Autore Guido Vitiello
Titolo Il lettore sul lettino
SottotitoloTic, manie e stravaganze di chi ama i libri
EdizioneEinaudi, Torino, 2021, Super ET Opera viva , pag. 168, cop.fle., dim. 13,5x20,8x1,4 cm , Isbn 978-88-06-24921-2
LettoreRenato di Stefano, 2022
Classe libri , scrittura-lettura , psicologia , salute












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


   3   Curar nevrotici con la propria autoanalisi

  12   Coperte di Linus e stracci di lino

  22   La disputa sul sesso dei libri

  31   Il sacro parallelepipedo

  43   Picnic sul ciglio dell'abisso

  51   Frammenti di un discorso poliamoroso

  59   Il libro boomerang

  70   Psicopatologia delle copertine

  81   Una tazza tutta per sé

  89   Fenomeni paranormali in libreria

  97   Siamo tutti rilegati in pelle

 105   Un demone di nome Tsundoku

 115   Cortocircuiti tra la lettura e la vita

 126   Come va a finire?

 134   Il Buddha nel sidecar


 147   Bibliografia


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 3

Curar nevrotici con la propria autoanalisi


                                                            Cinque cents, prego.

                                                                   Lucy van Pelt



C'è una vecchia battuta, di solito attribuita al drammaturgo Jerome Lawrence, ma credo dovuta in origine al genio di un chirurgo inglese, Lord Webb-Johnson. Dice pressappoco cosí: il nevrotico costruisce castelli in aria, lo psicotico ci abita, lo psichiatra riscuote l'affitto. È la battuta chiave di questo libro: tutto sta a mettere «librerie» al posto di «castelli».

Qualcuno la prende un po' troppo alla lettera, rivelando una sinistra contiguità tra la biblioteca domestica del maniaco dei libri e la stanza imbottita dell'ospedale psichiatrico. Pensate a Jean des Esseintes, il dandy parigino di Controcorrente di J.-K. Huysmans , che si fa rilegare pareti e soffitto in marocchino per vivere in una specie di libro gigante; o al sinologo Peter Kien, protagonista di Auto da fé di Elias Canetti, che tappezza le pareti di libri fino al soffitto e fa murare anche le finestre, accontentandosi della luce che filtra dai lucernari (non va a finire bene, come si può intuire dal titolo incendiario e da qualche semplice considerazione sull'infiammabilità della carta); o ancora a Carlos Brauer, il bibliofilo impazzito di un romanzo breve di Carlos María Domínguez, La casa di carta, che edifica su una spiaggia sperduta una casupola di libri-mattoni:

Un Borges per completare la base della finestra, un Vallejo accanto alla porta, con sopra Kafka e di fianco Kant, e una dura edizione rilegata di Addio alle armi, di Hemingway; e poi Cortàzar, e Vargas Llosa, sempre voluminoso; Valle-Inclán con Aristotele, Camus con Morosoli, e Shakespeare, fatalmente legato a Marlowe dall'impasto di cemento; tutti destinati a innalzare un muro, a gettare ombra.

E va bene, direte voi, questi sono romanzi. Ma non v'illudete: [...]

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 6

Ma di che natura è il piacere della lettura? Quali pulsioni serve a sublimare? Strachey rispondeva che accanto alla scopofilia (il piacere di guardare) e alle pulsioni della fase anale (il piacere di ordinare e immagazzinare) il ruolo dominante lo giocano le pulsioni legate alla fase orale. Lo rivelano metafore molto comuni: lettori «voraci», libri «indigesti» e altri che si lasciano «divorare». Il lettore immerso nel suo libro, irritato da qualunque fonte di disturbo, ricorda il poppante attaccato al seno materno. Non a caso, notava Strachey, i bambini leggono sempre tenendo a portata di mano qualcosa da sgranocchiare, o mal che vada si mettono un dito in bocca; e anche gli adulti sprofondano nella poltrona piú comoda con una pipa e un whisky e soda (parlava evidentemente degli adulti degli anni Trenta, quelli che noi abbiamo visto solo nei film). Fin qui tutto bene. Ma lo stadio orale dello sviluppo psicosessuale, insegna Freud, è diviso in due fasi; alla beatitudine sdentata del poppante segue presto la fase sadico-orale, e gli ostacoli al piacere della lettura secondo Strachey derivano da lí. Quando prevalgono le tendenze distruttive, non ci nutriamo più fiduciosamente delle parole altrui, ma le addentiamo, le sminuzziamo, vogliamo assaggiarle bene prima di mandarle giù, per paura che siano velenose. Ecco spiegate le piccole manie dei due pazienti ossessivi.

E cosa rappresentano inconsciamente i libri? Qui la conferenza prendeva una piega alquanto disgustosa, e possiamo solo augurarci che sia stata tenuta lontano dai pasti: ne parleremo piú in là. Diciamo intanto che, in un crescendo visionario, Strachey trasformava il libro in un grande teatro edipico in cui la pagina vergine sta per il corpo materno, le parole stampate sono i pensieri fertili ma profanatori emessi dal padre, e il lettore ha la parte del figlio «desideroso di farsi strada con violenza nel corpo della madre, di scoprire cosa c'è dentro, di strappare via da lei le tracce del padre, di divorarle, di farle proprie, di esserne lui stesso fecondato». Ecco perché, osservava in una noticina in coda, molti lettori sottolineano i libri, ci scribacchiano sopra, li mutilano, fanno le orecchie ai bordi delle pagine, mentre il vero bibliofilo - che a quanto pare è paralizzato dal triangolo edipico - guarda con orrore al piú lieve maltrattamento.

Ricapitolando: nel common reader si nascondono un poppante recidivo, un voyeur, un maniaco dell'ordine, un sadico, uno stupratore incestuoso, un parricida. E ora tutti a chiedere scusa a Baudelaire , che ci aveva dato solo degli ipocriti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 10

Stabilito che il lettore comune è un comunissimo nevrotico, resta da capire a che titolo io sia qui a riscuotere l'affitto dei suoi castelli in aria. Freud aveva contemplato il caso della psicoanalisi condotta da non medici, ma non di quella condotta da non psicoanalisti. E se era corso a prendere le difese dell'allievo Theodor Reik, accusato di esercizio abusivo della professione medica perché curava pazienti con una laurea in filosofia, nel mio caso, fidatevi, sarebbe il primo a chiamare i gendarmi. Tutto quel che posso vantare sono anni di esercizio abusivo di una professione abusiva, condotto impunemente nella speranza che i due abusi, anziché sommarsi, si elidessero. Nel 2016 ho creato una rubrica delle lettere sul sito del settimanale «Internazionale», Il bibliopatologo risponde, con l'idea di arrivare a una prima ricognizione delle abitudini, dei tic, delle fobie e dei rituali che circondano l'uso dei libri - il primo Rapporto Kinsey sulle perversioni inconfessate del lettore. Dopo trecento casi clinici e altrettanti accessi di ipocondria dello sventurato analista, è stato chiaro che la mia sola autorità era quella del nevrotico tra i nevrotici. Come il dottor Fassbender di Ciao Pussycat - un Peter Sellers con una parrucca agghiacciante e un fortissimo accento tedesco - «io uso ogni tipo di cura, purché non sia ortodosso». Dalla cassetta degli attrezzi della psicologia e della psicoanalisi sono pronto a estrarre gli utensili piú vari - teorie nobili, meno nobili, desuete, eccentriche, incoerenti, in lotta l'una con l'altra - purché mi consentano di lanciare congetture sui meccanismi profondi che regolano i piaceri e i dispiaceri della lettura.

E per darvi subito un'idea di quanto sono spregiudicato, ho esordito con un piccolo gesto di cleptomania: il titolo di questa introduzione l'ho rubato a un libro di Cesare Musatti , Curar nevrotici con la propria autoanalisi; il cui primo capitolo, nemmeno a farlo apposta, era Esercizio abusivo della professione medica.

Cinque cents, prego.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 17

Ebbene, per noi lettori nevrotici i libri sono gli oggetti che meglio conservano le virtú miracolose di quei protogiocattoli. In parte lo si deve alla loro speciale natura. Sono oggetti materiali o mentali, i libri? Li tocchiamo, li annusiamo, li soppesiamo, li allineiamo sugli scaffali, li portiamo con noi nei nascondigli piú inviolabili, di solito li prestiamo malvolentieri, li sgualciamo o li maltrattiamo in vario modo. Nessuno può negare che appartengano al mondo fisico, come i cavatappi, le stampelle e gli orsacchiotti di pezza. Ma quando ci addentriamo nelle loro pagine, sono ancora inanimati? Pian piano, immersi nella lettura, ci dimentichiamo della loro esistenza materiale, della carta e dell'inchiostro; diventano una dépendance della nostra mente, e in quello spazio lasciamo che compiano ogni sorta di operazioni magiche: creano e distruggono universi, resuscitano i morti, fanno sparire per incanto la stanza intorno a noi e il peso del corpo, ci eccitano e ci placano, scatenano il batticuore, fanno affiorare le lacrime, sospendono il tempo e annullano lo spazio, risvegliano a tradimento i nostri ricordi piú segreti, ci tuffano nel trambusto di vite mai vissute che ci paiono in quel momento piú vere della nostra. Poi li chiudiamo, li riponiamo sullo scaffale ed ecco che di colpo, misteriosamente, tornano a essere dei mansueti parallelepipedi di carta tra parallelepipedi di carta.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 22

La disputa sul sesso dei libri


                                                  Che i libri siano il tuo harem
                                                  e tu il loro Gran Turco.

                                            Bernard-Henri Gausseron, Bouquiniana



Quando i barbari illetterati lanceranno l'assedio finale alla nostra cittadella di occhialuti e di inchiostrati, facciamo in modo che ci trovino riuniti in concilio a discutere sul sesso dei libri. Sarebbe una bella immagine da consegnare ai posteri, non vi pare? La scena dei dotti di Costantinopoli che disquisiscono sul sesso degli angeli con i Turchi alle porte, per quanto leggendaria, è letterariamente cosí bella che merita un rifacimento; tanto più che la questione del sesso dei libri è meno bizantina di quanto sembri, e può avere ricadute molto concrete.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 29

Collezionisti di trofei umani, defloratori seriali armati di tagliacarte, bibliomani morti di crepacuore inseguendo libri fantasma... Siamo finiti nei castelli dove abitano i lettori psicotici - gli zii matti di cui avevo promesso di parlarvi il meno possibile, salvo che i loro destini miserandi servissero a illuminare i malanni del lettore nevrotico, o lettore comune. Ma è proprio questo il caso: nessun amante dei libri può sottrarsi al gioco d'ombre di un mutevole teatro interiore. Del resto, se il libro conserva qualcosa dei nostri orsacchiotti o delle nostre bambole, è fatale che si offra a tutte le proiezioni. Non solo intorno al loro sesso, ma anche sulla loro età e sul loro ruolo nella nostra vita. Il libro sarà il padre severo che ci scruta dallo scaffale piú alto, sarà la madre a cui strappare i segreti della vita, sarà l'amante da portarsi a letto, sarà il bambino da cullare in braccio, o sarà tutte queste cose a turno.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 35

Ebbene, anche il rapporto del lettore nevrotico con i libri è disseminato di rituali e interdizioni rispetto ai quali, a voler essere evoluzionisti fino in fondo, i dieci comandamenti sono un distillato di modernità e di spirito illuministico.

Primo, non buttare. Avete mai provato a gettare un libro, anche il piú deplorevole dei libri, nella spazzatura? Sentirete una forza soprannaturale che vi trattiene nel momento di lasciarlo cadere nel cestino, piú irresistibile dell'angelo che fermò la mano di Abramo pronta ad abbattersi su Isacco. Eppure, per quanto possiamo sforzarci di razionalizzare, ossia di cucire un vestitino intellettuale accettabile intorno a un'angoscia nevrotica, è fin troppo evidente che si tratta di un riflesso superstizioso. Riporto la testimonianza candida e onesta di un'adorabile signora di Philadelphia. Helene Hanff, scrittrice, è nota soprattutto per le lettere che si scambiò lungo vent'anni con un libraio antiquario di Londra, Frank Doel, fino alla morte di quest'ultimo nel 1969. Dal carteggio, pubblicato con il titolo 84, Charing Cross Road , è stato tratto un film con Anne Bancroft e Anthony Hopkins... ma cosa sto a darvi tutti questi dettagli: se siete lettori nevrotici come me, il libro lo conoscete già, e anche il film. Nessuno può seriamente dubitare che Helene Hanff amasse i libri. Eppure, sentite cosa scriveva al libraio Doel il 18 settembre del 1952:

Ogni primavera, faccio le pulizie generali alla mia libreria ed elimino i libri che non rileggerò mai piú, come elimino i vecchi vestiti che so che non indosserò mai piú. E tutti si scandalizzano molto per questo. I miei amici sono strani con i libri. Leggono tutti i best seller, li divorano il piú velocemente possibile, penso che saltino un sacco di pagine. E non rileggono MAI nulla una seconda volta, di modo che un anno dopo non ne ricordano una sola parola. Eppure, se mi vedono buttare un libro nel cestino o darlo via si scandalizzano profondamente. Secondo loro compri un libro, lo leggi, lo metti nella libreria, non lo riapri piú per il resto dei tuoi giorni, ma NON LO BUTTI VIA! SOPRATTUTTO SE HA UNA COPERTINA RIGIDA! E perché mai? Personalmente non riesco a immaginare nulla di meno sacrosanto di un libro brutto o addirittura di un libro mediocre.

Cosí parla una lettrice non nevrotica.

[...]

Eppure io, lettore nevrotico tra lettori nevrotici, predico bene ma razzolo malissimo, come la mamma del granchio nella favola di Esopo che comandava al figlio di camminare dritto. Ho conservato tutti i parallelepipedi della mia vita di lettore: libri scolastici, manuali di istruzioni di tecnologie obsolete da decenni, un vasto assortimento di primi volumi omaggio di enciclopedie allegate ai quotidiani (so tutto sulle persone i cui cognomi cominciano per A), doppioni, triploni... questi e altri ectoplasmi fluttuano nella soffitta familiare, sospesi in una dimensione intermedia tra la persistenza e l'estinzione per la quale forse solo il Libro tibetano dei morti ha le metafore adatte.

[...]

Secondo, non mollare. Alcuni lettori nevrotici non sanno liberarsi da questo comandamento, e se lasciano un libro a metà sono divorati dai sensi di colpa. Verso l'autore, verso sé stessi, ma soprattutto verso il grande feticcio. Salman Rushdie racconta che da ragazzo aveva preso l'abitudine di baciare ogni libro che abbandonava, per scusarsi della mancanza di rispetto. Molto poetico, non c'è dubbio; quanto a modernità, però, se vogliamo collocarlo su una scala evoluzionistica alla Tylor , siamo piú o meno all'altezza dei cacciatori paleolitici che abbattuto il bisonte correvano a riappacificarsi con la Signora degli Animali. E tuttavia, la nevrosi della lettura integrale è ancora molto diffusa.

Annie François, redattrice di una casa editrice parigina, ha passato la vita tra i Iibri. Solo intorno ai cinquant'anni, però, si è sentita abbastanza libera da attribuirsi il diritto di piantare un brutto libro senza averlo finito. Prima di questa liberazione, racconta nell'«autobiobibliografia» La lettrice , «un vecchio vezzo giudaico-cristiano in favore di una possibile redenzione mi costringeva a subire il martirio fino alla fine». Lettore mio, lettore mio, perché mi hai abbandonato? Quel lamento del libro immolato doveva essere insopportabile alle sue orecchie, come il belato degli agnellini per la dottoressa Clarice Starling del Silenzio degli innocenti. Al piú ignobile dei manoscritti arrivato presso la sua casa editrice Annie François riservava l'onore di una lettura completa, e anche in casa propria, con le letture di piacere, le cose non andavano meglio: «Se capitava che una noia mortale mi assalisse fin dalla prima riga, andavo comunque fino in fondo. Anche qui mi sono fatta piú audace. Se un libro non riesce ad avvincermi dopo trenta pagine, lo mollo». E quando lo molla si sorprende a constatare che l'universo, incredibilmente, non crolla a pezzi.

[...]

Terzo, non sbadigliare. Cosí scrive Evagrio Pontico, monaco vissuto nel IV secolo dopo Cristo:

L'accidioso, quando legge, sbadiglia spesso, e cade facilmente nel sonno, si sfrega il viso, stende le braccia e alza gli occhi dal libro, fissandoli alla parete. Messosi ancora un po' a leggere, si affatica inutilmente, ritornando sul significato delle parole; conta le pagine, valuta l'impaginazione, critica la scrittura e l'ornato. Alla fine, chiuso il libro, ci mette la testa sopra e dorme un sonno decisamente non profondo, perché la fame risveglia la sua anima e le angosce riprendono.

[...]

Quarto, non sottolineare a penna; quinto, non fare orecchie... Quanto piú ascendiamo verso le cime psicotiche dove albergano i nostri zii matti, i bibliofili e i collezionisti, tanto piú i divieti, i tabù e le regole rituali si infittiscono e prendono un volto persecutorio. Per il comune lettore nevrotico, grazie al cielo, la precettistica fossile dei sommi sacerdoti è un'eco piú flebile, come le reminiscenze del catechismo. Il suo culto discreto per il libro assume le forme piú tolleranti e calorose che sono spesso tipiche della devozione popolare: qualche pellegrinaggio ai santuari dei festival e delle fiere, un inchino appena accennato presso le vetrine delle librerie, un timido scappellarsi davanti agli scaffali piú alti, dove dimorano gli spiriti degli antenati.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 55

Successore novo vincitur omnis amor, ogni amore è vinto dal successivo, rammentava Ovidio ai cuori straziati; ed è la stessa consolazione che ci passiamo l'un l'altro fin da ragazzini ricorrendo alla formula «chiodo scaccia chiodo». Proverbio antico, che Cicerone per primo applicò all'amore. Ma ai libri? Qui le cose sono un po' diverse. Fortuna o sfortuna vuole che i romanzi, a differenza degli amori perduti, siano stampati in molte copie e restino sempre a disposizione per riletture da cima a fondo, sbirciate occasionali, furtivi ritorni di fiamma. Certo, non sarà mai la stessa cosa. Ma non sarà mai, neppure, quel che il formulario popolare della saggezza amorosa chiama «minestra riscaldata». Potremo dirci, come accade guardando le fotografie dei vecchi amori: ma come facevo a strapparmi i capelli per quel tipo improbabile? Ma scopriremo che non si può leggere due volte lo stesso romanzo proprio come non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume. Lo specchietto a conchiglia in cui ci guardammo ragazzini è uguale oggi a com'era allora, ma ogni volta che torneremo ad aprirlo rifletterà un'immagine diversa.

Non dico che sia una scoperta piacevole, anzi: è un ritrovarsi mutati nello specchio immutabile di una pagina, è un continuo disconoscersi, un constatare nostro malgrado lo scorrere del tempo; in breve, è una preparazione letteraria alla morte. Nella biblioteca di casa, se attraversiamo i suoi scaffali in un'ora di malinconia, ci sembrerà di vedere un piccolo camposanto. «Chiodo scaccia chiodo. Ma quattro chiodi fanno una croce», annotava Cesare Pavese nei suoi ultimi giorni.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 64

Questo però ci introduce a un altro genere di guai.


Guai? Perché guai? Cosa c'è di piú bello che regalare un libro! Ecco, questo è uno dei piú perniciosi idola tribus di noi devoti del parallelepipedo. Il dono, se lo si considera solo dal punto di vista del donatore, è già di per sé una grande sbornia di dopamina, ma la festa di autoadulazione e di autogratificazione è resa piú intensa dalla radicata superstizione che attribuisce ai libri, in quanto tali, virtú benigne. «Quando faccio un dono, è un piacere che mi offro», dice il tenero Rousseau nella sesta promenade, ed è la confessione, franca fino alla sfacciataggine, di un io che si rosola impudicamente nella propria benevolenza, usando il regalo come specchio in cui vedersi piú bello. Le cose però si complicano quando abbiamo la cortesia di spostarci un poco e di far spazio, nello specchio, anche all'immagine del destinatario.

La logica del dono, ci hanno insegnato gli antropologi, è vicinissima alla logica della vendetta. Sono due territori confinanti, e la frontiera è cosí imprecisa che per un nonnulla ci si ritrova a passare dall'uno all'altro. In entrambi i casi è all'opera un vincolo di reciprocità: il dono dev'essere contraccambiato, il sangue versato dev'essere ripagato, nella speranza di ripristinare un equilibrio per sua natura molto instabile. «Gli scambi sono guerre pacificamente risolte, le guerre sono il risultato di transazioni sfortunate», ha scritto Claude Lévi-Strauss , e io dico che ci risparmieremmo molti equivoci se capissimo, una buona volta, che nel mondo dei doni il cavallo di Troia non è un'eccezione, è la regola. Nel piú grazioso dei pacchettini si annida sempre, se non un esercito nemico, un pericolo.

Ma cosa c'era nel cavallo di Troia? Che domande: guerrieri achei. D'accordo, ma quanti? Qui i conteggi variano molto, dai tredici della Piccola Iliade ai cinquanta della Biblioteca di Apollodoro, ma c'è chi ha detto ventitre, chi trenta, chi quaranta. Qualcuno l'ha sparata grossa: tremila, piú dei passeggeri del Titanic. E in effetti, c'è chi dice che il cavallo di Troia fosse in realtà una nave (ma non un transatlantico). Secondo lo storico americano Barry Strauss è piú probabile che il cavallo, se esistette, fosse vuoto: una semplice esca. Se poi apriamo il Satyricon di Petronio e lo chiediamo a quel millantatore di Trimalcione, ci dirà che nel cavallo di Troia c'era Niobe, e che ce l'aveva messa Dedalo. Ricapitolando: nel cavallo di Troia, che forse era una nave, c'erano zero, una, tredici, ventitre, trenta, quaranta, cinquanta o tremila persone. Pirandello era un dilettante.

Questa premessa era necessaria per rimuovere la fuliggine di banalità e di secchioneria dalla formula che sto per rifilarvi, l'abusatissimo timeo Danaos dell' Eneide: temo i Greci anche se portano doni. Ogni libro è un cavallo di Troia, per la sua duplice natura di oggetto materiale e di oggetto mentale: stiamo intrufolando dei pensieri nel cuore della cittadella nemica, acquattati in silenzio tra due copertine. Ma è un cavallo donato a cui ci è impossibile guardare in bocca, perché non sappiamo quanti e quali pensieri si apriranno un varco in quel luogo cosí intimo e pressoché inaccessibile. L'amico troiano potrebbe non aprire affatto il libro, per noia o per sospetto, e i pensieri armati morirebbero d'inedia o d'asfissia nel ventre del cavallo. Oppure potrebbe aprirlo, e trovarlo vuoto. Piú probabilmente ne usciranno dei pensieri, tanti o pochi, ma non si muoveranno nella sua mente come una falange: si disperderanno, ciascuno a perlustrare il suo sentiero sinaptico e a cercare lí i suoi alleati. C'è perfino il rischio che portino alla rovina la città assediata.


Sento già arrivare la prossima obiezione: tutto sta a far le cose con cura, e a regalare un libro che sia cucito su misura per il suo destinatario. E qui si scoperchia ancora un altro vaso di Pandora, perché questa sartoria artigianale è tutto fuorché una scienza esatta. L'utopia di abbinare libri e lettori secondo criteri psicologici ha una lunga storia, che si annuncia in Italia alla fine dell'Ottocento con l'inchiesta biblio-psicologica di Guicciardi e De Sarlo e arriva fino alla biblioterapia dei nostri giorni. Tra l'una e l'altra c'era stato un tentativo piú ambiziosamente sistematico, quello del russo Nicolas Rubakin, erudito e rivoluzionario, fondatore di una disciplina che battezzò psicologia bibliologica. Tramite la valutazione statistica delle eccitazioni sperimentate dal lettore nel corso della lettura, Rubakin contava di arrivare a sposare perfettamente le caratteristiche delle diverse personalità a classi di libri affini. Aveva anche approntato un cervellotico questionario di un'ottantina di domande per l'autoanalisi, «Lettore conosci te stesso». Rubakin era certo che in futuro «tutti i libri stampati avranno sul frontespizio un'indicazione della loro classificazione bibliopsicologica», e affidava un compito sublime ai bibliotecari, quello di «guidare l'ascesa spirituale dei lettori verso la fase superiore della coscienza cosmica». E pensare che è già cosí difficile indovinare il libro giusto per chi abbiamo accanto. Racconta Roberto Bolaño:

Il primo libro che mi regalò la prima ragazza di cui mi innamorai e con la quale andai a vivere fu un libro di Mircea Eliade. Ancora oggi non so che cosa volesse dirmi con quel regalo. Un altro, meno stupido di me, l'avrebbe capito subito che quella relazione non sarebbe durata a lungo e avrebbe preso le opportune precauzioni per non soffrire troppo.

[...]

Scartato il pacchetto, ecco che sul volto del malcapitato si disegna un indecifrabile sorriso, tra la paresi e lo spasmo cinico. «La coscienza di Zeno? Vuole dirmi che sono un inetto?» «Il male oscuro di Giuseppe Berto. Ho l'aria cosí abbattuta?» «Lo scroccone di Jules Renard. Eppure le ultime due cene le ho pagate io, mi pare». «L'idiota? Ok, quando è troppo è troppo. Chiedo il divorzio».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 85

[...] Con la saggistica, il mio apparato digerente ha una lunga storia di intolleranze, collocate su uno spettro molto ben definito. A un estremo stanno i libri-crostaceo, quelli che ti impongono di lottare con pervicaci corazze, antenne sporgenti e chele minacciose - gerghi tecnici intimidatori, concrezioni di parole astratte, interminabili premesse metodologiche, inutili preamboli su tutto ciò che il libro non dirà - per arrivare, sfiniti, a un minuscolo gheriglio di polpa rosa, che se va bene sa di aragosta, se va male è insapore come un chewing gum (un'esperienza di masticazione che Bacon non poteva conoscere, e che definisce a meraviglia quasi tutta la Theory postmoderna). All'estremo opposto stanno i libri - passato di verdure, quelli dalle idee chiacchierine e dallo stile scorrevole, ma cosí scorrevole da non incontrare resistenza alcuna nella loro marcia dentro il mio organismo. Vorrei poterne menzionare almeno uno, se solo lo sciacquone della memoria non se li fosse portati con sé.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 87

I libri sono cibo per la mente, recita un luogo comune caro agli amanti della lettura. Ed è vero, come attesta il legame metaforico millenario. Ma allora perché non abbracciare l'analogia in tutte le sue conseguenze, suggerendo i necessari corollari dietologici e tossicologici? Non si può prescrivere a un solo corpo una sola dieta senza che questa sia dannosa a una parte e utile all'altra, dice l'Ateniese nelle Leggi di Platone. E la cosa non riguarda solo i corpi e i cibi: «La maggioranza degli esseri umani, - scrive il grecista Eric Dodds commentando Platone, - può conservarsi in buona salute spirituale solo mediante una accurata dieta di "incantesimi", cioè di miti edificanti e di formule energetiche di carattere morale».

Una dieta di incantesimi non richiede un nutrizionista ma un mago, e la mia me la sono fatta prescrivere da Louis Pauwels, autore insieme a Jacques Bergier del leggendario Il mattino dei maghi. Nel suo breviario di massime di vita, L'apprentissage de la sérénité, Pauwels dice che esistono quattro tipi di lettura: la lettura di distrazione (evasioni di ogni genere), la lettura di acquisizione (il sapere), la lettura di trasporto (le grandi opere letterarie) e la lettura di elevazione (filosofia, saggezza, spiritualità). «Cosí come si variano i cibi nello stesso pasto, variate le letture. Passate da un genere all'altro, secondo l'umore, l'istinto, l'appetito, senza gerarchia né complessi». Sul comodino di Pauwels, per esempio, c'era una pila di libri cosí composta: «Un giallo (la distrazione). Un'opera di astronomia contemporanea (il sapere). Un Cechov (il trasporto). L'insegnamento di Ramakrishna (l'elevazione)».

Sul comodino, dice lui, perché è bello vantarsi dei livres de chevet. Ma io non escludo che fossero i suoi livres de toilette.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 95

[...] Perché possiamo dirci finché vogliamo che i libri sono oggetti tra gli oggetti, inerti blocchi di carta senza volontà né anima, che non si curano di dove li posiamo e di cosa facciamo in loro presenza, che restano impenetrabili alla fantasmagoria di proiezioni interiori con cui li avvolgiamo. Ma la verità è che sono oggetti magici. Il luogo che abitano è infatti quel regno di mezzo, né reale né immaginario, né mentale né materiale, né interiore né esteriore, sotto la cui giurisdizione fino al Rinascimento cadevano l'amore e la magia.

[...]

Questo implica che ogni operazione compiuta con i libri, sui libri e per mezzo dei libri - mescolarli, separarli, suggerirli, prestarli, regalarli, bruciarli, perfino leggerli - è un'operazione magica. Del resto, magia e mnemotecnica sono andate a braccetto per secoli. La biblioteca di casa è, in piccolo, il teatro della memoria di un mago rinascimentale - idea che troviamo nella Plutosofia di Filippo Gesualdo, del 1592, dove un capitolo intero è dedicato alla Libreria della memoria, e che ritroviamo secoli dopo nella biblioteca-cervello dell' Uomo senza qualità di Musil.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 102

Sono stato anch'io fresco di stampa, intorno alle 20:30 di sabato 15 novembre 1975, appena uscito dalla tipografia materna; fa fede il braccialetto della clinica, che considero il mio colophon. Ero rilegato in pelle. Poi la vita ha cominciato a sgualcirmi, a stropicciarmi, a scrivermi addosso con il suo erpice, ed eccomi qua. «Tra tutti gli oggetti inanimati, tra tutte le creazioni dell'uomo i libri sono i piú vicini a noi, perché contengono il nostro pensiero, le nostre ambizioni, le nostre indignazioni, le nostre illusioni, la nostra fedeltà alla verità e la nostra persistente inclinazione all'errore, - dice Joseph Conrad; - ma piú di tutto ci somigliano nel loro precario rapporto con la vita».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 106

Meine Schuld: gli anni della crisi finanziaria hanno insegnato a tutti, anche ai piú distratti, che la parola tedesca per «debito» vuol dire anche «colpa». È quel che avverto davanti ai libri che lievitano nel mio carrello, mentre le lancette corrono inesorabili lasciandomi in debito - e in colpa - a cospetto dei grandi autori che non ho letto. Ma sotto la colpa, scavando, trovi la tragedia; e se per l'antropologia dell'uomo colpevole, lacerato dal conflitto tra le sue pulsioni e le leggi della civiltà, dobbiamo bussare alla porta di Freud, per capire la tragedia del lettore accumulatore bisogna far visita a un altro psicoanalista, Heinz Kohut. All'uomo colpevole Kohut contrappose appunto l'uomo tragico, che è squassato da un conflitto diverso, quello tra il finito e l'infinito, perché «cerca, quasi sempre senza riuscirci, di realizzare nel breve spazio della sua vita il programma esistente nel suo profondo». Se volessimo aggravare l'angoscia potremmo aggiungere al carrello già straripante anche Kierkegaard e Unamuno, far salire a bordo esistenzialisti e psicologi esistenziali, ma le loro carrozze a tassametro ci porterebbero sempre lí, dove nostro malgrado stazioniamo tutti: alla coscienza della tragica sproporzione tra l'infinito che ci portiamo dentro e la finitezza della vita, tra il desiderio di dispiegare le possibilità che intravediamo e il tempo risibile che ci è assegnato per compiere l'impresa.

Le biblioteche sterminate, gli elenchi dei mille classici imprescindibili, i cataloghi senza fondo delle librerie offrono al lettore la stessa rivelazione. Tutto sta ad avvertire il rintocco cupo della tragedia sotto il ticchettio frenetico dell'angoscia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 114

Cortocircuiti tra la lettura e la vita


                                       Nessuna delle nostre emozioni è schietta.
                                       Gioie, dolori, amori, vendette, i nostri
                                       singhiozzi, le nostre risate, le
                                       passioni, i delitti; tutto è copiato,
                                       tutto!

                                            Jules Vallès, Les victimes du livre



«Bisognerebbe leggere sempre di meno, e non sempre di piú». Varcata la soglia dei sessant'anni, Henry Miller si accorse di aver passato troppo tempo tra i libri. Magari non quanto uno studioso o un topo di biblioteca, diceva lui, che di certo poteva vantare una vita piuttosto avventurosa; «e tuttavia ho letto indubbiamente almeno cento volte di piú di quanto avrei dovuto leggere per il mio bene». Aggiungeva, di passaggio, che i libri in commercio sono troppi, e il grosso è roba mediocre o bassa divulgazione; tanto vale stamparne qualcuno di meno, visti i risultati deprimenti, su cui stendeva il velo di una litote: «Oggi gli illetterati, decisamente, non sono i meno intelligenti tra noi».

La sua disillusione era tutto fuorché nuova. Il dotto rinascimentale Cornelio Agrippa di Nettesheim aveva pubblicato una minuziosa invettiva contro «l'incertitudine e la vanità delle scienze» (De incertitudine et vanitate scientiarium, 1530), che si apriva con il motto nihil scire foelicissima vita - «Felicissima vita è il non saper nulla» - e dopo un centinaio di capitoli, ciascuno dedicato alla demolizione di un ramo del sapere dalla grammatica alla teologia, si chiudeva con una Digressione in lode dello asino. Qui Agrippa sosteneva che «spessissime volte un uomo ignorante et idiota vede quelle cose che non può vedere un dottore scolastico corrotto nelle scienze umane». Anche lui, come Miller, doveva aver letto cento volte piú del dovuto, e vagheggiava una felice asinità.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 124

Il fatto è che abbiamo la testa piena di letteratura, e solitamente di cattiva letteratura. Crediamo di cavare da noi stessi, come ragni, i fili viscosi delle nostre narrazioni, e ne intessiamo ragnatele in cui, pensando di intrappolare il mondo, finiamo per intrappolarci da soli. Ma per lo piú peschiamo in qualche punto intermedio del nostro spirito - non abbastanza profondo per attingere alla zona in cui secondo alcuni albergano gli archetipi, ma non abbastanza superficiale per essere accessibile alla luce della piena coscienza - in cui si sono depositate fantasie puerili, trame abborracciate, melodrammi scadenti che recitiamo con un letteralismo tetro e ottuso, immedesimandoci pienamente - vorrei dire: bovaristicamente - con i loro eroi e le loro eroine. Alcune di queste storie sono diventate proverbiali: la donna che ama troppo, il vendicatore dei torti del mondo, la vittima destinata a soffrire, lo sfortunato che incappa sempre negli incontri sbagliati, l'outsider arrabbiato, il duro dal cuore tenero.

Ebbene, se mi chiedessero a che cosa serve la letteratura, la buona letteratura, direi che serve a scacciare la moneta della cattiva letteratura, la gramigna di cui sono infestate le nostre vite, e a correggere questi canovacci dozzinali che il nostro affabulatore interiore intreccia senza tregua plagiando qua e là, perché non conosce altro modo di dar senso ai casi del mondo e alle azioni degli uomini. Abbiamo tutti delle lenti letterarie a fondo di bottiglia in dotazione fin dalla prima infanzia, e non è certo cacciando bufali o partendo per il fronte che ce ne sbarazzeremo. Possiamo, questo sí, usare la letteratura come un gabinetto di ottica dove tornire, levigare e lustrare le nostre lenti, di modo da correggere le deformazioni piú vistose e addestrarci nell'arte dell'attenzione, la sola che conti, la sola che abbia il potere di affrancarci dalla sudditanza alle nostre storie.

Due frasi di Flaubert: «Madame Bovary non ha niente di vero»; «Madame Bovary c'est moi». Un altro comma 22? Una nuova forma del paradosso del mentitore? O è la semplice rivelazione che siamo la finzione che scegliamo di vivere?

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 126

Come va a finire?


                                Ed ecco, trova un passo, un passo eterno, in cui
                                legge queste parole profetiche: «Quando il
                                lettore arriverà alla fine di questa dolorosa
                                storia morirà con me». [...] Se continuava a
                                leggerlo, a viverlo, correva il rischio di
                                morire quando fosse morto il personaggio
                                romanzesco; ma se non lo avesse letto piú, se
                                non avesse vissuto piú il libro, sarebbe
                                vissuto?

                                        Miguel de Unamuno, Come si fa un romanzo



Qualcuno ha detto che il segnalibro è come l'orologio fermo trovato al polso della vittima in un romanzo giallo. È una misura del tempo - di quanto ne abbiamo già speso, di quanto ne passeremo ancora tra le pagine, di quanto ne resta da vivere ai personaggi del romanzo prima che i loro destini si compiano e tutto il loro mondo sia rituffato nel buio. Nella Storia della Rivoluzione francese, Jules Michelet riferisce questo episodio, avvenuto a Lione nel 1794: «Uno dei condannati, che quando lo chiamarono stava leggendo, continuò a leggere fino al patibolo; arrivato ai piedi della ghigliottina, mise il segno alla pagina». Il tempo della vita e il tempo della lettura stavano per disallinearsi irreparabilmente; ma quel condannato senza nome, con signorile sprezzatura, compí il gesto che avrebbe compiuto in qualunque altro giorno. Capita pressoché a tutti i lettori che la morte li colga con un libro in sospeso, ma per ciascun lettore questo accade una volta sola. Per tutti i libri che non sono l'ultimo vale il contrario: sono loro a finire sotto i nostri occhi prima di noi, lasciandoci l'ebbrezza vittoriosa dei sopravvissuti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 130

[...] e poi c'è lei, la mite tartaruga, che non ha proprio l'estro della velocista, e che si trascina con flemma la sua casa-carapace. Per l'amante dei libri, questo carapace è la biblioteca personale. La si può muovere, certo, anche se goffamente e un po' a fatica, e a volte è sballottata qua e là da divorzi, traslochi, sfratti, spostamenti repentini. Ma idealmente dovrebbe stare sempre al suo posto, intorno alla sua tartaruga, che poi saremmo noi. Casa è dove sono i nostri libri.

[...]

Sospetto però che i piani di lettura irrealistici siano anch'essi un tentativo di giocare a scacchi con la morte: quella valigia imbottita di libri non racchiude forse la velata promessa di una vacanza senza fine? Per la stessa ragione accumuliamo volumi su volumi nella nostra biblioteca, nell'illusione che per il prezzo di ogni libro ci sia concesso in cambio il tempo necessario a leggerlo. È il tempo, che mettiamo in valigia o sugli scaffali.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 140

Quasi tutti i lettori oggi si lamentano di non riuscire piú a concentrarsi nella lettura, e in larga maggioranza danno la colpa al loro smartphone. Non hanno tutti i torti. Rispetto al libro, lo smartphone è come un fratellino appena nato che reclama attenzioni con il pianterello ininterrotto dei trilli, delle notifiche, delle vibrazioni. E noi non possiamo servire due padroni, dice Gesù, figuriamoci poi se questi padroni sono entrambi dei bebè. Il libro sarà pure il primogenito, ma reclama la stessa attenzione del nuovo arrivato, e prima ancora dell'attenzione si contende - guai a dimenticarsene - le nostre mani. Non foss'altro perché bisogna tenersi questo fagottino di carta tra le mani, o al limite in una mano sola (Rousseau parlava dei livres qu'on ne lit que d'une main, ed è un modo proverbiale per riferirsi alla letteratura erotica), la lettura si presta male a diventare un'attività di sottofondo. Per giunta, il secondogenito ha un'influenza nefasta sul primo. Dice la neuroscienziata Maryanne Wolf che la piú grande dote del nostro cervello, l'adattabilità, potrebbe rivelarsi una condanna, la premessa della nostra autoestinzione come lettori: per rispondere agli stimoli digitali, infatti, stiamo alterando rapidamente processi cognitivi che si erano collaudati in secoli di consuetudine con i libri. Rischiamo di perdere la capacità di lettura profonda, o deep reading, il «libero dono dell'immersione nella vita della lettura». Per correre ai ripari prima che sia troppo tardi, dobbiamo trovare il modo di isolarci dal mondo in compagnia dei nostri libri. C'è un precedente da tenere in conto.

Nel luglio del 1925 Hugo Gernsback, inventore e scrittore, nonché padre e padrino della fantascienza (è lui che l'ha battezzata science fiction), presenta la sua nuova trovata ai lettori della rivista «Science and Invention». Si chiama The Isolator, ed è un casco simile a quelli dei sommozzatori, munito di bombola di ossigeno.

| << |  <  |