Copertina
Autore Silvia Albertazzi
Titolo Guardare oltre
SottotitoloLetteratura, fotografia e altri territori
EdizioneMeltemi, Roma, 2008, meltemi.edu 96 , pag. 360, cop.fle., dim. 12x19x3 cm , Isbn 978-88-8353-608-3
CuratoreSilvia Albertazzi, Ferdinando Amigoni
LettoreGiovanna Bacci, 2008
Classe critica letteraria , fotografia , teoria letteraria , critica d'arte
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Indice


  7 Premessa generale
    Silvia Albertazzi, Michele Cometa, Massimo Fusillo

  9 Introduzione
    Silvia Albertazzi


    Parte prima
    Guardare l'Europa / guardare in Europa

 15 Due scrittori davanti all'obiettivo: Capuana e Verga
    Giuseppe Sorbello

 31 Nero su bianco:
    narrazione e fotografia nella (contro)sfera pubblica
    Paola Zaccaria

 51 Il flâneur e le città di Praga
    Matteo Colombi

 69 Il dubbio sulla fotografia: Brecht, Bachmann, Handke
    Maria Luisa Wandruszka

 89 Paradigma indiziario e fotografia: Sebald, Modiano, Perec
    Carlo Mazza Galanti

107 Gli strani grovigli del vedere: Luigi Ghirri e Gianni Celati
    Ferdinando Amigoni

125 Michel Tournier e la didascalia, tra immagine, realtà e scrittura
    Elena Cappellini

141 "Un mucchio di distruzioni": divagazioni su David Hockney
    Silvia Albertazzi

161 Sophie Calle: tra fotografia e parola
    Donata Meneghelli

177 Confini non ovvi: Ornela Vorpsi e Julia Kristeva
    Francesco Cattani


    Parte seconda
    Guardare oltre l'Europa

195 Intermittenti presenze: la traccia, l'immagine, il subalterno
    Roberto Vecchi

215 Scritture di luce: Wright Morris e l'invenzione del photo-text
    Maria Vera Speciale

233 Juan Rulfo fotografo: narrare in bianco e nero
    Cristina Fiallega

251 Storia di un'immagine congelata: un racconto di Alice Munro
    Héliane Ventura

269 La bellezza convulsa di Francesca Woodman
    Claudia Calavetta

279 "Lo spostamento della realtà nelle fotografie":
    tecnologie e trasmissioni della memoria
    Rita Monticelli

295 Letteratura e pubblicità nel Novecento:
    dalla parola all'immagine
    Francesco Ghelli

313 Yvonne Vera: segni, immagini e visioni del reale
    Federica Zullo

329 Il teatro in bianco e nero:
    scatti sulla scena della drammaturgia africana
    Tiziana Morosetti

343 Gli scrittori della créolité e l'uso della fotografia
    Francesca Torchi



 

 

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Pagina 9

Introduzione

Silvia Albertazzi


Il presente volume costituisce il risultato della ricerca compiuta dall'unità di Bologna nell'ambito del PRIN Letteratura e cultura visuale, diretto in sede nazionale da Michele Cometa, e comprendente, oltre all'unità bolognese, che lavorava su letteratura e cultura visuale nell'era della fotografia, coordinata da chi scrive, ricercatori di Palermo, coordinati dallo stesso Cometa sul tema dei dispositivi della visione in letteratura nell'età pre-fotografica e studiosi de L'Aquila, che hanno analizzato, sotto la guida di Massimo Fusillo, il rapporto tra letteratura e cultura visuale nell'era del cinema. Parte, dunque, di una trilogia critica pressoché inscindibile, in quanto scaturita da analoghe premesse metodologiche e da incontri, seminari, convegni e discussioni collettive sulla cultura visuale, Guardare oltre riflette il lavoro di due intensi anni di ricerca, non solo da parte di investigatori dell'Alma Mater Studiorum, ma anche di esperti italiani e stranieri aggregatisi al progetto con incredibile entusiasmo, spinti dall'interesse per la tematica trattata.

Fin dall'inizio dei loro incontri, tenutisi con sempre maggiore frequenza, nell'arco di due anni, sotto l'egida del CITELC (Centro Interdipartimentale di Teoria e Storia Comparata della Letteratura) di Bologna, i ricercatori si sono trovati a individuare la necessità di porsi a confronto con la propria tematica su tre piani: facendo riferimento, in primo luogo, allo sguardo, ovvero analizzando l'uso della fotografia e della sua descrizione nei testi; poi, rimandando alle tecnologie, ovvero al modo in cui la fotografia in quanto dispositivo della visione influenza la scrittura; infine, rapportandosi all' immagine stessa, ovvero alla lettura della fotografia come narrazione. Si trattava, dunque, innanzitutto di non limitarsi a specifiche categorie d'interesse, ma di vedere la storia oltre l'immagine, ovvero di riflettere sul passato, attraverso la fotografia "scritta", per prevedere il futuro, di ricollocare "la foto nel tempo — ma non nel suo tempo originario, perché è impossibile — ma nel tempo narrato" (Berger 1980, p.68). In una parola, la sfida accettata dagli studiosi dell'unità bolognese era sondare "il significato e l'enigma della stessa visibilità" (p. 46), al di là di ogni tentativo di ekphrasis, descrizione, discussione.

In tal modo, i venti saggi raccolti in questo volume, che potrebbero essere suddivisi in tre filoni di ricerca tra loro intersecantisi — fotografia e scrittura, fotografia e memoria e lettura dell'immagine come testo — rispondono tutti, seppur in modi e maniere differenti, ad analoghe questioni, ognuno di essi raffrontandosi con comuni problematiche.

1) Rispetto al modo in cui la tecnica della fotografia influenza la scrittura pongono a confronto il tempo dell'esposizione con il tempo della vita; si rapportano con l'impossibilità di concepire la durata; mettono a contrasto il momento fotografato con gli altri momenti dell'esistenza; confrontano l'abolizione del continuum e l'atomizzazione della realtà in serie d'istanti così come appaiono nella fotografia e in letteratura; si rifanno alla teoria della traccia, della foto come impronta e alle sue derive letterarie soprattutto postcoloniali; indagano sulla violenza della rimozione dell'immagine dal suo contesto, ma anche sulla spettacolarizzazione ideologica dell'immagine medesima e, per contro, sull'irruzione del privato nel pubblico, sulla pubblicità del privato.

2) Studiando il rapporto tra fotografia e memoria, si confrontano con il paradosso della fotografia pubblica come immagine "della memoria di un assoluto estraneo" (p. 58), ma anche come liberazione dal peso della memoria stessa, registrazione effettuata allo scopo di dimenticare, o meglio di far parlare l'immagine nel silenzio (cfr. Barthes 1980): di conseguenza, e in senso del tutto originale, l'analisi del rapporto tra memoria e trauma porta non solo alla consapevolezza dell'irrappresentabilità della traccia, ma anche e soprattutto al tentativo di mettere in relazione i visual studies con i subaltern studies postcoloniali. Ancora una volta secondo il dettato di Berger, i ricercatori si propongono di ricollocare le foto nel contesto dell'esperienza, rispettando il processo della memoria, consapevoli "dell'enorme numero di associazioni che portano tutte al medesimo evento" (Berger 1980, p. 67), leggendo la foto — narrata e/o stampata — "in modo che acquisti qualcosa della sorprendente compiutezza di ciò che era ed è" (ib.).

3) La lettura dell'immagine fotografica presuppone, barthesianamente, da parte degli studiosi l'invenzione di una propria, personale, accoglienza dell'immagine, ricevuta nel suo stesso scandalo, caricata di una storia da cui lasciarsi disorganizzare, ma anche "abitata" dall'osservatore, mai semplicemente "visitata", nella misura in cui ogni immagine fotografica si offre all'occhio, secondo la definizione di Roland Barthes, come "abitabile" (cfr. Barthes 1980).


Studiosi tutti di letteratura, letterati affascinati dall'immagine fotografica, í ricercatori che hanno collaborato a questo volume si riconoscono nell'atteggiamento di tanti autori contemporanei che hanno scritto di fotografia in narrativa. Valga per tutti l'osservazione del narratore di Coming Through Slaugher (Buddy Bolden's Blues) di Michael Ondaatje che, riflettendo sulla figura di Bellocq, il fotografo di Storyville che appare in veste di comprimario nel romanzo, afferma:


    Chi è Bellocq?
    Un fotografo. Faceva ritratti. Erano come... finestre. (...)
    Eravamo una stanza ammobiliata e Bellocq era una finestra
    da cui guardare fuori.
    (Ondaatje 1976, p. 68)


A conclusione della nostra ricerca, possiamo davvero concordare che i fotografi e le fotografie con cui ci siamo confrontati in questi due anni per noi, "stanze ammobiliate" da orpelli critici accademici, sono stati grandi finestre spalancate sul mondo esterno, per "guardare fuori", per guardare oltre.

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Pagina 89

Paradigma indiziario e fotografia: Sebald, Modiano, Perec

Carlo Mazza Galanti


Già nel 1931, con la Piccola Storia della fotografia, Benjamin spostava i termini del dibattito sulla fotografia oltre l'analisi di quest'ultima come semplice forma artistica o pratica strumentale. Il problema della fotografia non era tanto quello di domandarsi se fosse arte oppure no, quanto di capire che con la sua comparsa l'arte non poteva più essere quella di prima.

Teoria e storia della fotografia di Rosalind Krauss del 1990 non fa altro che illustrare la mutazione storico-artistica dovuta all'influenza della fotografia sull'arte in generale e sulle arti plastiche e visive in particolare. Allo stesso modo Philippe Dubois, nell' Atto fotografico, allarga indefinitamente la portata del medium fotografico (utilizzando lo stesso aggettivo sostantivato, le photographique, del titolo originale del libro della Krauss).

Intendo la "fotografia" nel senso di un dispositivo teorico, "il fotografico" se si vuole, ma in un'accezione più ampia di quando si parla di "poetica" rispetto alla poesia. Si tratterà quindi di concepire questo "fotografico" come una categoria che non sia tanto estetica, semiotica o storica quanto immediatamente e sostanzialmente "epistemica", una vera categoria del pensiero, assolutamente singolare e che introduce ad un rapporto specifico con i segni, col tempo, lo spazio, il reale, il soggetto, con l'essere e con il fare (Dubois 1990, p. 60).

I testi della Krauss, di Dubois e in generale tutta la teoria della fotografia degli ultimi trent'anni (e ovviamente La camera chiara è da considerarsi al centro, se non all'origine, di questo nuovo orientamento teorico) hanno preso atto del carattere indiziale dell'immagine fotochimica. La fotografia, prima che riproduzione iconica del reale, è traccia, essa stessa materia del mondo, segno fisicamente connesso (attraverso la luce) con il referente. Senza addentrarsi in un discorso specifico sulle vicissitudini teoriche della concezione indiziale del medium fotografico, quello che qui interessa sottolineare è ancora una volta come questo nuovo approccio abbia implicato un allargamento del campo fotografico nell'ambito degli studi estetologici e storico-artistici. La fotografia diventa il modello di una semiotica ibrida e fluttuante tra rappresentazione e calco, tra l'astrazione del segno imitativo o simbolico e l'implicazione immediata, nel processo di significazione, della concretezza materiale del mondo; tra riproduzione e simulazione (cfr. Baudrillard 1998).

È sulla scia di queste teorizzazioni generali del dispositivo fotografico che vorremmo appoggiarci a un testo assai conosciuto e discusso, che a sua volta propone un modello teorico ed epistemologico strettamente apparentato con quello fotografico. Si tratta del famoso "paradigma indiziario" che Carlo Ginzburg ha illustrato nel suo saggio del 1986 intitolato Spie.

È abbastanza sorprendente che tre anni dopo la prima pubblicazione de L'atto fotografico, nel 1986, quando Ginzburg s'impegna a individuare le linee portanti di quello che fin dalle prime righe del suo saggio viene definito un paradigma o modello epistemologico di tipo indiziario, non faccia nessuna allusione alla fotografia come possibile "radice" di questo paradigma. L'omissione salta ancora più all'occhio se si considera che il momento storico privilegiato dall'analisi di Ginzburg sono proprio quegli ultimi decenni del XIX secolo che vedono la nascita della fotografia istantanea e la sua rapida diffusione nel mondo occidentale.

Sarà quindi intenzione di questo studio suggerire l'aggiunta di un ulteriore tassello al mosaico proposto da Spie: alla caccia, alla divinazione, alla connaisseurship, alla scienza medica, alla psicoanalisi, al romanzo poliziesco e a tutte le altre tecniche e saperi "locali" di tipo indiziario, andrà accostata, e probabilmente dotata di una rilevanza particolare, la fotografia.

Tramite la definizione indiziale del fotografico e l'estensione del paradigma indiziario a pratiche scritturali e letterarie di vario tipo, si cercherà di fare luce sulle pratiche di scrittura di tre autori – Winfried Georg Sebald, Patrick Modiano e Georges Perec – e di mostrare come queste corrispondano ai principi di quella "idea di totalità" (Ginzburg 1986, p. 191) senza presunzioni fondazionalistiche, a quella conoscenza indiretta, congetturale, ma non per questo priva di effettività e anzi profondamente storica, che Ginzburg delinea nel suo saggio.

La cesura rispetto a quello che Ginzburg chiama "paradigma galileiano" si manifesta con un'intensità fino ad allora sconosciuta nel corso del Novecento. Gli scrittori qui presi in considerazione si caratterizzano per uno sforzo, a tratti disperato, di far fronte al passato di distruzione che incombe alle loro spalle e che non smette di influenzare la loro scrittura. Tutti e tre sono profondamente, autobiograficamente, implicati nell'orrore del Novecento.

Il loro tentativo di ricomposizione passa attraverso la ricerca di tracce, l'osservazione di rovine recenti, l'esplorazione di luoghi in cui tutto sembra essere sparito, annientato, in cui il passato ritorna nella forma impalpabile della fantasmagoria. All'"eclissi della ragione" risponde un lavoro di ricostruzione paziente, di osservazione minuziosa, di collezione di indizi, testimonianze verbali e iconiche, di documenti dolorosamente laconici, e infine di fabulazione, laddove l'immagine resti lacunosa (ed è il caso più frequente).

Tematicamente pervasiva, continuamente esibita nel caso di Sebald, prevalentemente evocata e descritta per quanto riguarda Modiano e Perec, la fotografia sarà quindi più che un semplice contenuto. Nella presenza ingombrante dell'immagine fotografica andrà riconosciuto un segnale della natura indiziaria della scrittura praticata dai tre autori.

Le indagini condotte dai narratori di Sebald, Modiano e Perec sono storiche e autobiografiche allo stesso tempo. Verità storica e scrittura letteraria si confondono nel tentativo di costruire zone di intelligibilità nella confusione della "post-memoria" (cfr. Hirsch 1997; Robin 2005). L'autofinzione, a sua volta, sarà da considerarsi un'implicazione del paradigma indiziario: l'immaginazione è il collante che unisce le macerie, che dà senso ai frammenti sopravvissuti alla distruzione.

Sullo sfondo del paradigma indiziario, sorta di essenza e di filogenesi, s'intravede, dice Ginzburg "il gesto forse più antico della storia intellettuale del genere umano: quello del cacciatore accovacciato nel fango che scruta le tracce della preda" (Ginzburg 1986, p. 169). L'archetipo venatorio, allo stesso titolo del paradigma indiziario, varrà come metafora critica da applicare ai testi del nostro corpus.

Una prima osservazione riguarda lo statuto oscillante tra il biografico e l'autobiografico dei testi in questione. L'indagine procede parallelamente o simultaneamente su due binari: da una parte quello autobiografico, dall'altra la ricostruzione della vita di uno o più personaggi diversi dal narratore/autore. Questi possono intrattenere relazioni di ogni sorta sia col narratore stesso che con la realtà extradiegetica: personaggi di pura finzione, come il bambino scomparso di W o il ricordo d'infanzia o come il personaggio eponimo di Austerlitz; personaggi storici, come Casanova in Vertigini di Sebald; personaggi realmente esistiti, estranei alla storia scritta e ufficiale, come Dora Bruder di Modiano, come numerosi personaggi sebaldiani o, in un'accezione diversa, i migranti le cui tracce sono scrutate e le testimonianze raccolte da Perec nel suo libro su Ellis Island; l'indagine può inoltre concentrarsi su un personaggio legato alla biografia del narratore/autore più o meno autofinzionale, come il prozio del narratore (Sebald) del terzo racconto de Gli Emigrati (Ambros Adelwarth), o i parenti e le persone che in un modo o nell'altro hanno incrociato la vita del narratore di Livret de Famille di Modiano.

Sia che si tratti di ripercorrere il proprio passato o quello della propria famiglia (la Shoah essendo il punto in comune — l"histoire avec sa grande hache" — che accomuna i tre scrittori), sia che si tratti di relazioni immaginarie con universi fantastici, letterari, o reali che siano, l'indagine autobiografica sembra costretta a esprimersi attraverso un'oggettivazione, un'alienazione o immedesimazione nella storia altrui. La ricostruzione biografica sta in un rapporto di scambio e di reciprocità con la ricostruzione autobiografica.

In esergo al complesso di queste opere si potrebbe porre la domanda che Perec si rivolge sul sito di Ellis Island:

          perché raccontiamo queste storie?
          che siamo venuti a cercare qui?
          che siamo venuti a chiedere?
          lontano da noi nel tempo e nello spazio,
          questo luogo per noi fa parte
          di una memoria potenziale,
          di un'autobiografia probabile
          (Perec, Bober 1995, p. 48).

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Pagina 107

Gli strani grovigli del vedere: Luigi Ghirri e Gianni Celati

Ferdinando Amigoni


Fra i molti modi di combattere il nulla, uno dei migliori è quello di scattare fotografie, attività che dovrebbe essere insegnata precocemente ai fanciulli, perché richiede disciplina, educazione estetica, buon occhio e dita sicure.

Julio Cortàzar


Tocca a un "uomo e padre lodevole", dirigente d'azienda sui quarant'anni, chiudere le Quattro novelle sulle apparenze, pubblicate da Celati nel 1987, assumendosi tra l'altro, unico tra i narratori messi in scena nella breve raccolta, i rischi dell'autodiegesi. In seguito a una bizzarra epifania, l'austero dirigente ha deciso di scrivere un "memoriale", nel tentativo di contenere l'inquietante sfaldarsi dei "principi" e delle "mete d'uomo e di padre", alle quali s'era sempre attenuto.

Il narratore osserva suo figlio che lo cerca tra la folla di una strada parigina, dove avevano deciso di incontrarsi:

mi cercava dovunque, sperduto tra la folla del mercatino di frutta e verdura, e allora non ho retto alla sua vista. Mi sembrava troppo sperduto, del tutto ignaro della meta verso cui stava andando. Ecco, mi sono detto, lui è l'acqua che s'ignora e va solo per vuota inerzia del flusso e riflusso.

Mi sono allontanato in fretta sul marciapiede, e volevo perderlo, separarmi da lui, perché le sue mete non erano le mie, me n'ero accorto in quel preciso momento. Diciamo che io non sopporto chi non ha una precisa meta nella vita (Celati 1987a, pp. 104-105).

Difficilmente si potrebbe indicare con maggior chiarezza il tema centrale del racconto (e del libro a cui il racconto appartiene). Ripetuto per ben tre volte in poche righe, il significante perdere affiora alla superficie del testo come parola chiave: Celati ha più volte precisato che il sentimento che meglio conosce, quello sul quale più si sente autorizzato a scrivere, è l'essere perduti.

"La piccola bestia giovanile", "con quelle braccia troppo lunghe che gli ricadono sulle cosce, l'aria goffa, lo sguardo navigante", è "perso nel suo dormiveglia" (pp. 105, 115): nulla sembra in grado di perforare la sua corazza di sonnolenta apatia. L'esasperato padre, "un uomo altero pieno di frasi", dotato di "ridicoli baffetti alla francese", potrebbe, con la sua "critica", "smascherare tutte le apparenze e i miraggi illusori che baluginano attorno a noi", potrebbe insomma "smontare tutte le illusioni che (...) riempiono il cranio" del dormiente figlio, il quale risponde a ogni paterna osservazione con un pacato, invariabile e atroce: "Sì, Poupi" (pp. 105, 110, 121).

Celati riveste dunque un manager parigino, che si vergogna delle sue origini calabresi, dei panni del critico, di colui che si sente equipaggiato dei necessari strumenti ermeneutici per "smascherare", "smontare" "apparenze", "miraggi" e "illusioni". Il contegnoso self-made man che narra la sua storia incarna a suo modo l'intellettuale novecentesco, per il quale l'appartenere, come nipotino della più varia levatura (spesso ridicolmente sproporzionata all'altezza dei padri fondatori), alla cosiddetta scuola del sospetto è tanto naturale da non essere neppure presupposto degno di qualche discussione, come se sapere e smascherare fossero da sempre sinonimi. Null'altro che un vaghissimo assenso, subito seguito da quel nomignolo da cane, è comunque ciò che riesce a ottenere il criticismo del narratore: "non sopporto l'innocenza, ma so", dichiara, "che l'innocenza è un avversario imbattibile, se affrontato faccia a faccia" (p. 111).

Gran parte della novella è costruita sul susseguirsi di gag che vedono il figlio come deuteragonista stupido della tradizionale coppia comica, come vero e proprio capro espiatorio, difeso però da una sorta di sacro sonno. Ma il deuteragonista ricopre il ruolo di comica spalla con un'oltranza quasi soprannaturale: la "bestia giovanile" tende ad assumere i connotati di un temibilissimo doppio, grazie al quale, alla fine, si opererà una metamorfosi. Dietro alla sua trasognata idiozia non sarebbe peraltro affatto illegittimo reperire qualche traccia di "quell'abbandono di fronte alle cose (die Gelassenheit zu den Dingen)", a cui Heidegger si richiama come a un presupposto necessario per cominciare a pensare alle cose come cose, al di fuori dell'utilitarismo immediato del "pensiero calcolante" e della metafisica della presenza (cfr. Heidegger 1959).

Ma il privilegio dell'ultima parola non spetta all'"uomo lodevole": la novella e l'intero libro di Celati si chiudono su una pagina nella quale un narratore extradiegetico toglie la parola a colui che ci ha raccontato fino a quel momento la storia. Si tratta di una pagina scritta interamente al futuro, un futuro tuttavia molto probabile, quasi certo ("Ma verrà il giorno"). Abortito, abbandonato, mai scritto, il memoriale non è stato vano: un giorno il narratore chiederà alla matura segretaria di fuggire con lui, accettando di venire a patti, alla fine, persino con quell'"innocenza" che aveva affermato di non sopportare:

a un tratto vedrà se stesso in una vicenda sconosciuta, sentendosi finalmente per qualche motivo simile agli altri, e come gli altri sulla rotta d'un ignoto avvenire dell'innocenza /Celati 1987a, p.125).

I due anziani evasi, in realtà semplici turisti vestiti da alpinisti, s'incammineranno "di buon passo" "verso le montagne innevate sul fondo" (p. 126), ovvero: l'uomo lodevole" e la sua segretaria entreranno nella foto di Ghirri che occupa per intero la copertina del libro in cui abitano (forse la sua foto più conosciuta in assoluto, quella, splendida, del 1979, nella quale sono ritratti di spalle due anziani escursionisti all'Alpe di Siusi), chiudendo con un salto metalettico, impossibile ed elegante, le Quattro novelle sulle apparenze in un anello di Möbius, in cui la soglia fotografica (ciò che in qualche modo precede ogni segno linguistico del testo) e le ultime righe tendono a una straniante fusione. Intitolato non a caso Scomparsa d'un uomo lodevole, il racconto si chiude appunto con una scomparsa, anche se futura: un personaggio letterario, un homo fictus formato di parole si vaporizzerà, si lascerà alle spalle il linguaggio, penetrando nel fittissimo reticolo, vero e proprio "informe corpuscolare" (Dubois 1990, p. 105), di quei grani in numero infinito che compongono l'immagine fotografica.

Le Quattro novelle sembrano insomma improvvisamente acquistare, a lettura ultimata, una bizzarra cornice, sottile forse e precaria, ma presente: una cornice fatta non solo di parole, come sempre accade nel canone novellistico, ma formata da parole e da un'immagine, parimenti necessarie.

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