Autore Michele Turazzi
Titolo Milano di carta
SottotitoloGuida letteraria della città
Edizioneil Palindromo, Palermo, 2018, Le città di carta 4 , pag. 168, cop.fle., dim. 14,8x19x1,4 cm , Isbn 978-88-98447-43-5
PrefazioneFabio Deotto
LettoreMargherita Cena, 2019
Classe citta': Milano , storia letteraria









 

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Indice


Prefazione di Fabio Deotto                                            7

Qualche parola prima di cominciare                                   15

Amore, guerra e un bicchiere di Capri ghiacciato (Ernest Hemingway)  17

Brera, la piccola Montmartre (Luciano Bianciardi)                    31

I misteri di Porta Comasina (Dino Buzzati)                           45

Milano (nordest) calibro 9 (Giorgio Scerbanenco)                     59

Invisibile dalla strada (Lalla Romano)                               73

L'inverno più mite da un quarto di secolo (Elio Vittorini)           87

I ragazzi di vita del Fabbricone (Giovanni Testori)                  99

Disegni d'alta borghesia (Carlo Emilio Gadda)                       113

Le osterie dormienti della ripa (Alda Merini)                       127

La lunga notte degli anni Ottanta (Emilio Tadini)                   141

Qualche parola prima di concludere                                  157

Nota bibliografica                                                  159
Gli scrittori di Milano di carta                                    165
La mappa letteraria di Milano                                       167

 

 

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Pagina 15

Qualche parola prima di cominciare



La luce comincia a fare aureola alla cattedrale. Le guglie si spiccano a una a una come candelotti da una torta genetliaca, lasciano spoglia la triangolare calvizie del tetto, si spandono disordinatamente nel cielo; poi si raccolgono savie, e, come un bambino che sillaba, compongono queste due parole:
MILANO
IRROMENTABILE

Che significa irromentabile? Capisco che è una parola encomiastica, ma quale?

Alberto Savinio, Ascolto il tuo cuore, città



Non sono nato a Milano. Ci sono arrivato tredici anni fa e l'ho conosciuta a poco a poco, grazie a lunghe passeggiate e intere giornate trascorse sui mezzi pubblici. Non ho avuto fretta di comprenderla, ho assecondato la sua ritrosia nordica e il suo orrore nei confronti di tutto ciò che è esibito, eccessivo. Ho apprezzato il suo farsi sfondo discreto e, allo stesso tempo, la sensazione che qui tutto possa succedere e che ogni cosa accada soltanto per te. Lentamente, ho perforato il nucleo della sua bellezza, una bellezza pudica che si nasconde dietro ai portoni massicci e che richiede tempo per essere scovata, decodificata e, infine, ammirata. Qui sta lo sberleffo: in una città in cui il tempo scorre veloce, la bellezza va cercata senza fretta. Con meticolosità e attenzione. È anche questo a rendere Milano la più letteraria tra le città italiane. Uno scrittore - un vero scrittore - seleziona elementi ordinari, offerti a tutti, e li investe di una luce inedita, rendendo unico il quotidiano e straordinario il banale. Da questo punto di vista, non c'è niente di più stimolante di un luogo che cerca in tutti i modi di nascondersi. È come se Milano li sfidasse, gli scrittori: «Vediamo di cosa sei capace» sembra dire, cambiando faccia con la stessa velocità con cui interi quartieri vengono rivoluzionati per lasciare spazio ai grattacieli.

Questa Milano di carta è una guida letteraria, un reportage narrativo che racconta la città attraverso gli occhi di chi ha scelto di accogliere questa sfida. Il libro si concentra sui grandi autori del Novecento, in modo che ci sia una distanza storica sufficiente - ma non eccessiva - per far dialogare la città di allora con quella di oggi. Con una materia così ampia ed eterogenea, però, non è sempre stato possibile mantenere il discorso dentro i binari prestabiliti, e allora spesso il racconto è deragliato verso romanzi contemporanei o, al contrario, verso i protagonisti delle epoche precedenti. Non ci sono giudizi di merito, in questo: l'unica logica è quella della divagazione.

Ernest Hemingway, Luciano Bianciardi, Dino Buzzati, Giorgio Scerbanenco, Lalla Romano, Elio Vittorini, Giovanni Testori, Carlo Emilio Gadda, Alda Merini, Emilio Tadini: ogni capitolo è incentrato su uno di questi scrittori e si snoda come un vero percorso topografico. Chi vorrà - se lo vorrà - potrà anche seguirlo. La mappa allegata al volume serve proprio a questo.

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Pagina 17

Amore, guerra e un bicchiere di Capri ghiacciato
Ernest Hemingway



Parti domattina, pupo, disse Rinaldi. Per Roma, dissi. No, per Milano. Per Milano, disse il maggiore. Il Palazzo di Cristallo, il Cova, il Campari, il Biffi, la Galleria. Fortunato. Il Gran Italia, dissi, a farmi prestare i soldi da Giorgio. La Scala, disse Rinaldi. Andrai alla Scala. Tutte le sere, dissi. Non potrà permetterselo tutte le sere, disse il maggiore.


La Milano di Ernest Hemingway è quella dei caffè scintillanti, dei vini bianchi ghiacciati e delle passeggiate in corso Vittorio Emanuele II. Quella del Campari, lo storico caffè dello storico aperitivo, del Cova, più che un locale un'istituzione, e dell'ippodromo di San Siro, in aperta campagna.

In un'Europa devastata dai combattimenti della Prima guerra mondiale, Milano appare ai personaggi di Addio alle armi come un'isola di pace dove è possibile lasciarsi alle spalle gli orrori del fronte: i tavolini all'aperto dei bar fumosi, le carrozze che corrono sul selciato, i tetti dalle tegole rosse che si aprono sulle guglie del Duomo, gli aspiranti tenori che sognano di esibirsi alla Scala. In una città così si può bere un bicchiere di Capri, chiudere gli occhi e dimenticarsi della divisa macchiata di sangue, ammirando donne bellissime farsi largo in Galleria. È l'ultimo lascito della Belle Époque, questa Milano, l'estremo sussulto di una società che cerca di esorcizzare il terrore di una guerra che sembra non finire più.


Un americano sul Piave


Siamo negli ultimi giorni di maggio del 1918. L'esercito italiano, dopo la disfatta di Caporetto, si è assestato sulla linea del fiume Piave, si è lentamente riorganizzato, e ora si sta preparando all'attacco decisivo. Anche se nessuno lo immagina, il conflitto si concluderà pochi mesi dopo. È in questo scenario che arriva il diciottenne Ernest Hemingway, dopo essersi arruolato tra le fila della Croce Rossa americana ed essere stato aggregato alle truppe italiane. Con quel misto di orrore e fascinazione che la guerra gli susciterà per tutta la vita e che, non ancora ventenne, avverte più intensamente, Hemingway non si accontenta delle retrovie e raggiunge la prima linea. Ma non ci resterà a lungo. L'8 luglio viene colpito da duecentoventisette schegge di mortaio (con una gamba praticamente fuori uso, prende sulle spalle un militare ferito e lo conduce in salvo: alla fine del conflitto verrà decorato con una medaglia al merito) ed è spedito a Milano, a rimettersi in sesto.

Come sempre accade con Hemingway, invenzione e realtà si intrecciano in un continuo rincorrersi. La biografia del tenente Frederic Henry, il protagonista di Addio alle armi, è infatti molto simile a quella del suo autore: anche lui è un giovane americano che combatte sul fronte italiano, anche lui è un volontario della Croce Rossa, anche lui viene ferito da una granata austriaca. La sua storia è semplicemente spostata indietro di un anno - siamo infatti nel 1917 -, e tanto basta a Hemingway per rendere il suo personaggio testimone della disfatta di Caporetto. Dopo il ferimento, anche il tenente Henry viene trasferito a Milano, «in un ospedale americano che era stato impiantato da poco».

Arrivammo a Milano la mattina presto e ci scaricarono allo scalo merci. Un'ambulanza mi condusse all'ospedale americano. Andando in ambulanza coricato sulla barella non riuscivo a capire in che parte della città stessi passando, ma quando scaricarono la barella vidi la piazza di un mercato e una bottiglieria aperta con una ragazza che spazzava. Stavano lavorando la strada e c'era odore di primo mattino.

A Milano la guerra è lontana. Certo, le notizie dal fronte occupano le prime pagine di tutti i giornali, fanno capolino in ogni discorso, ma in città la vita scorre normalmente, tra corse di cavalli e aperitivi in Galleria. È allora possibile dimenticarsi di tutto e lasciarsi andare alla seduzione, alla passione, scivolando tra le braccia di Catherine Barkley.


Catherine Barkley e l'ospedale americano


Avrei voluto essere con lei a Milano. Mi sarebbe piaciuto mangiare al Cova e poi scendere per via Manzoni nella sera calda e attraversare e girare lungo il Naviglio e andare in albergo con Catherine Barkley. [...] Noi non avremmo avuto niente addosso per via del caldo, e la finestra aperta e le rondini che volavano sui tetti delle case e dopo, quando fosse buio e si andasse alla finestra, pipistrellini alla caccia sulle case e giù vicino agli alberi e avremmo bevuto il Capri, e la porta chiusa a chiave e quel caldo e solo un lenzuolo e tutta la notte e ci saremmo amati tutta la notte nella calda notte di Milano.

È corta e tranquilla, via Armorari, soprattutto se percorsa la sera, quando gli uffici sono chiusi e sono in pochi a passeggiare da queste parti. Ci troviamo nel centro di Milano, a due passi dal Duomo. Sul palazzo all'angolo con via Cesare Cantù, c'è una targa, pulita e ben lucidata, che dice: NELL'ESTATE DEL 1918 IN QUESTO EDIFICIO ADIBITO A OSPEDALE DELLA CROCE ROSSA AMERICANA ERNEST HEMINGWAY FERITO SUL FRONTE DEL PIAVE FU ACCOLTO E CURATO. COSÌ NACQUE LA FAVOLA VERA DI ADDIO ALLE ARMI.

L'ospedale era allestito al terzo e al quarto piano di questo edificio bianco - il terzo riservato alle infermiere, il quarto ai pazienti -, negli spazi che fino a poco tempo prima avevano ospitato una pensione e che erano stati soltanto parzialmente rinnovati prima del cambio d'uso. Somigliava più a un'abitazione privata che a una clinica: i degenti erano pochi, le infermiere premurose - addirittura diciotto per quattro pazienti, all'arrivo Hemingway -, l'alcol non mancava, le finestre affacciavano sui tetti rossi, i comignoli e, un po' più in là, si scorgevano le guglie del Duomo. Soprattutto, in via Armorari Hemingway si innamora dell'infermiera Agnes von Kurowsky.

Su di lei è modellata la «bionda» e «bellissima» Catherine Barkley, di cui il tenente Henry si invaghisce al fronte e che ritrova all'ospedale americano. È in sua compagnia che il protagonista di Addio alle armi trascorre la lunga convalescenza milanese. Dopotutto, che la degenza sarebbe andata nel migliore dei modi, lo avevano intuito anche i commilitoni: «La tua inglese. Sai? [...] va anche lei a Milano. Va con un'altra all'ospedale americano. [...] Te ne vai a stare in una grande città con la tua inglese a coccolarti. Perché non hanno ferito me?».


La cattedrale dove ci sta una foresta intera


È strano come a Milano si possa passare in meno di cinquanta metri dal silenzio al rumore più assordante, un marchio distintivo dell'intera città che in centro diventa ancora più vero. Via Cesare Cantù conduce a due opposti. Da una parte si apre su una piazzetta bianca, panna e grigio chiaro, dominata dalla facciata della Biblioteca Ambrosiana. (Qui Oscar Wilde, nel 1875, ammira «un insieme di disegni e schizzi di Raffaello, molto più interessanti dei suoi dipinti»). Due panchine e nemmeno un albero, pochi i turisti, ancor meno i milanesi. Dall'altra, invece, accompagna in via Orefici, dove è tutto uno sferragliare di tram, scalpiccio di passi veloci, motori di taxi fermi al semaforo. Seguendo questa strada chiassosa, si arriva in piazza del Duomo, ed è questo il tragitto che il tenente Henry percorre con Catherine, nel corso della sua ultima sera a Milano. L'operazione alle gambe è andata bene e la convalescenza, durata tutta l'estate, è ormai finita. Per lui è tempo di tornare al fronte: la partenza è prevista con il treno di mezzanotte. Prima, però, c'è tempo per una passeggiata d'addio.

Passeggiammo insieme lungo il marciapiede oltre la bottiglieria, poi attraverso la piazza del mercato e su per la strada sotto l'archivolto che dava sulla piazza del Duomo. C'erano le rotaie del tram e più in là la cattedrale. Era bianca e umida nella nebbia. Sulla nostra sinistra c'erano i negozi con le vetrine accese, e l'ingresso della Galleria. C'era nebbia nella piazza e quando vi arrivammo vicino, la facciata della cattedrale ci parve enorme e la pietra era bagnata.

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Pagina 45

I misteri di Porta Comasina
Dino Buzzati



Ma intanto lei, portata via dal sonno, inconsapevole del male che ha fatto e che farà, si libra sotto i tetti i lucernari le terrazze le guglie di Milano, è una cosa giovane piccolissima e nuda, è un tenero e bianco granellino sospeso pulviscolo di carne, o di anima forse, con dentro un adorato e impossibile sogno. Attraverso la stratificazione di caligini il riverbero rossastro dei lampioni ancora accesi la illuminava dolcemente facendola risplendere con pietà e mistero. [...] Ma la città dormiva, le strade erano deserte, nessuno, neppure lui alzerà gli occhi a guardarla.

Misteriosa, eterea, ineffabile, eppure mai così terrena e concreta. La Milano di Dino Buzzati - o almeno quella delle due opere maggiori ambientate in città, Un amore e Poema a fumetti - è una presenza viva e ingombrante, che si sfalda di notte per poi ricomporsi dal principio il giorno successivo, diversa e sempre più minacciosa. È una città inospitale, gravida di clacson, traffico e macchine parcheggiate sui marciapiedi, una città che rimane appiccicata ai vestiti come smog puzzolente. In questa Milano le vie sono buie, illuminate a stento dai pochi lampioni dalla luce intermittente, e al di là delle facciate dei palazzi borghesi si snodano quartieri popolari dove le puttane adescano il cliente per strada e lo conducono verso zone torbide dell'esistenza. Lì, le inflessioni della voce sono dialettali, gli ospizi si fanno bordelli e, a volte, è persino possibile trovare l'ingresso per l'Ade in una fermata della metropolitana. In questa città i contorni tra ciò che è reale e ciò che è soltanto un'inaccessibile fantasia si permeano, si mescolano e si infettano. E l'unica salvezza sembra essere quel breve minuto di silenzio che, a volte, si propaga nella notte dopo che l'ultima automobile ha trovato posteggio lungo il controviale.

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Pagina 52

Corso Garibaldi, ovvero avanti popolo!


Antonio passava a piedi appunto per corso Garibaldi di ritorno dal suo studio, per tornarsene a casa, in piazza Castello. Passato il largo della Foppa, verso il centro, la strada assume una grande intensità di Milano. Le case per lo più vecchie o vecchissime, da una parte e dall'altra. I negozi uno dopo l'altro. Anditi bui che si ingolfano verso tetri e strani cortili.

Corso Garibaldi dà il nome a tutto il quartiere, e così era anche quando si chiamava corso di Porta Comasina, prima dell'unità d'Italia. Ai tempi di Un amore questa era una delle zone più popolaresche all'interno dei Bastioni, insieme al Ticinese. Quartiere di botteghe artigiane e operai, manovali a cottimo e bottiglierie, «marciapiedi che formicolano di gente», con «un'animazione piena di vita, popolaresca, gaia, non misera, attesa e abbandono, fretta se mai, preoccupazione di non arrivare in tempo». Una strada proletaria che conduceva indistintamente alla bohème di Brera oppure all'alta borghesia di piazza Castello. E se, ai tempi di Buzzati, i gentiluomini lo attraversavano in tutta fretta, mani in tasca e sguardo a terra, oggi ci troviamo a passeggiare in uno dei quartieri più vivi della città. Largo La Foppa è il ritrovo serale di giovani avvocati, stellette televisive e professionisti in giacca e cravatta, corso Garibaldi un susseguirsi di negozi e bar stipati di gente. Basta alzare lo sguardo verso corso Como, poi, per imbattersi nella sagoma a vetri della Torre Unicredit, con il suo pinnacolo che sembra solleticare il cielo.


Corso Garibaldi, ovvero la confusione urbanistica


Anche in corso Garibaldi si ha la sensazione che sia successo qualcosa di sbagliato. La strada procede a singhiozzo: un vecchio palazzo di ringhiera dalle tinte pastello seguito da un parallelepipedo di dieci piani con portici e terrazzi, un vecchio palazzo e un parallelepipedo porticato, e così via. Ma non solo: tutti gli edifici moderni (che risalgono rigorosamente agli anni Cinquanta e Sessanta) sono posizionati una decina di metri più indietro rispetto a quelli storici, con il risultato che il marciapiede si stringe e si allarga senza soluzione di continuità, procedendo a zigzag. Insomma, una gran confusione. È tutta colpa di un piano urbanistico degli anni Cinquanta che prevedeva la totale demolizione degli edifici storici, l'allargamento della strada medievale in un viale a quattro corsie, oltre alla costruzione dei parallelepipedi porticati. Si voleva costruire nel bel mezzo del centro storico di Milano una strada degna del lungomare di Jesolo. Le giustificazioni erano sempre le stesse: c'era il boom, le case vecchie non erano alla moda, il Piano Marshall, e poi servivano più appartamenti, palazzi più alti, senza contare che la città doveva essere ripensata a uso e consumo delle automobili. Oppure, potremmo prendere per buona la spiegazione che ci dà Dino Buzzati, seguendo la passeggiata dell'ingegner Dorigo lungo corso Garibaldi:

Pezzo a pezzo, la vecchia Milano era stata distrutta. Risparmiati soltanto i solenni palazzi, simili, in fondo, ai palazzi di tutte le altre città di ogni paese: esprimendo, non importa in che stile, gli orgogli e le vanità della medesima specie umana. Mentre è proprio nelle abitazioni dei poveri diavoli che viene fuori l'animo genuino del popolo. Ma i bestiali non capiscono queste cose e con il peso dei miliardi spianano i sozzi e polverosi quartieri dei millenni a scopo di lucro.

Per fortuna, corso Garibaldi si trova in Italia. E, come spesso succede nel nostro Paese, il piano urbanistico è stato avviato, ma non è mai giunto alla conclusione. Gli abitanti del quartiere - quelli con le facce «meno tirate, ansiose e atone che in tante altre contrade della città, anche più centrali, ricche e moderne» - sono riusciti a bloccare l'avanzamento del progetto, negli anni Settanta. Il risultato è una via senza senso, un inno alla confusione urbanistica.

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Pagina 59

Milano (nordest) calibro 9
Giorgio Scerbanenco



C'è qualcuno che non ha ancora capito che Milano è una grande città... [...] Se uno dice Marsiglia, Chicago, Parigi, quelle sì che sono metropoli, con tanti delinquenti dentro, ma Milano no, a qualche stupido non dà la sensazione della grande città, cercano ancora quello che chiamano il colore locale, la brasera, la pesa, e magari il gamba de legn. Si dimenticano che una città vicina ai due milioni di abitanti ha un tono internazionale, non locale, in una città grande come Milano, arrivano sporcaccioni da tutte le parti del mondo, e pazzi, e alcolizzati, drogati, o semplicemente disperati in cerca di soldi che si fanno affittare una rivoltella, rubano una macchina e saltano sul bancone di una banca gridando: Stendetevi tutti per terra, come hanno sentito che si deve fare.

Milano si è allargata in un'infinita periferia. Ha fagocitato cascine, campi coltivati e borghi storici, e si è ritrovata, senza rendersene conto, una metropoli. È figlia del boom economico, piena di lavoro e di opportunità. Piena di dané. Arrivano da tutta Italia per inseguire il sogno americano, quello che trasmettono le tivù in bianco e nero, e si ammassano nei quartieri più lontani dai Bastioni, in casermoni grigi e ocra. Tanta gente onesta, lavoratrice; ma anche un buon numero di criminali, che vanno a mescolarsi a quel che resta della ligera locale. Perché se i soldi ci sono, devono essere di tutti. E chi non li ha, se li vuole prendere. Nella Milano di Giorgio Scerbanenco, torbida e notturna, il centro quasi non esiste, le rivoltelle hanno i colpi in canna e ogni palazzo può essere imbrattato dal sangue. E allora, per chi abita all'estremo margine di Lambrate, oppure dalle parti di Corsico, sulle sponde del Naviglio - un Naviglio senza parapetto: è così semplice caderci dentro, magari per una piccola spinta, e finire all'obitorio di piazzale Gorini -, c'è spazio soltanto per la violenza, rabbiosa, che cresce tra le pareti scrostate. È una città inospitale e senza mezze misure, questa «Milano come Chicago».


Dalla ligera alla Milano criminale


Milano è molto più di uno sfondo per Giorgio Scerbanenco (il cui vero nome è Vladimir Scerbanenko, nato a Kiev, cresciuto a Roma, e arrivato in Lombardia a diciotto anni): è il simbolo di un'Italia contadina che, all'improvviso, si è ritrovata addosso la tuta blu; di una società approdata al consumismo senza aver davvero capito di essere uscita dalla povertà. E a Milano, lungo strade caotiche e inospitali, con le auto «in quadruplice o sestuplice fila», vive Duca Lamberti, il protagonista di quattro romanzi che hanno cambiato le regole del giallo italiano, tingendolo di tonalità noir e hard boiled: tra il 1966 e il 1969 escono, in rapida successione, Venere privata, Traditori di tutti, I ragazzi del massacro e I milanesi ammazzano al sabato.

Sono anni che rappresentano un punto di svolta anche per quanto riguarda la mala cittadina. Il 25 settembre del 1967 verrà infatti ricordato come il giorno della rapina di largo Zandonai. Quattro banditi - la "banda Cavallero" -, dopo aver svaligiato il Banco di Napoli, aprono il fuoco sui passanti per creare un diversivo e seminare così la polizia. In mezz'ora di inseguimento vengono uccise quattro persone, e ferite ventitré. Da quel momento il crimine milanese si farà sempre più spietato, sanguinario e violento. Ma anche organizzato, con un giro di affari che si allarga a night, casinò, droga e prostituzione: saranno gli anni di Francis Turatello e Renato Vallanzasca, ma anche quelli della prima, estesa penetrazione della mafia siciliana. Niente a che vedere con ciò che fino a poco tempo prima è stata la ligera, la vecchia malavita estrosa e un po' scalcagnata cantata da Jannacci, Gaber e Simonetta: uomini che raramente sparavano e quasi mai uccidevano (il suo ultimo rappresentante è forse Luciano Lutring, il "solista del mitra", che rapina le banche nascondendo dentro la custodia di un violino una mitragliatrice con cui non colpirà nessuno).

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Pagina 66

Il «placido periferico deserto» di piazza Leonardo


Alle undici della mattina piazza Leonardo da Vinci è un placido periferico deserto attraversato persino da carrozzelle con dentro innocenti bambini e da tram inverosimilmente quasi vuoti, e in quell'ora, in quella stagione, in quella dolce imbronciata giornata di aprile, si poteva amare ancora Milano.

Piazza Leonardo da Vinci si apre in un punto in cui non ce lo aspettiamo, rassegnati ormai all'inevitabile scivolamento della città verso la periferia: il suo ampio giardino alberato, l'imponente edificio del Politecnico con le sue statue e i suoi pinnacoli, la strada lastricata dove possono a malapena affiancarsi due tram. Qui abita Duca Lamberti, con sorella e nipotino, in un «palazzotto» da cui si accede superando un «quattrocentesco, mastodontico portone». Siamo nel cuore di Città Studi, un quartiere figlio degli ultimi sussulti di fiducia positivista: nei primi anni del Novecento si è voluto conquistare una zona di aperta campagna, non troppo distante dalla città che stava crescendo, per impiantarci le nuove università milanesi. All'epoca si temeva che ne venisse fuori una cattedrale nel deserto, che fosse troppo ampia quella porzione di terreno, e troppo lontana dal centro. Oggi, è vero l'opposto: trovano a malapena posto una parte delle sedi del Politecnico e le facoltà scientifiche della Statale. Si sta già parlando di trasferirle ancora più lontano, a Rho.

Scerbanenco non poteva scegliere un luogo migliore per dare casa al suo protagonista: piazza Leonardo da Vinci era l'estrema propaggine della città borghese che si insinuava nelle periferie operaie, regno di fabbriche e officine, ma anche del crimine organizzato. Uno come Lamberti non avrebbe mai vissuto in centro, protetto dai Bastioni: il suo appartamento doveva essere un avamposto verso l'esterno, un ponte tra due mondi. E poi, più semplicemente, ci sono alcuni giorni in cui piazza Leonardo da Vinci è di una bellezza quasi struggente, proprio per il suo essere spuria, incongrua. Lo dice anche Scerbanenco: «Quando uno ha una finestra aperta su piazza Leonardo da Vinci, con gli alberi di nuovo verdi per la primavera, ha tutto».

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Pagina 87

L'inverno più mite da un quarto di secolo
Elio Vittorini



L'inverno del '44 è stato a Milano il più mite che si sia avuto da un quarto di secolo; nebbia quasi mai, neve mai, pioggia non più da novembre, e non una nuvola per mesi; tutto il giorno il sole. Spuntava il giorno e spuntava il sole; cadeva il giorno e se ne andava il sole. [...]

Splendeva il sole sulle macerie del '43; splendeva, ai Giardini, sugli alberi ignudi e sulle cancellate; ed era una mattina nell'inverno, era gennaio.

È una Milano ferita, quella su cui splende il sole all'inizio di Uomini e no. I palazzi distrutti dai bombardamenti alleati, le macerie ammassate agli angoli delle strade, gli ufficiali nazisti che scorrazzano per la città a braccetto con i burattini di Salò, gli spari e le rappresaglie, il terrore. Siamo nella fase finale della Seconda guerra mondiale, ma è difficile rendersene conto all'interno di una città occupata e spopolata: tra morti, sfollati e dispersi in tutta Europa, a Milano ci abitano ormai solo duecentomila persone o poco più, un quinto di quelle che c'erano all'inizio del conflitto. La notte, poi, il silenzio è irreale. Le strade sono buie e deserte, in giro ci si imbatte soltanto in divise con «la testa di morto», camioncini militari e qualche sparuto civile con in tasca il lasciapassare. La città stessa sembra trattenere il respiro, nella speranza di risvegliarsi il giorno dopo in una condizione migliore. Ma il domani bisogna costruirselo, lo dice Elio Vittorini e lo dicono i fogli clandestini che vengono stampati nei sotterranei e che passano di mano in mano, un gesto furtivo e lo sguardo ancorato a terra. Combattere e, forse, morire: ecco qual è il prezzo della libertà.


Mensis horribilis


Elio Vittorini , siciliano di nascita, arriva a Milano nell'autunno del 1938, su invito di Valentino Bompiani. Per lui Milano sarà la città del lavoro editoriale e dell'impegno politico, delle possibilità e del cambiamento, quella che, per usare le sue stesse parole, gli restituisce il «contatto passionale con le cose». Durante la guerra, collabora con il fronte antifascista curando fogli e giornali di propaganda, e proprio nel corso di una riunione indetta per mettere a punto un'edizione speciale dell'«Unità», viene arrestato. È il 26 luglio 1943, il giorno prima Mussolini era stato destituito. Vittorini rimane nel carcere di San Vittore fino all'inizio di settembre, e da li assiste al mese più cupo di Milano, il terribile agosto del 1943, quando una lunga serie di bombardamenti inglesi rade al suolo mezza città. I morti sono centinaia, gli edifici distrutti non si contano (e tra questi c'è anche la sua casa, con tutti i libri e i manoscritti che andranno dispersi): poco e niente scampa alle bombe. Elio Vittorini affida alle pagine di Diario in pubblico il suo ricordo.

L'incursione del 15 agosto non fu la più dura né la più lunga; la più lunga era stata il 12, giovedì, e la più dura la notte prima, sabato 14; ma fu la più cupa. Parve che volesse spegnere, coprire; rovesciava oscurità: terra e tuono, ed ogni suo colpo era una fossa che si colmava sul fuoco delle case.

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Pagina 91

Una pausa in piazza Fontana


Berta non si ferma in piazza Fontana, anzi, accelera il passo: «è accaduto qualcosa» poco più avanti, lo percepisce dai volti delle persone, dal loro pallore, dalla quieta agitazione cui erano preda. Noi, però, ci prendiamo una pausa. Attraversando questa tranquilla piazzetta, dove i turisti riposano all'ombra degli alberi adocchiando le reflex, lo sguardo inciampa sulla Banca Nazionale dell'Agricoltura: è inevitabile. La sua facciata austera, al di là del capolinea del tram, porta con sé il ricordo di altre bombe, di altri morti, di altri fascismi. Non è questo il momento per ricordare il 12 dicembre del 1969, «la morte accidentale di un anarchico» raccontata da Dario Fo, ma una sosta davanti alle lapidi dedicate a Giuseppe Pinelli è d'obbligo. Ce ne sono due, e il numero è tutt'altro che casuale, la verità stessa per molto tempo è sembrata duplice. Si trovano nel giardinetto che separa il piccolo rondò di piazza Fontana dalla sede della polizia locale di via Beccaria. La prima dice: INNOCENTE MORTO TRAGICAMENTE, la seconda: UCCISO INNOCENTE.

Ci sarebbe stato un gran bisogno di un intellettuale come Vittorini in quel giorno del 1969, ma lo scrittore siciliano era morto tre anni prima, dopo essere stato per anni protagonista del rinnovamento culturale e politico italiano, prima con «il Politecnico», poi con la collana einaudiana dei Gettoni. Che cosa avrebbe detto guardando l'immensa sala della banca sventrata dall'esplosione? Come avrebbe reagito all'epoca che si stava aprendo, quella delle stragi? Non possiamo saperlo. Probabilmente, però, avrebbe apprezzato quanto scrive Corrado Stajano nella Città degli untori.

[La strage di piazza Fontana] significò il rifiuto di tutto quanto viene dato per scontato, la necessità di una continua riconquista dei diritti acquisiti e poi cancellati, il dovere di mettere perennemente in discussione le "verità" del potere politico e istituzionale e le certezze di chi, in nome della ragion di Stato, ritiene oro colato anche le bugie più impudiche.

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Bonus Track. Le rovine della città


Non soltanto il terribile agosto del 1943; i bombardamenti su Milano sono una costante di tutta la Seconda guerra mondiale. Il gracchiare delle sirene è una compagnia regolare di quelle giornate, e tutti hanno preso l'abitudine di correre il più in fretta possibile nei rifugi contrassegnati dalla scritta US, "uscita di sicurezza". Rossana Rossanda, nella sua autobiografia La ragazza del secolo scorso , racconta di quando, nell'autunno del 1942 - «o era il febbraio del 1943?» - «venne giù la casa». La futura fondatrice del «manifesto» si è da poco iscritta all'università ed è «presa più dai fragori della mente che da quello della guerra», con quella vitalità intellettuale che si può avere soltanto a vent'anni. E che traspare dal suo ricordo.

Quelle quattro bombe che prendevano posizione e velocità sotto i miei occhi mi scombussolarono: dunque non ero eterna, convinzione che fino allora avevo nutrito, sarei potuta essere già morta se il pilota avesse sganciato qualche secondo prima o dopo. Ero casuale. Ne fui oltraggiata.


Nello stesso periodo, quando cadono le bombe che cambieranno per sempre il volto di Milano, Alberto Savinio sta rileggendo le bozze del suo Ascolto il tuo cuore, città, che sarebbe dovuto uscire di lì a poco. Il suo «ritratto di città» viene però superato dall'orrore della guerra e diventa anacronistico ancor prima di essere pubblicato, configurandosi come una descrizione di quel che Milano è stata e non sarà più. Savinio si sente allora in dovere di aggiungere alcune pagine, «un accenno all'"altro" volto di Milano, un auspicio al volto che sarà». Queste righe sono datate 27 agosto 1943:

Giro tra le rovine di Milano. Perché questa esaltazione in me? Dovrei essere triste, e invece sono formicolante di gioia. Dovrei mulinare pensieri di morte, e invece pensieri di vita mi battano in fronte, come il soffio del più puro e radioso mattino. Perché? Sento che da questa morte nascerà nuova vita. Sento che da queste rovine sorgerà una città più forte, più ricca, più bella. Fu allora, Milano, che in silenzio, tra me e il tuo cuore, ti feci la mia promessa. Tornare a te. Chiudere in te la mia vita. Tra le tue pietre, sotto il tuo cielo, tra i tuoi conchiusi giardini. Amen.

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Una città d'acqua senz'acqua


Milano è una città d'acqua. Questo rapporto, una volta superato il ponte delle Gabelle e raggiunta la Darsena, si fa tangibile. E racconta una storia di mancata comprensione. Milano ha avuto ponti, canali e commerci fluviali (la Darsena, tanto per dire, quando ancora si chiamava "laghetto di Sant'Eustorgio" era uno dei porti più importanti d'Italia), eppure non è mai stata bagnata da un fiume degno di questo nome. Ci sono voluti molti secoli e più di una dominazione straniera per creare una rete di canali navigabili che avvolgesse l'intera città mettendo in comunicazione il lago Maggiore con quello di Como e il basso Ticino, e poi quella rete è divenuta obsoleta poco dopo essere stata ultimata, nell'Ottocento. Da lì è andato tutto di corsa, ed ecco che una colata di cemento e catrame ha ricoperto l'intera cerchia interna. Oggi però c'è nostalgia di Navigli, e si vuole scavarli di nuovo, anzi "riaprirli". Si, Milano è decisamente una città d'acqua. Il problema è che non lo sa.

Forse che vi si trovano paludi o acque putride, che corrompono l'aria con le loro nebbie e i loro fetori? No di certo: vi si trovano invece limpide fonti e fiumi fecondatori. [...]

Dentro la città non vi sono cisterne né condutture di acque che vengano da lontano, ma acque vive, naturali, mirabilmente adatte a essere bevute dall'uomo, limpide, salubri, a portata di mano, mai scarseggianti anche se il tempo è asciutto [...].


Sono parole di Bonvesin da la Riva (la "Riva", ossia la ripa di Porta Ticinese) che le ha scritte nel 1288, seicentocinquanta anni prima della nascita di Alda Merini. Il letterato e grammatico meneghino ci ha lasciato un trattato in cui ci racconta, con uno squisito gusto medievale per l'enumerazione, perché «Milano è superiore in modo particolare [...] a qualsiasi altra città». Non stupisce che il titolo dell'opera sia Le meraviglie di Milano. Ed è proprio con l'acqua che Bonvesin da la Riva inizia il suo elogio, passando in rassegna tutte le rogge, i canali, le fonti e i pozzi della città e del contado e arrivando a queste conclusioni: «Il valore delle abbondanti e preziose acque di Milano è superiore a tutto il vino e l'acqua messi insieme di certe altre città». Ma, come ci ricorda la saggezza popolare, di acqua da allora ne è passata sotto i ponti.

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Il lato oscuro della "Milano da bere"


È il 1985 quando fa il suo esordio uno degli spot più famosi della televisione italiana. Accompagnata dalla musica dei Weather Report e dalle immagini di una Milano «che rinasce ogni mattina» e «pulsa come un cuore», quella pubblicità si conclude con un'enorme bottiglia di Amaro Ramazzotti che spunta nella notte meneghina, mentre lo speaker, con voce ammiccante, afferma: «Questa Milano da vivere, da sognare, da godere. Questa Milano da bere». Nasce così un'espressione che entra con forza nell'immaginario collettivo e che descrive alla perfezione le aspirazioni di un'epoca. Nel 1985, Milano si è finalmente lasciata alle spalle gli anni di piombo e ne ha approfittato per rifarsi il look: colorata, luminosa, ricca, dinamica, glamour. O per continuare a usare le parole di quella pubblicità: «Positiva, ottimista, efficiente». Una Città che vuole divertirsi e divertire.

Ma se le vie intorno a Monte Napoleone iniziano a essere chiamate "quadrilatero della moda", le agenzie vengono invase da aspiranti soubrette, la finanza promette a tutti una ricchezza tanto facile quanto fittizia e la musica invade i locali; nei parcheggi, nei giardini pubblici e ovunque l'occhio televisivo non guardi si consuma una strage silenziosa. Tra la metà degli anni Settanta e l'inizio degli anni Novanta un'intera generazione viene falcidiata dall'eroina. (Nel 1988, in provincia di Milano, sono 164 i decessi per overdose, ed è proprio di quell'anno la famosa serie di fotografie scattate da Dino Fracchia al Parco Lambro: due giovani che si stringono il laccio emostatico, si preparano una dose e poi se la iniettano in vena). Il lato nascosto degli anni Ottanta è molto più oscuro di quanto raccontano le pubblicità, ed è la storia di una lenta agonia globalizzata. Ce lo conferma Alessandro Bertante, nel romanzo Gli ultimi ragazzi del secolo: «Fu come un'epidemia, un virus potentissimo che colpì anche persone intelligenti e con alle spalle una famiglia che avrebbe potuto aiutarli». E aggiunge:

Non credo che nessuno abbia capito veramente cosa sia successo alla mia generazione, quale causa profonda e insondabile si nasconda dietro questa strage di ragazzi, alle migliaia di vittime innocenti di una guerra che non è mai stata dichiarata. Ma di una cosa sono certo, già nel 1986 le primavere non erano più spensierate.

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Ma per Emilio Tadini piazzale Loreto porta con sé, soprattutto, ricordi molto più antichi: i cadaveri dei quindici antifascisti esposti come monito alla popolazione, nel 1944, all'angolo con via Andrea Doria; e quelli di Benito Mussolini, della sua amante Clara Petacci e dei gerarchi scaricati sul marciapiede nella notte del 29 aprile 1945. Impossibile non serbare per sempre negli occhi le immagini di quei corpi issati sulla pensilina del distributore Standard Oil, all'incrocio con corso Buenos Aires, e lasciati penzolare a testa in giù. Di quei momenti drammatici, Tadini ricorda soprattutto la folla, una folla oceanica che si accalca intorno ai cadaveri e strilla, inveisce, lancia ortaggi, esplode colpi di pistola. Uomini e donne esasperati dai lunghi anni di guerra, dai bombardamenti e dall'occupazione nazista; inferociti come possono esserlo soltanto coloro che hanno perso una casa e sono sopravvissuti a una guerra civile; crudeli come a volte diventa la massa, quando, protetta dall'anonimato, si lascia andare alle pulsioni più torbide. E, davanti agli occhi, c'è l'uomo che ha condotto il Paese al massacro. È il "giornalista miope" della Lunga notte a raccontarcelo:

Ecco, il tempo di una corsa! Finché, correndo - non più di un minuto o due - arrivo in piazzale Loreto, pieno di gente. E anche via Porpora, adesso, alle mie spalle, è piena di gente... Ancora piazzale Loreto... E li vedo, là in fondo. Appesi alle travi in ferro della tettoia sopra il distributore di benzina... Appesi per i piedi. Mussolini e gli altri. Ombre nere - fagotti che dondolavano... Vedo le corde.

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