Autore Joseph E. Stiglitz
Titolo L'euro
SottotitoloCome una moneta comune minaccia il futuro dell'Europa
EdizioneEinaudi, Torino, 2017, Passaggi , pag. 456, ill., cop.fle., dim. 13,5x20,8x3 cm , Isbn 978-88-06-23013-5
OriginaleThe Euro. How a Common Currency Threatens the Future of Europe [2016]
TraduttoreDaria Cavallina
LettoreFlo Bertelli, 2017
Classe economia , politica , economia finanziaria , economia politica , storia: Europa , globalizzazione












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


VII Prefazione
XIX Ringraziamenti


    L'euro


    Parte prima         L'Europa in crisi

  5 I.      La crisi dell'euro
 36 II.     L'euro: speranze e realtà
 65 III.    I risultati deludenti dell'Europa


    Parte seconda       Difetti di partenza

 87 IV.     Le sole condizioni in cui una moneta unica può funzionare
128 V.      L'euro: un sistema divergente
149 VI.     Politica monetaria e Banca centrale europea


    Parte terza         Politiche sbagliate

181 VII.    Combattere la crisi: in che modo le politiche
            della Troika hanno aggravato i difetti strutturali
            dell'eurozona portando alla depressione
220 VIII.   Le riforme strutturali che hanno aggravato i problemi


    Parte quarta        Esiste una soluzione?

245 IX.     Creare un'eurozona che funziona
278 X.      Un divorzio consensuale è possibile?
302 XI.     Verso un euro flessibile
312 XII.    La strada da seguire


    Postfazione
333 La Brexit e le sue conseguenze

367 Note
431 Indice analitico



 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina VII

Prefazione


Il mondo è costantemente bombardato dalle notizie sconfortanti che provengono dall'Europa. La Grecia è in piena depressione, con una disoccupazione giovanile che arriva al 50 per cento. In Francia avanza l'estrema destra. In Catalogna, la maggioranza degli eletti al parlamento regionale è favorevole all'indipendenza dalla Spagna. Al momento di andare in stampa, in molte parti d'Europa si patiscono le conseguenze di dieci anni persi, con un Pil pro capite piú basso rispetto al periodo che ha preceduto la crisi finanziaria globale.

Anche ciò che l'Europa festeggia come un successo rappresenta in realtà un fallimento: il tasso di disoccupazione in Spagna è sceso dal 26 per cento del 2013 al 20 per cento di inizio 2016. Tuttavia, quasi un giovane su due è tuttora senza lavoro e l'indice di disoccupazione sarebbe ancora piú alto se tanti giovani spagnoli di talento non avessero lasciato il paese per andare a cercare un'occupazione altrove.

Che cosa è accaduto? Grazie ai progressi delle scienze economiche, non dovremmo forse comprendere meglio come gestire l'economia? Come osservò l'economista premio Nobel Robert Lucas in apertura del suo discorso all'American Economic Association nel 2003, «il problema centrale di come prevenire le depressioni è stato risolto». E con tutti i progressi dei mercati, non dovrebbe essere ancora piú facile gestire l'economia? Il segnale di un'economia sana è la rapidità della crescita, i cui benefici siano ampiamente condivisi, in presenza di un basso indice di disoccupazione. In Europa è accaduto il contrario.

Questo apparente enigma ha una spiegazione semplice: la decisione fatale del 1992 di adottare una moneta unica senza prevedere le istituzioni necessarie per farla funzionare. Non è detto che degli accordi valutari ben congegnati garantiscano la prosperità, ma se questi sono sbagliati possono portare a recessioni e depressioni. E tra gli accordi valutari da piú lungo tempo associati alle recessioni e alle depressioni si trovano quelli che agganciano la valuta di un determinato paese a un'altra valuta oppure a un bene materiale.

La depressione americana di fine Ottocento fu legata al sistema aureo detto gold standard, che ancorava il valore della valuta all'oro e quindi, implicitamente, alle altre valute: in mancanza di grandi scoperte di nuovi giacimenti, la scarsità del metallo stava portando a una caduta dei prezzi delle merci espressi in oro, e cioè a quella che oggi chiamiamo deflazione. In pratica, il denaro acquistava maggior valore, e questo impoveriva gli agricoltori americani che incontravano sempre maggiori difficoltà a pagare i loro debiti. Per dirla con le parole del candidato democratico William Jennings Bryan, la questione al centro della campagna presidenziale del 1896 era se l'America avrebbe «crocifisso l'umanità su una croce d'oro».

Al gold standard viene quindi imputata la colpa di avere aggravato e prolungato la Grande depressione. I paesi che per primi abbandonarono il sistema aureo si ripresero piú rapidamente. Nonostante questo precedente, l'Europa ha deciso di legarsi con una moneta unica, andando a creare al proprio interno quella stessa rigidità che il gold standard aveva imposto al mondo. Il sistema aureo è fallito e, a parte pochissimi fanatici dell'oro, i cosiddetti gold bugs, nessuno ne auspica il ritorno.

Non è necessario crocifiggere l'Europa sulla croce dell'euro: la moneta unica può funzionare. Le riforme essenziali che l'Ue deve introdurre riguardano la struttura dell'unione monetaria in quanto tale, non le economie dei singoli paesi. Resta da vedere se vi siano sufficienti coesione politica e solidarietà per poter adottare queste riforme, in assenza delle quali un divorzio consensuale sarebbe di gran lunga da preferire al pasticcio attuale; indicherò una via per gestire al meglio la separazione.

Nel 2015, l'Unione europea a 28 membri è stata la seconda economia mondiale, con una popolazione stimata in 507 milioni e 400 000 cittadini e un Pil di 16 200 miliardi di dollari, lievemente inferiore a quello degli Stati Uniti. (Cosí come i tassi di cambio possono variare in maniera sostanziale, lo stesso può avvenire per le dimensioni relative dei paesi. Nel 2014, l'Ue è stata la prima economia mondiale). All'interno dell'Unione europea, 19 paesi hanno l'euro come moneta comune. L'«esperimento» di condividere una moneta comune è piuttosto recente: l'euro ha cominciato a circolare solo nel 2002, benché l'Europa si fosse impegnata in tal senso un decennio prima, con il Trattato di Maastricht, e tre anni prima i paesi dell'eurozona avessero agganciato tra loro le rispettive valute. Nel 2008 la regione è stata risucchiata, insieme al resto del mondo, nel vortice della recessione. Oggi, in linea di massima, gli Stati Uniti si sono ripresi. Ancorché anemica e tardiva, la ripresa c'è stata, a differenza di quanto sta accadendo in Europa, in cui specialmente l'eurozona resta impantanata nella stagnazione.

Questo fallimento comporta gravi conseguenze per il mondo intero, e non solo per quei paesi ormai raggruppati sotto il nome di eurozona. Certo, i tempi sono particolarmente difficili per chi vive nei paesi in crisi, molti dei quali attraversano una vera e propria depressione, e questo dipende in parte dal fatto che, in una realtà globalizzata, qualsiasi fattore conduca alla stagnazione in una parte cosí importante del mondo finisce per colpire tutti.

Talvolta, come viene chiaramente illustrato dall'esempio di Alexis de Tocqueville con la sua opera La democrazia in America , un estraneo può compiere un'analisi della cultura e della politica piú precisa e spassionata di coloro che sono coinvolti piú direttamente negli eventi in corso. Lo stesso vale, in una qualche misura, in campo economico. È dal 1959 che mi reco periodicamente in Europa - negli ultimi decenni, piú volte all'anno - e vi ho trascorso sei anni a insegnare e studiare. Ho collaborato da vicino con molti governi europei (soprattutto di centrosinistra, ma anche di centrodestra). Nel periodo di incubazione e allo scoppio della crisi finanziaria globale e dell'euro del 2008, ho intrattenuto rapporti molto stretti con alcuni dei paesi colpiti dalla crisi (in qualità di consulente per l'ex primo ministro spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero e come vecchio amico e consigliere dell'ex primo ministro greco George Papandreou). Ho potuto toccare con mano che cosa stava succedendo nei paesi colpiti dalla crisi e le politiche che i consigli dell'eurozona elaboravano in risposta agli eventi.

Da studioso di economia, ho trovato l'esperimento dell'euro affascinante. Noi economisti non abbiamo occasione di condurre esperimenti in laboratorio e dobbiamo testare le nostre idee sulla base degli esperimenti che ci vengono offerti dalla natura o dalla politica. L'euro, a mio avviso, ci ha insegnato molto. È nato da un mix di ideologie e concetti economici sbagliati. Si trattava di un sistema che non poteva funzionare a lungo e, di fronte alla Grande recessione, i suoi difetti sono balzati agli occhi di tutti. Ritengo che le carenze di base fossero chiare fin dall'inizio a chiunque volesse vederle. Quelle carenze hanno contribuito a creare gli squilibri che hanno alimentato i focolai di crisi per il cui superamento occorreranno anni.

Questo esperimento è stato particolarmente importante per me che da anni mi occupavo e scrivevo di integrazione economica, e soprattutto perché negli anni Novanta ero stato consulente economico del presidente Bill Clinton e a capo del Consiglio dei consulenti economici. Ci siamo impegnati per aprire le frontiere al commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico attraverso il Nafta, Accordo nordamericano di libero scambio. Abbiamo lavorato anche per creare l'Organizzazione mondiale del commercio (Omc/Wto), nata nel 1995 per introdurre principi di legalità nel commercio internazionale. Il Nafta, nato nel 1994, non puntava cosí in alto come l'Unione europea, che consente la libera circolazione dei lavoratori attraverso i confini nazionali. Era molto meno ambizioso dell'eurozona e ciascuno dei tre paesi ha mantenuto la propria moneta. Ma persino un'integrazione cosí limitata ha ugualmente posto numerosi problemi. In primo luogo, è emerso chiaramente come la dicitura «accordo di libero scambio» fosse una sorta di pubblicità ingannevole: di fatto era un accordo di gestione commerciale, una gestione che andava a vantaggio delle grandi aziende, in particolar modo quelle statunitensi. Fu allora che cominciai a sviluppare una certa sensibilità verso le conseguenze della disparità tra integrazione economica e politica oltre che quelle di accordi internazionali sanciti da leader - per quanto animati dalle migliori intenzioni - in un contesto di processi democratici che sono ben lungi dall'essere perfetti.

Passato dalla carica che rivestivo nell'amministrazione Clinton a quella di chief economist della Banca mondiale, mi sono trovato di fronte a una nuova serie di problemi di integrazione economica totalmente sfalsati rispetto all'integrazione politica. Vedevo la nostra istituzione sorella, il Fondo monetario internazionale (Fmi), cercare di imporre ai paesi che chiedevano la sua assistenza quelle che, insieme ad altri donatori, riteneva delle buone politiche economiche. Queste teorie erano sbagliate - talvolta profondamente sbagliate - e le politiche imposte dall'Fmi sono state spesso causa di recessioni e depressioni. Mi sono sempre impegnato a fondo per comprendere questi insuccessi e perché l'istituzione si comportasse in quel modo.

Come osservo in diversi punti di questo libro, vi sono evidenti similitudini fra i programmi che l'Fmi (talvolta insieme alla Banca mondiale) ha prescritto ai paesi in via di sviluppo e ai mercati emergenti e quelli imposti alla Grecia e agli altri Stati colpiti dalla crisi in conseguenza della Grande recessione. Spiegherò anche perché questi programmi continuano a deludere le aspettative e a suscitare viva opposizione nei paesi in cui vengono applicati.

Oggi il mondo è messo sotto assedio da nuove iniziative pensate per imbrigliare la globalizzazione a vantaggio di pochi. Questi trattati commerciali, che uniscono paesi attraverso l'Atlantico e il Pacifico - ossia il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip) e il Partenariato transpacifico (Tpp) - vengono stipulati come sempre a porte chiuse da leader politici che mettono sul tavolo dei negoziati gli interessi delle grandi aziende. I trattati mettono in evidenza un persistente desiderio di integrazione economica che è del tutto sfalsato rispetto all'integrazione politica. Una delle caratteristiche piú controverse è quella che consentirebbe alle grandi società di intentare procedimenti legali contro i paesi che mettessero in pericolo i loro profitti con l'introduzione di nuove normative, cosa che nessun governo potrebbe permettere all'interno dei propri confini nazionali. Il diritto di regolamentare - e di modificare le norme in risposta alle mutate circostanze - è un aspetto essenziale del funzionamento dello Stato.

Il progetto dell'eurozona, tuttavia, era diverso da questi altri esempi per un aspetto essenziale, in quanto aveva, come fondamento, la seria determinazione ad andare verso una maggiore integrazione politica. Dietro i nuovi trattati commerciali, invece, non vi è alcun intento di far varare norme armonizzate a un organismo parlamentare che rappresenti i cittadini di tutti i paesi dell'area di libero scambio. All'ordine del giorno c'è semplicemente l'esigenza di fermare la regolamentazione o, meglio ancora, di eliminarla.

Ma il progetto della «moneta unica» era talmente influenzato dall'ideologia e dagli interessi che è fallito non soltanto dal punto di vista dell'ambizione economica di creare prosperità, ma anche di quella politica di unire i paesi. Quindi, benché incentrato sulla questione critica dell'euro, questo libro affronta una tematica di piú ampio respiro, nel tentativo di spiegare come mai anche l'impegno piú sincero per giungere all'integrazione economica può produrre un effetto boomerang quando a dettare l'agenda sono dottrine economiche discutibili, plasmate piú dall'ideologia e dagli interessi che non dall'evidenza dei fatti e dalla scienza economica.

La storia che racconto nel libro illustra in modo drammatico i tanti temi di cui mi sono preoccupato negli ultimi anni e che dovrebbero avere una risonanza globale: il primo è quello dell'influenza esercitata dalle idee, in particolare come le teorie sull'efficienza e la stabilità di mercati privi di vincoli e lasciati liberi di agire (un'ideologia talvolta definita «neoliberismo») abbiano plasmato non soltanto le politiche ma le istituzioni negli ultimi trent'anni. In altri scritti ho analizzato le politiche che hanno dominato il discorso sullo sviluppo, il cosiddetto Washington Consensus alla base delle condizioni imposte ai paesi in via di sviluppo. Il libro spiega come quelle stesse idee siano alla base di quanto era stato visto come la tappa successiva nell'importantissimo progetto dell'integrazione europea, ossia la condivisione di una moneta comune, e l'abbiano invece ostacolata.

La stessa battaglia delle idee si combatte oggi in una miriade di scaramucce. In alcuni casi, le argomentazioni e le prove addotte sono addirittura sostanzialmente le stesse. La battaglia per l'austerità in Europa è simile a quella negli Stati Uniti, dove i conservatori hanno cercato di ridimensionare la spesa pubblica, anche quella necessaria per infrastrutture indispensabili, nonostante il tasso elevato di disoccupazione e il mancato utilizzo delle risorse. Gli scontri sul giusto quadro di bilancio in Europa sono affini a quelli in cui mi sono trovato coinvolto con l'Fmi durante la mia permanenza in carica alla Banca mondiale. Capire la portata globale di queste battaglie è proprio una delle ragioni per cui ho scritto il libro.

Le idee alla base di queste battaglie sono plasmate da ben altro che non semplici interessi economici. Il punto di vista che ho adottato va oltre il ristretto determinismo economico: non si possono spiegare le convinzioni di una persona semplicemente sapendo che cosa la farà stare meglio dal punto di vista economico. Tuttavia, ciò non toglie che certe idee siano al servizio di determinati interessi, e per questo non dobbiamo sorprenderci se, in genere, le politiche tendono a salvaguardare gli interessi di coloro che le elaborano, anche se per presentarle ricorrono poi a idee piú astratte. Questa analisi tende a un'inevitabile conclusione: economia e politica non si possono separare, nonostante il desiderio di alcuni economisti di considerarle entità distinte. Una delle principali ragioni per cui spesso la globalizzazione non è riuscita a produrre vantaggi per i grandi numeri né nel mondo industrializzato né nei paesi in via di sviluppo è che la globalizzazione economica è andata piú veloce di quella politica, e lo stesso vale per l'euro.

Un altro tema si lega alla mia recente ricerca sulla disuguaglianza. Gli economisti, e talvolta persino i politici, focalizzano l'attenzione sulle medie, vale a dire ciò che accade al Pil o al Pil pro capite. Ma può darsi il caso che il Pil aumenti e che, ciò nonostante, la maggior parte dei cittadini stia peggio. È quanto avviene negli Stati Uniti da circa trent'anni a questa parte, e tendenze analoghe si sono delineate anche altrove. Un tempo, secondo gli economisti, non aveva importanza come i frutti dell'economia venivano ripartiti, in quanto si trattava di aspetti che potevano interessare tutt'al piú uno studioso di scienze politiche o un sociologo, ma non certo loro. Robert Lucas è arrivato a dire: «Fra tutte le tendenze dannose per un'economia solida, la piú seduttiva, e a mio avviso la piú dannosa, è quella di concentrarsi sulla questione della distribuzione».

Oggi sappiamo che la disuguaglianza influisce negativamente sui risultati economici, e per questo non possiamo e non dobbiamo sviare il discorso. La disuguaglianza incide anche sul funzionamento delle nostre democrazie e delle nostre società. Ritengo, tuttavia, che dovremmo preoccuparci della disuguaglianza non solo in ragione di queste conseguenze, ma perché sono in gioco altre questioni etiche fondamentali.

L'euro ha aggravato le disuguaglianze. Uno degli argomenti centrali di questo libro è che l'euro ha reso piú profonda la frattura, con il risultato che i paesi piú deboli si sono indeboliti ulteriormente e quelli piú forti lo sono diventati ancora di piú. Per fare un esempio, il Pil tedesco - che nel 2007 era 10,4 volte quello della Grecia - nel 2015 è arrivato a essere 15 volte maggiore. Ma questo divario ha portato anche a una disuguaglianza crescente all'interno dei paesi dell'eurozona, specie quelli in crisi. E questo accade anche in quei paesi europei che, prima dell'introduzione dell'euro, stavano facendo progressi nel ridurre la disuguaglianza.

La cosa non deve sorprendere: indici elevati di disoccupazione colpiscono le persone ai gradini inferiori della scala sociale, oltre a trascinare verso il basso i salari, mentre i tagli governativi associati all'austerità hanno effetti particolarmente negativi sui soggetti a medio e basso reddito che fanno affidamento sugli ammortizzatori sociali. Anche questo è un argomento trasversale della nostra epoca. L'agenda economica neoliberista non è riuscita a migliorare i tassi medi di crescita, ma una cosa è certa: è riuscita a far aumentare la disuguaglianza. L'euro ci fornisce un case study dettagliato di come si è arrivati a questo.

Altri due temi sono piú direttamente legati alle ricerche sui sistemi economici a cui da tempo mi sono dedicato. Siamo (finalmente) arrivati a capire che i mercati economici non sono efficienti in quanto tali. La mano invisibile di Adam Smith - secondo cui il perseguimento dell'interesse personale da parte dell'individuo dovrebbe portare, nel complesso, al benessere dell'intera società - è invisibile perché semplicemente non esiste. E scarsa attenzione è stata dedicata, finora, all' instabilità dell'economia di mercato. Le crisi, da sempre, sono parte integrante del capitalismo.

Il modello standard utilizzato dagli economisti parte dal presupposto che sia in equilibrio. In altre parole, se l'economia ha una flessione, poi ritorna rapidamente sui binari della normalità. Il concetto secondo cui l'economia converge rapidamente verso l'equilibrio dopo un periodo di difficoltà è fondamentale per capire la costruzione dell'eurozona. La mia ricerca ha spiegato come mai, spesso, le economie non convergono e quanto accaduto in Europa illustra alla perfezione, non senza amarezza, queste idee.

Anche il ruolo del sistema finanziario è parte integrante di ciò che racconto in questa opera. I sistemi finanziari, ovviamente, sono una necessità dell'economia moderna, ma in altre ricerche ho descritto come, in mancanza di un'attenta regolamentazione, i sistemi finanziari possano condurre, cosí come avviene, all'instabilità economica, con periodi di boom alternati a momenti di flessione. Una volta di piú, quanto accaduto in Europa mette in evidenza queste tematiche e come il progetto dell'eurozona e le politiche adottate in risposta alla crisi abbiano aggravato problemi che da sempre affliggono le moderne economie di mercato.

Un ultimo tema che studio da tempo, ma che in questa occasione posso solo accennare, riguarda valori che vanno oltre l'economia: a) l'economia dovrebbe essere un mezzo per raggiungere un fine, e cioè migliorare il benessere dei singoli e della società; b) il benessere dei singoli dipende non solo da una concezione standard del Pil, benché questa sia stata ampliata e includa oggi la sicurezza economica, ma da un sistema di valori molto piú ampio che comprende la solidarietà e la coesione sociale, la fiducia nelle nostre istituzioni sociopolitiche e la partecipazione democratica; c) essendo nato per migliorare i risultati economici e consolidare la coesione politica e sociale in Europa, l'euro doveva essere un mezzo per raggiungere un fine, e non un fine in sé. Doveva poi contribuire a realizzare obiettivi di piú ampio respiro e salvaguardare i valori fondamentali a cui ho fatto accenno. Ma a questo punto è chiaro che le cose non sono andate per il verso giusto. Quello che doveva essere il mezzo è diventato il fine, mettendone cosí in discussione gli obiettivi principali. L'Europa ha perso la bussola. L'ostinazione, tuttavia, non è un fenomeno unicamente europeo, visto che la si osserva ovunque al punto di poterla ritenere quasi la malattia globale di questa nostra epoca.

In un certo senso, quindi, la storia dell'eurozona è un morality play che illustra come dei leader che hanno perso il contatto con l'elettorato possano arrivare a creare sistemi incapaci di salvaguardare gli interessi dei loro cittadini e come, molto spesso, gli interessi finanziari siano stati anteposti all'integrazione economica e all'ideologia, oltre a insegnare che quando l'ideologia e gli interessi sfuggono al controllo possono dare vita a strutture economiche che, pur vantaggiose per alcuni, rappresentano tuttavia un rischio per la maggior parte dei cittadini.

È anche una storia di luoghi comuni, usciti dalla bocca di politici senza alcuna preparazione economica che si creano una loro verità, di posizioni assunte per una convenienza politica a breve termine, con conseguenze enormi nel lungo periodo. L'idea reiterata secondo cui l'eurozona non debba prevedere l'aiuto da parte dei paesi forti verso quelli che attraversano dei periodi di difficoltà fa senz'altro presa sull'egoismo dell'elettorato. Ma senza un livello minimo di condivisione del rischio, nessuna unione monetaria può funzionare.

Per la maggior parte degli europei, il progetto dell'Europa unita e di un'ulteriore integrazione dei paesi del continente rappresenta l'evento politico piú importante degli ultimi sessant'anni. Un suo possibile fallimento, o il solo pensare che ciò accada, o l'idea che un aspetto del progetto - ossia il suo sistema monetario - possa affondare sono ipotesi ritenute in odore di eresia. Ma a volte la realtà ci trasmette messaggi dolorosi: il sistema dell'euro non funziona e il prezzo da pagare, se non vi si porrà rimedio, sarà altissimo. L'attuale sistema, nonostante le recenti riforme, non è sostenibile nel lungo periodo senza far ricadere costi ingenti su ampie fasce della popolazione. E tali costi saranno di molto superiori rispetto a quelli di cui dovrà farsi carico l'economia. Ho già accennato ai preoccupanti cambiamenti in atto a livello politico e sociale, l'ascesa degli estremismi e della destra populista. Se da una parte è vero che il fallimento dell'euro non è l'unica ragione alla base di queste tendenze, ritengo però che le enormi ripercussioni economiche sopportate da molti cittadini siano una delle cause principali, se non la piú importante.

Questi costi sono particolarmente insostenibili per i giovani europei che vedono messo in pericolo il loro futuro e di cui si stanno distruggendo le aspirazioni. Forse non comprendono fino in fondo quanto è accaduto, e forse neppure gli aspetti economici alla base di tutto questo, ma una cosa la capiscono: sono stati ingannati da chi ha cercato di persuaderli a sostenere la creazione dell'euro e a entrare nella moneta unica, da chi ha promesso che la valuta europea avrebbe portato a una prosperità senza precedenti e che, se tutti i paesi si fossero attenuti al rigore di bilancio, tenendo basso il rapporto tra deficit, debito pubblico e Pil, i paesi piú poveri dell'eurozona ne avrebbero beneficiato colmando il divario rispetto a quelli piú ricchi. Ora invece si sentono dire, sovente dagli stessi politici o da membri degli stessi partiti: «Fidatevi di noi. Abbiamo una ricetta, un pacchetto di politiche che, per quanto dolorose nel breve periodo, a lungo termine faranno stare meglio tutti».

Nonostante le drammatiche implicazioni della mia analisi qualora non intervengano modifiche nell'eurozona - implicazioni che sono ancora piú sfavorevoli se l'eurozona verrà modificata come da tanti auspicato in Germania e altrove -, questo libro è comunque portatore, in ultima analisi, di un messaggio di speranza; un messaggio particolarmente importante per i giovani europei e tutti coloro che credono nel progetto europeo, nell'idea che un'Europa piú integrata politicamente possa essere un'Europa piú forte e piú prospera. Esiste un'altra strada da percorrere, diversa da quella voluta dai leader europei. Anzi, ce ne sono diverse, e ciascuna richiede un grado differente di solidarietà fra i paesi d'Europa.

L'Europa ha commesso un semplice, comprensibile errore: ha pensato che il modo migliore per arrivare a un continente integrato passasse attraverso l'unione monetaria e la condivisione di una moneta unica. L'eurozona e l'euro - sia la struttura sia le sue politiche - dovranno essere riformati in profondità per poter salvare il progetto europeo. E salvarlo si può.

L'euro è una costruzione dell'uomo. I suoi contorni non sono il risultato di leggi di natura ineluttabili. Gli accordi monetari europei si possono rimodulare; se necessario, si potrà addirittura lasciar perdere l'euro. In Europa come altrove, possiamo resettare la bussola, riscrivere le regole dell'economia e del governo, arrivare a una prosperità maggiormente condivisa, con una democrazia piú forte e una maggiore coesione sociale.

Ho scritto questo libro nella speranza che possa fare da guida all'Europa in questo percorso e darle l'impulso necessario per mettere mano, al piú presto, a tale programma ambizioso. L'Europa deve ritrovare lo slancio dei fini nobili che si era prefissa alla nascita dell'Unione. Il progetto europeo è troppo importante per permettere all'euro di distruggerlo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 245

Capitolo nono

Creare un'eurozona che funziona


L'euro può e deve essere salvato, ma non a qualsiasi costo. Non a prezzo delle recessioni e depressioni che hanno afflitto l'eurozona, della disoccupazione elevata, delle vite distrutte né delle aspirazioni infrante. Non deve essere cosí. Creare un'eurozona che funziona, che promuove la prosperità e sostiene la causa dell'integrazione europea è possibile.

La situazione di compromesso in cui si trova l'Ue è insostenibile: si deve arrivare a «piú Europa» o «meno Europa»; a una maggiore integrazione economica e politica oppure allo scioglimento dell'eurozona nella sua forma attuale.

I primi promotori dell'euro avevano capito che nella sua fase originaria era incompleto e che altri passi avanti sarebbero stati necessari. Perché l'euro potesse funzionare sarebbe stata necessaria «piú Europa», e la moneta comune avrebbe portato a questo. Molto è stato fatto, ma non ancora abbastanza. Ciò che serve non è oltre la portata dell'Europa, e tanti aspetti sono già stati ampiamente riconosciuti. Ma ci vuole piú Europa rispetto all'ordinamento attuale e certamente piú Europa rispetto a quanto non siano disposti a tollerare coloro secondo cui l'eurozona non è un'unione di trasferimento.

Le riforme strutturali e politiche che descrivo renderanno meno frequenti e meno gravi le crisi che ad oggi sono una costante dell'eurozona, anche se queste potranno manifestarsi ancora. La mia tesi è che un pacchetto molto diverso di politiche di emergenza sarebbe di grande vantaggio per l'eurozona nel suo insieme, ma in particolare per i paesi in crisi. Le depressioni che hanno caratterizzato la crisi dell'euro, con i loro effetti prolungati, si possono evitare.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 246

RIFORMARE LA STRUTTURA DELL'EUROZONA.


Le riforme dell'eurozona in quanto tale dovrebbero orientarsi verso un sistema economico capace di conseguire gli obiettivi della piena occupazione e della crescita in ciascuno dei paesi membri con livelli sostenibili di disavanzo delle partite correnti e in assenza di tassi di cambio flessibili e di politiche monetarie indipendenti. L'impegno fondamentale dell'eurozona deve essere il mantenimento della piena occupazione. I mercati, da soli, non conservano la piena occupazione, oltre al fatto che, lasciati liberi di agire autonomamente, in generale non sono stabili. In mancanza di un intervento pubblico, è molto probabile che la disoccupazione persista, come anche l'instabilità.

Molti detrattori delle politiche introdotte per rispondere alla crisi dell'euro hanno giustamente puntato il dito contro l'austerità. Ma senza le opportune riforme nella struttura dell'eurozona - le istituzioni, le norme e la regolamentazione che la governano -, per riportare i paesi alla piena occupazione occorrerà gestire livelli di disavanzo delle partite correnti inimmaginabili. Abbiamo visto come l'attuale struttura dell'eurozona crei divergenza, oltre a indurre saldi negativi delle partite correnti e crisi. È necessario riformare l'eurozona affinché tutti i paesi al suo interno possano raggiungere e mantenere la piena occupazione, cosa che l'attuale struttura non permette. Come abbiamo osservato nel capitolo precedente, sebbene l'intento dei programmi che sono stati imposti ai paesi in crisi sia quello, prima o poi, di riportare le economie alla piena occupazione, la strada da percorrere è irta di difficoltà, il successo è incerto, e il prezzo da pagare è altissimo. Una cosa è sicura: questi programmi indeboliranno la crescita potenziale dei paesi in crisi per molti anni a venire. Un'ulteriore certezza è che questi programmi hanno altri effetti, come quello di aggravare le divisioni fra i paesi e anche all'interno di essi, oltre a dare luogo a dinamiche politiche sgradite.

Sono essenziali sei trasformazioni strutturali nelle regole di base che governano l'eurozona e nei relativi regimi economici.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 312

Capitolo dodicesimo

La strada da seguire


Questo libro dipinge un quadro desolante dello stato dell'eurozona e delle sue prospettive per il futuro. Ho descritto i difetti di fondo della sua costruzione e spiegato come questi siano dovuti in parte a un'errata comprensione del funzionamento dell'economia, ma in parte anche alla mancanza di volontà politica e di solidarietà; abbiamo visto poi come questa mancata comprensione dell'economia e il deficit di solidarietà abbiano portato a rispondere alla crisi in modo sbagliato.

Non si sta sacrificando solo il presente dell'Europa, ma anche il suo futuro. L'euro avrebbe dovuto «servire» i cittadini europei a cui oggi, invece, si chiede di accettare salari piú bassi, tasse piú alte e prestazioni sociali ridotte al minimo, allo scopo di salvare l'euro. E non si sta sacrificando solo l'economia europea ma, per molti versi, anche la fiducia nella sua democrazia. Secondo i tedeschi e altri leader dell'eurozona, non c'è alternativa (TINA, dall'inglese there is no alternative) alle loro politiche draconiane. Ho spiegato che le alternative ci sono, e che una loro applicazione andrebbe a tutto vantaggio dei creditori.

In questo capitolo conclusivo, desidero affrontare alcune questioni: dove va l'eurozona? perché sta andando in questa direzione? c'è qualcos'altro che si muove sotto la superficie? e perché il progetto europeo è cosí importante?




DOVE VA L'EUROZONA?


Ho delineato tre alternative all'attuale strategia del tirare a campare, e se io fossi un europeo non avrei dubbi su quale scegliere: le riforme descritte nel capitolo IX che permetterebbero all'eurozona di funzionare.

Gli economisti non si distinguono per capacità di previsione - la Troika ha forse il peggior record di errori di valutazione seriali in relazione ai programmi studiati per l'eurozona - ma le previsioni in ambito politico sono ancora piú difficili. Il mio timore, però, è che anche il divorzio amichevole o l'euro flessibile saranno messi da parte per continuare a vivacchiare come si è fatto finora. Ai paesi colpiti dalla crisi verranno date per il futuro speranze appena sufficienti di rimanere all'interno dell'eurozona. La Germania e altri partner potranno giocare sul forte sostegno di cui l'eurozona gode in Grecia e in altri paesi, i cui cittadini ritengono, irrazionalmente, che non appartenere all'eurozona significhi non appartenere all'Europa o all'Ue, dimenticando che Danimarca, Svezia e Regno Unito sono nell'Ue pur non avendo adottato l'euro e che la Svizzera, l'Islanda e la Norvegia fanno a pieno titolo parte dell'Europa, pur non avendo aderito all'Unione europea.

Lo scenario politico che si prospetta non è quindi idilliaco: i partiti di centro favorevoli all'euro perdono terreno nei confronti di formazioni piú estremiste, mentre in Spagna continuano a crescere i partiti che chiedono l'indipendenza regionale. In tutta Europa, con il diffondersi dei timori per la disoccupazione, assisteremo probabilmente all'ascesa di partiti che respingono l'apertura dell'Europa e auspicano in particolare di chiudere le frontiere ai migranti. Nessuno può sapere con certezza quando verrà meno la volontà politica di restare nell'euro in un paese o in un altro. Ma chiaramente il rischio esiste e le probabilità che accada sono significative, visto come la gente vota.

E quando la fiducia verrà effettivamente meno, il rischio è che si aprano le cateratte: se un qualsiasi paese riuscirà a uscire senza problemi, quasi sicuramente altri si uniranno, a meno che prima di allora la Troika non abbia ceduto e/o queste nazioni non si siano riprese; due eventualità che - ad oggi - appaiono remote. Dire che questi eventi drammatici avrebbero conseguenze economiche e politiche profonde non solo per l'Europa ma per tutto il mondo è un eufemismo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 328

Le esperienze dell'eurozona insegnano un'altra importante lezione al resto del mondo: occorre prestare attenzione affinché l'integrazione economica non preceda quella politica. Non bisogna credere a chi dice che l'integrazione politica sarà la naturale conseguenza dell'integrazione economica. E occorre diffidare, in particolar modo, di chi propone un'unione monetaria quando manca un'integrazione politica adeguata. Forse un aspetto positivo in tutta la questione europea c'è: l'esperienza è servita a capire molte cose, e diverse proposte di unioni monetarie in altre regioni del mondo sono state silenziosamente accantonate.

In tutto il mondo, si stanno compiendo numerosi tentativi di far avanzare l'integrazione economica senza gli adeguati progressi in termini di integrazione politica. I fattori determinanti di questa integrazione - e l'origine dei difetti nella sua progettazione - sono spesso simili a quelli che abbiamo visto nella creazione della valuta europea. L'euro è stato pensato partendo dal presupposto semplicistico che una moneta unica avrebbe facilitato la circolazione dei capitali e delle merci e che la conseguente integrazione economica avrebbe migliorato il tenore di vita ovunque all'interno dell'eurozona. In un contesto di profondi cambiamenti economici, ci sono vincitori e vinti; i cambiamenti vengono difesi in quanto - cosí si dice - i vantaggi per chi ne trae beneficio superano di gran lunga le perdite di chi ne subisce le conseguenze negative e, a lungo andare, quasi tutti ne usciranno vincitori. Anche l'argomento a favore dell'eurozona era che tutti, o quasi, ne avrebbero tratto vantaggio. La realtà, come abbiamo visto, è stata diversa: il grande vincitore fra tutti i paesi è la Germania; gli altri, in particolare quelli in crisi, sono i veri perdenti; e l'eurozona nel suo complesso ha ottenuto scarsi risultati, visto e considerato che le perdite degli sconfitti superano di gran lunga i guadagni del paese vincitore. La lezione è che i mercati sono istituzioni complesse; pensare di poter intervenire su di essi in maniera semplicistica, sulla base di un'ideologia anziché di una piú profonda conoscenza di come effettivamente funzionino, e senza comprenderne le complessità, può portare a risultati disastrosi.

Oggi gli Stati Uniti stanno cercando di imporre un'agenda commerciale attraverso il Pacifico e l'Atlantico basata sull'idea che il movimento piú libero delle merci attraverso un maggior numero di frontiere migliorerebbe il benessere di tutti i paesi coinvolti, anzi, andrebbe a vantaggio di tutte le nazioni del mondo. Ma, ancora una volta, con l'ideologia semplicistica del libero mercato e gli interessi particolari a farla da padroni, gli accordi commerciali che si stanno delineando - il Partenariato transpacifico e il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti - ben difficilmente manterranno le loro promesse piú di quanto non abbia fatto l'eurozona. Avremo dei vincitori, e saranno le grandi aziende; in particolare, le società farmaceutiche insieme alle imprese carboniere e alle compagnie petrolifere che costituiscono una minaccia per l'ambiente. E come nell'eurozona (nella sua forma attuale), le perdite dei perdenti saranno superiori ai guadagni dei vincitori. L'accordo renderebbe piú difficile l'accesso ai farmaci generici su prescrizione, e quasi sicuramente porterebbe a una maggiore disuguaglianza, mettendo in difficoltà i governi in campi quali la regolamentazione dell'ambiente, della salute, della sicurezza, e persino dell'economia nell'interesse della collettività.




SALVARE IL PROGETTO EUROPEO.


Il dibattito in corso sull'euro - la sua struttura, le politiche e i programmi imposti ai paesi in crisi - ha suscitato interrogativi profondi su valori e obiettivi. Troppo spesso abbiamo avuto l'impressione che salvare le banche, o anche solo l'euro, fosse prioritario rispetto al benessere delle persone. Si è misurato il successo in termini di differenziali di rendimento fra i titoli di Stato, mettendo a confronto i dati relativi alla Grecia o all'Italia con quelli della Germania. E quando gli spread sono scesi, si è cantata vittoria.

Come abbiamo visto, i programmi si sono detti riusciti quando è calata la disoccupazione o il Pil ha ripreso a crescere, e non perché la disoccupazione fosse stata riportata a una soglia accettabile o il tenore di vita fosse tornato ai livelli che avrebbe dovuto raggiungere se non ci fosse stata la crisi o anche, piú modestamente, a quelli pre crisi.

Sorprendentemente, nel valutare il successo dei programmi della Troika — spesso motivati da preoccupazioni per il debito pubblico e il deficit —, è stata dedicata scarsa attenzione al rapporto debito/Pil, una misura della sostenibilità del debito che non era migliorata. Infatti, come abbiamo visto, il rapporto debito/Pil è aumentato nei paesi in crisi, in alcuni casi a livelli che normalmente verrebbero giudicati insostenibili, a causa degli effetti negativi sul Pil. In questo rapporto, il denominatore è stato ridotto piú di quanto non sia stato limitato il numeratore.

Ci dovrebbe essere un'unica, semplice misura della riuscita di qualsiasi programma economico, vale a dire il benessere di tutti i cittadini di un paese, e non solo di quell'1 per cento di privilegiati. Benessere non significa soltanto reddito, e la misura dei risultati economici deve andare ben oltre la valutazione dell'andamento del Pil, o anche del Pil pro capite. Per la maggior parte delle persone, un lavoro serio e dignitoso rappresenta una componente essenziale della vita, e un'economia che neghi questo diritto ad ampie fasce della popolazione — e a maggior ragione che lo neghi a tanti giovani, se non addirittura alla maggior parte di essi — è un'economia fallita. Un sistema o degli accordi economici che puntualmente non riescono ad assicurare il benessere a vasti settori della popolazione sono da annoverare tra i fallimenti. È fallimentare anche un sistema economico che lascia nell'insicurezza la maggior parte delle persone.

Per il benessere dei giovani, la prospettiva di realizzare i propri sogni e vivere una vita piena di speranze e aspirazioni è fondamentale. Per gli anziani, è essenziale poter vivere il periodo della pensione con dignità e un minimo di sicurezza. Molti avevano programmato di non andare in pensione, di continuare a lavorare. Ma visti i livelli di disoccupazione elevati con cui dobbiamo misurarci e il deciso rallentamento dell'economia, i posti di lavoro di queste persone non ci sono piú. Qualcuno potrebbe dire: avrebbero dovuto pensarci. Ma chi poteva immaginare che i leader europei avrebbero creato un sistema tanto disfunzionale? O che avrebbero imposto politiche tali da condurre a risultati cosí estremi? La conoscenza dell'economia piú approfondita che abbiamo oggi avrebbe dovuto porre fine a questo ciclo economico, o se non altro attenuarlo.

La ricerca condotta sul benessere del singolo e della società ha forse dimostrato una cosa ovvia: le persone hanno a cuore la sicurezza e il posto di lavoro. L'eurozona e le politiche che sono state imposte ai paesi colpiti dalla crisi hanno aumentato l'insicurezza e portato a un calo dell'occupazione. Un sintomo di quanto le cose vadano male in molti paesi è, come abbiamo notato, l'aumento drammatico nel numero dei suicidi. Nell'obiettivo piú importante della politica economica, vale a dire il miglioramento del benessere individuale e sociale, l'eurozona è stata a dir poco deludente.

I sistemi monetari vanno e vengono. Gli accordi monetari di Bretton Woods che hanno governato il mondo dopo il 1944 erano stati visti come la sostituzione del gold standard. Nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, il sistema aveva dato l'impressione di funzionare, ma, alla fine, non è durato nemmeno tre decenni. Il momento di gloria dell'euro è stato addirittura piú breve. Come ho avuto modo di spiegare, anche nel breve periodo in cui aveva dato l'impressione di funzionare, già si stavano creando gli squilibri che alla fine avrebbero portato alla crisi dell'euro, la cui responsabilità è da ricondurre all'euro stesso e agli accordi economici che hanno portato alla sua istituzione.

Questo libro ha dimostrato come la moneta comune possa e debba essere salvata, ma salvata in un modo utile a creare quella prosperità condivisa e quella solidarietà che erano state parte integrante della promessa dell'euro. L'euro era un mezzo per raggiungere un fine, non un fine in sé. Ho steso un programma di riforme per la struttura dell'eurozona e per le politiche che l'eurozona dovrebbe seguire quando uno dei suoi partner si trova ad affrontare una crisi. Queste riforme non sono economicamente complesse, e non lo sono nemmeno da un punto di vista istituzionale. Ma richiedono una solidarietà europea, un genere di solidarietà profondamente diverso dal patto suicida che alcuni leader europei invocano.

Nonostante tutte le emozioni che ha creato, malgrado tutti gli impegni che sono stati assunti per preservarlo, alla fin fine l'euro è solo un artificio, una creazione umana, una delle tante istituzioni fallibili realizzate da uomini fallibili. È stato creato con le migliori intenzioni da parte di leader lungimiranti le cui visioni erano però offuscate da una comprensione imperfetta di ciò che un'unione monetaria avrebbe comportato. C'è da capirli: nulla di simile era mai stato tentato prima. Il vero peccato sarebbe se l'Europa non traesse il giusto insegnamento da quanto è accaduto in quest'ultimo periodo, quasi due decenni.

Tre messaggi emergono chiaramente dalla mia analisi. La moneta comune sta minacciando il futuro dell'Europa. Continuare a barcamenarsi come si è fatto finora non è possibile. E il progetto europeo è troppo importante per poterlo sacrificare sulla croce dell'euro. L'Europa e il mondo meritano di meglio. Ho dimostrato che esistono alternative al sistema attuale. La transizione dall'eurozona di oggi a una di queste alternative non sarà facile, ma è fattibile. Per il bene dell'Europa, per il bene del mondo, ci auguriamo che l'Europa si incammini su questa strada.

| << |  <  |