegazioni necessita l'idea per cui il mercato potrebbe essere strutturato diversamente grazie all'applicazione del diritto in materia di concorrenza. Gli strumenti per farlo sono già a nostra disposizione, tuttavia realizzare la profonda ristrutturazione dei mercati culturali sarà un compito estremamente arduo. D'altro canto, però, il diritto d'autore si muove già su un terreno minato. Ci si chiederà il motivo di questo nostro studio, in controtendenza rispetto alla corrente del neoliberalismo. La prima ragione è di ordine culturale, sociale e politico. Il pubblico dominio della creatività e della conoscenza artistica dev'essere salvato e un gran numero di artisti, i loro produttori e committenti devono poter comunicare con un pubblico eterogeneo e, di conseguenza, vendere le proprie opere con una certa facilità.

Il secondo motivo per cui non abbiamo la sensazione che la nostra analisi e le nostre proposte siano lontane dalla realtà è rappresentato dalla storia stessa. La storia ci insegna che le strutture di potere e le configurazioni del mercato cambiano costantemente. Perché non potrebbe accadere lo stesso per l'argomento di questo studio? Il terzo motivo alla base della nostra analisi è il cauto ottimismo ispirato dai possibili effetti della crisi finanziaria ed economica esplosa nel 2008. È stato questo l'anno in cui il fallimento del neoliberalismo si è mostrato in tutta la sua crudezza. Se ciò ha avuto una funzione, è stata proprio quella di chiarire come i mercati (compresi quelli culturali) debbano essere regolati ex novo, tenendo conto di una serie ben più vasta di interessi sociali, ecologici, culturali, socio-economici e macro-economici.

L'ultimo motivo è semplicemente la necessità di agire, e a spingerci è il nostro dovere di studiosi. Il vecchio paradigma del diritto d'autore sta subendo un lento processo di erosione; la nostra sfida è pertanto la ricerca di un meccanismo che sostituisca il copyright e, di conseguenza, la condizione di predominio sui mercati culturali. Qual è il sistema più efficace per servire gli interessi di un vasto numero di artisti e di un pubblico dominio ricco di creatività e conoscenza? Di fronte a un compito di tale portata, è implicito l'invito ai colleghi di tutto il mondo a collaborare e riflettere su quale potrebbe rivelarsi la strada giusta da intraprendere nel XXI secolo. C'è ancora parecchio lavoro da fare, ad esempio il calcolo dei modelli che presentiamo nel quarto capitolo, e speriamo che future ricerche possano contare su mezzi più cospicui di quelli a nostra disposizione. In fin dei conti si tratta di strutturare in modo completamente diverso i vari segmenti del mercato culturale che caratterizza la nostra società, e che a livello mondiale rappresentano un giro d'affari miliardario.

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CAPITOLO 1

ARGOMENTI CONTRO IL DIRITTO D'AUTORE


LA PROPRIETÀ INTELLETTUALE

Nel 1982 Jack Valenti, l'allora presidente della Motion Picture Association of America, dichiarò che "ai titolari di una proprietà creativa vanno concessi gli stessi diritti e la stessa tutela riservati ai titolari di qualsiasi altra forma di proprietà" ( Lessig 2004: 117). Fino a quel momento l'opinione corrente era che la proprietà intellettuale fosse un diritto assai più limitato e non paragonabile ad altri. In questa sua dichiarazione Valenti formulò il criterio secondo cui il diritto d'autore avrebbe dovuto garantire a un individuo il possesso esclusivo (ad esempio, di un film o di una melodia) per sempre... meno un giorno.

Per l'eternità, meno un giorno? Stava forse scherzando? Forse, ma la sua era una dichiarazione provocatoria, almeno a quei tempi. Al giorno d'oggi invece quasi nessuno si meraviglia che il proprietario di brani musicali, immagini, film e testi scritti disponga di un potere enorme, praticamente illimitato, sulla relativa proprietà. In un quarto di secolo sono cambiate parecchie cose: è chiaro che ci siamo abituati alla privatizzazione di quella conoscenza e creatività che in realtà appartiene a tutti noi. Nel presente capitolo elenchiamo una serie di argomenti atti a illustrare perché quest'assuefazione non sia affatto positiva.

Alcuni di questi argomenti sono radicati nei principi basilari del diritto d'autore stesso. La cosa evidente è che si tratta di un diritto di possesso. Di per sé non vi è nulla di male nel diritto alla proprietà, a condizione che sia integrato e limitato nell'ambito degli interessi di natura sociale, socio-economica, macro-economica, ecologica e culturale. Tali interessi devono lasciare sulle relazioni fra individui, rispetto a un bene o un valore, un'impronta forte almeno quanto quella del guadagno personale. Da un punto di vista culturale ci si può chiedere se sia giusto e necessario proteggere le creazioni degli artisti con la proprietà individuale. Per definizione nasce così un diritto d'uso esclusivo e monopolistico dell'opera e, di conseguenza, viene privatizzata una parte essenziale della nostra comunicazione, fatto che va a scapito della democrazia.

È esagerato definire il diritto d'autore una forma di censura? In linea di massima, no. Innanzitutto bisogna tener presente che ogni opera artistica attinge in modo considerevole da quanto altri hanno realizzato in un passato più o meno recente. Si può attingere da un pubblico dominio quasi infinito ed è dunque strano concedere a volte per una sola aggiunta (sebbene degna di sconfinata ammirazione) un titolo di proprietà sull'intera l'opera. Il diritto che ne scaturisce ha conseguenze profonde: nessuno, infatti, ad eccezione del proprietario, è autorizzato a utilizzare o modificare come meglio crede l'opera in questione. Ciò significa che una parte tutt'altro che insignificante del materiale con cui noi, in quanto individui, possiamo comunicare rimane chiusa sotto chiave. In genere trarre ispirazione da un'opera esistente non è un problema; le difficoltà sorgono quando un elemento della nuova opera, anche se minimo, ricorda o potrebbe ricordare quella precedente.

Perché è una questione così importante? Le creazioni artistiche sono espressione di molte emozioni diverse, come il piacere e la tristezza. Viviamo circondati da musica, film, immagini di ogni tipo, rappresentazioni teatrali. Ciò che uno di noi trova stimolante può non piacere ad altri. Per questo nella nostra società l'ambito artistico-culturale non costituisce un territorio neutro; spesso è oggetto di scontro e divergenze d'opinione sull'idea di bello o brutto, su ciò che può e dev'essere espresso in modo più o meno pregnante, e su cosa fa scattare il buonumore o ci sorprende. I quesiti secondari sono: chi ha facoltà di decidere a quali prodotti artistici dobbiamo essere esposti in abbondanza, o solo a piccole dosi? In quale contesto? Secondo quali modalità di finanziamento? Con quali interessi in gioco? Domande importantissime, le cui risposte sono fondamentali per determinare il quadro artistico all'interno del quale si sviluppa la nostra identità. Ciò che vediamo, sentiamo e leggiamo (giacché si tratta di forme d'espressione forti) lascia tracce profonde nella nostra coscienza.

Proprio su questo terreno così delicato per la nostra esistenza individuale e collettiva viene applicato il diritto d'autore o, volendolo chiamare diversamente, il copyright. Come si è detto, si tratta di un diritto di proprietà. Il proprietario di un'espressione artistica è l'unico a poter decidere la funzione dell'opera, che non può dunque essere modificata da nessun altro. All'interno dell'opera stessa non c'è margine di smentita o di contraddizione. Né essa può essere situata in contesti che riteniamo più adatti. Il dialogo è escluso, in pratica ci viene tappata la bocca. La comunicazione diventa a senso unico ed è dominata da una sola parte, ossia il proprietario, che è l'unico autorizzato – tramite la rifinitura concreta del prodotto artistico – ad assegnargli un certo significato. Gli altri artisti non possono far nulla, e neppure noi in quanto cittadini. L'unica cosa che ci è concessa, per modo di dire ma anche di fatto, è la fruizione dell'opera in questione, e formarci un'opinione al riguardo. Troppo poco per una società democratica.

Per tale ragione Rosemary Coombe ci ricorda che "conferire un significato, contestarlo e modificarlo è una dote umana essenziale". Da qui la Coombe arriva a una considerazione fondamentale: "Se ciò corrisponde al vero, vuol dire che applicando in modo eccessivo e ampliando costantemente la tutela della proprietà intellettuale, finiamo per disumanizzarci. Il dialogo prevede una reciprocità di comunicazione e la possibilità di rispondere a un segno con altri segni scaturiti dal primo. Quale significato può ancora rivestire il dialogo se veniamo sommersi da messaggi a cui non possiamo rispondere? E da segni e immagini di cui non possiamo criticare le interpretazioni? E da connotazioni che non possiamo contestare?" (1998: 84,5).

Non crediamo che Rosemary Coombe, in base a quanto sappiamo del suo lavoro, possa spingersi al punto di definire il diritto di proprietà sul materiale artistico una forma di censura. Evidentemente diamo più peso di lei al fatto che moltissime forme di espressione siano ormai privatizzate: un monopolio che esclude gli altri.

Il paragone con la censura non ci allontana troppo dalla verità. All'origine del copyright vi sono i privilegi che la regina Maria I d'Inghilterra concesse nel 1557 alla corporazione degli stampatori-editori, gli Stationers. I membri di questa corporazione avevano un forte interesse a conquistare una posizione di monopolio sulla stampa dei libri, escludendo i potenziali concorrenti nella provincia e oltre confine, in Scozia. Ciò è paragonabile al monopolio della proprietà di cui abbiamo appena parlato. Anche la regina Maria aveva il proprio interesse da salvaguardare, ovvero impedire la diffusione di idee eretiche o che mettessero in discussione la legittimità della sua corona. L'accordo fra la regina e gli Stationers portò al connubio di questi due interessi (Drahos 2002: 30).

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LA LOTTA ALLA PIRATERIA CONTRAPPOSTA A PRIORITÀ PIÙ IMPORTANTI

I tentativi di imporre il copyright in tutto il mondo vengono ostacolati non solo dalla poca volontà o dall'impotenza dei governi dei Paesi in cui fino a poco tempo fa questo strumento era sconosciuto o quasi (Deere 2009), forse un ostacolo ancora più insormontabile è rappresentato da quella che viene definita pirateria, esercitata sia su vasta scala – a livello industriale – sia con scopi completamente diversi da chi a casa propria, in modo libero e tranquillo, scambia ad esempio musica con altre persone dalla parte opposta del pianeta. Come dobbiamo giudicare tale fenomeno?

Una delle conseguenze della globalizzazione degli ultimi decenni è quella di aver portato una parte del consistente commercio ai margini della legalità, com'è il caso della pirateria musicale o cinematografica. È lo stesso ambito che comprende il commercio di donne, bambini e organi umani, il traffico illegale di armi, il denaro sporco, la corruzione e i paradisi fiscali, la forza lavoro illegale, gli stupefacenti e quindi anche la pirateria della proprietà intellettuale. La filosofia delle riforme neoliberali degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso era rivolta alla creazione di economie aperte, in cui vi fossero meno ostacoli possibili al commercio e ai trasporti. Il peso della regolamentazione e del controllo da parte dello Stato doveva essere limitato al massimo.

Non ci si deve pertanto meravigliare se su questa scia siano fioriti mercati neri e commerci illegali. Un esempio: secondo una stima del Fondo Monetario Internazionale, nel mondo circolano dai 700 ai 1750 miliardi di euro di dubbia provenienza, fra banche, paradisi fiscali e mercati finanziari ("Le Monde", 23 maggio 2006). Perciò, chi nel 2008 è rimasto sorpreso dall'esplosione della crisi economica mondiale, fino ad allora era stato molto disattento. Una parte del denaro non controllato che si muove con grande rapidità nel mondo è destinato a finanziare il terrorismo (Napoleoni 2004). Il quesito pressante è se questa massiccia evasione legale, pirateria musicale e cinematografica incluse, possa essere bloccata. Moíses Naím afferma realisticamente che mancano i mezzi a nostra disposizione; dobbiamo infatti stabilire delle priorità per quanto riguarda l'impiego degli apparati investigativi, giudiziari e penali. Naím formula due principi guida: innanzitutto, occorre ridurre fortemente il valore economico del commercio illegale. "Eliminando il valore economico di un'attività, diminuirà sensibilmente anche la voglia di commerciare e investire in quel determinato settore". Il secondo principio è la riduzione del danno sociale (2005: 252).

Nel definire un criterio di priorità, è chiaro che bisogna combattere innanzitutto il traffico illegale di donne, bambini e organi umani; attività che minano qualsiasi società civile. Se lo Stato non ha più il controllo sull'uso della violenza, né il controllo dei flussi di denaro, a un certo punto non si può più parlare di società. Per quanto riguarda le sostanze stupefacenti, Moíses Naím si esprime con estrema chiarezza: vincere la guerra contro la droga è impossibile, e qual è il problema se non un uso eccessivo di sostanze stimolanti? Che lo Stato si pieghi "alla realtà economica ed entri direttamente nel settore. È una mossa audace, di certo sconsigliabile a chi intenda mantenere relazioni cordiali con i potenti di questo mondo. Ma se si è convinti di non aver nulla da perdere, perché no?" (op.cit.: 84).

Anche a proposito della pirateria – a livello industriale e individuale — Naím non è ottimista sulla possibilità di sconfiggerla. Non a causa della mancanza di motivazione da parte dei titolari delle proprietà intellettuali, ma perché è innegabile che siano assai più motivati i commercianti illegali, i falsari e quanti scambiano materiale artistico su base individuale. È quindi fuor di dubbio che la lotta alla pirateria come strumento a tutela della proprietà intellettuale vada abbandonata.

La sua conclusione è che la lotta al commercio di donne, bambini e organi umani, al traffico illegale di armi e al denaro sporco debba rivestire maggiore priorità (considerato anche il grado di difficoltà) rispetto all'insensata prosecuzione della crociata contro il traffico di sostanze stupefacenti e delle copie illegali. Di conseguenza, la decriminalizzazione e la legalizzazione delle sostanze stupefacenti, nonché il libero scambio di materiale artistico, sono opzioni da prendere in esame, dal momento che ciò ridurrebbe in modo considerevole il valore per i trafficanti e il danno alla società (op.cit.: 252). Forse è superfluo aggiungere che, per le conoscenze e i prodotti artistici, i diritti di proprietà intellettuale creano più danni che incentivi nel generare reddito per molti artisti e nel garantire il mantenimento del pubblico dominio di conoscenza e creatività.

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Sotto il profilo ideologico, Creative Commons propone un'impostazione completamente diversa rispetto agli scopi delle industrie culturali. Qual è l'obiettivo che si pone? L'idea trainante è che l'opera di A dev'essere disponibile all'uso da parte di B, senza ostacoli derivanti dal diritto d'autore. A sua volta, B non può appropriarsi dell'opera di A. Perché no? Creative Commons prevede che A conceda una licenza pubblica per l'utilizzo della propria opera: fanne l'uso che vuoi, a patto che l'opera non venga ricondotta nel regime della proprietà privata. Il prodotto artistico è quindi oggetto di una forma di diritto d'autore "vuoto", che rappresenta l'opzione di licenza più estrema a disposizione di un autore all'interno di Creative Commons. In genere, però, la scelta dell'autore cade sull'opzione "alcuni diritti riservati", che a ben vedere è una forma derivata dal diritto contrattuale.

L'aspetto interessante di procedure come quelle di Creative Commons è che consentono, entro certi limiti, di uscire dalla giungla del copyright. Il sistema è senza dubbio vantaggioso anche per musei e archivi che vogliano condividere con il pubblico le grandi raccolte di patrimonio culturale, evitando però a ogni costo che altri se ne approprino di nascosto rivendicandone il copyright. Finché esisterà il sistema del diritto d'autore, Creative Commons rappresenterà una soluzione utile capace di fungere da esempio. Ma rimangono diverse cose che non funzionano.

Per prima cosa, Creative Commons non offre un quadro chiaro di come una grande varietà di artisti in tutto il mondo, oltre ai vari produttori e committenti, possa ottenere un reddito ragionevole. Questa è anche una delle obiezioni che muoviamo al libro di Yochai Benkler pubblicato nel 2006, La ricchezza della rete. La produzione sociale trasforma il mercato e aumenta le libertà. Nel suo saggio, Benkler elimina il mercato sostituendolo con reti, produzioni fuori mercato, progetti collaborativi su vasta scala e produzioni peer-to-peer di informazioni, conoscenza e cultura (2006: 1-5). Geert Lovink è dell'opinione che Yochai Benkler dovrebbe piuttosto ribattezzare il libro La povertà della rete, "perché, almeno finora, su Internet non gira una grande ricchezza (misurata in valuta) da cui possano trarre profitto i singoli membri" (2008: 240). Anche Lawrence Lessig, nel suo libro del 2008 dal titolo Remix (che per altro è, appunto, un remix di sue pubblicazioni precedenti), non si preoccupa granché del reddito degli artisti. In effetti dobbiamo constatare che né Lessig, né Yochai Benkler, né Creative Commons sviluppano un modello economico per definire il modo in cui gli artisti possano assicurarsi degli introiti. Eppure è un quesito a cui va trovata urgentemente risposta.

Una seconda obiezione agli approcci del tipo di Creative Commons è che in essenza non mettono in discussione il sistema del diritto d'autore. Comunque la si voglia vedere, le licenze Creative Commons garantiscono all'autore una proprietà e una forma di controllo sull'opera. Per questo la scelta del nome Creative Commons è sbagliata, perché il sistema non crea un vero e proprio bene comune, bensì una proprietà che poi, per dirla in modo irriverente, viene presa alla leggera.

Una terza obiezione piuttosto sostanziale a Creative Commons è che si tratta di una specie di "coalizione di volenterosi". Le multinazionali della cultura, che esercitano il diritto di proprietà su grandi fette del nostro patrimonio culturale passato e presente, non ne entreranno a far parte. Ciò svaluta e limita l'interessante idea di Creative Commons.

In definitiva, bisogna constatare che Creative Commons non offre una risposta adeguata alle obiezioni contro il diritto d'autore che abbiamo illustrato nel capitolo precedente. In particolare la proprietà del materiale artistico rappresenta per Creative Commons e per il suo principale portavoce, Lawrence Lessig, una mucca sacra di cui non ci si può disfare.

Quali conclusioni possiamo trarre da quanto illustrato in questo capitolo? I tentativi di adattare il diritto d'autore alle esigenze del XXI secolo non sembrano fornire una risposta adeguata ai problemi fondamentali e pratici da noi formulati nel primo capitolo. Forse ciò è un peccato, ma non la pensiamo così. Esiste infatti un mezzo migliore per garantire un reddito ragionevole a numerosissimi artisti e ai loro intermediari, impedendo al contempo la privatizzazione del pubblico dominio di creatività e conoscenze artistiche. Tale mezzo è rappresentato dal mercato, ma a una sola condizione: che questo non venga in alcun modo dominato da potentati di qualsiasi tipo. Non c'è posto né per il diritto d'autore, né per imprenditori culturali che vogliano dominare il mercato.

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Capitolo 3

UN TERRENO DI GIOCO DALLE PARI OPPORTUNITA PER LA CULTURA


DAL DIRITTO ALL'ECONOMIA

Giunti a questo punto della nostra tesi, spostiamo l'attenzione dall'ambito giuridico a quello economico. Ci lasciamo infatti alle spalle il diritto d'autore e proviamo a scoprire se sia possibile creare un mercato in cui venga a mancare questa forma di tutela.

La prima domanda che sorge spontanea è cosa si voglia otte- nere in un simile mercato culturale. Da quanto detto nei capitoli precedenti, ecco le risposte più immediate:

– Un maggior numero di artisti deve poter ricavare dal proprio lavoro un reddito adeguato.

– I mezzi di produzione, distribuzione e promozione devono essere nelle mani di una gran quantità di individui. Il potere gestionale dev'essere comunque assai più frazionato.

– Bisogna creare un pubblico dominio di conoscenza e creatività artistica che sia vasto e liberamente disponibile.

– Il pubblico non va bombardato dal marketing con un numero ristretto di artisti di grido, ma dev'essere libero di venire a contatto con una grande varietà di espressioni culturali e avere così la possibilità di fare le proprie scelte.

Come pensiamo di realizzare tutto ciò? Il nostro punto di partenza, e forse la cosa potrà meravigliare, è la figura dell'imprenditore culturale, che può essere l'artista stesso o un suo rappresentante, il produttore, l'editore o il committente. La caratteristica principale di un imprenditore è quella di correre dei rischi, nel nostro caso in attività inerenti all'ampio ambito della cultura, che presenta possibilità e problemi specifici. Esistono parecchie speculazioni sull'imprenditorialità, sui rischi e sull'atteggiamento che meglio qualificano un imprenditore: questi deve poter pensare e agire in modo tempestivo, anticipando i problemi; in altre parole, dev'essere sempre in grado di battere la concorrenza, di prevedere problemi e opportunità imminenti, e tenere sott'occhio quanto accade a breve e lungo raggio. La crisi economica e finanziaria iniziata nel 2008 sta dimostrando che diversi soggetti definiti "imprenditori" non possiedono quell'atteggiamento proattivo che consente loro di guardare sia assai lontano sia nelle immediate vicinanze.

Quando si parla di imprenditorialità, non ci si sofferma quasi mai a ponderare quali debbano essere le condizioni in cui un gran numero di persone possano assumersi dei rischi. Quale forma deve avere un mercato del genere, come vanno costituiti i rapporti di potere e quale il tipo di normativa che possa limitare oppure offrire opportunità agli imprenditori? È di simili tematiche che si occupa questo capitolo.

Ci siamo dati un compito difficile: la creazione di un mercato che soddisfi un particolare requisito, cioè l'assenza di forze dominanti in grado di regolare tale mercato a proprio piacimento. A nostro avviso è questa la condizione fondamentale per realizzare le finalità appena formulate, e che ricordiamo ancora una volta: una proprietà non concentrata, bensì assai diversificata; pari opportunità a un gran numero di artisti; per il pubblico, la libertà di scegliere tra un'offerta molto ampia, e il mantenimento di un vasto pubblico dominio di conoscenza e creatività artistica che non rischi di essere privatizzato.

Nell'attuale mercato della cultura riscontriamo due forme di predominio che riteniamo poco desiderabili. Innanzitutto c'è il diritto d'autore, che abbiamo già illustrato in dettaglio. Questo diritto consente al proprietario di controllare l'utilizzo di un'opera, con tutte le conseguenze del caso. Ciò di cui finora si è parlato meno è l'altra forma di controllo sul mercato: un numero ristretto di imprese di livello mondiale che esercitano un forte controllo su produzione, distribuzione, promozione e creazione delle condizioni per la fruizione di film, musica, libri, design, arte figurativa, spettacoli e musical. La situazione può variare leggermente a seconda del settore artistico, d'altro canto abbiamo numerose forme d'integrazione verticale e orizzontale che raggiungono finanche l'ambito digitale.

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IL DIRITTO ALLA CONCORRENZA

Per arrivare a un mercato dalla struttura più normale, un campo di gioco che offra a tutti pari opportunità, non vediamo altra possibilità che intraprendere contemporaneamente due azioni: abolire il diritto d'autore e fare in modo che non esistano più forze di mercato dominanti nell'ambito della produzione, della distribuzione e del marketing. Quali vantaggi presenta una simile soluzione?

Con l'abolizione del copyright, per gli imprenditori non sarà più così allettante investire somme ingenti in film di cassetta, libri best-seller e grandi nomi. Verrebbe infatti a mancare qualsiasi tutela che renda esclusive tali opere. In teoria, l'indomani queste potrebbero essere modificate o riutilizzate da chiunque. Più avanti analizzeremo se ciò sarà effettivamente quanto sia possibile prevedere. Quindi, perché investire cifre esorbitanti? Ovviamente non è vietato. Chi vuole potrà continuare a farlo, ma la tutela degli investimenti offerta dal copyright – un privilegio – non sarà più disponibile. Ciò significa ad esempio che non verranno più prodotti film spettacolari? Probabilmente no, o magari solo come film d'animazione. È una perdita? Forse, o forse no. Non è la prima volta nella storia che, in seguito al cambiamento delle condizioni produttive, alcuni generi artistici finiscano per sparire dal firmamento e ne arrivino altri che diventano smisuratamente popolari. Non è impensabile ritenere che il pubblico possa abituarvisi rapidamente. Non esistono altresì motivi validi per tutelare investimenti su produzioni colossali, supportate da attività di marketing selvaggio che di fatto relegano ai margini del mercato la diversità culturale realmente esistente.

La seconda iniziativa che ci proponiamo di intraprendere è la normalizzazione delle relazioni interne al mercato. Manovra forse più drastica della stessa abolizione del diritto d'autore, che negli ultimi anni si è fatta più proponibile. Come già detto, in un mercato non devono esistere delle forze che abbiano potere decisionale, ad esempio, per quanto riguarda i prezzi, la qualità, l'assortimento, le condizioni lavorative, l'accesso al mercato da parte di terzi, e così via. Né dovrebbero esserci delle parti che, senza tener conto di molti altri interessi sociali, possano muoversi a proprio piacimento. Insomma, i mercati devono poter offrire spazio a una varietà di soggetti e dev'essere la società a definire le condizioni che ne regolano il funzionamento.

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È incomprensibile che a produttori di armi come General Electrics negli Usa e Lagardère in Francia sia stato permesso di impadronirsi di grosse fette del settore culturale e mediatico. Gli interessi dei commercianti di armi sono fin troppo chiari, puntando a creare un'atmosfera favorevole alle loro attività nel mondo dei media. È davvero una tentazione troppo forte per questi fabbricanti di armi (ma lo stesso vale per altre imprese) avere il controllo di testate culturali e d'informazione capaci di determinare contenuti e contesti, e dunque l'opinione della gente. Per esempio, non fa onore all'Unione Europea che la normativa sulla proprietà dei media sia così palesemente inadeguata da consentire a Silvio Berlusconi di detenere l'oligopolio nei settori culturali e mediatici e al contempo di essere stato eletto più volte a capo del governo italiano.

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NESSUNO SPAZIO PER I FURBI

Siamo arrivati al punto più interessante della nostra ricerca. È concepible che, in base alle condizioni qui illustrate, possa crearsi un mercato realmente funzionante, in cui i disonesti non possano colpire rapidamente per poi svignarsela? In altre parole: è plausibile che parecchi artisti, i loro rappresentanti, intermediari, committenti o produttori possano guadagnare un reddito ragionevole? I rischi di queste attività imprenditoriali sono qualcosa di accettabile? E tutte queste persone hanno motivo di aspettarsi che la propria opera venga trattata con il dovuto rispetto?

Iniziamo dalla domanda se sia probabile o meno che l'opera venga utilizzata da altri senza pagare. C'è motivo di supporre che, subito dopo la presentazione di un'opera, possa farsi avanti un altro imprenditore culturale che inizierà a sfruttarla? In teoria, se non esistesse il copyright, tutto ciò sarebbe effettivamente possibile. Eppure, per vari motivi, non accadrà. Innanzitutto c'è il cosiddetto vantaggio del first mover: l'editore o produttore originario sarà il primo ad arrivare sul mercato. È ovvio che, con la digitalizzazione, la durata di tale vantaggio potrebbe ridursi a una manciata di minuti (Towse 2003: 19). In sé non è un grosso problema. Ciò che conta sempre più nei mercati culturali è che gli artisti, e i vari imprenditori, aggiungano all'opera un valore specifico con cui nessun altro possa competere. Costruirsi una reputazione, se proprio non è metà dell'opera, ne costituisce comunque un fattore significativo. Dobbiamo anche considerare come nel mercato non esistano più soggetti dominanti. Non vi è più un'altra sola impresa che possa pensare di "rubare" facilmente un'opera di recente pubblicazione e di successo, ad esempio perché controlla i canali di distribuzione e promozione: un'azienda del genere non esiste più.

Tuttavia è logico che non si possa parlare di furto, qualora non esistesse più il diritto d'autore. Usiamo allora il termine free rider per riferirci a chi beneficia gratuitamente di un bene pubblico. In effetti vi sono venti, trenta, quaranta e più soggetti differenti che potrebbero avere la stessa idea. Tenendo presente questa realtà, diventa meno probabile – addirittura alquanto improbabile – che un'altra impresa sprechi denaro ed energie per proporre una seconda volta sul mercato un'opera già presentata. Bisogna dunque temere che una persona diversa dal promotore originale, che se ne è assunto il rischio, possa appropriarsi allegramente di un'opera che in realtà appartiene al pubblico dominio? Non si arriverà a tanto. Se un gran numero di soggetti è disposto a correre un rischio da free rider, gli investimenti andranno in fumo senza speranza. Con un'alta probabilità che rasenta la certezza, sarà dunque il primo creatore l'unico a sfruttare continuativamente l'opera.

È forse superfluo specificare il perché le due iniziative da noi proposte vadano portate avanti parallelamente. L'abolizione del copyright non dev'essere un'attività isolata, ma va abbinata all'introduzione del diritto della concorrenza e alla regolamentazione del mercato, in favore della diversità culturale della proprietà e dei contenuti. Solo così si otterrà una struttura di mercato capace di scoraggiare comportamenti da free rider.

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È chiaro però che le nostre proposte prendono di mira la WTO e l'accordo TRIPS. Abolendo il diritto d'autore s'intaccano le fondamenta del TRIPS. Nel capitolo conclusivo accenneremo alla necessità di discutere anche l'abolizione di altri diritti di proprietà intellettuale, come i brevetti. Ciò segnerebbe la fine del ruolo del TRIPS, così come quello della WIPO (World Intellectual Property Organization). Si tratta di eventualità che sembrano provenire da un altro pianeta, ma la realtà è che in diversi Paesi non occidentali il TRIPS viene considerato un istituto da rivedere completamente, specie per quanto riguarda i brevetti (Deere 2009: 119). Se la struttura viene messa in discussione da diverse parti, alla fine quanto potrà resistere?

Lo vediamo già nel caso della WTO, fondata sulla chiara posizione politica per cui i mercati vadano costantemente liberalizzati, cioè aperti sempre di più. È del tutto assente il concetto di "tutelare" ciò che è fragile, qualcosa di diverso e importante che va creato e alimentato all'interno della società. In questo senso, ad esempio, uno strumento come il National Treatment è una spina nel fianco. Qui il mondo viene visto come un grande mercato in cui tutti possono commerciare a proprio piacimento, a condizioni eque. Ciò si scontra con la realtà per cui innanzitutto una tale uguaglianza non esiste e, in secondo luogo, è preferibile che i Paesi abbiano la possibilità specifica di incentivare il proprio sviluppo. In questo contesto, può trovar spazio l'applicazione del diritto della concorrenza, modellato in base alle singole modalità e necessità, nel panorama culturale e mediatico di ciascun Paese.

L'aspetto sorprendente della crisi economica e finanziaria del 2008 è che per la prima volta da decenni si può nuovamente parlare di regolamentare il mercato in modo da non servire soltanto gli interessi di azionisti e investitori. Il fatto che questi ultimi avrebbero saputo come agire in simili frangenti, contribuendo spontaneamente a un qualche interesse comune, è una filosofia che è stata pagata a caro prezzo. Dobbiamo sbarazzarci del pensiero neoliberista secondo cui i mercati si regolamentano da soli; è evidente come ciò non corrisponda alla verità.

Ogni mercato, in qualsiasi parte del mondo, è stato regolato in un modo o nell'altro, favorendo alcuni interessi a svantaggio di altri. Arrivando a una tale consapevolezza, ci libereremo di una pesante zavorra. Allora potremo iniziare a riflettere in maniera costruttiva su come strutturare e organizzare i mercati, anche quello della cultura, così da affermare al loro interno un più vasto spettro di interessi. Abbiamo davanti un futuro emozionante, di certo non privo di rischi, ma ricco di opportunità.

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