Autore Benedetto Vecchi
Titolo La rete dall'utopia al mercato
Edizionemanifestolibri, Roma, 2015, ecommons , pag. 176, cop.fle., dim. 14,3x21x1,1 cm , Isbn 978-88-7285-801-1
LettoreRiccardo Terzi, 2015
Classe sociologia , informatica: reti , informatica: politica , informatica: sociologia , beni comuni , movimenti , lavoro












 

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Indice


Il divenire della cultura della rete                     9

Il buon senso digitale a favore dell'ordine costituito  25

Nei labirinti dell'innovazione                          63

La società della conoscenza                             89

Frammenti di un googleplex                             121

I cacciatori di opinione pubblica                      137

Il potere degli anonimi                                157


 

 

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IL DIVENIRE DELLA CULTURA DELLA RETE



La frontiera elettronica è stata, alla fine, colonizzata. Da territorio inesplorato e popolato da uomini e donne in fuga dall'ordine costituito, è divenuta parte integrante della vita quotidiana per chi abita tanto nel Nord che nel Sud del pianeta. Al pari della realtà al di fuori dello schermo, è segnata da gerarchie, diseguaglianze sociali e dai conseguenti conflitti che scandiscono il tempo sociale. Ma ciò che si impone alla critica della società digitale è il venir meno proprio di quella primaria distinzione tra vita dentro e vita fuori lo schermo. È da questa separazione che la netculture ha preso il via. Il cyberspazio, e dunque il world wide web, era una realtà con regole e relazioni sociali differenti da quelle vigenti fuori dallo schermo. Una differenza pregna di potenzialità liberatorie che facevano guardare alle modalità di comunicazione, di rapporti interpersonali, di produzione della ricchezza come a un insieme aperto alla trasformazione e alla possibilità di accedere a quel regno della libertà che la necessità aveva sempre rinviato in un prossimo, ma sempre distante futuro. La libertà dallo sfruttamento, dall'oppressione, era come l'orizzonte, sempre a portata di sguardo, ma irraggiungibile. Nel cyberspazio, e nella Rete, dunque, non c'era nessun orizzonte da raggiungere, ma solo un presente nel quale la miseria cedeva finalmente il passo alla potenza di un agire collettivo che faceva a meno dello Stato e delle organizzazioni della Politica. Nella Rete non c'era posto per i guardiani dello status quo, ma neppure per le rigide regole che attengono alla forma partito. Tutto indicava un movimento che travolgeva istituzioni, regole, dispositivi del controllo. Una idea della Rete che ha visto suoi entusiastici sostenitori hacker e militanti delusi dalle rigide cerimonie della politica, libertari di provata fede e imprenditori messi all'angolo da un "sistema" dominato da grandi corporations ostili a ogni idea innovativa che potesse mettere in discussione la loro rendita di posizione.

Di questa "terra promessa" non c'è più traccia, se non nelle parole di qualche utopista dell'ultima ora. Va tuttavia sottolineato che l'idea di un regno della libertà nato nei nodi della comunicazione on line è stata dominante per molti anni, fino a quando nel 2001 la crisi delle dot-com ha costretto a misurarsi con una realtà meno lineare di quella dipinta da chi invitava il mondo a connettersi per vivere, finalmente, l'esperienza in cui il desiderio e la sua soddisfazione non dovevano più passare sotto le forche caudine del bisogno da soddisfare.

Non si tratta di definire asfittiche genealogie della cultura della Rete, bensì di fare i conti con una realtà in veloce divenire che ha accecato le facoltà di critica. Nessuno è stato immune da questo abbaglio. Neppure chi scrive. A parziale giustificazione si potrebbe invocare l'adesione a una concezione del virtuale come potenzialità inespresse del reale, considerato, all'opposto di quanto sostiene il filosofo sloveno Slavoj Zizek , non un arido deserto, bensì un campo di sfruttamento, ma anche di movimenti sociali decisi a trasformarlo. Ma sarebbe una giustificazione che non aiuta a capire perché nell'arco di una manciata di anni la Rete è passata da regno della libertà a sinonimo di un controllo sociale che non lascia spazio alla privacy e dove ogni attività compiuta on-line viene taggata, registrata e archiviata da governi nazionali e imprese transnazionali. Né spiega il perché Internet sia diventata da luogo dove lavorare in assenza di gerarchie a paradigma di un mondo marchiato dalla precarietà e dal comando esercitato dalle imprese. Il divenire della netculture va analizzato per poter esercitare un pensiero critico sul presente. Il punto di partenza, scelto con la consapevolezza di una scelta di campo è il libro pubblicato da una studiosa italiana, che ha indagato il mutamento della cultura di Rete in Inghilterra. Tiziana Terranova, questo il suo nome, non ha mai nascosto di essere una ricercatrice militante. La prassi teorica che ha condensato nei suoi libri, saggi e seminari è da considerare uno spartiacque tra il prima (l'abbaglio) e l'amara scoperta delle illusioni coltivate. È cioè una bussola per orientarsi nella attuale miseria del reale, con lo scopo di sovvertirlo.

Primi ingredienti indispensabili: rigore e curiosità. Due virtù presenti in un suo importante saggio di diversi anni fa. Il rigore emerge nell'analisi di alcuni temi di frontiera come la computazione biologica, oppure quando passa in rassegna la letteratura della e sulla rete, da Jean Baudrillard a Manuel Castells, da Tim Berners-Lee a Manuel de Landa. O ancora nell'attraversamento delle opere di Gilles Deleuze, Michel Foucault, Jürgen Habermas e del cosiddetto postoperaismo italiano. Rigore, ma senza nessun vezzo accademico. La curiosità invece emerge dall'interlocuzione ravvicinata con alcuni gruppi di mediattivisti. È un libro, il suo, che affronta temi assai eterogenei, ma che nel World wide web costituiscono tanti tasselli nella costruzione di quella che è chiamata, appunto, network culture, cioè uno «stare nel mondo» segnato dalla pervasività delle macchine digitali.

La rete è quindi un'esemplificazione potente delle trasformazioni sociali, tecnologiche e financo epistemologiche che hanno caratterizzato le nostre società, ma che non le esauriscono, basti pensare all'onnipresenza della televisione nella discussione pubblica, un medium che alterna formazione di opinione pubblica e rispecchiamento di forme di vita e consuetudini sociali maturate al di fuori del sistema dei media. Dunque, non solo Internet, ma quel frame mediatico che costituisce oramai una vera e propria infrastruttura della comunicazione sociale.

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Affermare che il lavoro di sviluppo del software, ma anche quello della cosiddetta produzione immateriale – moda, industria discografica, cinematografica, pubblicità, intermediazione finanziaria — significhi manipolare principalmente segni per produrre merci immateriali è una tautologia. Né può suscitare scandalo l'affermazione secondo la quale sono questi i settori che più di altri hanno sperimentato veri e propri terremoti organizzativi. Il modello dominante di impresa è quello a rete, dove ogni singolo nodo è vincolato all'altro da accordi commerciali che stabiliscono input e output del segmento produttivo e financo il modo in cui devono essere svolte le mansioni, mentre si dissolvono progressivamente le gerarchie intermedie a favore di forme di controllo sulla forza-lavoro che a ragione Terranova chiama soft control.


È indubbio che sia il cyberspazio che l'industria dell'immaginario sono caratterizzati da «lavoro libero», cioè da una prestazione lavorativa che fa leva sulla creatività, l'autonomia individuale nel prendere decisioni, come recita d'altronde anche la vulgata apologetica dell'etica hacker del lavoro. E tuttavia queste modalità di governo della forza-lavoro e questi modelli produttivi non sono prerogative solo della «vita dentro lo schermo»: è tutto il capitalismo che funziona oramai su questa tipologia di «lavoro libero». Ma l'aggettivo libero non deve trarre in inganno: l'unica libertà ammessa rimane sempre quella di vendere la propria forza-lavoro.

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La Rete, dunque, come un approdo "organizzato" per trovare riparo dalle tempeste del mercato. Ed è proprio con queste ultime che la network culture deve misurarsi. La frontiera elettronica è stata colonizzata, relegando ai margini quell'attitudine ribelle degli hacker che hanno fatto guardare alla Rete come a una terra promessa, una nuova Gerusalemme da costruire dopo avere preso congedo dal capitalismo industriale e aver attraversato il deserto della sconfitta dei movimenti sociali e controculturali degli anni Sessanta. Le prime esperienze di comunità on-line, che pure avevano tratto alimento e ispirazione dalla controcultura, si sono dissolte quando, nella Rete, le imprese hanno cominciato a servirsene come infrastruttura comunicativa, vetrina della propria attività produttiva. Ma quel che più conta è che la diffusione planetaria di Internet ha cancellato gli equilibri, meglio i rapporti di potere tra le major dell'alta tecnologia. Il centro della scena è ormai occupato da Google, Facebook, Twitter, mentre i programma open source, che avevano fatto parlare di crisi verticale della proprietà intellettuale o di capitalismo senza proprietà, sono diventati la chiave di accesso a quello che ormai viene chiamato il web 2.0, caratterizzato da interattività e "autocomunicazione di massa". Nel lessico della network culture irrompono termini ed espressioni – peer to peer production, wikienomics, economia della condivisione – che registrano e provano a qualificare i modelli di business e le relazioni sociali che dalla Rete hanno tracimato nella realtà fuori dallo schermo. Più che benvenuti nel deserto del reale, il motto diventa "benvenuti nel capitalismo cognitivo".

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IL BUON SENSO DIGITALE
A FAVORE DELL'ORDINE COSTITUITO



La netculture è sempre stata una comunità intellettuale e tecnologica variegata e spesso rissosa al suo interno. Puoi annoverare tra i suoi esponenti il mistico e olistico Kevin Kelly e il visionario artista Lev Manovich, il giurista libertario Yochai Benkler e l'ispiratore dei creative commons Lawrence Lessig , il guru del free software Richard Stalman e l'entusiasta agit-prop della "economia della collaborazione" Don Tapscott. Ma se tutti questi studiosi e tecnologi possono essere considerati, al di là delle differenze evidenti delle tesi che hanno sviluppato, le colonne portanti della visione dominante su Internet e nel cosiddetto web 2.0, non possono essere rimossi i contributi di chi ha cercato di indagare criticamente la «rivoluzione del silicio» a partire dalla messa a verifica delle tesi marxiane sul capitalismo contemporaneo. In questo caso l'accento è stato messo sulle caratteristiche del «lavoro cognitivo», individuando nella Rete un laboratorio dove si manifestavano le caratteristiche dominanti del rapporto tra capitale e lavoro vivo nella contemporaneità.

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È infatti indubbio che, nonostante le letture apologetiche o conflittuali della Rete, tra gli anni Novanta e il primo decennio di questo nuovo millennio, Internet e il cosiddetto web 2.0 sono stati interpretati come lo spazio nel quale il progresso tecnologico avrebbe condotto magicamente al sempre desiderato «regno della libertà», dove i singoli potevano esprimere al meglio la loro creatività perché messi al riparo dalle soffocanti gerarchie delle organizzazioni produttive tipiche del lungo secolo novecentesco. Da alcuni anni, però, questa illusione di un presente e di un futuro di abbondanza e affrancamento dal regime di sfruttamento ha lasciato il posto a una visione decisamente meno indulgente verso il mondo connesso dalla Rete. Uno degli analisti colpiti sulla via di Damasco, passando da una concezione apologetica a una decisamente critica verso la Rete, è Nicholas Carr. La comunicazione on-line e la presenza delle imprese su Internet mette a repentaglio quel bene inestimabile che è la privacy, argomenta Carr nel volume Il lato oscuro della rete. È un pamphlet nel quale Carr avverte che il mondo digitale provoca una regressione cognitiva di massa perché è al computer che viene sempre più delegato il compito di eseguire una serie di operazioni già prerogativa dei soli umani – fare calcoli, confrontare materiali, condurre ricerche. Sulla falsariga di questo saggio è da annoverare anche il testo di un noto critico letterario, come John Freeman, che non ha molte remore nel denunciare la Tirannia della e-mail, intendendo con ciò gli effetti disastrosi sulle relazione sociali provocati da quella perenne connessione alla rete di uomini e donne, che, oltre al computer, ha come medium i telefoni cellulari di nuova generazione. Le posizioni di Carr hanno avuto molta eco negli Stati Uniti, provocando una sorta di sospiro liberatorio proprio da parte di quella intellighenzia liberal che, passata attraverso il fascino per il mondo digitale guarda invece con sempre maggiore fastidio a una realtà pervasa dalla comunicazione on-line. Così, i simboli del web 2.0 – Facebook, YouTube, Twitter, Wikipedia – sono di volta in volta definiti come i «vettori» di un imbarbarimento generalizzato che ha già colpito le giovani generazioni e che ormai sta colonizzando anche lo stare in società degli adulti.

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Occorre soffermarsi ulteriormente sulle loro biografie professionali. Come già detto, Jaron Lanier è noto nel mondo del web come pioniere delle ricerche sulle realtà virtuali, mentre Ethan Zuckerman è invece cofondatore di «Global Voice», uno dei forum più seguiti sulla cultura digitale. Entrambi hanno passato gran parte della loro vita connessi a Internet, ritenendo la Rete una delle nuove meraviglie del mondo moderno per la sua indubbia capacità di mettere tutti in comunicazione . Nel 2007 la realtà ha però bussato alle porte delle loro case e dell'ingenua utopia che aveva caratterizzato la loro giovinezza nelle loro riflessioni attuali ormai non c'è quasi più traccia. Gli Stati Uniti, paese dove vivono, hanno visto le proprie città popolarsi di poveri e di uomini e donne che, come gli hoboes dei primi trenta anni del Novecento, girano il paese alla ricerca di qualche lavoro che consenta loro di sopravvivere. I luoghi simbolo della potenza economica americana sono stati infatti desertificati da spregiudicate strategie di imprese che hanno spostato, con l'attivo supporto dei vari governi, i loro siti produttivi in altri paesi. Tutto ciò costituisce l'ineludibile sfondo di un'analisi che trasuda un'amara disillusione. Certo, Ethan Zuckerman in Rewire continua a considerare Internet come l'habitat di una attitudine cosmopolita che come un virus continua a propagarsi per il mondo, anche se deve ammettere che le virtù democratiche della Rete sono più visibili al di fuori che non all'interno degli Stati Uniti, paese che ha visto dispiegarsi una capillare attività di controllo sulle comunicazioni on-line da parte delle agenzie di intelligence nazionali. Chi non nutre nessuna illusione sulle virtù salvifiche della Rete, invece, è proprio Jaron Lanier, che considera il pianeta sull'orlo di una apocalisse culturale e sociale, perché la disoccupazione produce povertà e mina la democrazia.

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L'abbandono della giovanile e ingenua utopia della Rete come regno della libertà è però propedeutica allo sviluppo di una visione altrettanto ingenua, dove un ruolo centrale viene svolto dal mercato e dall'idea liberale che più si hanno informazioni più è possibile vivere in libertà. Le tesi dei due autori non sono robinsonate, come recitava il grande vecchio della critica all'economia politica quando analizzava gli studiosi del nascente capitalismo, ma poco ci manca. Oltre alla povertà e approssimazione analitica dei due autori – elemento che contraddistingue più le tesi di Lanier che quelle di Zuckerman – entrambe le proposte teoriche cancellano la dimensione del Politico, cioè dei rapporti di potere nel capitalismo contemporaneo. Sono autori, cioè, che aderiscono, ognuno a suo modo, allo spirito dominante del tempo. Mettono sì in evidenza paradossi e contraddizioni della realtà contemporanea, ma non li interpretano. Né sono propensi a intraprendere l'esodo che, dopo aver attraversato il deserto del reale, riesca a dare forma alle ricchezze del possibile.

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Così, dopo due decenni di elogio delle virtù salvifiche della Rete, quegli stessi apologeti si siedono di fronte al computer e definiscono Internet come il regno dell'ovvio, della stupidità e della manipolazione. Va in questa direzione, Frank Schirrmacher. Uno degli intellettuali e giornalisti più noti della Germania postunificazione (è morto nel 2014), Schirrmacher sottolinea come Internet alimenti una sorta di darwinismo digitale, espressione quest'ultima da intendere come giudizio sugli effetti provocati da una overdose da tecnologia al silicio sul cervello umano. Per quanto riguarda le facoltà cognitive, l'autore sostiene che alcune di queste sono sollecitate più di altre, creando una situazione che inibisce la capacità di distinguere le informazioni rilevanti dal rumore di fondo che caratterizza la Rete; oppure si determina un abbassamento della soglia di attenzione, creando così le condizioni per una manipolazione delle coscienze e per l'innalzamento di barriere d'ingresso nell'accesso alla conoscenza.

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La Rete, cioè, oscilla tra l'essere il contenitore di molteplici opinioni pubbliche e il prototipo di un possibile intellettuale collettivo. Insomma, tra rumore di fondo, crisi della figura dell'intellettuale e progetto teso a costruire un intellettuale collettivo, la Rete più che uno strumento di libertà o di oppressione è uno spazio aperto al conflitto. Con buona pace di chi la ritiene la quinta colonna della stupidità o di chi la elegge a prossima terra promessa per il fare società attraverso il mercato.

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[...] Sia però chiaro: Morozov non è un apocalittico critico della scienza e della tecnologia, né propone una frugale e austera decrescita che rallenti lo sviluppo scientifico. È un blogger che apprezza il potere comunicativo della Rete e dei social network. Al pari di molti storici della tecnologia ritiene che le macchine siano protesi meccaniche degli essere umani. Ma è altrettanto convinto che la Rete, i computer, gli smartphone, non sono protesi «stupide», ma hanno, in quanto «macchine universali» che riproducono attività cognitive, un potere performativo dei comportamenti, delle abitudini individuali e collettive. Sulla scia di Ellul, sostiene che siano espressioni di un sistema tecno-scientifico che limita le libertà dei singoli e inibisce le possibilità della società di scegliere vie di sviluppo diverse da quelle dominanti. Questo però non fa di Morozov un critico del capitalismo.

Lo studioso, giornalista nato in Bielorussia, ma statunitense per scelta, può essere considerato uno degli esponenti più brillanti di una posizione moderatamente anticorporations, che sostiene un intervento attivo dello Stato nel regolamentare la vita sociale, stabilendo limiti precisi all'azione delle multinazionali del digitale. Posizione che lo porta a scrivere di essere più in sintonia con i liberal che non con i repubblicani statunitensi. Significative nei suoi libri non sono però le sue posizioni politiche, bensì l'analisi proprio della vita dentro e fuori lo schermo, dove le strategie imprenditoriali di Apple, Google, Amazon, Facebook e Twitter più che aprire la strada a una società di liberi, minano secondo Morozov le basi della democrazia liberale.

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Chi invece non propone nessun ritorno al passato, né l'adesione allo status quo è Geert Lovink. La sua analisi è preziosa perché è svolta da un protagonista della netculture sin dai suoi esordi. Animatore di gruppi di discussione on line, direttore dell'Institute of Netculture di Amsterdam si è sempre confrontato tanto con le luci che con le ombre di Internet. Ed è forte di questa esperienza che ha affrontato le ossessioni del nuovo millennio, che hanno nella Rete un potente mezzo per diffondersi, riprodursi e mutare nel corso del tempo. Internet è infatti il medium che dà forma compiuta, cioè una architettura software, a speranze, timori, nevrosi che come un torrente si ingrossano per confluire nel grande mare dell'immaginario collettivo. Lovink riesce a tessere il filo rosso che lega la «psicopatologia del sovraccarico d'informazione», l'«estetica del video online», la «vita googlizzata nella società della consultazione online». Ogni grumo emotivo, sindrome, nevrosi che mette sotto il microscopio evidenziano la crisi di una teoria critica della Rete di cui Lovink è stato uno dei più interessanti e qualificati esponenti.

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Lovink usa il concetto di «reti organizzate» sviluppato da Ned Rossiter – di cui in Italia è stato pubblicato Reti organizzate (manifestolibri) – per indicare una via d'uscita dal carattere effimero dei momenti aggregativi originati dalla Rete. Da qui la centralità del momento organizzativo per definire le modalità delle relazioni sociali, l'alternarsi tra l'indipendenza dei singoli e la costruzione dell'autonomia della cooperazione sociale o di una rete politica autonoma dal potere dominante. Ma anche l'importanza di un brain storming teso a definire obiettivi (sociali, politici, culturali), nonché la scansione tra tattica e strategia per raggiungerli. La rete organizzata è dunque da considerare un antidoto all'«attivismo da salotto» o alla retorica che spiega i recenti movimenti sociali come appendici della comunicazione in Rete.

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Pagina 54

L'assenza di un confine tra virtuale e reale, tra vita dentro e fuori lo schermo pone così al centro della scena proprio l'intelligenza collettiva e la cooperazione sociale in quanto materie prime della produzione della ricchezza. Il modo di produzione dell'opinione pubblica è cioè un'attività produttiva scandita da lavoro salariato, enclosures della conoscenza , precarietà, manipolazione e controllo sociale. Temi attorno ai quali la teoria critica della Rete spesso ha ben poco da dire, ripiegando su una esaltazione dei flussi di dati come bestia ribelle che non tollera di essere addomesticata. Dimenticando, cioè, che è proprio per rispondere a questa indisponibilità al controllo che Google, Apple, Microsoft, Facebook hanno messo in campo strategie per espropriare ciò che è prodotto nella Rete, cioè la comunicazione, la conoscenza, la socialità. La sfida che le reti organizzate hanno di fronte consiste nella riappropriazione di questo comune su cui si basa la produzione di opinione pubblica. Altrimenti, la postura critica giustamente auspicata da Lovink è ridotta a ornamento di un divenire della Rete. È ridotta a opinione pubblica, cioè quel modo di essere spettatore passivo dell'esercizio del potere che nega l'azione politica e la trasformazione del reale.

Ed è proprio questa difficoltà a immaginare una politica radicale della trasformazione che agita i sonni di marxisti vecchi e nuovi. Carlo Formenti , ad esempio, è passato dalla speranza che i lavoratori cognitivi potessero scardinare l'ordine costituito a una cupa disillusione, che gli ha fatto riscoprire i soggetti operai tradizionali, o quelli assoldati nelle fabbriche elettroniche della Cina come il soggetto centrale della trasformazione. I suoi recenti libri sono da considerare una vera e propria controstoria della Rete, che inizia con la dichiarazione di indipendenza del cyberspazio di John Perry Barlow, lanciata, nel lontano 1996, come un sasso nello stagno.

[...]

Di questo inizio Formenti aveva tessuto la trama semantica e analitica in Incantati dalla rete (Raffaello Cortina) e Mercanti di futuro (Einaudi), due saggi fortemente condizionati da quella visione libertaria del cyberspazio, seppure con una capacità innovativa e interlocutoria verso il pensiero critico di ispirazione marxiana. Recentemente, gran parte delle tesi del passato sono state passate da Formenti al setaccio di un principio di realtà. Con onestà intellettuale l'autore afferma oggi che le speranze riposte nella Rete come laboratorio sociale per sperimentare nuove forme di democrazia – i soviet del postmoderno – e di produzione alternativa della ricchezza – l'«economia del dono» – si sono dissolte al sole della trasformazione di Internet in un luogo dove è invece egemone la logica capitalista.

[...]

In sintonia con quanto affermano studiosi come Luciano Gallino ( La lotta di classe dopo la lotta di classe , Laterza) o disincantati capitalisti come Warren Buffett, Formenti sostiene che la lotta di classe continua a plasmare le società capitaliste. Soltanto che a condurla non è la classe operaia, bensì le élite, meglio, i padroni. Questa lotta di classe «dall'alto» è resa possibile non solo perché il movimento operaio è stata sconfitto, ma perché l'insieme delle forze politiche che dovevano rappresentarlo hanno rinunciato a condurla. Con un retrogusto tutto europeo, vengono elencate, passaggio dopo passaggio, le scelte di campo liberiste di forze politiche come i laburisti inglesi, i socialdemocratici tedeschi, i socialisti francesi, spagnoli e gli eredi italiani del partito comunista e socialista.

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Uno dei libri che viene molto citato è Cina. La società armoniosa, una raccolta si saggi sulla condizione operaia curato dalla studiosa Pun Ngai (Jaca Book). Ed è proprio in quel libro che emerge come anche nelle fabbriche cinesi, al pari di molte europee e statunitensi, la catena di montaggio convive con forme di organizzazione del lavoro compiutamente postayloriste. Quel che emerge è che la world factory cinese assomiglia molto più a Melfi o alla Volkswagen brasiliana. Inoltre, l'affermazione di una nuova divisione internazionale del lavoro mette in rilievo che anche nei paesi emergenti la preda più ambita dal capitale è il sapere sans phrase espresso dalla cooperazione sociale, al fine non solo di poter «governare» un processo lavorativo reticolare che ignora i confini nazionali, ma anche per attingere innovazioni di processo e di prodotto. Affermare che la lotta di classe non è scomparsa non significa automaticamente uscire dalle difficoltà che il pensiero critico incontra. È solo un esercizio di ottimismo della volontà.

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Pagina 77

Sono comunque libri scritti e pubblicati tra la fine del Novecento e i primi anni del nuovo millennio. Internet è sempre agli albori. High-tech sono computer, programmi informatici e sistemi operativi. L'esplosione della bolla speculativa del 2001 è un piccolo terremoto, visto che molte imprese cosiddette dot-com falliscono e rimangono sulla scena solo poche imprese. Occorrerà aspettare oltre un decennio per avere la prima confutazione dell'innovazione frutto della figura prometeica dell'individuo proprietario. A svolgerla è un'economista di origine italiana. E il suo studio viene intitolato The Entrepreneurial State, tradotto come Lo stato innovatore.

Non è un caso che sia un'economista "nomade", un "cervello in circolazione" più che in fuga a confutare í dogmi del pensiero mainstream. Sia chiaro. Mazzucato non è un'economista radical, né una studiosa che voglia demonizzare il ruolo centrale della Rete nello sviluppo capitalistico. L'importanza del suo saggio sta nella capacità dell'autrice di mettere in rilievo i nessi tra università e mondo della produzione. Ma con una accortezza. L'università è, nell'analisi di Mazzucato, un'istituzione che deve mantenere una relativa autonomia dal mondo degli affari. La ricerca non deve cioè essere finalizzata a una sua traduzione economica. Questo passaggio deve essere garantito e facilitato dallo stato ex-post, cioè quando il ciclo della ricerca di base si è concluso. Ma affinché questo sia possibile, lo stato deve svolgere la funzione di imprenditore della conoscenza, deve cioè investire nella ricerca. È in questa riproposizione di un ruolo "classico" dello Stato che risiede la forza comunicativa dell'autrice, formatasi negli Stati Uniti per poi continuare il suo lavoro di ricerca in Inghilterra.

Ma se questa centralità dello stato consente a Mazzucato di scoccare molte frecce dal suo arco, centrando il bersaglio polemico che si propone di confutare, la pone tuttavia in una prospettiva che rimuove la dimensione sociale, generica dell'innovazione, laddove il sapere necessario non può essere semplicemente seguito dall'aggettivo tecnico-scientifico. Il sapere indispensabile nell'era dell'informazione è sans phrase. Va comunque seguito attentamente lo svolgimento dell'analisi contenuta nello Stato innovatore.

La provocazione della Mazzucato prende di mira il simbolo dell'innovazione tecnologica, la Apple. L'iPod, l'iPhone e l'iPad non sarebbero mai stati prodotti senza i soldi che lo stato americano ha investito nei progetti di Ricerca e Sviluppo dagli anni Cinquanta fino al mastodontico progetto di analisi della Rete assegnato alla National Security Agency. L'autrice cita il caso dell'applicazione basata sull'intelligenza artificiale per il riconoscimento vocale chiamata Siri che, finanziata dal governo statunitense, è uscita dai laboratori, impacchettata in una società e in un prodotto che il guru Steve Jobs ha comprato per una cifra irrisoria rispetto agli investimenti statali destinati al suo sviluppo. A seguire è un altro colosso della Rete, Google, ad essere preso di mira. L'algoritmo Page Rank, sviluppato alla Stanford University e diventato lo strumento per far diventare Google la potenza imprenditoriale nota a tutti, è stato finanziato dal Pentagono afferma perentoriamente e a ragione Mazzucato. Stesso discorso per le nanotecnologie, disciplina di ricerca che da sempre ha usufruito di generosi finanziamenti statali. Se il campo di osservazione cambia e dalla computer science si passa alle biotecnologie non ci sono molte variazioni nel mood analitico proposto in questo volume. La mappatura del Genoma umano non sarebbe infatti stata immaginabile, negli Stati Uniti, senza l'intervento del National Institute of Health (Nih), che oltre a finanziare il progetto di ricerca di base continua a investire centinaia di miliardi di dollari per la ricerca applicata allo sviluppo dei cosiddetti «farmaci orfani», destinati alla cura di malattie rare, che coinvolgono piccole minoranze della popolazione, ma che sono venduti dalle multinazionali farmaceutiche a prezzi stratosferici. Allo stesso tempo è proprio il Nih che ormai «innova» farmaci consolidati, basandosi però sulle conoscenze che vengono dalla genomica. Infine, un altro settore ritenuto «strategico» nello sviluppo economico, le energie rinnovabili, non riuscirà a decollare se lo Stato non continuerà ad investire nella ricerca, come testimoniano í progetti pubblici di sviluppo in Cina e in Brasile.

Già questi esempi attestano che si tratta di una tesi controcorrente rispetto all'ideologia dominante neoliberista. Per l'autrice, lo Stato è un soggetto politico fondamentale nel favorire lo sviluppo economico, perché è il luogo dove vengono definite le norme che non solo regolano, ma producono il mercato. Svolge cioè un ruolo performativo dei comportamenti funzionali allo sviluppo capitalistico. È questo il contesto nel quale, teoricamente, Karl Polany incontra Lord Keynes , Joseph Shumpeter e, ma l'autrice non ne fa mai menzione, anche il Michel Foucault storico dell'ordoliberismo e della biopolitica. Mariana Mazzucato non è però interessata alle genealogie teoriche delle sue tesi. Il suo obiettivo è far emergere ciò che rimane in ombra nella discussione pubblica segnata dall'egemonia liberista, cioè che gran parte delle tecnologie sviluppate nel processo economico sono «effetti» degli investimenti dello Stato nel campo della formazione e della ricerca scientifica. Investimenti che non sempre prefigurano immediate ricadute produttive ed economiche. Quel che si deve infatti chiedere allo Stato è una vision del presente e del futuro senza asfittici vincoli di bilancio. Si investe in ricerca e formazione perché, nei tempi lunghi, l'intero «ecosistema» se ne avvantaggerà, grazie alla presenza di un elevato numero di ricercatori, di forza-lavoro qualificata e dalla traduzione operativa (la ricerca applicata) di conoscenze sviluppate in anni e anni di lavoro in qualche laboratorio senza l'incubo di doversi spostare da un mecenate all'altro nella speranza di raccogliere i fondi necessari per andare avanti nelle ricerche.

Nell'esporre la sua tesi Mariana Mazzucato non nasconde dunque la sua propensione «statalista» per quanto riguarda il necessario interventismo pubblico nella formazione e nella ricerca scientifica. Imprese come Google, Facebook, Intel, Apple non sono diventate quel che sono — cioè imprese globali fondamentali nello sviluppo capitalistico — grazie a intraprendenti e spericolati venture capitalist: il capitale di rischio, scrive l'autrice, più che favorire l'innovazione, la rallenta, anzi la mette in pericolo. Chi investe in una start-up, infatti, non è interessato a finanziare l'innovazione tecnologica, bensì a far crescere quanto basta un'impresa per poi collocarla in borsa o venderla a un'altra società per ripagare l'investimento iniziale con l'aggiunta di una percentuale (generalmente molto alta) di profitti.

Da questo punto di vista, Lo Stato innovatore è una miniera di informazioni per quanto riguarda la ricostruzione delle fortune di Apple, di Google e delle altre imprese simbolo della new economy . Il risultato è una controstoria dello sviluppo tecnologico ed economico degli ultimi cinquant'anni. Mariana Mazzucato fa sue molte delle analisi che hanno individuato nel Pentagono la fonte economica e finanziaria dell'innovazione tecnologica. Non solo i progetti per la costruzione di una rete di comunicazione che potesse «sopravvivere» a un attacco nucleare è stata finanziata dai militari attraverso il Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency ), ma è stato sempre il Pentagono, assieme al Ministero del commercio, che ha definito le regole affinché i risultati delle ricerche potessero essere diffusi sull'insieme delle attività produttive statunitensi. Internet è nata così. Sono di sicuro effetto i passaggi elencati che hanno portato, negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, al Gps, le nanotecnologie, gli schermi lcd, il finger work , cioè gli schermi tattili, senza i quali non ci sarebbero stati l'iPod, l'iPhone e l'iPad.

Il famoso motto di Steve Jobs (stay hungry, stay foolish) usato per indicare la condizione necessaria per il successo imprenditoriale nasconde l'ipocrisia di chi ha abilmente sfruttato la creatività manifestatasi nei laboratori di ricerca e nelle università lautamente finanziati dallo Stato attraverso il Pentagono o il programma Atp dell'Istituto nazionale per le norme e la tecnologia, o dai progetti relativi all'innovazione per quanto riguarda le piccole e medie imprese. Eguale rilevanza informativa è data allo sviluppo delle energie rinnovabili. In questo caso, gli Stati Uniti hanno scelto di costituire una agenzia federale apposita (l'Arpa-e) che dovrebbe svolgere nelle energie rinnovabili lo stesso ruolo svolto dal Darpa nella computer science e dal Nih nelle biotecnologie.

[...]

Mariana Mazzucato non è una economista radicale anticapitalista. La tensione polemica presente nelle sue tesi è rivolta contro l'ideologia neoliberista, che vede nel mercato il deus ex machina dell'innovazione. Il capitale di rischio, altro protagonista indicato dal maistream neoliberista dell'innovazione, non rischia: vuole vincere partite facili, dove certo non v'è certezza, ma il rischio è minimo. Un atteggiamento parassitario che lo Stato ha per troppo tempo favorito e incentivato. Per l'autrice, l'intervento statale va salvaguardato perché è il solo soggetto politico che può creare un «ecosistema simbiotico» tra pubblico e privato. Lo stato, tuttavia, deve creare le condizioni affinché si manifesti al meglio l'indispensabile serendipity che favorisce l'innovazione e la ricerca scientifica. A questo scopo, vanno messe in campo misure che, ad esempio, recuperino parte dei finanziamenti statali attraverso un articolato sistema di governance della conoscenza. Può dunque essere istituita un golden share sui diritti di proprietà intellettuale, in maniera tale che una parte delle royalties vadano a finire nelle casse dello Stato; oppure si dovrebbe introdurre una riforma che scoraggi l'elusione fiscale da parte di imprese che si sono avvantaggiate delle ricerche scientifiche finanziate dallo Stato, come invece accade adesso per gran parte dei colossi della new-economy e delle bio-tecnologie che stabiliscono le loro sedi nei paradisi fiscali o in regioni tax free . Tutto ciò per continuare, anzi aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo. Il capitalismo può dunque essere salvato con un rinnovato protagonismo dello Stato, senza íl quale è destinato a implodere nelle sue contraddizioni. Perché una delle regole auree del neoliberismo («socializzazione dei costi e privatizzazione dei profitti») ha portato il capitalismo sull'orlo del precipizio. Solo con la presenza di uno Stato che investe molto e che crei le condizioni per un ecosistema simbiotico tra pubblico e privato, conclude l'autrice, è possibile pensare non solo alla sua sopravvivenza, ma a un suo duraturo sviluppo. Conclusioni modeste, si può dire, per un libro che invece ha una potenza analitica che funziona come un salutare antidoto a quel neoliberismo che con la sua crisi sta impoverendo la maggioranza della popolazione.

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LA SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA



Nel camaleontico mondo della Rete si sono succedute molte utopie su un futuro a portata di mano per dirottare l'umanità verso un paradiso in terra, da tutti auspicato, ma da molti osteggiato. E se la letteratura di genere ha privilegiato dipingere distopie dove l'umanità era un immenso slum popolato da una maggioranza di poveri e una minoranza di ricchi asserragliata in comunità recintate e difesa da eserciti privati e sofisticati sistemi di vídeosorveglianza con tanto di programmi informatici per il morphing, cioè per il riconoscimento facciale, la saggistica mainstream ha sempre preferito prospettare progetti di società socialmente ed economicamente compatibili con l'unico sistema uscito indenne dall'attività corrosiva del lungo Novecento, cioè il capitalismo. Non, dunque, il mondo nuovo inseguito dal movimento operaio. Ma neppure la favola imbastita dagli apologeti del libero mercato, bensì una concezione dei rapporti sociali che assegna alla Politica, intesa come capacità di governo e di mediazione sociale da parte dei depositari della sovranità nazionale, il ruolo di "correttore" degli squilibri del libero mercato. E se i teorici dell'ordoliberismo riducono l'essere umano a un capitale umano che compete sul mercato, i primi anni del nuovo millennio hanno visto irrompere sulla scena il modello della società della conoscenza. Un progetto, ingloriosamente naufragato a causa delle sue contraddizioni.

Varato in pompa magna agli albori del nuovo millennio, doveva essere la risposta "illuminata" all'idra del neoliberismo anglosassone. La logica che muoveva alcuni dei migliori interpreti del pensiero democratico europeo – il francese Jacques Delors, l'italiano Giuliano Amato, l'inglese Anthony Giddens , il tedesco Ulrich Beck – era di una sconcertante semplicità. Il capitalismo stava subendo una metamorfosi che assegnava alla conoscenza un ruolo preminente nella produzione della ricchezza. La scienza, ma anche il sapere sans phrase, dovevano favorire lo sviluppo di una perfetta macchina dell'innovazione, senza la quale il Vecchio continente sarebbe diventato un nodo marginale nella world factory in via di formazione. Da qui la necessità di modificare i bilanci pubblici, devolvendo una quota rilevante delle entrate statali alla formazione universitaria e alla ricerca scientifica. L'Europa doveva cioè diventare un centro di eccellenza, attingendo alla plurisecolare presenza di buone università e a una consolidata divisione continentale del lavoro intellettuale. Il mondo era d'altronde diventato turbolento; la scena mondiale, dopo il rovinoso crollo del "socialismo reale", si era popolata di nuovi e ambiziosi protagonisti, per troppo tempo relegati nel ruolo di comprimari, che solo la breve stagione del made in Japan avevano messo in discussione.

La Cina, la Corea del Sud, l'America Latina volevano, nel nuovo millennio, il loro posto al sole. Ma, a differenza dei tanti parvenu che erano riusciti ad entrare nei salotti buoni dell'economia mondiale, questi paesi del Sud del mondo non erano interessati a reclamare dai potenti della Terra un riconoscimento del loro contributo al mercato mondiale. La loro ambizione era commisurata alle trasformazioni del capitalismo in atto. La società della conoscenza era dunque la risposta europea all'aggressività statunitense, che non nascondeva, tuttavia, le proprie ambizioni di modificare radicalmente le gerarchie politiche ed economiche su scala mondiale.

Gli interpreti di questo progetto di rilancio continentale, che non nascondeva la volontà di perseguire un'autonomia politica dell'Europa dall'alleato statunitense, si ponevano l'obiettivo di variare, senza troppi scossoni, le priorità dell'agenda politica ed economica per consentire l'ambito passaggio da una società industriale a una società della conoscenza. La transizione poteva essere più o meno lunga, ma il modello sociale europeo avrebbe consentito di gestire al meglio i conflitti e le tensioni che questo passaggio avrebbero alimentato. Una cosa era certa, tuttavia, il nuovo Rinascimento europeo era a portata di mano.

A un decennio di distanza, di tanto ottimismo non c'è più traccia. Più che di Rinascimento, in Europa si parla di declino e di marginalità del vecchio continente nel grande risiko dell'economia mondiale. Ma questo non significa che la società della conoscenza sia stata archiviata come una malriuscita esperienza di ingegneria politica. Semmai, va registrata la capacità visionaria di quel progetto. E sotto molti aspetti va riconosciuto il fatto che l'ordine del discorso che esso proponeva è diventato egemone. Non solo perché aveva individuato temi che hanno tenuto e tengono ancora banco nell'agenda politica globale, ma per il suo potere performativo nel modificare soggettività sociali e decisioni politiche e quell' habitus — consuetudini, stili di vita — che antropologicamente si è soliti chiamare cultura, costringendo a un continuo confronto tra il progetto iniziale e la sua traduzione operativa, non per misurare lo scarto esistente, ma per definire il campo di applicazione di una critica dell'economia politica di una società della conoscenza, compiutamente realizzata nei suoi tratti essenziali. Da qui la necessità di ripercorre non la sua genesi, ma i temi che hanno accompagnato il suo sviluppo.

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I CACCIATORI DI OPINIONE PUBBLICA



Il culto dell'innovazione, l'uso spregiudicato del software non sottoposto al regime della proprietà intellettuale, la messa a profitto della cooperazione sociale. Sono queste le coordinate della cultura di impresa di Google, divenuto in una manciata di anni un master of internet universe. Sono però anche gli ingredienti che, variando di caso in caso, costituisco l'arcano svelato dell'innovazione nella Rete. Un elemento che legittima socialmente, e dunque anche politicamente, l'operato di molte imprese on-line è il riferimento alla cultura del dono, che ha nobili padri — Karl Polany , Marcel Mauss — ma anche spregiudicati adattatori al capitalismo contemporaneo, che hanno affiancato al libero mercato una bizzarra, quanto eterea economia della condivisione ( Jeremy Rifkin ). Negli Usa, l'economia della condivisione è chiamata wikinomics, facendo riferimento all'esperienza di Wikipedia, l'enciclopedia on-line gratuita che viene sviluppata, aggiornata, corretta da un piccolo "esercito" di volontari. Descritta come una novella Biblioteca di Alessandria, Wikipedia doveva essere l'esempio vivente e pulsante, nelle intenzioni del suo fondatore Jimmy Wales, di quelle condivisioni e attività cooperative senza le quali la Rete non sarebbe mai diventata il potente medium comunicativo che è.

Wikipedia non è tuttavia solo l'albero della conoscenza prodotta dalla storia umana, ma anche un'enciclopedia frutto delle vivaci discussioni che coinvolgono gli absolut beginners, cioè gli uomini e le donne che coltivano l'hobby dello studio delle discipline che formano il cantiere del sapere umano. Wikipedia è uno dei siti più visitati da quel miliardo e mezzo di persone che si connettono alla Rete, mentre una rivista accreditata come Nature ha stabilito che le sue «voci», dopo averle fatte esaminare da «esperti», sono in media meglio aggiornate e accurate di quelle proposte dalla prestigiosa Enciclopedia Britannica. Oltre alla rapidità di aggiornamento – una voce viene mediamente «revisionata» più volte nel corso di un anno -, Wikipedia è totalmente gratuita.

Come possa essere avvenuto questo «miracolo» lo spiega La rivoluzione di Wikipedia, un saggio scritto dall'ingegnere e docente in storia dei media Andrew Lih (Codice edizioni, Torino, 2010). Il titolo del libro trae però in inganno, perché Wikipedia è stata tutto meno che una rivoluzione, anche se è diventata un'esperienza esemplificatrice di come Internet, ma più in generale di come tutte le tecnologie digitali della comunicazione hanno modificato la produzione e la circolazione della conoscenza grazie alla cooperazione e condivisione delle informazioni e del sapere: una collaborazione spesso letta attraverso le lenti della teoria del dono, che ha il potere salvifico di rinnovare il legame sociale, consentendo così la riconciliazione tra economia di mercato e società.

Wikipedia sarebbe quindi sinonimo di una wikinomics che travolge le regole auree dell'agire economico senza intaccare la madre di tutte le leggi, quella del mercato, come hanno sostenuto Don Tapscott e Anthony D. Williams nel loro saggio giunto alla versione 2.0 e pubblicato in Italia da Rizzoli (Wikinomics. La collaborazione di massa che sta cambiando il mondo, Rizzoli). Don Tapscott e Anthony D. Williams interpretano però Wikipedia, il file sharing, i social network, il free software e l'open source attraverso una versione addomestica della teoria del dono. A differenza di Mauss e della scuola antiutilitarista, la logica del dono diviene infatti la chiave di accesso a una realtà economica e sociale in cui l'economia di mercato è compatibile con un legame sociale basato appunto sulla cooperazione tra pari. L'aumento di produttività, una tendenza costante all'innovazione, fanno cioè della cooperazione sociale una sorta di modello produttivo che il capitalismo è riuscito a piegare alla sua logica.

La storia di Wikipedia chiarisce però che l'organizzazione del lavoro di questa enciclopedia on-line ha ben poco di improvvisato. Prevede infatti l'applicazione della metodologia dominante negli Stati Uniti per la revisione delle ricerche scientifiche, mentre nei gruppi di lavoro accanto ai «principianti» ci sono docenti universitari, ricercatori e professionisti, anche se è indubbio che gran parte dei volontari hanno tutt'al più una formazione universitaria. Dunque ciò che emerge dalla storia di Wikipedia è che la produzione di conoscenza è un processo sociale e non è di competenza solo di specialisti. Una piccola verità che smentisce l'ideologia dominante che guarda ancora al sapere come a un «oggetto» che può essere manipolato solo di chi è depositario di capacità particolari.

Nella produzione di conoscenza siamo cioè tutti «maestri ignoranti», come ha a suo tempo sostenuto il filosofo francese Jacques Ranciere.

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Ma come immaginare un modello organizzativo per una società che fa affari con l'opinione pubblica e dunque con la comunicazione sociale? Una domanda alla quale Facebook non offre risposte. È riuscita però a sviluppare un modello di business che alimenta la manifestazione di una opinione pubblica che è essa stessa materia produttiva. Nella storia di Facebook ci sono più ripetizioni che differenze rispetto a tante altre storie di impresa. Uno dei suoi fondatori e attuale padrone indiscusso, Mark Zuckerberg, ha saputo interpretare il bisogno di socialità e di comunicazione nell'era del silicio. Ma più ci si avvicina alla realizzazione del villaggio globale, più la solitudine è esperienza quotidiana. Facebook fornisce ciò di cui la società ha bisogno: un habitat dove coltivare vecchie e nuove amicizie. Con un miliardo è più di utenti, Facebook è riuscita a compiere un piccolo miracolo: ha reso amichevole la Rete. Inoltre, fornisce gratuitamente i suoi servizi. Basta connettersi, aprire il proprio profilo e cominciare a dialogare con gli amici, socializzando stati d'animo, esperienze, gusti musicali, idee politiche, incontrando sul web i propri simili, evitando così la spiacevole prospettiva di chattare con chi la pensa diversamente. L'Altro è bandito dalla propria pagina, ma se mai lo si volesse incontrare basterà chiedere amicizia a chi, nel suo profilo, ha definito un'identità diversa. L'innovazione, dicono alla Facebook, sta nell'aver fornito gratuitamente la possibilità di costruire griglie sociali laddove era impensabile costruirle, nella Rete. Certo, la gratuità ha un prezzo, quello di fornire i propri dati, che saranno elaborati e impacchettati per essere venduti a imprese che li useranno per le loro strategie di vendita. Poi ci sono anche i discreti annunci pubblicitari che appaiono sulla destra della pagina, ma viviamo in una società aperta, dove la libertà di scelta è garantita a tutti.

La retorica sulla libertà assoluta è parte integrante di una impresa che ha avuto inizialmente un pubblico prevalentemente giovanile, anche se attualmente sono i "grandi" a fare la parte del leone. Gli unici limiti posti sono l'uso di un linguaggio appropriato, rispettoso delle opinioni altrui, pure se poi non è difficile fare propaganda per la superiorità della razza ariana o, all'opposto, per la costruzione di una società di liberi e eguali. Sono però vietati insulti personali o minacce verso governi o personaggi pubblici. Anzi sono frequenti gli interventi di censura tesi a bloccare il profilo di un utente solo per un turpiloquio di troppo o per la citazione di un qualche gruppo politico inserito nelle liste nere statunitensi.

Facebook è tuttavia un modello di business atipico rispetto agli standard statunitensi. I suoi profitti dipendono da quell'impalpabile, ma fondamentale elemento alla base della socialità umana. Bisogno di comunicare la propria esperienza agli altri, senza rinunciare alla propria singolarità. Ci sono ovviamente dei precedenti nel capitalismo di imprese che hanno fatto della comunicazione oggetto di attività imprenditoriali. Ma i media – dai giornali alla televisione – hanno sempre adottato il modello dall'«uno ai molti». La Rete consente invece una comunicazione dai «molti ai molti». Mancava però un habitat dove il singolo potesse esprimere le sue potenzialità, la sua capacità di costruirsi una rete sociale. L'espressione social network evidenzia, d'altronde, proprio la capacità dei singoli di autorganizzare le proprie relazioni sociali. Facebook organizza il cosiddetto data mining, cioè la raccolta, l'elaborazione e la vendita di dati contenuti nei profili degli utenti, nonché la vendita di spazi pubblicitari, così come fa d'altronde anche Google. Con un fattore che pochi hanno saputo superare, la distrazione strutturale che accompagna la vita in Rete.

Troppi gli stimoli, troppe le informazioni a cui si ha accesso; da qui la distrazione, che come hanno già verificato i teorici dell'«economia dell'attenzione» pregiudica gli affari. Il social network sviluppato da Zuckeberg consente di definire profili individuali tesi ad attirare l'attenzione da parte di chi si sente simile. Facebook è dunque l'emblema di una «omofilia» che entra in relazione con altri individui a colpi di click, mettendo sulla propria bacheca messaggi tanto insignificanti quanto espressione di una identità immutabile nel tempo e impermeabile a qualsiasi relazione reale. I post non solo alimentano il chiacchiericcio, la fuffa e il rumore di fondo della Rete, ma sono indice di una pornografia emotiva e relazionale che sicuramente non è sinonimo di libertà. Siamo cioè di fronte a un «automarketing personalizzato di massa» che Facebook trasforma, attraverso la "profilazione", in dati da vendere sul mercato. La logica imprenditoriale di Facebook può tuttavia essere spiegata a partire dalla sua logica antistatalista, in piena sintonia con l'attitudine anarco-capitalista egemone nella Silicon Valley.

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È nello sviluppo delle applicazioni che le due vision dell'impresa Twitter sono entrate in rotta di collisione. Da una parte, Evan Williams ha sempre proposto che Twitter servisse per comunicare «cosa sta accadendo». Uno degli altri fondatori, Jack Dorsey, riteneva invece che il servizio di messaggistica e di microblogging dovesse essere usato per comunicare il proprio «status» (come mi sento, cosa sto facendo). Da una parte, un servizio per informare; dall'altro uno strumento per chiacchiere frivole e rivolte a dare libero sfogo al proprio ego. Il mediatore tra le due concezioni è stato Noah Glass, altro fondatore di Twitter estromesso nel 2006 e poi cancellato dalla storia ufficiale dell'impresa. Poco spazio è dedicato nel libro alla scelta di anteporre il cancelletto all'hastag e il simbolo @ (la chiocciola) all'utente, una consuetudine già abbastanza diffusa in Rete nelle comunicazioni tra la caotica comunità professionale dei programmatori e degli «smanettoni».

Nel libro di Bilton ampio spazio è invece dedicato all'uso di Twitter da parte dello star system e della politica istituzionale. Attori, musicisti, scrittori lo hanno usato per stabilire un canale privilegiato con i propri fan (nel linguaggio di Twitter, i followers), per renderli ancora più fedeli, visto che sono loro lo strumento di marketing virale per vendere dischi (meglio scaricare i brani musicali dalla Rete), per far accorrere il pubblico ai concerti, per promuovere libri. Per la politica istituzionale, Twitter, dal 2006 in poi, è stato lo strumento comunicativo di iniziali outsider del sistema politico americano. Il caso più eclatante è l'uso che ne ha fatto Barack Obama nella prima campagna presidenziale. Tutto cambia quando Twitter comincia ad essere usata da attivisti in giro per il mondo. Le mobilitazioni antifondamentaliste in Iran nel 2009, l'uso intensivo da parte dei movimenti sociali o degli attivisti delle cosiddette primavere arabe sono segnali di un mondo in fibrillazione. Che i sismografi del conflitto sociale e di classe registrino anche l'impennata di traffico su Twitter non sorprende ma neppure inorgoglisce i suoi fondatori. Per loro, Twitter è un servizio «indifferente» ai contenuti che veicola. Non preoccupa neppure la scelta di Wikileaks di usare il servizio di microblogging dopo che altre imprese avevano accettato la censura imposta dal Pentagono e dal dipartimento di Stato in seguito alle rivelazioni di Julian Assange, fondatore di Wikileaks. Twitter ha infatti sempre sostenuto la neutralità della Rete. Per questo ha sempre rifiutato i diktat della Fbi, del Pentagono e del Dipartimento di Stato di fornire informazioni su chi metteva on line contenuti sgraditi.

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