Copertina
Autore Slavoj Žižek
Titolo Credere
EdizioneMeltemi, Roma, 2005, Melusine 37 , pag. 240, cop.fle., dim. 120x189x21 mm , Isbn 978-88-8353-422-5
OriginaleDie gnadenlose Liebe
EdizioneSuhrkamp, Frankfurt am Main, 2001
CuratoreMarco Senaldi
TraduttoreGabriele Illarietti, Marco Senaldi
LettoreRiccardo Terzi, 2006
Classe filosofia , sociologia , religione
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Indice


  7  Introduzione
     Dio è inconscio


 13  Capitolo primo
     "Orazio, economia, economia!"

 13  Amleto prima di Edipo
 18  Economia come peccato mortale
 23  Perché Cristo è morto sulla croce?
 31  La menzogna del sacrificio
 36  La rinuncia femminile

 43  Capitolo secondo
     Contro l'eresia digitale

 43  Gnosticismo? No, grazie!
     1. Evoluzionismo decostruzionista
     2. Buddismo cognitivista
     3. Hegel e il cognitivismo
 62  Autopoiesi e (auto)coscienza
 68  Causa versus causalità
 75  Dalla Cosa all'objet a... e ritorno
 92  Niente sesso, siamo digitali!
106  L'antinomia della ragion digitale

117  Capitolo terzo

     ...e invece dovrebbe fregartene!
117  L'oggetto anale
125  La grande lezione del Tibet
130  Il Reale dell'illusione (cristiana)
134  I miracoli ACCADONO!
140  Dio si nasconde nei dettagli

161  Capitolo quarto
     "Padre, perché mi hai abbandonato?"

164  Fede senza credo
168  La libertà leninista
182  Perché l'iconoclastia ebraica?
192  Autore, soggetto, carnefice
198  Grazia? No, grazie!

217  Postfazione
     Il Vangelo dell'ateo

     Marco Senaldi

229  Bibliografia

 

 

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Pagina 7

Introduzione

Dio è inconscio


Nella sua Antologia minima dei clichés hollywoodiani (1995) Roger Ebert raccoglie centinaia di stereotipi e scene immancabili. Si va dalla famosa regola del "Carretto della frutta" (durante una tipica scena di inseguimento che si svolge in un paese straniero o in un ambiente etnico, un carretto della frutta viene rovesciato e un fruttivendolo arrabbiato corre per la strada minacciando col pugno l'auto del protagonista che scappa via) ai casi più raffinati della regola del "Grazie, non c'è di che" (quando due personaggi hanno appena finito di confidarsi l'un l'altro, non appena il personaggio A sta per lasciare la stanza, B dice (più o meno) "Bob (o qualunque sia il nome di A)?", A si ferma, si gira e dice "Sì?" e B allora di rimando "Grazie") o alla regola della "Borsa della spesa" (tutte le volte che una donna cinica, ma fragile, che non vuole più innamorarsi, viene inseguita da un pretendente che vorrebbe abbattere il muro della sua solitudine, lei va a fare la spesa; le borse a quel punto si rompono sempre e la frutta e la verdura si rovesciano dappertutto, a simbolizzare la confusione in cui si trova la sua vita, e così il corteggiatore può aiutarla a raccogliere non solo le sue arance e le sue mele, ma anche i pezzi della sua vita).

Ecco qui che cosa è veramente il "Grande Altro" di Lacan, la sostanza simbolica delle nostre vite: non semplicemente le norme simboliche esplicite che regolano l'interazione sociale, ma anche l'intricata ragnatela di "implicite" norme non scritte che regolano di fatto le nostre parole e le nostre azioni.


Non meno che la stessa vita sociale, il mondo accademico di oggi, che si auto-definisce "radicale", è permeato da regole e proibizioni non scritte – sebbene tali regole non siano mai dichiarate esplicitamente, il disobbedirvi può avere conseguenze terribili. Una di queste regole non scritte riguarda l'indiscussa onnipresenza della necessità di "contestualizzare" o di "situare" la propria posizione: il modo più facile per acquisire automaticamente punti in un dibattito è quello di protestare dicendo che la posizione dell'avversario non è correttamente "situata" in un contesto storico – "Parli di donne – quali donne? Non c'è la 'donna' in quanto tale, e quindi non è che il tuo generico parlare di donne, nella sua apparente neutralità onnicomprensiva, privilegia certe specifiche figure della femminilità e ne esclude altre?". Perché una tale storicizzazione radicale è falsa, a dispetto dell'ovvio momento di verità che contiene? Perché la stessa realtà sociale di oggi (il mercato globale tardo capitalista) è dominata da ciò a cui Marx alludeva come potenza dell' "astrazione reale": la circolazione del Capitale è la forza di una radicale "deterritorializzazione" (per usare il termine di Deleuze ) che, proprio nel suo funzionamento reale, ignora attivamente le condizioni specifiche e non può "radicarsi" in esse. Non è più, come nell'ideologia tradizionale, l'universale che rimuove l'elemento della propria parzialità, del proprio privilegiare un contenuto particolare; piuttosto, è proprio il tentativo di localizzare delle radici particolari che nasconde ideologicamente la realtà sociale del dominio dell' "astrazione reale".


Un'altra di queste regole è, nell'ultimo decennio, l'aver elevato Hannah Arendt ad autorità intoccabile, a "oggetto di transfert". Fino a vent'anni fa i radicali di sinistra la rifiutavano in quanto autrice dell'idea di "totalitarismo", l'arma chiave dell'Occidente nello scontro ideologico della guerra fredda: se, in una riunione di Cultural Studies negli anni Settanta, a qualcuno fosse stato chiesto in tono innocente "La tua linea argomentativa non è simile a quella di Arendt?", sarebbe stato un segno sicuro che quel qualcuno era in grossi guai. Oggi, invece, ci si aspetta che la si tratti con rispetto – persino gli accademici il cui orientamento di fondo potrebbe spingerli contro Arendt (psicoanalisti come Julia Kristeva, a causa del rifiuto della Arendt per la teoria psicoanalitica; seguaci della Scuola di Francoforte come Richard Bernstein, a causa dell'eccessiva animosità della Arendt nei confronti di Adorno ), perseguono l'impossibile obiettivo di riconciliarla con i propri fondamenti teoretici. Questa elevazione di Hannah Arendt è forse il più chiaro indice della disfatta teoretica della sinistra, cioè di come la sinistra abbia accettato le coordinate di fondo della democrazia liberale ("democrazia" contro "totalitarismo", ecc.) e ora cerchi di ridefinire la propria (op)posizione entro questo spazio. La prima cosa da fare è perciò violare coraggiosamente questi tabù liberali: CHI SE NE FREGA se si viene accusati di essere "anti-democratici", "totalitaristi"...


Un'altra regola non scritta riguarda il credo religioso: si deve simulare di non credere, cioè un'aperta ammissione pubblica del proprio credo religioso è sentita quasi come qualcosa di vergognoso ed esibizionistico. Sembriamo tutti nella posizione del Faust di Goethe che fornisce prontamente una serie di contro-domande evasive quando Margherita, dopo che hanno consumato il loro amore, gli chiede "Qual è la tua posizione nei confronti della religione?": si deve veramente avere fede? Chi può dire: credo in Dio? ecc., ecc. (Faust, I, vv. 3415 sgg.). Il lato nascosto di questa resistenza è che nessuno sfugge davvero al credere – un fatto che merita di essere sottolineato soprattutto oggi, nella nostra epoca che si presume atea. Sarebbe a dire, nella nostra secolare cultura post-tradizionale ufficialmente atea ed edonistica, in cui nessuno è pronto a confessare pubblicamente la propria fede, la struttura soggiacente del credere è tanto più pervasiva – noi tutti, segretamente, crediamo. La posizione di Lacan è qui chiara e univoca: "Dio è inconscio", cioè è naturale per l'essere umano cedere alla tentazione di credere. Proprio questo predominio del credere, il fatto che la necessità di credere sia consustanziale alla soggettività umana, è ciò che rende problematico il classico argomento evocato dai credenti per disarmare i loro oppositori: solo coloro che credono possono comprendere cosa significa credere, dunque gli atei non sono in grado a priori di argomentare contro di noi... Ciò che è falso in questo ragionamento è la sua premessa: l'ateismo non è il livello zero che chiunque può comprendere, dal momento che significa semplicemente la mancanza di (fede in) Dio – probabilmente, niente è più difficile che sostenere questa posizione, essere un vero materialista. In quanto la struttura del credere è quella del feticista Spaltung und Verleugnung ("So che non esiste il Grande Altro, ma ciò nonostante [...] credo segretamente in Lui"), solo lo psicanalista che si fa carico dell'inesistenza del Grande Altro è un vero ateo. Persino gli stalinisti erano dei credenti, in quanto hanno sempre evocato il Giudizio finale della Storia che determinerà il "significato oggettivo" delle loro azioni. Anche un trasgressore radicale come de Sade non era un ateo coerente; la logica segreta della sua trasgressione è un atto di sfida rivolto a Dio, cioè l'inverso della logica classica della scissione feticista ("So che non esiste il Grande Altro, ma ciò nonostante..."): "Sebbene sappia che Dio esiste, sono pronto a sfidarlo, a violare le sue proibizioni, ad agire COME SE Egli NON esistesse!". A parte la psicoanalisi (quella freudiana, in opposizione alla deviazione junghiana), è, forse, solo Heidegger che, in Essere e Tempo, ha spiegato coerentemente l'idea atea di esistenza umana, gettata entro un orizzonte finito contingente, con la morte come sua possibilità definitiva.


Il presente libello si sforza di aggirare questo patetico orientamento predominante: il suo autore, un vecchio ateo incondizionato per formazione (persino materialista dialettico), propone qui il ritorno alla struttura simbolica che sottostà al cristianesimo.


*



Nel 1991, dopo il colpo di stato anti-Ceaucescu messo in scena dalla stessa nomenklatura, l'apparato della polizia segreta rumena rimase naturalmente pienamente operativo, perseguendo i suoi interessi come al solito. Tuttavia, il tentativo della polizia segreta di progettare una nuova immagine di sé, più benevola, al passo con la nuova epoca "democratica", è sfociato in alcuni episodi sconcertanti. Un mio amico americano che all'epoca era a Bucarest per una borsa di studio chiamò a casa una settimana dopo il suo arrivo e disse alla sua ragazza che il paese era povero, ma amichevole, e la gente era gentile e desiderosa di imparare. Dopo aver riattaccato, il telefono squillò immediatamente; egli sollevò il ricevitore e una voce in un inglese leggermente goffo disse di essere l'ufficiale dei servizi segreti incaricato di ascoltare le sue conversazioni telefoniche che voleva ringraziarlo per le belle parole che aveva detto sulla Romania – gli augurò una piacevole permanenza e gli disse arrivederci.

Questo libro è dedicato a quell'anonimo agente segreto rumeno.

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Pagina 43

Capitolo secondo

Contro l'eresia digitale


Gnosticismo? No, grazie!

Durante un dibattito da Larry King tra un rabbino, un prete cattolico e un anabattista del sud, andato in onda sulla CNN nel marzo del 2000, sia il rabbino sia il prete espressero la loro speranza che l'unificazione delle religioni fosse realizzabile, dal momento che una persona in tutto e per tutto buona, indipendentemente dal proprio credo ufficiale, può fare affidamento sulla grazia e sulla redenzione divine. Solo l'anabattista – un giovane yuppie del sud ben abbronzato, leggermente sovrappeso e disgustosamente viscido – insisteva sul fatto che, secondo la lettera del Vangelo, solo coloro che "vivono in Cristo" riconoscendosi esplicitamente nel suo messaggio saranno redenti, che è il motivo per cui, come egli concludeva di conseguenza, "molte persone buone e oneste bruceranno all'inferno". In breve, la bontà (l'applicazione di comuni norme morali) che non si fonda direttamente sul Vangelo è in definitiva solo una perfida apparenza di se stessa, il proprio travisamento... Per quanto questa posizione possa suonare crudele, se non si vuole soccombere alla tentazione dello gnosticismo, si dovrebbe appoggiarla incondizionatamente. La distanza che separa lo gnosticismo dal cristianesimo è irriducibile – essa riguarda il problema fondamentale di "chi è responsabile dell'origine della morte":

Se puoi accettare un Dio che coesiste con i campi di sterminio, con la schizofrenia e l'AIDS, eppure rimane onnipotente e in qualche modo benevolo, allora hai fede (...). Se ti senti affine ad un Dio straniero o sconosciuto, tagliato fuori da questo mondo, allora sei uno gnostico (Bloom 1996, p. 252).

Queste, dunque, sono le coordinate minime dello gnosticismo: ogni essere umano ha dentro di sé una scintilla divina che lo unisce al Bene supremo; nella nostra esistenza quotidiana siamo inconsapevoli di questa scintilla, dal momento che siamo tenuti nell'ignoranza dal fatto di essere presi nell'inerzia della realtà materiale. Come si concilia una simile visione con il cristianesimo vero e proprio? Cristo ha forse sacrificato se stesso per pagare per i peccati del proprio Padre che aveva creato un simile mondo imperfetto? Forse, questa Divinità gnostica, il malvagio creatore del nostro mondo materiale, è la chiave della relazione tra giudaismo e cattolicesimo, il "mediatore evanescente" represso da entrambi: la figura mosaica del severo Dio dei Comandamenti è un imbroglio la cui potente apparizione deve qui celare il fatto che abbiamo a che fare con un confuso idiota che ha rattoppato alla bell'e meglio l'opera della creazione; anche il cristianesimo, pur rimuovendolo, riconosce questo fatto (Cristo muore per redimere il proprio Padre agli occhi dell'umanità).

Nella stessa direzione, i catari, l'eresia cristiana per eccellenza, ponevano due opposte divinità: da una parte, il Dio infinitamente buono che, però, è stranamente impotente, incapace di CREARE alcunché; dall'altra, il Creatore del nostro universo materiale che non è altri che il Diavolo stesso (identico al Dio del Vecchio Testamento) – il mondo tangibile e visibile nella sua interezza è un fenomeno diabolico, una manifestazione del male. Il Diavolo è capace di creare, ma è un creatore sterile; questa sterilità è confermata dal fatto che il Diavolo è riuscito a produrre un universo infelice nel quale, a dispetto di tutti i suoi sforzi, egli non ha mai escogitato nulla di durevole. L'uomo è pertanto una creatura scissa: come entità in carne e ossa è una creazione del Diavolo. Tuttavia, il Diavolo non è stato in grado di creare una vita spirituale, così si ritiene abbia chiesto aiuto al buon Dio; nella sua generosità, Dio ha accettato di assistere il Diavolo, questo deprimente sterile creatore, soffiando un'anima in un corpo di argilla senza vita. Il Diavolo è riuscito a pervertire questo bagliore spirituale causando la Caduta, cioè inducendo la prima coppia, Adamo ed Eva, all'unione carnale, il che ha portato a compimento la loro condizione di creature materiali.


Perché la Chiesa ha reagito in modo così violento nei confronti di questo resoconto gnostico? Non tanto a causa della radicale alterità dei catari (la credenza dualista nel Diavolo come contro-agente del buon Dio; la condanna di ogni forma di procreazione e fornicazione, cioè il disgusto per la vita come ciclo di generazione e corruzione), ma perché queste "strane" credenze che sembravano così sconvolgenti per l'ortodossia cattolica "erano precisamente quelle che avevano l'apparenza di derivare logicamente dalla dottrina ortodossa contemporanea. Questo è stato il motivo per cui sono state considerate così pericolose" (Oldenbourg 1998, p. 39).

Il dualismo cataro non era forse semplicemente uno sviluppo conseguente della credenza cattolica nel Diavolo? Il rifiuto cataro della fornicazione non era anche la conseguenza dell'idea cattolica che la concupiscenza è intrinsecamente "impura" e deve essere tollerata solo entro i limiti del matrimonio, così che il matrimonio sia in definitiva un compromesso con l'umana debolezza? In breve, ciò che i catari offrivano era la trasgressione intrinseca del dogma ufficiale cattolico, la sua perversa conclusione logica. E, forse, questo ci permette di proporre una definizione più generale di cosa sia l'eresia: affinché un edificio ideologico occupi il posto egemone e legittimi le relazioni di potere esistenti, esso DEVE venire a un compromesso con il proprio radicale mandato fondativo – e gli ultimi "eretici" sono semplicemente coloro che rifiutano questo compromesso, rimanendo fedeli al messaggio originario. (Ripensiamo alla sorte di San Francesco: insistendo sul voto di povertà dei veri cristiani, rifiutando l'integrazione nell'edificio sociale esistente, egli fu molto vicino a essere scomunicato – venne accolto dalla Chiesa solo dopo gli indispensabili "aggiustamenti", che smussarono questo spigolo che minacciava le relazioni feudali esistenti).

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Pagina 62

Autopoiesi e (auto)coscienza

"Autopoiesi" designa il circolo chiuso dell'autoreferenziale "porre i presupposti" che già Hegel percepiva come la caratteristica fondamentale di un'entità vivente: in una sorta di loop retroattivo, il risultato (l'entità vivente) genera proprio le condizioni materiali che lo producono e lo sostengono – nella migliore tradizione dell'idealismo tedesco, la relazione di un organismo vivente con il suo altro esterno è già sempre la sua stessa auto-relazione, cioè ogni organismo "pone" il proprio ambiente presupposto. Il problema in merito a questa idea autopoietica di vita, elaborata da Maturana e Varela nel loro classico Autopoiesi e cognizione (1980), non sta nella domanda "Questa idea di autopoiesi ha davvero il sopravvento sul paradigma meccanicista?", ma, piuttosto, in quest'altra: come possiamo passare da questo loop autoconchiuso della Vita alla (Auto)Coscienza? Anche l'(auto)coscienza è riflessiva, auto-referenziale nella relazione all'Altro; tuttavia, questa riflessività è completamente differente dall'auto-chiusura dell'organismo: un essere vivente (auto)cosciente mostra che ciò che Hegel chiamava l'infinita potenza della Comprensione, del pensiero astratto (e astraente), è in grado – nella propria mente – di FARE A PEZZI l'Intero organico della Vita, di sottoporlo a un'analisi mortifera, di ridurre un organismo ai propri elementi isolati. L'(auto)coscienza reintroduce così la dimensione della MORTE all'interno della vita organica: il linguaggio stesso è un "meccanismo" mortifero che colonizza l'organismo. (Questo è, secondo Lacan, ciò che intendeva Freud con la sua ipotesi della "pulsione di morte"). Era stato (ancora una volta) già Hegel a formulare questa tensione (tra altri passi) all'inizio del capitolo sull'autocoscienza nella sua Fenomenologia dello Spirito, dove opponeva due forme di "Vita" in quanto auto-referentesi nella relazione all'Altro: la VITA (organico-biologica) e l'(AUTO)COSCIENZA. Il vero problema non è (solo) come passare dalla materia pre-organica alla vita, ma come possa la vita stessa spezzare la propria chiusura autopoietica e iniziare ek-staticamente a relazionarsi al proprio Altro esterno (dove questa apertura ek-statica può anche trasformarsi nell'oggettivazione mortifera della Conoscenza). Il problema non è la Vita, ma la Morte-in-Vita ("l'intrattenersi con il negativo") di un organismo parlante.


Come ben noto, per superare la chiusura dell'autopoiesi che può solo dare ragione dell'auto-riproduzione infinita del sistema, Varela in seguito si rivolgeva alla logica delle proprietà emergenti (che, si sarebbe quasi tentati di affermare, è la nuova versione, più appropriata, della vecchia "legge" materialista-dialettica del salto quantitativo in una nuova qualità): attraverso loop ricorsivi, un'auto-organizzazione complessa emerge spontaneamente da una semplice situazione di partenza. L'idea è che l'emergere della coscienza stessa possa essere spiegato in questo modo:

La natura caotica e imprevedibile di dinamiche complesse implica che la soggettività sia emergente piuttosto che data, distribuita piuttosto che localizzata unicamente nella coscienza, proveniente da e integrata in un mondo caotico piuttosto che collocata in una posizione di dominio e controllo esterna ad esso (Hayles 1999, p. 291).

Questo è il modo in cui Edwin Hutchins (1995) ha trionfalmente risposto al ben noto argomento della "Stanza cinese" di John Searle contro l'intelligenza artificiale (una persona che non sa una parola di cinese viene messa in una stanza; dei testi scritti in cinese vengono fatti scivolare dentro attraverso una fessura nella porta; costui ha nella stanza dei cesti di caratteri cinesi e un libro di regole che mette in correlazione i simboli scritti sui testi con gli altri simboli nei cesti; usando il libro di regole egli assembla delle stringhe di caratteri e li infila fuori dalla porta – sebbene gli interlocutori cinesi fuori dalla stanza leggano le sue risposte come dichiarazioni intelligenti, la persona dentro la stanza non ha idea di quale sia il significato dei testi che ha prodotto – e esattamente lo stesso vale per un computer; Searle 1984): non è la persona (il singolo agente all'interno della stanza) che "conosce il cinese", ma L'INTERA STANZA nella sua interazione incarnata con il proprio ambiente. Se, seguendo la stessa direzione, si guardasse all'interno del cervello umano, neanche qui si troverebbe un singolo punto di comprensione cosciente, ma solo operazioni neuronali: è il cervello nella sua interezza, nella sua interazione incorporata con il mondo esterno, che "pensa".

Tuttavia, sebbene questo approccio fornisca un'apparente risposta alla domanda sull'emergere della vita, non è ancora chiaro come si possa dar conto dell'emergere della coscienza dalla vita.

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Pagina 75

Dalla Cosa all'objet a... e ritorno

Tuttavia, oggi collegare la psicoanalisi e l'anti-capitalismo non fa una gran bella impressione. Se si scartano le due versioni standard, il vecchio argomento del famigerato "carattere anale" come fondamento libidinale del capitalismo (un caso esemplare di riduzionismo psicologico, se ve ne è mai stato uno) e il suo inverso, la non meno vecchia semplificazione freudiano-marxista (la repressione sessuale è il risultato del dominio sociale e dello sfruttamento, così che una società senza classi porterà alla liberazione sessuale, alla piena capacità di godersi la vita), la reazione che scatta quasi automaticamente contro la nozione dell'intima natura anti-capitalista della psicoanalisi è che la relazione tra questi due campi del sapere è intrinsecamente antagonistica: da un punto di vista marxista classico, la psicoanalisi è incapace di comprendere come la struttura libidinale che essa descrive (la costellazione edipica) sia radicata in specifiche circostanze storiche, che è il motivo per cui essa eleva ostacoli storicamente contingenti in apriori della condizione umana, mentre, per la psicoanalisi, il marxismo fa affidamento su un'idea di uomo semplificata e psicologicamente ingenua, che è il motivo per cui esso è incapace di afferrare perché i tentativi di liberazione diano necessariamente origine a nuove forme di dominio. Si sarebbe tentati di descrivere questa tensione come quella tra commedia e tragedia (nel senso medievale dei termini): il marxismo è solo un'altra commedia, un'altra narrazione della storia umana come processo che finisce in una redenzione finale, mentre la visione della psicoanalisi è intrinsecamente tragica, è quella di un antagonismo irrisolvibile, di ogni azione umana che va di traverso, rovinata da "danni collaterali" non intenzionali. Ai filosofi politici di oggi piace far notare come, entro il regno della stessa psicologia di massa, la psicoanalisi non può dar ragione dell'emergere di collettivi che non sono "folle" basate su un crimine primordiale e su una colpa o unite sotto un leader totalitario, ma sono unite in una solidarietà condivisa. Che cosa si può dire dei momenti magici in cui, all'improvviso, la gente non è più spaventata, in cui diviene consapevole che, in definitiva, per citare le ben note parole, non ha niente di cui aver paura se non la paura stessa, che l'ipnotizzante autorità dei suoi maestri è la "determinazione riflessiva" (dice Hegel) del suo stesso atteggiamento di sottomissione nei loro confronti? Già Pascal faceva notare che la gente non tratta una certa persona come un re perché è un re – avviene piuttosto che una certa persona appare come un re perché la gente lo tratta come tale. La psicoanalisi non sembra tenere conto di simili magiche rotture che rompono momentaneamente l'inesorabile catena della necessità tragica: entro il proprio campo, ogni ribellione contro l'autorità è in definitiva auto-annullantesi, sfocia nel ritorno dell'autorità repressa sotto forma di colpa o di impulsi autodistruttivi. D'altra parte, gli psicoanalisti fanno ben attenzione alle catastrofiche conseguenze degli sforzi rivoluzionari radicali: il rovesciamento dell' ancien regime ha causato forme di dominio totalitario persino più violente... È la vecchia storia del buffone rivoluzionario e della canaglia conservatrice.

Quindi, dove ci porta tutto questo? Il primo punto da sottolineare è che Lacan era ben consapevole della costellazione storica entro cui la psicoanalisi – non come teoria, ma come pratica intersoggettiva specifica, come forma particolare di legame sociale – aveva potuto emergere: la società capitalista nella quale le relazioni intersoggettive vengono mediate dal denaro. Il denaro – pagare l'analista – è necessario per tenerlo fuori circolazione, per evitare di ritrovarlo coinvolto nella trama di passioni che ha generato la patologia del paziente. Lo psicoanalista è così una sorta di "prostituta della mente", che ricorre al denaro per lo stesso motivo per cui ad alcune prostitute piace essere pagate così da poter fare sesso senza coinvolgimento personale, mantenendo le distanze – qui incontriamo la funzione del denaro nella sua forma più pura. E lo stesso vale quando, oggi, la comunità ebraica chiede del denaro per le proprie sofferenze durante l'olocausto: non si stanno concedendo alcune contrattazioni a buon mercato – non è che in tal modo i perpetratori possono semplicemente pagare il loro debito e comprarsi la pace. Bisogna far riferimento qui all'affermazione di Lacan per cui il ruolo originario del denaro è quello di funzionare come l'impossibile equivalente di ciò che NON HA PREZZO, del desiderio stesso. Così, paradossalmente, ricompensare finanziariamente le vittime dell'olocausto non ci solleva dalla nostra colpa – piuttosto ci permette di riconoscere questa colpa come indelebile.

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Pagina 92

Niente sesso, siamo digitali!

Entro queste coordinate, la nozione degli ideologi del cyberspazio di un Io che libera se stesso dall'attaccamento al proprio corpo naturale, cioè che si trasforma in un'entità virtuale fluttuante da un'incarnazione temporanea e contingente all'altra, può presentarsi come la realizzazione scientifico-tecnologica finale del sogno gnostico dell'Io che si libera dal decadimento e dall'inerzia della realtà materiale. In altre parole, l'idea di un corpo "etereo" che possiamo ricrearci nella Realtà virtuale non è forse il vecchio sogno gnostico del "corpo astrale" immateriale divenuto realtà? Così, cosa dobbiamo farcene dell'argomento, apparentemente convincente, secondo cui il cyberspazio funziona in modo gnostico, promettendo di elevarci a un livello in cui ci libereremo dalla nostra inerzia corporea, forniti di un altro corpo etereo?

Ci sono quattro principali atteggiamenti teorici nei confronti del cyberspazio:

1. la celebrazione puramente tecnologica delle nuove potenzialità dei supercomputer, della nanotecnologia e della tecnologia genetica (cfr. Kurzweil 1999);

2. il suo contrappunto new age, cioè la messa in rilievo del retroterra gnostico che supporta perfino la ricerca scientifica più "neutrale" (Davis 1999);

3. lo spiegamento storicista-sociocritico "decostruzionista" delle potenzialità liberatorie del cyberspazio che, sfumando i limiti dell'ego cartesiano, la sua identità, il suo monopolio sul pensiero e il suo attaccamento al corpo biologico, ci permette di passare dal soggetto maschile identitario e liberale cartesiano alle sporadiche forme cyborg di soggettività "post-umana", dal corpo biologico a incarnazioni transitorie (Hayles 1999);

4. la riflessione filosofica heideggeriana sulle implicazioni della digitalizzazione, che si concentra sulla nozione di Dasein come Essere-nel-Mondo, come agente impegnato gettato in una determinata situazione del mondo-della-vita (Dreyfus 1979).

In questa chiave, l'avvento del genoma e la prospettiva tecnologica del "caricamento" di una mente umana in un computer forniscono la più chiara visione possibile di quello che Heidegger aveva in mente quando parlava del "pericolo" di una tecnologia planetaria: ciò che viene minacciato qui è la stessa essenza ek-statica del Dasein, dell'uomo in quanto capace di trascendere se stesso relazionandosi agli enti entro lo Schiarimento (Lichtung) del proprio mondo (significativamente, per Heidegger la visione stessa della Terra dallo spazio indicava la fine dell'essenza umana come dimorare tra Cielo e Terra — una volta che vediamo la Terra dallo spazio, la Terra in un certo senso non è più la Terra). Tuttavia, questo stesso "pericolo" ci permette di confrontarci in modo radicale con il destino dell'umanità e, forse, di delineare una modalità differente del nostro coinvolgimento con la tecnologia, proprio quella che faccia saltare il soggetto cartesiano del dominio tecnologico. Ora, le prime due posizioni condividono la premessa di una totale disincarnazione, della riduzione della mente (post)umana a un modello-software liberamente fluttuante tra diverse incarnazioni, mentre le altre due affermano la finitezza di un agente incarnato in quanto orizzonte ultimo della nostra esperienza — per citare la concisa formulazione di Katherine Hayles:

Se il mio incubo è una cultura abitata da esseri post-umani che osservano i propri corpi come degli accessori di moda piuttosto che come radici esistenziali, il mio sogno è una versione del post-umano che abbracci le possibilità della tecnologia dell'informazione senza venir sedotta da fantasie di potere illimitato e di immortalità disincarnata, che riconosca e celebri la finitezza come condizione dell'essere umano e che comprenda la vita umana come incastonata in un mondo materiale di grande complessità, dal quale dipendiamo per la continuazione della nostra sopravvivenza (Hayles 1999, p. 5).

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Pagina 96

[...] Per questa ragione, si dovrebbe aggirare l'idea tradizionale dell'olocausto come attuazione storica di un "Male radicale" (o, piuttosto, diabolico): Auschwitz è l'argomento definitivo CONTRO l'idea romantica di un "Male diabolico", di un eroe malvagio che eleva il Male a principio a priori. Come Hannah Arendt faceva bene a sottolineare (Arendt 1963), l'orrore insopportabile di Auschwitz sta nel fatto che i suoi perpetratori NON erano personaggi byroniani che affermavano, come Satana in Milton, "Il Male sia il mio Bene!" – la vera causa di allarme risiede nella DISTANZA incolmabile tra l'orrore di ciò che è successo e il carattere "umano, troppo umano" dei suoi perpetratori. Levi stesso insisteva sull'esteriorità traumatica dell'antisemitismo (in termini che, con un po' di crudele ironia, quasi richiamano la percezione nazista degli ebrei come intrusi esterni all'interno del nostro edificio sociale, come un velenoso corpo estraneo): "Nell'odio nazista non c'è razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell'uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori e oltre il fascismo stesso" (Levi 1947, p. 244).

Quando, in una sua famigerata dichiarazione, Heidegger mette l'annientamento degli ebrei sullo stesso piano della meccanizzazione dell'agricoltura, semplicemente come un altro esempio della mobilitazione produttiva totale della tecnologia moderna che riduce ogni cosa, compresi gli esseri umani, a materia disponibile per lo spietato sfruttamento tecnologico ("L'agricoltura è ora un'industria alimentare motorizzata – in sostanza lo stesso che la fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, lo stesso che l'affamare le nazioni, lo stesso che produrre bombe atomiche", cit. in Young 1997, p. 172), questo inserimento nella serie si addice al socialismo stalinista, che era davvero la società della spietata mobilitazione totale, non al nazismo, che aveva introdotto l'eccesso della violenza antisemita. 0, come dice succintamente Primo Levi: "è possibile, persino facile, raffigurarsi un socialismo senza campi di prigionia. Un nazismo senza campi di concentramento, invece, è inimmaginabile" (Levi 1947, p. 241).

Anche se concediamo che il terrore stalinista sia stato la necessaria conseguenza del progetto socialista, abbiamo ancora a che fare con la dimensione tragica di un progetto emancipatorio andato storto, di un'impresa che fatalmente fraintende le conseguenze del suo stesso intervento, in contrasto con il nazismo che è stato un'impresa anti-emancipatoria andata fin troppo bene. In altre parole il progetto comunista era quello della fratellanza comune e della prosperità, mentre il progetto nazista era direttamente quello del dominio. Così, quando Heidegger alludeva alla "grandezza interiore" del nazismo tradita dai venditori ambulanti dell'ideologia nazista, egli attribuiva ancora al nazismo qualcosa che in effetti vale solo per il comunismo: il comunismo ha una "grandezza interiore", un esplosivo potenziale liberatorio, mentre il nazismo era perverso da cima a fondo, nella sua stessa idea: è semplicemente ridicolo concepire l'olocausto come una sorta di perversione tragica del nobile progetto nazista – il suo progetto ERA esattamente l'olocausto.


Questi paradossi forniscono lo sfondo esatto di Le particelle elementari di Michel Houellebecq, la storia di una DESUBLIMAZIONE radicale, se ve ne è mai stata una: [...]

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Pagina 111

Il paradosso – o, piuttosto, l'antinomia – della ragion digitale riguarda precisamente il destino del corpo. Persino gli avvocati del cyberspazio ci avvertono del fatto che non dovremmo dimenticarci completamente del nostro corpo, che dovremmo mantenere il nostro attaccamento alla "vita reale" per ritornare con regolarità dalla nostra immersione nel cyberspazio all'esperienza intensa del nostro corpo, dal sesso al jogging. Non trasformeremo mai noi stessi in entità virtuali fluttuanti liberamente da un universo virtuale all'altro: il nostro corpo della "vita reale" e la sua mortalità è l'orizzonte ultimo della nostra esistenza, l'ultima intima impossibilità che puntella l'immersione in tutti i molteplici universi virtuali possibili. Eppure, allo stesso tempo, nel cyberspazio il corpo torna a vendicarsi: nella percezione popolare "il cyberspazio è pornografia hardcore", cioè la pornografia hard è percepita come l'uso principale del cyberspazio. La testuale "illuminazione", la "luminosità dell'essere", il conforto/sollievo che sentiamo quando fluttuiamo liberamente nel cybersapzio (o, ancora di più, nella Realtà virtuale) non è l'esperienza di essere incorporei, ma quella di possedere un altro corpo – etereo, virtuale, senza peso – , un corpo che non ci limiti all'inerte materialità e finitezza, un angelico corpo spettrale, un corpo che possa essere ricreato e manipolato artificialmente. Il cyberspazio, pertanto, indica una svolta, una sorta di "negazione della negazione" nel processo graduale verso la disincarnazione della nostra esperienza (prima la scrittura invece del discorso "vivente", poi la stampa, poi i mass-media, poi la radio, quindi la TV): nel cyberspazio ritorniamo sì all'immediatezza corporea, che è però una sconcertante immediatezza virtuale. In questo senso, l'affermazione che il cyberspazio contiene una dimensione gnostica è pienamente giustificata: la più concisa definizione di gnosticismo è precisamente che esso è una sorta di materialismo spiritualizzato: il suo argomento non è direttamente una realtà superiore puramente speculativa, ma una "superiore" realtà CORPOREA, una proto-realtà di fantasmi irreali ed entità non-morte.

Tuttavia, la lezione definitiva del cyberspazio è ancora più radicale: non solo perdiamo il nostro corpo materiale immediato, ma impariamo che non c'è mai stato un corpo simile – la nostra auto-esperienza corporea era già-sempre quella di un'entità costituita immaginariamente. Verso la fine della sua vita, Heidegger ammise che, per la filosofia, "il fenomeno del corpo è il problema più difficile": "L'elemento corporeo 'das Leibliche' nell'uomo non è qualcosa di animale. Le modalità di comprensione che vi sono connesse sono qualcosa che la metafisica fin qui non ha ancora toccato" (Heidegger, Fink 1970, p. 274).

Si è tentati di azzardare l'ipotesi che sia proprio la teoria psicoanalitica la prima ad aver toccato questa questione chiave: il freudiano corpo eroticizzato, supportato dalla libido, organizzato attorno alle zone erogene, non è forse precisamente un corpo non-animalesco, non-biologico? QUESTO corpo (e non quello animalesco) non è forse l'oggetto specifico della psicoanalisi?

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Tuttavia, questo è tutto? Come funziona davvero la libertà nelle stesse democrazie liberali? Sebbene la presidenza Clinton riassuma la Terza via della (ex) Sinistra odierna in procinto di soccombere al ricatto ideologico della Destra, il suo programma di riforma sanitaria equivarrebbe nondimeno a una sorta di atto, almeno nelle condizioni attuali, dal momento che sarebbe basato sul rifiuto delle idee dominanti della necessità di ridurre le spese e l'amministrazione da parte dello Stato centrale – per così dire, "farebbe l'impossibile". Non stupisce, allora, che abbia fallito: il suo fallimento – forse il solo evento significativo, sebbene in negativo, della presidenza Clinton – testimonia la forza materiale della nozione ideologica di "libera scelta". Sarebbe a dire, sebbene la grande maggioranza della cosiddetta "gente comune" non fosse adeguatamente informata sul programma di riforma, la lobby medica (due volte più forte della famigerata lobby militare!) riuscì a imporre al pubblico l'idea fondamentale che con la sanità per tutti, la libera scelta (per quel che riguarda la medicina) sarebbe stata in qualche modo minacciata – contro questo riferimento puramente funzionale alla "libera scelta" ogni enumerazione di "fatti concreti" (in Canada la sanità è meno cara e più efficace, senza una diminuita libertà di scelta, ecc.) si rivelò inefficace.

Qui siamo proprio al centro nevralgico dell'ideologia liberale: la libertà di scelta, fondata sull'idea di un soggetto "psicologico" dotato di tendenze che egli si sforza di realizzare. E ciò vale specialmente oggi, nell'era di quella che sociologi come Ulrich Beck chiamano "società del rischio" (Beck 1992), quando l'ideologia dominante cerca di venderci proprio l'insicurezza causata dallo smantellamento dello stato del Welfare come un'opportunità per nuove libertà: devi cambiare lavoro ogni anno, facendo affidamento su contratti a breve termine invece che su un impiego stabile a lungo termine? Perché non vedere tutto ciò come una liberazione dalle costrizioni del lavoro fisso, come la possibilità di reinventarsi ogni volta, di diventare consapevoli e realizzare le potenzialità segrete della propria personalità? Non ci si può più fidare di un'assicurazione sanitaria standard e di un piano di pensionamento, così che bisogna optare per una copertura aggiuntiva per la quale bisogna pagare? Perché non percepirla come un'opportunità in più di scelta: una vita migliore adesso o la sicurezza a lungo termine? E se questa impasse ti causa ansia, gli ideologi postmoderni o della "seconda modernità" ti accuseranno immediatamente di essere incapace di farti carico della piena libertà, di "sottrarti alla libertà", di rimanere attaccato in modo immaturo a vecchie forme permanenti... Ancor meglio, quando tutto ciò viene inscritto nell'ideologia del soggetto in quanto individuo psicologicamente ricco di abilità e tendenze naturali, allora automaticamente è come se io interpretassi tutti questi cambiamenti come risultati della mia personalità, non come risultato del mio essere gettato qua e là dalle forze del mercato.

Fenomeni come questi rendono quanto mai necessario oggi riaffermare l'opposizione di libertà "formale" e libertà "reale" in un senso nuovo e più preciso. Quello di cui abbiamo bisogno oggi, nell'era dell'egemonia liberale, è un traité de la servitude libérale "leninista", una nuova versione del Traité de la servitude volontaire di la Boetie che dia pienamente ragione dell'ossimoro patente "totalitarismo liberale". Nella psicologia sperimentale Jean-Leon Beauvois ha fatto il primo passo in questa direzione con la sua precisa esplorazione dei paradossi dell'attribuire al soggetto la libertà di scelta (Beauvois 1994). Ripetuti esperimenti hanno stabilito il seguente paradosso: se DOPO aver ottenuto da due gruppi di volontari il consenso a partecipare all'esperimento li si informa che l'esperimento comporterà qualcosa di spiacevole, addirittura contrario alla loro etica, e se, a questo punto, si ricorda al primo gruppo che ha la libera scelta di dire di no e non si dice niente all'altro gruppo, in ENTRAMBI i gruppi la STESSA percentuale (molto alta) accetterà di continuare a partecipare all'esperimento. Ciò significa che conferire una libertà di scelta formale non fa alcuna differenza: coloro a cui si è data libertà faranno la stessa cosa di coloro a cui (implicitamente) è stata negata.

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Pagina 196

C'è un'efficace argomentazione contraria alla nostra lettura del cristianesimo: nella sua realtà storica, esso non ha funzionato (e non funziona tuttora) forse concordemente alla logica dello scambio sacrificale, con Cristo che paga per i nostri peccati e pone così se stesso come la definitiva figura superegoica nei confronti della quale noi siamo condannati a rimanere per sempre in debito? E, mutatis mutandis, non vale lo stesso per il giudaismo? La spaccatura fra i testi "ufficiali" della Legge, con il loro carattere legale, asessuato e astratto (la Torah – l'Antico Testamento – Mishna – la formulazione delle Leggi – il Talmud – il commentario delle Leggi – tutti considerati parte della divina Rivelazione sul monte Sinai) e la Kabbalah (questo insieme di oscure intuizioni sessualizzate che devono essere tenute segrete – si pensi al noto passo riguardante le secrezioni vaginali) non crea all'interno del giudaismo la tensione fra la pura Legge simbolica e il suo supplemento superegoico, la segreta conoscenza iniziatica? La domanda cruciale è: qual è, di preciso, lo status della Kabbalah all'interno della religione ebraica? È considerata come il suo necessario e intrinseco supplemento osceno, o piuttosto come una deviazione eretica contro la quale occorre lottare (nello stesso modo in cui i cristiani devono combattere contro le eresie gnostiche)? La maggior parte degli indizi sembra avvalorare la prima ipotesi: la Kabbalah è l'INTRINSECO supplemento osceno alla Legge, qualcosa di cui non si deve parlare in pubblico, qualcosa che si preferisce evitare vergognosamente, e che, tuttavia, per queste stesse ragioni costituisce il nucleo fantasmatico dell'identità ebraica. Ciò che complica ulteriormente il quadro è che la Kabbalah non è soltanto il testo religioso ebraico "innominabile" in pubblico: in alcune versioni del Talmud, la relazione fra Talmud e Torah richiama la più tarda attitudine dei cattolici verso la Bibbia (o, incidentalmente, l'atteggiamento stalinista verso i testi "classici": Marx. Engels, Lenin) – è proibito leggerli direttamente, e bisogna passare per gli appositi commentari forniti dalla Chiesa (o, nel caso dello stalinismo, dal Partito), dal momento che una lettura diretta può portare fuori strada e condurre a una terribile eresia... Lungo la stessa linea, una certa tradizione talmudica limita il citare direttamente e verbalmente la Torah: sono invece consentiti i dotti commentari a essa.

È dunque soltanto il cristianesimo a lasciarsi la tensione alle spalle, dal momento che è in grado di rinunciare pienamente al bisogno del supplemento osceno: non c'è alcun testo segreto ad accompagnare come un'ombra superegoica la Parola di Dio. La soluzione è dunque che dovremmo identificare chiaramente SIA nel giudaismo SIA nel cristianesimo una certa tendenza intrinseca a "regredire", a tradire la propria intima presa di posizione radicale: nel giudaismo, la tendenza a concepire Dio come la crudele figura superegoica; nel cristianesimo, la tendenza a ridurre l' agape a un'immaginaria riconciliazione che nasconde l'Alterità della Cosa divina. Ragion per cui, probabilmente, sia il giudaismo che il cristianesimo hanno bisogno di riferirsi l'un l'altro per evitare tale "regressione".


Grazia? No, grazie!

Il saggio di Herbert Schnaedelbach Der Fluch des Christenturms (Schnaedelbach 2000) fornisce forse il più preciso attacco liberale al cristianesimo, elencando i suoi sette, non peccati, ma "errori di nascita" originari: (1) la nozione del peccato originale che riguarda l'umanità in quanto tale; (2) la nozione di un Dio che ha pagato per i nostri peccati tramite un violento accordo legale con se stesso, sacrificando il sangue del suo stesso figlio; (3) l'espansionismo missionario; (4) l'anti-semitismo; (5) l'escatologia con la sua visione del Giorno del Giudizio; (6) l'importazione del dualismo platonico con la sua avversione per la dimensione corporea; (7) il rapporto manipolatorio con la verità storica. Sebbene, in modo prevedibile, Schnaedelbach attribuisca gran parte delle responsabilità a San Paolo, al suo sforzo di istituzionalizzare il cristianesimo, egli enfatizza il fatto che non abbiamo a che fare con la secondaria corruzione dell'originario insegnamento cristiano ad amare, ma proprio con la dimensione originaria. Per di più, egli insiste sul fatto che – per farla breve – tutto ciò che è meritevole nel cristianesimo (l'amore, la dignità umana, ecc.), non è specificamente cristiano, ma è stato preso dal giudaismo.

Il problema che qui si fa sentire è esattamente l'universalismo cristiano: ciò che questa tendenza inclusiva/totalizzante implica (si pensi alla famosa espressione di San Paolo "Non ci sono uomini né donne, ebrei o greci") è una completa esclusione di coloro che non accettano di essere inclusi nella comunità cristiana. In altre religioni "particolaristiche" (persino nell'islam, a dispetto della sua espansione globale), c'è un posto per gli altri, che sono tollerati, anche se sono guardati con accondiscendenza. Il motto cristiano "Tutti gli uomini sono fratelli", però, significa ANCHE che "Coloro che non sono miei fratelli NON SONO UOMINI". I cristiani solitamente lodano se stessi per aver sorpassato la nozione esclusivista ebraica del Popolo Eletto e aver abbracciato l'intera umanità – il guaio qui è che, proprio con la loro insistenza nel definirsi Popolo Eletto con una relazione privilegiata e diretta con Dio, gli ebrei accettano l'umanità delle altre persone che celebrano i loro falsi dei, mentre l'universalismo cristiano tendenzialmente esclude i non credenti dalla totalità stessa dell'umanità.

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