Autore Hugh Aldersey-Williams
Titolo Favole periodiche
SottotitoloLe vite avventurose degli elementi chimici
EdizioneRizzoli, Milano, 2013 [2011], BUR Saggi , pag. 588, ill., cop.fle., dim. 13x19,8x3,2 cm , Isbn 978-88-17-05748-6
OriginalePeriodic Tales
EdizionePenguin, London, 2010
TraduttoreDaniele Didero
LettoreGiovanna Bacci, 2015
Classe chimica , scienze naturali , medicina , storia della scienza , storia della tecnica , storia sociale , storia criminale












 

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Indice


Prologo

            PARTE PRIMA  -  Potere

El Dorado                                        25
Dischi di platino                                47
Metalli nobili, ignobili annunci                 58
La macchia ocracea                               66
Venditori di elementi                            83
Fra i carbonari                                  91
Le sciarade del plutonio                        103
Le valigie di Mendeleev                         118
Lo specchio liquido                             130

            PARTE SECONDA  -  Fuoco

La circumnavigazione del Sulphur                149
«P» di Phosphorus (e di pipì)                   160
«Come sotto un mare verde»                      182
«Sciocchi scrupoli umanitari»                   195
A fuoco lento                                   208
Nostra signora del radium                       226
Luminescenze notturne                           242
Cocktail al Pale Horse                          262
La luce del Sole                                267

            PARTE TERZA  -  Arti e mestieri

Fino alle Cassiteridi                           281
La dura verità del grigio piombo                299
La nostra immagine perfetta                     315
La rete mondiale                                332
Au zinc                                         344
Banalizzazione                                  354
«Trasformati in cirripedi»                      370
La gilda dei saldatori aerospaziali             385
La marcia degli elementi                        394

            PARTE QUARTA  -  Bellezza

Rivoluzione cromatica                           401
«Malinconica America cromata»                   415
La lastra di zaffiro dell'abate Suger           425
La polvere dell'eredità                         438
Arcobaleni nel sangue                           447
Frantumare smeraldi                             453
La luce cremisi del neon                        460
Gli occhi di Gezabele                           475

            PARTE QUINTA  -  Terra

Rocce svedesi                                   487
L'unione Europia                                500
La luce di Auer                                 508
Gadolin e Samarsky, gli uomini qualunque
degli elementi                                  519
Ytterby gruva                                   525

Epilogo                                         543
Ringraziamenti                                  555
Note                                            559
Bibliografia                                    565


 

 

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Pagina 7

Prologo



Al pari dell'alfabeto o dello zodiaco, la tavola periodica degli elementi è una di quelle immagini che sembra radicarsi per sempre nella nostra memoria. Quella che ricordo io dai tempi della scuola era appesa al muro dietro la cattedra come una pala d'altare, con la sua carta lucida ingiallita a testimonianza della lunga esposizione agli agenti chimici; è un'immagine che non sono mai riuscito a togliermi dalla testa, pur avendo trascorso anni senza mai avventurarmi in un laboratorio. Ora ne ho una sulla mia parete.

O, perlomeno, una sua versione. Ha il familiare profilo a gradini, con le caselle dei diversi elementi — ognuno indicato dal suo simbolo e dal numero atomico corrispondente — ben separate le une dalle altre. In questa tavola, però, non è tutto come dovrebbe essere, dato che al posto del nome di ciascun elemento c'è una parola che non ha nulla a che fare con il mondo della scienza: il simbolo O — per esempio — non rappresenta l'ossigeno ma il dio Orfeo, Br non è il bromo bensì il Bronzino, il pittore, e molti spazi, per una ragione o per l'altra, sono occupati da personaggi del cinema degli anni Cinquanta.

Questa tavola periodica è una litografia di Simon Patterson, un artista britannico affascinato dai diagrammi di cui ci serviamo per organizzare il nostro mondo. Il suo modo di lavorare consiste nel riconoscere l'importanza dell'oggetto in quanto simbolo di ordine per poi sconvolgerne tutti i contenuti: la sua opera più famosa è una mappa della metropolitana di Londra in cui le diverse stazioni sono state ribattezzate con i nomi di santi, esploratori e calciatori. Strane cose accadono alle intersezioni.

Non c'è da sorprendersi che abbia voluto fare lo stesso gioco anche con la tavola periodica. Nella sua mente erano ancora vivi i tristi ricordi di quando a scuola gli veniva chiesto di impararla a memoria: «Insegnarla in quel modo era anche sensato, ma fatto sta che io non riuscivo mai a ricordarmela» mi ha raccontato Simon. Tuttavia, ne ricordava il concetto. Dieci anni dopo aver lasciato la scuola, creò così una serie di variazioni sulla tavola in cui il simbolo di ogni elemento viene associato a qualcos'altro: Cr non è il cromo, ma Julie Christie; Cu non corrisponde al rame, ma a Tony Curtis. E anche questo stesso sistema di riferimenti, già di per sé criptico, viene poi sabotato: Ag, il simbolo dell'argento, non è Jenny Agutter, per dirne una, o Agatha Christie, ma naturalmente Phil Silvers. Ci sono anche momenti di apparente logica in questa nuova disposizione: i due elementi successivi del berillio e del boro (simboleggiati da Be e B) corrispondono così ai Bergman, rispettivamente Ingrid e Ingmar. I due fratelli attori Rex e Rhodes Reason compaiono l'uno di fianco all'altro, prendendosi i simboli del renio (Re) e dell'osmio (Os). Kim Novak (Na, sodio) e Grace Kelly (K, potassio) si trovano su una medesima colonna: erano due femmes fatales di Hitchcock. In generale, però, non c'è nessun criterio, ma solo le connessioni che ognuno può trovare per proprio conto: io, per esempio, ho notato con un sorriso che Po, il simbolo del polonio – l'elemento radioattivo scoperto da Marie Curie e da lei battezzato in onore del suo Paese d'origine, la Polonia –, denota il regista polacco Roman Polanski.

Oggi apprezzo molto la giocosa irriverenza di quest'opera, ma ai tempi della scuola avrei guardato con sdegno un'assurdità del genere. Mentre Simon andava immaginando nuove bizzarre connessioni, io mi limitavo ad assorbire le nozioni che mi venivano impartite. Gli elementi, avevo imparato, erano gli ingredienti fondamentali e universali di tutta la materia: non c'era nulla che non fosse costituito da essi. Ma la tavola in cui il chimico russo Dmitrii Mendeleev li aveva organizzati non si riduceva alla semplice somma di queste parti basilari: essa dava un senso alla riottosa varietà degli elementi, disponendoli uno dopo l'altro in una serie di righe in base al numero atomico (ossia, al numero dei protoni nei nuclei dei loro atomi), in modo tale da far saltare subito all'occhio le loro parentele chimiche (parentele che, come emerge dall'allineamento delle colonne, sono periodiche). La tavola di Mendeleev sembrava vivere di una vita propria e, ai miei occhi, si qualificava come uno dei più grandi e incontestabili sistemi del mondo. Spiegava così tante cose e sembrava così naturale da indurmi a pensare che fosse sempre esistita: non poteva certo essere una recente invenzione della scienza moderna (anche se quando la vidi per la prima volta aveva meno di un secolo di vita). Pur riconoscendo la sua potenza di icona, iniziavo però anche a chiedermi, tra incertezze e tentennamenti, quale fosse il suo reale significato. Per una certa ironia della sorte, la tavola pareva relativizzare il suo stesso contenuto: con la sua ferrea logica di successioni e somiglianze, faceva sembrare quasi superflui, nella loro bruta materialità, quegli stessi elementi a cui dava un ordine.

Di fatto, però, la tavola periodica appesa nella mia classe non ci offriva nessuna rappresentazione dell'aspetto degli elementi; solo davanti alla enorme tavola illuminata esposta al Science Museum di Londra mi resi conto, per la prima volta, che queste misteriose cifre avevano una reale sostanza. In ogni rettangolo di questa griglia c'era infatti una piccola teca di vetro che custodiva un campione, più o meno luccicante, del corrispettivo elemento; anche se non c'era modo di sapere se fossero tutti autentici, notai che i curatori avevano omesso di includere molti elementi rari e radioattivi, cosa che giocava a favore della genuinità dei rimanenti. Questa presentazione ci rese chiaro, nel modo più vivido, quello che ci avevano insegnato a scuola: che gli elementi gassosi si trovavano soprattutto nelle righe più in alto; che i metalli occupavano il centro e la zona sinistra, con i più pesanti nelle righe inferiori (erano in massima parte grigi, anche se una colonna — quella che conteneva il rame, l'argento e l'oro — dava al tutto una striscia di colore); che i non-metalli, più variegati nel colore e nella struttura, erano posizionati nell'angolo superiore destro.

A questo punto, non mi restava che dar vita a una mia collezione personale. Non sarebbe stato facile. Sono pochi gli elementi che in natura si trovano allo stato puro: di solito, infatti, sono legati chimicamente all'interno di minerali e metalli. Decisi allora di sfruttare il fatto che l'uomo li estrae da secoli e cominciai a perlustrare la casa alla loro ricerca. Ruppi alcune lampadine bruciate ed estrassi con precisione chirurgica i loro filamenti attorcigliati di tungsteno, riponendoli in una boccetta di vetro. Trovai l'alluminio in cucina sotto forma di fogli e il rame in garage come cavi elettrici. Mi dissero che una moneta straniera era fatta di nichel (non però di nichel americano, che sapevo essere in gran parte rame) e la tagliai in più pezzi irregolari: in questo modo mi sembrava più adatta alla mia collezione — più «elementare», per così dire. Scoprii poi che a mio padre erano avanzate alcune lamine d'oro di cui in gioventù si era servito per comporre caratteri decorativi: ne presi una dal cassetto dov'era rimasta nell'oscurità per trent'anni e le diedi l'occasione di tornare a risplendere.

La mia collezione presentava un chiaro vantaggio rispetto a quella dello Science Museum: non solo potevo vedere i miei campioni da vicino, ma potevo anche sentire se erano caldi o freddi al tatto e tenerli in mano (mi ricordo che uno scintillante lingottino di stagno, che avevo preparato in un portasapone facendo fondere un rotolo di lega per saldature, era sorprendentemente pesante). Potevo farli risuonare o tintinnare contro il vetro e ascoltare il loro timbro. Lo zolfo era di un colore giallo primula, un po' scintillante, e poteva essere raccolto e versato col cucchiaino come fosse zucchero semolato; il suo odore leggermente pungente non sminuiva la bellezza che aveva ai miei occhi. Mi è tornato in mente proprio ora, di fronte a un barattolo di zolfo che ho appena comprato in un negozio di giardinaggio (viene venduto per suffumicare le serre). Il suo aroma secco e legnoso, di cui sono ancora impregnate le mie dita mentre scrivo, non mi ricorda affatto l'inferno di cui parla la Bibbia, ma piuttosto rievoca nella mia mente quella ricerca sperimentale fatta da bambino.

Altri elementi richiesero più lavoro. Ricavai lo zinco e il carbonio da alcune batterie: lo zinco dall'involucro (il primo elettrodo) e il carbonio dalla barra di grafite contenuta all'interno (il secondo elettrodo). Lo stesso feci per il mercurio: le batterie a mercurio, più costose, venivano usate per far funzionare diversi gadget elettronici e, una volta scariche, l'ossido di mercurio da cui erano alimentate si era ormai ridotto a mercurio metallico. Tagliate le estremità delle batterie con un seghetto a mano, raccolsi la fanghiglia in una fiala; quindi, riscaldandola, riuscii a distillare il metallo, guardando con entusiasmo le piccole goccioline scintillanti che si condensavano dai fumi tossici per poi fondersi ín una singola goccia argentea iperattiva. (Oggi un simile esperimento verrebbe messo al bando perché nocivo alla salute, così come sono state tolte dal commercio queste batterie.)

In quegli anni innocenti alcuni elementi si potevano ancora comprare in farmacia; fu così che trovai lo iodio. Altri me li procurai da un piccolo fornitore di prodotti chimici di Tottenham, che ha ormai da tempo chiuso i battenti a causa delle restrizioni sulla vendita di sostanze grezze che potrebbero essere impiegate per realizzare bombe e veleni (così come qualsiasi altra cosa). Anche se i miei genitori accondiscendevano alla mia ossessione e mi accompagnavano in macchina fin là, questi viaggi lungo i tratti più remoti della Seven Sisters Road, fino al trasandato bancone sotto gli archi rimbombanti della stazione ferroviaria, con i suoi aromi promettenti simili a quelli di un mercato delle spezie, avevano sempre un che di clandestino.

La mia tavola faceva progressi. Avevo tracciato la griglia su un'asse di compensato e l'avevo appesa al muro della mia cameretta; non appena entravo in possesso di un nuovo campione, lo mettevo in una fiala uguale alle altre che poi fissavo al suo posto nella tavola. Da un punto di vista chimico, gli elementi puri erano spesso pressoché inutili, cosa di cui avevo già avuto modo di rendermi conto; quelli chimicamente utili – che reagivano, esplodevano o producevano colori splendidi – erano perlopiù combinazioni di elementi, note come composti, che io conservavo in un armadietto del bagno dove conducevo i miei esperimenti. Gli elementi erano un'ossessione da collezionista: avevano un inizio, procedevano in una ferrea sequenza e sembravano anche avere una fine. (All'epoca non sapevo molto della feroce guerra fredda in corso fra gli scienziati americani e sovietici, impegnati a sintetizzare nuovi elementi da aggiungere ai 103 che avevo memorizzato.) Come collezionista, il mio obiettivo, per quanto irraggiungibile, era naturalmente quello di completare la serie. Non si trattava però di una raccolta fine a se stessa: quelli che stavo assemblando erano i mattoni costitutivi del mondo — anzi, dell'intero universo. La mia collezione non aveva l'artificialità delle raccolte di francobolli o di figurine di calciatori, dove le regole del gioco sono poste arbitrariamente da altri collezionisti o, peggio ancora, dalle aziende che producono gli oggetti in questione; si trattava invece di qualcosa di fondamentale. Gli elementi esistevano da sempre e sarebbero esistiti per sempre: si sono originati nell'esatto istante successivo al Big Bang e avrebbero continuato a esistere anche dopo la scomparsa dell'umanità, dopo l'estinzione di ogni forma di vita sulla Terra, persino dopo che il Sole, diventato una gigante rossa, avrebbe consumato il nostro stesso pianeta.

Questo era il sistema del mondo che avevo scelto, un sistema altrettanto completo degli altri ma che abbracciava la storia, la geografia, le leggi della fisica, la letteratura. Tutto ciò che accade, accade nella storia, ha un suo posto nella geografia, è riconducibile all'interazione di energia e materia. Ma è anche materialmente costituito dagli elementi, né più né meno: la Grande fossa tettonica, il Campo del drappo d'oro, il prisma di Newton, la Gioconda – nulla di tutto ciò esisterebbe senza gli elementi.

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Pagina 28

Più di ogni altro elemento antico, l'oro è sempre stato associato a un fascino senza tempo. Nessuno degli elementi scoperti dalla scienza moderna è stato in grado di sfidare la sua supremazia; ma che cosa c'è di davvero speciale in questo metallo?

L'oro ha un caratteristico colore giallo. In un fiore, il giallo può essere considerato piacevole oppure no: la bellezza, in fin dei conti, è una questione di gusti. Nell'oro, invece, la combinazione unica di questo colore con la lucentezza del metallo sembra attrarci in modo inesorabile. Anche il sociologo Thorstein Veblen, da cui saremmo portati ad attenderci una certa cautela professionale in questo ambito, ne è innamorato: in un capitolo dedicato ai «canoni peculiari del gusto», nel suo testo classico La teoria della classe agiata, scrive che l'oro presenta un «alto grado di bellezza sensuale» come se fosse un fatto oggettivo, indipendente dall'occhio di chi guarda.

C'è poi il fatto che il colore e la lucentezza dell'oro sono qualcosa di duraturo, dato che questo metallo resiste alla corrosione dell'aria, dell'acqua e di quasi tutti i reagenti chimici. Plinio il Vecchio pensava che fosse questa sua resistenza unica, e non il suo specifico colore, a spiegare il nostro amore per l'oro: «Θ l'unico metallo che non perde nulla a contatto col fuoco» osserva. Θ questa durevolezza a far sì che l'oro venga associato all'immortalità, nonché alla regalità e al divino; anche le statue del Buddha vengono dorate per indicare l'illuminazione e la perfezione. L'incorruttibilità di questo metallo ha poi ispirato tutto un flusso di altri concetti ideali: la sezione aurea, l' aurea mediocritas, la regola aurea.

L'oro è speciale anche per via della sua grande densità, della sua malleabilità e della sua duttilità: può essere battuto fino a diventare sottile come un capello e «abbastanza lungo da cingere un intero villaggio», recita un proverbio dell'Africa occidentale. Θ certo vero che per l'oro in particolare, la pesantezza è un segno di valore come lo è per altri materiali densi, a prescindere dalla loro composizione, poiché il loro peso relativo trasmette un senso di abbondanza. Anche la resistenza dell'oro agli attacchi chimici – in altri termini, la sua capacità di conservare la purezza del proprio stato – è un segno di valore, dato che noi tendiamo per natura a considerare pregiate le cose durevoli. Θ in virtù di questi attributi secondari dell'elemento, importanti sotto il profilo economico, che Veblen ha deciso di soffermarcisi; ed è questa confusa equazione fra bellezza e valore che sta al cuore della nostra percezione dell'oro.

Essendo l'unico metallo che, di solito, si ritrova in natura allo stato elementare, l'oro era conosciuto fin dai tempi antichi; ciononostante, era troppo morbido per essere impiegato per forgiare armi e forse, all'inizio, veniva scarsamente impiegato anche per scopi ornamentali. Persino dove è presente in relativa abbondanza, come in alcune regioni dell'Australia e della Nuova Zelanda, gli aborigeni l'hanno spesso ignorato. In Europa, in Africa e in Asia, tuttavia, questo metallo era in genere considerato di gran valore e venne presto utilizzato nell'arte della gioielleria e, in seguito, per la fabbricazione delle monete. Le prime vennero create in elettro, una lega naturale di oro e argento, nella Lidia del VII secolo a.C. Intorno al 550 a.C., re Creso coniò poi monete d'oro e argento puri e, a partire da allora, il metallo giallo è stato l'elemento scelto dall'uomo come espressione di grande ricchezza. Sostenute dall'autorità statale, le monete coniate da Creso diedero una spinta al commercio e alle attività bancarie. Il loro maggior valore rispetto a quelle di elettro dipendeva dalla purezza dell'oro con cui venivano coniate, purezza che doveva dunque essere accertabile tramite analisi chimica; l'oro iniziò così a essere sottoposto a esami e valutazioni comparative – e, parallelamente, divenne l'oggetto di un'adorazione assoluta.

Sei secoli dopo, Plinio si scagliava contro la corruzione portata dall'oro, augurandosi che «venisse totalmente bandito dalla vita». Le sue maledizioni erano rivolte anche a coloro che se ne ornavano e a chi lo usava nei commerci: «La prima persona che se ne è adornata le dita ha commesso il peggior crimine contro la vita umana». «Il secondo delitto più grave è stato quello di colui che ha coniato per primo un denaro d'oro.» Il problema non sta nel materiale in sé, ma nel modo in cui le mani dell'uomo lo trasformano: l'oro naturale potrà anche contenere la luce del sole, ma l'oro di zecca diventa un «simbolo di perversione e di esaltazione di desideri immondi». Sir Thomas More conferma questa distinzione morale nella sua Utopia, dove l'oro – di conseguenza –, anziché essere riservato per la creazione di ornamenti sfarzosi, viene usato per fabbricare vasi da notte.

I più realisti hanno sempre compreso che l'oro è la chiave del potere. Non è forse vero che i faraoni hanno regnato per tre millenni servendosi del loro oro per tenere a freno i più ingegnosi sumeri e babilonesi? E í romani non si sono lanciati nelle loro conquiste spinti dall'invidia per l'oro posseduto dai galli, dai cartaginesi e dai greci?

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Pagina 66

La macchia ocracea


Il potere terreno potrà anche nascere dal possesso dell'oro, ma un tempo il ferro irradiava una potenza celeste: i pezzi di questo puro metallo che cadevano dal cielo sotto forma di meteoriti (come accade tuttora) erano infatti visti come doni ultraterrenti ed esercitavano un fascino sacrale immediato. Stando ad alcune antiche credenze, il cielo stesso era fatto di metallo: si diceva che Ilmarinen, il fabbro eterno della mitologia finlandese, avesse plasmato il firmamento all'alba dei tempi col suo poderoso martello (un mito certo adatto a una terra dal cielo plumbeo).

Dato che a farli precipitare sulla terra era stata in apparenza soltanto la volontà divina, questi aeroliti rappresentavano la realtà ultraterrena meglio di quanto potesse fare qualunque materiale terrestre o qualsiasi artefatto santificato dall'uomo. L'adorazione di questi oggetti deve essere iniziata molto tempo prima che la lavorazione dei metalli fosse anche solo concepibile; di fronte a queste misteriose masse brunite, agli uomini non restava che prenderle e portarle in un tempio. In epoche più tecnologiche, però, il ferro gettava anche un guanto di sfida morale. Stando al Corano (Sura 57:25), Dio ha mandato sulla terra i messaggeri, la scrittura e la legge: «E noi abbiamo fatto scendere il ferro in cui c'è la violenza della guerra, oltre a molti benefici per l'umanità, affinché Allah possa vedere chi aiuterà, non visto, lui e i suoi messaggeri».

L'Hayden Planetarium dell'American Museum of Natural History di New York ospita alcuni dei più grandi meteoriti di ferro mai rinvenuti: il Willamette, per esempio, è un blocco di colore nero e argenteo, dalla forma simile a quella di un popcorn, che pesa 15 tonnellate e ha le dimensioni di una piccola auto. Θ composto quasi interamente di metallo puro – ferro con una bassa percentuale di nichel –, reso lucido dai visitatori che hanno continuato a toccarlo in un secolo di esposizione al pubblico. Un giorno, mentre visitavo il museo, l'ho visto circondato da bambini come un albero in un cortile. Anch'io ho finito per toccarlo, in modo del tutto casuale; non ho però avvertito nulla di magico, a differenza di quella volta in cui mi è stato permesso di tenere in mano un piccolo meteorite proveniente dalla superficie di Marte. Anche gli altri visitatori toccano il ferro del Willamette: c'è chi lo fa con curiosità e chi con ammirazione, chi con rude familiarità e chi con indifferenza, ma nessuno con una particolare deferenza. Paradossalmente, è l'ambientazione stessa del museo a far sembrare questo singolare oggetto qualcosa di ordinario, una fra le centinaia di cose spettacolari in mostra. Mi sforzo allora di immaginare la massa di metallo in fondo al cratere aperto dal suo impatto, nelle foreste dell'Oregon: laggiù doveva davvero apparire come qualcosa di alieno, come un oggetto di un altro mondo, un dono degli dèi.

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Pagina 70

Anche sei nomi di tutti i metalli nelle lingue derivate dal latino sono di genere maschile (o neutro in tedesco), è del tutto chiaro che queste associazioni sono abbastanza casuali. L'oro e l'argento sono legati al Sole e alla Luna, che sono quasi universalmente considerati come maschio e femmina: nella mitologia greca, per esempio, il dio del Sole, Apollo, è vestito d'oro, mentre sua sorella Artemide va a caccia con un arco d'argento; per gli inca, poi, la Luna era la sposa incestuosa del Sole. Il genere di altri antichi metalli era forse più ambiguo (il mercurio, per esempio, nell'alchimia cinese e occidentale era il principio femminile che si accompagnava a quello maschile dello zolfo, mentre nella tradizione indù era associato al dio Shiva). Tuttavia, nessun metallo è più mascolino del ferro.

Quando la stampa sovietica affibbiò a Margaret Thatcher il nomignolo di «Lady di ferro» per la sua tenace opposizione al comunismo, lei lo prese come un complimento: il ferro è sempre stato un simbolo di forza e resistenza – due termini che, pur essendo quasi sinonimi nel linguaggio comune, nella scienza dei materiali hanno significati distinti e ben definiti. Il ferro è in genere duro, il che significa che cambia leggermente forma solo quando gli vengono applicate grandi forze, ma è anche meno duttile e malleabile di altri metalli antichi; è questa inflessibilità, e non la semplice durezza, che anima il significato metaforico del termine «ferro». Il brillante neologismo introdotto da Churchill con l'espressione «cortina di ferro» si basava proprio 'su questa inflessibilità fisica e attitudinale, oltre a costituire un velato richiamo alla figura di Stalin (il nome di battaglia di Josif V. Dzhugashvili, che significa «acciaio»). Dal canto opposto, Wellington si guadagnò il soprannome di «Duca di ferro» non per il suo valore militare ma per aver messo imposte di ferro alle finestre della sua dimora londinese come misura di protezione contro «la plebaglia».

L'idea della mascolinità del ferro è rafforzata dal fatto che questo metallo risulta particolarmente adatto per la produzione di armi. Questo non significa comunque che forgiare una spada funzionale fosse un'impresa facile. A Sutton Hoo, un sito sepolcrale regale del periodo anglosassone scoperto nel 1939 nel Suffolk, gli archeologi hanno ritrovato l'elmo, ricavato da un singolo pezzo di ferro, appartenuto — si ritiene — a re Raedwald, morto intorno al 625 d.C.; sono stati rinvenuti anche il suo scudo e la sua spada, per quanto il loro stato di conservazione non sia altrettanto buono. La lama della spada è stata realizzata attraverso un processo in cui più lamine di ferro vengono saldate assieme (cosa che porta spesso all'affiorare di uno schema decorativo sulla superficie esterna); in questo modo, le proprietà desiderate possono essere localizzate dove ce n'è effettivo bisogno, conferendo un'estrema durezza al filo della lama ma lasciando una certa flessibilità al centro, così che l'arma non vada in frantumi all'impatto. Il talento del fabbro sta quindi nella sua capacità di intuire quando sia opportuno incorporare più carbonio (ottenuto dal carbone della fornace) nel ferro fuso per ottenere un acciaio più duro. Il centro visitatori di Sutton Hoo ha organizzato un'esposizione di lamine e barre di ferro come quelle da cui partivano i fabbri nel loro lavoro; ricordano un po' la plastilina grigia. Senza il calore della forgia, però, mi è difficile immaginare la loro trasformazione in armi tanto belle, o rendermi conto delle pazienti, ripetitive azioni con cui il fabbro le riscaldava e le ammorbidiva, le batteva col martello e le temprava, in quel ciclo di morte e rinascita attraverso il fuoco che conferiva alla spada il suo significato rituale.

Il fatto che il ferro fosse stato per lungo tempo un materiale raro, e la difficoltà tecnica di forgiarlo, attribuivano grande prestigio alla professione del fabbro, ammantandole di un'aura mistica. La fucina era la sede di un fuoco infernale ed era avvolta dalla puzza dello zolfo rilasciato dai minerali non ancora trasformati; di conseguenza, Wayland (o Wieland), il dio fabbro degli anglosassoni, come Efesto nella mitologia greca, è spesso rappresentato come esiliato su un'isola, assieme alla sua forgia, per via del suo lavoro così repellente. Tuttavia, il fabbro è anche il maestro di un'arte necessaria ed è rinomato non solo per la sua abilità pratica, ma anche per il suo ingegno: nella mitologia finlandese, per esempio, Ilmarinen oltre che un fabbro, è un inventore.

Le spade in ferro erano quindi artefatti immensamente preziosi – troppo preziosi per usarli nelle battaglie vere – e, di conseguenza, è naturale che venissero loro attribuite qualità mitiche. Anche se le caratteristiche metallurgiche di queste armi non sono sempre indicate in modo esplicito, sembra che Excalibur, la leggendaria spada di re Artù, fosse fatta di ferro (il nome potrebbe derivare dal termine gallese caled, che significa duro, o dal termine latino per indicare l'acciaio, chalybs). Anche Gram, la spada di Sigurd nella mitologia norvegese, è di ferro. L'arte della lavorazione del ferro godeva di grande prestigio in Giappone, le cui isole non disponevano di ricchi depositi di rame o di bronzo (o dei metalli altrove considerati preziosi); Kusunagi, la spada del VII secolo che fa parte delle insegne imperiali giapponesi, è quasi certamente fatta di ferro, anche se è impossibile accertarsene dato che l'oggetto (o una sua replica) viene custodito in un tempio e ne è proibita ogni analisi.

Non pago della scena dell' Oro del Reno dove Sigfrido forgia una spada magica, Wagner iniziò anche un'opera incentrata su Wieland il fabbro (oltre a un'altra basata sul racconto di E.T.A. Hoffmann Le miniere di Falun, ambientato tra i vasti giacimenti di rame della Svezia, di cui avremo modo di parlare più avanti). Quando alcuni stralci di documenti vennero pubblicati e spacciati per i diari di Hitler, e successivamente smascherati come falsi nel 1983, uno degli aspetti più plausibili della bufala era l'indicazione che il Fόhrer – un noto wagneriano – sarebbe stato in procinto di riprendere l'opera lasciata incompiuta dal compositore.


Anche se il ferro era già associato ai bellicosi attributi maschili fin dalle epoche più remote, è stato solo con l'avvento dei moderni metodi scientifici che è stato possibile dimostrare come il rosso del sangue e quello dei minerali ferrosi siano dovuti alla medesima causa. Sembra però che questa connessione fosse già stata intuita da parecchio tempo. Dopo aver ucciso Fafner con la spada da lui forgiata, Sigfrido lecca il sangue del drago che gli è spillato sulla mano; il sangue, come la spada, conferisce poteri magici, e l'eroe si ritrova così subito in grado di comprendere gli uccelli della foresta. Forse anche la Irn-Bru (una bevanda che, stando alla sua pubblicità, sarebbe «fatta con travi metalliche scozzesi») deve parte del suo richiamo al suo occhieggiare al tabù relativo al dissetarsi col sangue, anche se la quantità di ferro che di fatto contiene è minuscola e il suo color ruggine è dovuto soprattutto agli additivi «E».

Che il sangue avesse un sapore metallico era già risaputo, ma la spiegazione arrivò soltanto verso la metà del XVIII secolo. Di rado le storie della scienza fanno riferimento alla vicenda; l'esperimento tuttavia era semplice, e sembra sia stato compiuto per la prima volta dal medico bolognese Vincenzo Menghini attorno al 1745. Dopo aver fatto arrostire il sangue di vari mammiferi (tra cui esseri umani), uccelli e pesci, Menghini infilò nel residuo solido un coltello magnetico e vide con soddisfazione che diverse particelle venivano attirate dalla lama: da 140 grammi di sangue canino ricavò 28 grammi circa di materiale solido, il grosso del quale era magnetico. (Possiamo presumere che ottenne risultati simili anche usando sangue umano; la storia, tuttavia, non ci spiega come se l'era procurato.)

Si tratta di un esperimento che può essere ripetuto con estrema facilità. Versate in uno stampino un cucchiaio di sangue (io l'ho preso da un pacchetto di fegati di pollo surgelati) e fatelo parzialmente evaporare in un forno a bassa temperatura. Trasferite quindi il residuo viscoso in un piccolo crogiolo – o in un altro contenitore in grado di resistere al calore — e fatelo arrostire finché non sia del tutto seccato. Raschiate il residuo e macinatelo fino a ridurlo a una polvere simile ai fondi di caffè, che potrete poi spargere su un foglio di carta. Facendovi passare sopra una calamita abbastanza potente, vedrete infine che alcune particelle verranno catturate.

Θ chiaro che questo risultato era proprio quello che Menghini si aspettava di ottenere. Ma la domanda, allora, è: per quale motivo supponeva che nel sangue ci fosse del ferro? L'unico motivo è che l'associazione tra il ferro e Marte, il sangue e la guerra, che traeva origine dalla mitologia greca e romana, era radicata in profondità nell'ortodossia alchimistica dell'epoca, al punto che a chi soffriva di disordini del sangue veniva talvolta raccomandata l'assunzione di sali di ferro. Un'ulteriore prova del fatto che sangue e ferro fossero stati collegati da tempo emerge poi nel nome di uno dei principali minerali di questo metallo, l'ematite, un termine coniato nel XVI secolo la cui radice «em-» deriva dalla parola greca aima, che indica il sangue.

Anche Menghini somministrava preparati a base di ferro a uomini e animali, osservando poi l'arricchimento dei loro globuli rossi che testimoniava come questo colore fosse collegato al metallo; le sue ricerche diedero un formidabile contributo alla spiegazione (e alla cura) della clorosi, una malattia che conferisce alla pelle un pallore verdastro e che solo allora prese il suo odierno nome di anemia (letteralmente, «senza sangue»).

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La redistribuzione di ricchezza e potere era anche uno degli obiettivi dei carbonari, i precursori rivoluzionari del Risorgimento che avrebbe portato all'unità d'Italia nel 1861. Nati come società segreta nel Regno di Napoli per resistere all'occupazione francese durante le guerre napoleoniche, avevano una bandiera rossa, blu e nera come il carbone. I carbonari erano mossi da ragioni patriottiche, liberali e laiche; dopo la sconfitta di Napoleone, diressero i loro sforzi contro i loro nuovi dominatori, gli austriaci, e lo Stato Pontificio loro alleato. Il movimento si diffuse e nel 1820, dopo numerosi tentativi falliti di sollevazione, i carbonari organizzarono una serie di rivolte patriottiche in diverse città italiane; poco dopo le otto di sera di venerdì 8 dicembre 1820, il poeta Lord Byron, che allora viveva a Ravenna, si trovò coinvolto in uno di questi drammi, durante il quale venne assassinato un comandante. Nel Don Juan, racconta («Questo è un fatto, non una finzione poetica») di come avesse sentito sparare e, uscito di corsa da casa, avesse trovato quest'uomo steso a terra: «Per qualche ragione, di certo cattiva, / Lo avevano ucciso con cinque proiettili». Pur prendendo le distanze dal crimine («L'uomo era morto per un qualche dissidio fra italiani»), Byron partecipava attivamente al movimento dei carbonari: era anche stato eletto capo di un gruppo ed era coinvolto nell'acquisto di armi e nella loro custodia.

I carbonari si erano dati un'organizzazione simile a quella della massoneria. L'idea che si vestissero di sacchi e il loro capo sedesse su un trono formato da un mucchio di carbone faceva parte di una tradizione inventata, in sintonia con l'immagine romantica di persone che complottavano per la libertà e l'indipendenza nei boschi degli Abruzzi; i carbonari, in realtà, erano contadini e operai, ma anche sarti e persino membri del clero, che si limitavano a nutrire una certa solidarietà per quegli uomini dal volto sudicio che praticavano uno dei più antichi mestieri del mondo. In pratica, cioè, come i massoni non avevano nulla a che fare con i lavori da muratore, così i carbonari non sapevano niente riguardo alla produzione del carbone.

Il carbonio riveste un'importanza economica fondamentale non perché sia l'unico combustibile esistente, ma perché è l'unico combustibile solido che gode della comoda (anzi, di fatto essenziale) proprietà di bruciare interamente senza lasciare residui. Nel 1860, Michael Faraday dedicò una delle lezioni di Natale della Royal Institution, da lui rese famose, a «La storia chimica di una candela», spiegando al suo giovane pubblico come il prodotto dell'intera combustione del carbonio sia l'anidride carbonica, un gas che non lascia residui. Quasi cinquant'anni prima, egli stesso aveva assistito a una teatrale dimostrazione di questa proprietà a Firenze, dove il suo mentore Humphry Davy aveva bruciato un diamante fino a ridurlo a nulla usando «il grande specchio ustorio del granduca di Toscana». Questo comportamento differenzia il carbonio da quasi tutti gli altri materiali combustibili: se lasciasse dietro di sé i residui solidi derivati dai metalli quando bruciano (ossia, un ossido più pesante della sostanza di partenza), i nostri focolari produrrebbero un volume insostenibile di scorie.

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Le valigie di Mendeleev


Respinto dall'Accademia russa delle scienze e ignorato nei primi anni dell'istituzione del premio Nobel, Dmitrii Mendeleev ricevette il giusto riconoscimento per la sua scoperta della tavola periodica quasi cinquant'anni dopo la sua morte, quando alla fine, nel 1955, gli fu reso onore nel modo più consono: il suo nome fu attribuito a uno degli elementi (il centounesimo). Per quanto, considerata l'epoca, ciò possa risultare sorprendentemente tardivo, Mendeleev è stato il primo chimico professionista a essere commemorato in questo modo: gli elementi che precedono il mendelevio nella tavola periodica, il fermio e l'einsteinio, hanno preso il nome da due fisici, cosa che riflette la loro genesi nel quadro del grande esperimento fisico noto come Progetto Manhattan. Allo stesso modo, anche altri elementi avrebbero più tardi preso il nome di fisici, come Rutherford, Bohr eccetera. Gli unici elementi denominati in onore di chimici sono il gadolinio e il curio, ma anche Marie Curie era più una fisica che una chimica. La sfortuna dei chimici è che il periodo d'oro della scoperta degli elementi si è verificato in un'epoca dove c'era maggior interesse a onorare le nazioni e gli ideali classici piuttosto che gli scienziati. Oggi sembra che non abbiano ormai alcuna chance di ottenere un riconoscimento di questo genere: è improbabile che vedremo un davio, un berzelio, un bunsenio o un ramsayo.

Nato nel 1834, probabilmente quattordicesimo e ultimo figlio di una famiglia siberiana, il giovane Dmitrii venne portato a San Pietroburgo da sua madre, che sperava che almeno uno dei ragazzi potesse far strada. Come molti aspiranti scienziati dell'epoca, andò in Germania per completare la propria formazione grazie a un sussidio del governo. Gli uomini del suo genere sono oggetto di un'aspra satira in diversi racconti di Turgenev; tuttavia, per un chimico russo che nutrisse qualche ambizione questo non era dilettantismo ma un modo essenziale per tenersi al passo con gli ultimi sviluppi scientifici. Ritornato a San Pietroburgo nel 1861, Mendeleev iniziò a dividere il suo tempo fra l'università, dove ottenne presto la cattedra di chimica, e le spedizioni in remote regioni degli Urali e del Caucaso, dove faceva da consulente per il governo e per varie realtà commerciali su tutta una serie di questioni, che spaziavano dalla produzione di formaggio alla produttività agricola alla nascente industria petrolifera.

La tavola periodica è una di quelle scoperte scientifiche che spiegano all'improvviso così tante cose da indurre a credere che siano nate già perfettamente formate nella mente del loro creatore, come se gli fossero state rivelate in sogno. Venendo incontro a queste aspettative, Mendeleev elaborò un mito secondo cui era proprio questo il modo in cui era giunto alla sua scoperta, ma si tratta di una invenzione tardiva; in realtà, com'è ovvio, la tavola periodica non fu il frutto di un sogno, bensì di lunghe riflessioni. Lavorando alla stesura di un manuale di introduzione alla chimica scritto in russo — una cosa di cui c'era grande bisogno —, Mendeleev si stava sforzando di trovare un modo per presentare con chiarezza gli elementi ai suoi studenti. Dopo aver scritto su 63 carte i nomi di tutti gli elementi allora noti – con i rispettivi pesi atomici e alcune delle loro caratteristiche chimiche –, iniziò a raggrupparle come se stesse facendo un solitario. Pose così gli elementi più leggeri in una riga di partenza, ma con la consapevolezza che certe carte – per esempio quelle che rappresentavano gli alogeni, come il cloro e lo iodio – sembravano appartenere a uno stesso gruppo. Notò presto che gli elementi più leggeri di ogni gruppo tipico (l'alogeno più leggero, il metallo alcalino più leggero eccetera) costituivano un modello sulla cui base era poi possibile sistemare i loro «cugini» più pesanti. Questa scoperta venne fatta nel giro di un giorno; arrivati a questo punto, potremmo ritenere che si sia trattato semplicemente di inserire tutti gli elementi rimasti sotto quelli della riga di testa, ciascuno nel suo rispettivo gruppo, procedendo in ordine di peso atomico crescente. Ma ciò significherebbe non tener conto delle ambiguità fra i 63 elementi che i chimici di allora presumevano di conoscere, o del numero di sostanze provvisoriamente ritenute elementari che si sarebbero in seguito rivelate come elementi diversi o combinazioni di più elementi; entrambi questi fattori resero più difficili gli sforzi di Mendeleev per accertarsi di aver organizzato nel modo migliore i dati scientifici. Il suo «Tentativo di un raggruppamento sistematico degli elementi, basato sui pesi atomici e le affinità chimiche» apparve infine nel 1869 all'interno del suo manuale, Osnovy khimii («Principi di chimica»), e solo l'anno seguente, sentendosi più fiducioso nelle sue teorie, lo pubblicò su una rivista scientifica. Nell'incertezza, comunque, Mendeleev incluse anche delle varianti di disposizione che oggi sono state dimenticate e, sebbene già nel 1871 chiamasse la sua tavola «periodica», ci sarebbero voluti molti decenni prima che tutte le carte trovassero il loro posto definitivo, secondo lo schema a noi familiare.

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Pagina 178

A un secolo esatto di distanza da quando Hennig Brand aveva isolato il fosforo dall'urina, gli svedesi Carl Scheele e Johan Gahn dimostrarono che esso era anche uno dei principali elementi costitutivi delle ossa. Con la disponibilità di questa fonte più ricca, fu infine possibile iniziare a prendere in considerazione i possibili usi pratici dell'elemento: come osservò Keats, infatti, c'è solo una cosa più interessante di una luce misteriosa presente in natura, ed è una luce misteriosa che può essere catturata dall'uomo. Mentre Keats stava scrivendo Lamia, nel 1819, le lampade al fosforo come quelle da lui descritte erano l'ultima novità, dopo che gli inventori avevano trovato un modo per impedire la combustione immediata del fosforo: diluendolo in un materiale inerte adatto e regolando l'afflusso di aria, erano riusciti a ottenere una lampada in grado di fornire una luce fissa disponibile all'uso per intere settimane. La scoperta e le applicazioni del fosforo arrivarono proprio nel momento giusto per fare di questo elemento un simbolo dell'addomesticamento della natura, del progresso e – nel senso letterale del termine – dell'illuminismo.


Nell'ultima settimana di luglio del 1943, i britannici restituirono ad Amburgo, con pesanti e vendicativi interessi, il regalo chimico che aveva fatto al mondo: in una serie di raid notturni, centinaia di aerei sganciarono sulla città 1900 tonnellate di bombe incendiarie al fosforo bianco, al culmine di una strategia di «bombardamento morale» autorizzata nel 1941 dal primo ministro Winston Churchill e dal capo del Comando bombardieri della Royal Air Force, Arthur Harris. Quest'ultimo cercava di dirigere gli attacchi aerei sui luoghi dove avrebbero avuto maggiori probabilità di provocare un infiacchimento dello spirito del nemico. Anche lo stile dei bombardamenti divenne col tempo un fattore sempre più decisivo, così che nell'estate del 1943 l'obiettivo degli Alleati era quello di distruggere non solo le città importanti sotto íl profilo storico e industriale, ma anche quelle con una maggiore densità di lavoratori chiave, e di usare mezzi specificamente studiati per terrorizzare i tedeschi spingendoli alla resa. In linea con questa strategia venne data un'enfasi senza precedenti alle bombe incendiarie e, in particolare, a quelle al fosforo.

Il 27 luglio – la terza notte dei raid – il bombardamento incendiario, anche grazie a una situazione metereologica calda e serena, provocò una tempesta di fuoco, un fenomeno in cui l'intensità della conflagrazione risucchia aria da tutte le direzioni, alimentando così ulteriormente le fiamme e creando un vortice di fuoco dalla temperatura infernale. Per citare le parole della recente analisi di uno storico tedesco: «La combinazione del clima, della carica incendiaria delle bombe, delle difese ormai collassate e della struttura degli isolati creò l'effetto "Gomorra" previsto da Harris: come Abramo in Genesi 19,28, Harris contemplò la città peccaminosa "e vide che un fumo saliva dalla terra, come il fumo di una fornace". Vennero liquefatte fra le quaranta e le cinquantamila persone». Molte altre morirono asfissiate, dato che le fiamme, salendo vorticosamente verso l'alto, risucchiavano l'aria dai loro rifugi sotterranei. Anche se il centro storico sopravvisse, gli incendi devastarono gran parte del resto di Hamburg-Mitte, il distretto centrale dove, quasi 300 anni prima, Brand aveva isolato per la prima volta il fosforo. Vennero distrutte più di 250.000 abitazioni, senza contare le fabbriche, i moli e le basi degli importantissimi U-boat; cinquantotto chiese furono ridotte in macerie ma, anche se il suo quartiere era stato fra i più colpiti, quella di San Michele riuscì a sopravvivere per un altro anno, finché non venne gravemente danneggiata durante un bombardamento americano. Quell'autunno, gli alberi di Amburgo tornarono a fiorire come se fosse primavera.

«Probabilmente, i bombardamenti al fosforo sulle case di civili innocenti sono qualcosa che non si ripeterà mai più» scrive John Emsley, spiegando come questo elemento sia comunque destinato a rimanere una parte integrante degli armamenti moderni per via della sua grande versatilità: può essere infatti usato per illuminare i bersagli, per creare cortine fumogene o per incendiare ed eliminare la vegetazione. Proprio mentre scrivo queste pagine, nel gennaio 2010, Israele ha ammesso di aver utilizzato il fosforo bianco durante la propria offensiva a Gaza. Il fuoco israeliano ha dapprima colpito una scuola delle Nazioni Unite; quindi, una settimana dopo, i funzionari dell'UNRWA (l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi) hanno dichiarato che il loro complesso nella città di Gaza era stato incendiato con bombe al fosforo. In questo conflitto, così come negli altri che si sono succeduti a partire dalla Prima guerra mondiale, il fosforo viene considerato un'arma legittima, ma il suo uso è limitato dalle convenzioni ai campi di battaglia aperti e non è consentito contro le popolazioni civili. Sennonché, a Gaza il «campo di battaglia» era densamente popolato; la cortina fumogena prodotta dal fosforo, quindi, non è soltanto letterale, ma anche morale.

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«Come sotto una mare verde»


Il papavero rosso, che indossiamo per commemorare le vittime della Prima guerra mondiale, ci dà consolazione perché è un simbolo di sopravvivenza, un fiore che cresceva sul suolo dei campi di battaglia fertilizzati con il sangue dei soldati. Tuttavia, una delle armi impiegate in quel conflitto viene a distruggere alla radice anche questi sentimentalismi: il gas venefico che entrambi gli schieramenti usarono nelle loro offensive a partire dal 1915, infatti, non aveva soltanto il terribile potere di ostruire i polmoni, ma sbiancava anche l'erba e i fiori. Si trattava del cloro.

Già una cinquantina d'anni prima dello scoppio della guerra si prevedeva che i progressi scientifici del XIX secolo avrebbero permesso di sviluppare nuove armi chimiche; la probabilità che questo accadesse era talmente forte, e la sensazione che avrebbe prodotto esiti orribili talmente viva, che ben prima dello scoppio delle ostilità era stato proclamato un bando preventivo per regolare l'uso di queste sostanze letali sul campo di battaglia.

I gas lacrimogeni, comunque, erano rimasti legali perché non provocavano la morte; la sfida, per gli ingegneri militari, era quindi quella di trovare un mezzo per farli arrivare sulle linee nemiche assicurandosi che si disperdessero in modo tale da massimizzare i danni riducendo al contempo al minimo i rischi per le forze attaccanti. I tedeschi affidarono questo compito a Fritz Haber, lo stesso chimico che avrebbe poi tentato di estrarre l'oro dal mare per ripagare i debiti del proprio Paese e che, all'epoca, era già celebrato come uno degli innovatori del processo utilizzato per convertire l'azoto atmosferico in ammoniaca. In seguito, quando venne insignito del premio Nobel per il suo lavoro, la scelta del comitato diede adito ad aspre controversie, perché il suo nome era stato inserito nelle liste di criminali di guerra stilate dalle potenze alleate.

Il lampo di genio di Haber fu quello di puntare sulla semplicità. Il cloro rappresentava un passo indietro rispetto ai gas lacrimogeni sul piano della complessità chimica, ma era notevolmente più avanti su quello della praticità d'uso. Anziché cercare di rinchiuderlo all'interno di granate da sparare oltre le linee nemiche, Haber propose semplicemente di liberare il gas da bombole installate a terra e lasciare quindi che il vento facesse il resto: il cloro, due volte più pesante dell'aria, sarebbe rotolato lungo il terreno formando una soffocante coperta di fronte alla quale il nemico non avrebbe potuto far altro che ritirarsi. A Ypres, nel Belgio settentrionale, Haber supervisionò di persona l'installazione di più di 5000 bombole in corrispondenza di un tratto del fronte occidentale lungo 7 chilometri. Il battesimo del cloro sul campo di battaglia avvenne nel pomeriggio del 22 aprile 1915, quando da nord-est iniziò a soffiare un leggero vento favorevole ai tedeschi. L'attacco a sorpresa sembrò sopraffare le truppe alleate, composte soprattutto da francesi e algerini: travolti dalla nuvola corrosiva, i soldati non sapevano più se fosse meglio ritirarsi dal gas o tentare di attraversarlo spingendosi in avanti nella speranza di trovare dell'aria pulita. A fine giornata, centinaia di uomini giacevano morti sul campo e migliaia di altri erano stati resi inabili, in molti casi per sempre.

L'uso del cloro costituiva una violazione delle convenzioni dell'Aia che mettevano al bando le sostanze «asfissianti e deleterie»? Haber sosteneva che il cloro, come i gas lacrimogeni, non era letale e, di conseguenza, il suo impiego come arma doveva essere considerato legittimo; tuttavia, alla luce delle sue infami dichiarazioni successive in cui si sarebbe vantato di aver messo a punto «una forma più evoluta di uccisione», questo suo ragionamento sembra quantomeno in malafede. Del resto, il semplice bilancio delle vittime di quel pomeriggio di aprile a Ypres parla da solo.

In ogni caso, gli Alleati ritennero che questo attacco costituisse una giustificazione più che sufficiente per una risposta dello stesso tenore. Così, per tutto il resto della guerra, entrambi gli schieramenti utilizzarono di tanto in tanto il gas, pur senza mai arrivare ai livelli di devastazione raggiunti dai tedeschi a Ypres e, poche settimane dopo, a ovest di Varsavia, sul fronte orientale. Entrambi i contendenti mostrarono inoltre un'allarmante prontezza nel ricorrere a gas ancora peggiori, producendo un'escalation nella guerra chimica con l'introduzione di agenti come il fosgene (cloruro di carbonile), che ha un leggero odore di fieno appena tagliato, l'iprite e altri composti clorurati dello zolfo e dell'arsenico. Ciononostante, per via della sua semplicità di elemento, il cloro sembra ancora l'arma più brutale: il gas sventra i vasi sanguigni che attraversano i polmoni e la vittima finisce per affogare nel fluido prodotto dal suo stesso corpo nel tentativo di riparare il danno.

Gli sforzi patriottici di Haber ebbero pesanti ripercussioni, anche sulla sua stessa famiglia. La sua prima moglie, Clara, si suicidò la notte del 1° maggio 1915 usando la pistola di servizio del marito; in che misura questo gesto vada letto come una protesta contro la guerra chimica di Haber è oggetto di discussione fra i biografi, ma vale comunque la pena di sottolineare come anche lei fosse un chimico: aveva approfondito questo campo di indagine proprio per catturare l'attenzione di Fritz e aveva avuto modo di osservare gli effetti del cloro sugli animali da laboratorio e nelle prove sul campo. In ogni caso la tragedia, a quanto pare, non turbò minimamente Haber, che la mattina seguente partì per supervisionare l'installazione delle bombole di gas sul fronte orientale.

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I pericolosi composti del cloro che oggi ci sono più familiari sono quelli noti per i loro terribili effetti inquinanti. Alcuni di essi sono stati scoperti grazie agli studi fatti da Haber e dai suoi colleghi. L'incessante ricerca di «forme di uccisione più evolute» ha avuto pesanti conseguenze anche per altre specie: uno dei suoi sottoprodotti è stato il DDT, la cui efficacia come insetticida è emersa nel corso degli esperimenti condotti in laboratorio per testare sugli insetti alcuni potenziali agenti chimici militari. Il DDT è un idrocarburo clorurato, una classe di composti in cui gli atomi di cloro vengono a sostituire quelli di idrogeno su un'ossatura di carbonio; un'altra sostanza appartenente a questa stessa classe è l'Agente arancione, usato come defoliante nella guerra del Vietnam, e altre ancora sono il gruppo di gas refrigeranti noti come CFC (clorofluorocarburi).

Il cloro è un elemento a due facce. Θ abbondante in natura – non ultimo nel sale degli oceani – ed è essenziale per la vita, avendo un ruolo importante nella regolazione delle funzioni corporee. Come lo zolfo e il fosforo, nelle combinazioni naturali è di solito abbastanza sicuro, ma quando sfugge dal guinzaglio può fare grossi danni. Θ quello che è accaduto nel caso dei CFC, i composti notoriamente inerti in un primo tempo adottati come un'alternativa sicura ai vecchi propellenti per bombolette e come gas refrigeranti; nella stratosfera, però, i raggi solari strappano i loro atomi di cloro innescando un ciclo chimico che li porta a devastare lo strato di ozono, distruggendolo molecola dopo molecola.

Tuttavia, se rilasciato in dosi controllate, il cloro può essere molto utile. La nostra esperienza dell'odore pungente del cloro non ci viene dai campi di battaglia, ma dalle piscine pubbliche dove questo elemento viene usato come disinfettante, dalla candeggina che teniamo sotto il lavello e dall'armadietto dei medicinali dove custodiamo antisettici come la clorexidina o pastiglie di clorochina da portare nelle vacanze esotiche. Si dice che l'aggiunta di cloro all'acqua potabile distribuita alle truppe nella Prima guerra mondiale abbia salvato più vite di quelle perdute a causa dell'impiego del gas come arma.

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A fuoco lento


Oggi, quando una persona può dire di conoscere soltanto una formula chimica, tale formula è senza dubbio quella dell'acqua, H20, una molecola formata da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno. Nel XVIII secolo, tuttavia, tanto l'H quanto l'O erano ancora sconosciuti, mentre l'acqua stessa veniva in genere vista come uno degli elementi irriducibili da cui era composta tutta la materia.

Fin dai tempi di Aristotele, l'acqua era sempre stata considerata come il più sicuro dei quattro elementi. Quando, di tanto in tanto, i filosofi o gli alchimisti mettevano in discussione la teoria, i loro problemi vertevano attorno al fuoco (che per mantenersi doveva essere alimentato con altri elementi), alla terra (che includeva in sé molte sostanze distinte) o all'aria (che avrebbe potuto essere priva di una realtà intrinseca). L'acqua, perlomeno, tendeva a sembrare sempre la stessa ed era l'elemento legato nel modo più evidente ai suoi due rispettivi «principi» o qualità fondamentali, ovvero il suo essere fredda e umida. Tuttavia, anche l'acqua era un enigma: nonostante questa sua apparente costanza, infatti, le acque di sorgenti diverse avevano spesso un sapore molto differente, spaziando da quelle più rinfrescanti a quelle a dir poco imbevibili.

La scienza moderna aveva buone ragioni per investigare la natura di questo elemento aristotelico più da vicino. Nelle città in espansione i servizi igienici non esistevano e l'acqua pulita era scarsa, tant'è vero che i racconti utopistici includevano sempre, tra le meraviglie dei loro luoghi immaginari, un'abbondante disponibilità di pura acqua dolce. Il fiume principale dell'isola di Utopia di Thomas More, del 1516, è l'Anidro (dal greco «senz'acqua», così come lo stesso termine «utopia» significa «non luogo»), un fiume mareale stranamente simile al Tamigi che non viene usato per rifornire la città di acqua potabile, dato che quest'ultima viene distribuita attraverso una complessa rete di canali e cisterne. Nel suo La nuova Atlantide, del 1624, Francis Bacon fa un ulteriore passo avanti e immagina che la purificazione dell'acqua avvenga per osmosi all'interno di «vasche, alcune delle quali ricavano l'acqua dolce dal sale, mentre altre trasformano la prima in quest'ultimo».

Sia pur fra mille incertezze, i filosofi naturali venuti dopo gli alchimisti iniziarono a comprendere che la qualità dell'acqua era importante per la salute pubblica. A guidarli non c'era soltanto la consapevolezza che la sporcizia che contaminava l'acqua era fonte di malattie, ma anche la convinzione che determinate sostanze a essa aggiunte avrebbero potuto renderla più salutare; e queste ricerche, a loro volta, avrebbero portato allo sviluppo della conoscenza scientifica degli acidi e dei sali e all'isolamento degli ingredienti gassosi dell'acqua, l'idrogeno e l'ossigeno.

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Ho cercato di arrivare a questo celebre punto di svolta nella storia della chimica senza usare la temibile parola «flogisto», legata a un concetto estremamente tenace durante il XVIII secolo e, tuttavia, così sbagliato e disorientante che riesce ancora a scoraggiare gli appassionati di scienza. Il flogisto era quel «principio del fuoco» che, secondo le convinzioni erronee di Priestley e di molti altri suoi contemporanei, doveva avere un'esistenza materiale. L'aria flogisticata è pertanto l'aria dove ha avuto luogo la combustione, mentre l'aria deflogisticata è quella con il potenziale per la combustione; la confusione nasce perché una presunta assenza (di flogisto) è di fatto, come si è scoperto, una presenza (di ossigeno).

La teoria del flogisto spiegava molto bene i fenomeni osservati dai chimici, ma non faceva comprendere nulla sulla realtà dei processi coinvolti. Per illustrare questo genere di confusione, possiamo provare a pensare a una maschera modellata su un volto umano. In presenza di una forte luce laterale, potete vedere chiaramente la punta del naso e le cavità degli occhi, ma solo cambiando prospettiva – o, meglio ancora, avvicinandovi e toccando la maschera – potrete accorgervi che la luce non viene da destra, come pensavate, bensì da sinistra, e che di fatto state osservando la faccia da dietro e non da davanti. Il flogisto era come una di queste immagini invertite, che, pur essendo accurate sotto tutti gli aspetti, rimangono comunque fondamentalmente ingannevoli. Per accorgersi di come stavano davvero le cose ci volle il cambiamento di prospettiva portato da Lavoisier.

Pur non fornendo una spiegazione corretta, il flogisto restava nondimeno un concetto teorico ben radicato. Persino lo stesso Lavoisier, che era già scettico riguardo al flogisto ancora prima dei suoi esperimenti sull'ossigeno, continuò a usare almeno fino al 1784, accanto al suo nuovo termine «ossigeno», espressioni come air déphlogistiqué, air empiréal e air vital. In una divertente anticipazione della nostra odierna ossessione per le creme antiossidanti, in Madame Bovary Gustave Flaubert fa riferimento a una «pommade antiphlogistique», con l'unico inconveniente che il romanzo è ambientato in un periodo – la metà dell'Ottocento – in cui, sul piano scientifico, la teoria del flogisto aveva ormai perso ogni credibilità da più di cinquant'anni.

Con le sue ricerche, Lavoisier aveva posto al centro della combustione – e, quindi, di gran parte della chimica – non il fuoco, bensì l'ossigeno. Nel 1789, alla vigilia della Rivoluzione francese, pubblicò il Trattato elementare di chimica che includeva un ampio elenco di «semplici sostanze appartenenti a tutti i regni della natura, che potrebbero essere considerate come gli elementi dei corpi». Queste sostanze erano divise in quattro categorie: la prima comprendeva i gas — idrogeno, ossigeno e azoto —, la luce e il «calorico», o calore; la seconda includeva sei sostanze non metalliche che formavano acidi, cioè il carbonio, lo zolfo, il fosforo e le basi ancora sconosciute degli acidi muriatico (cloridrico), fluorico e borico; la terza elencava 17 metalli «ossidabili», dall'antimonio allo zinco; e la quarta aggiungeva 5 «semplici sostanze terrestri salificabíli», tra cui la calce e la magnesia, che, come intuiva correttamente Lavoisier, nascondevano altri nuovi elementi metallici.

Il manuale di Lavoisier ebbe successo. Lo scienziato aveva innescato una rivoluzione chimica, ma ora stava arrivando quella politica. Egli nutriva chiare simpatie per l' Ancien Régime, anche se, di fronte al disperato invito che Luigi XVI gli aveva rivolto nel 1791 perché diventasse ministro delle Finanze, aveva opposto un rifiuto dicendo che accettare avrebbe significato mettere a rischio quell'«ideale di equilibrio» che cercava di portare non solo nella chimica, ma anche nell'economia e nella politica. Nel frattempo, dall'altra parte della Manica, Priestley diede una festa per celebrare l'anniversario della presa della Bastiglia e, quello stesso giorno, la sua casa venne distrutta da una folla inferocita di realisti. A Lavoisier sarebbe toccato di peggio per mano dei giacobini: odiato per i suoi trascorsi come esattore delle imposte e ignorato per le sue scoperte scientifiche, finì i suoi giorni sulla ghigliottina il 5 maggio del 1794.

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Nostra signora del radium


Di tanto in tanto capita che un elemento, che magari non è stato mai visto neppure dalla maggior parte degli scienziati, riesca a oltrepassare i confini del laboratorio per conquistare una qualche fama nel mondo, buona o cattiva che sia. Come abbiamo visto, è ciò che è accaduto al plutonio dopo lo sgancio della bomba atomica, ma prima era già successo anche al radio. Il radio, un elemento – un metallo non solo radioattivo, ma anche caratterizzato da una reattività esplosiva – con cui nessun comune mortale aveva mai avuto modo di entrare in contatto, conquistò all'improvviso una notorietà mondiale che lo portò a essere considerato una sorta di talismano miracoloso per cui gli uomini erano pronti a combattere. Era ricercato ovunque e il suo nome veniva dato a località e marche di prodotti finché poi, qualche decennio dopo, venne messo da parte con la stessa rapidità con cui era entrato in scena, gettato via come una patata bollente.

La figura centrale nella storia del radio – nonché una delle ragioni del suo fenomenale successo – è Marie Curie. Nata a Varsavia nel 1867, Maria Sklodowska (era questo il suo nome da nubile) emigrò a Parigi per completare i suoi studi, dal momento che in Polonia non era stata ammessa all'università. Alla Sorbona era libera di cercare la propria strada senza la soffocante supervisione del suo liceo polacco e, per quanto si trattasse di una scelta insolita, studiò sia chimica che fisica; avrebbe vinto il premio Nobel in entrambe le discipline, un successo mai raggiunto da nessun altro. Marie aveva intenzione di ritornare in Polonia per seguire le orme dei suoi genitori nella carriera di insegnante, ma mentre si stava preparando per gli esami di laurea incontrò Pierre Curie; i due si sposarono un anno dopo, nel 1895.

Il decennio successivo – fino alla morte di Pierre, travolto da un calesse all'età di 46 anni – vide i due coniugi impegnati in una collaborazione scientifica di rara armonia e produttività. Con l'incoraggiamento di Pierre e lo spazio nel suo laboratorio, Marie decise di investigare la spontanea emissione di una forma di energia assimilabile a quella dei raggi X (un fenomeno appena scoperto a cui lei diede il nome di «radioattività») da parte di alcuni campioni di pechblenda, un minerale dell'uranio. Il suo strumento principale era un'apparecchiatura al quarzo inventata da Pierre alcuni anni prima, che sfruttava la proprietà di alcuni cristalli di emettere una carica elettrica in risposta alle pressioni esercitate su di essi; questo contatore era in grado di rilevare le piccolissime correnti elettriche associate ai processi di decadimento radioattivo. Marie scoprì che la radioattività era un fenomeno intrinseco a particolari sostanze e non, come ai tempi pensavano in molti, il prodotto di qualche tipo di interazione con altra materia o energia. Nel corso delle misurazioni scoprì anche che qualche minerale di uranio era più radioattivo di altri, e che alcuni di essi – stranamente – erano persino più radioattivi dell'uranio metallico puro; l'unica spiegazione possibile era che questi ultimi minerali dovevano contenere un nuovo materiale, ancora sconosciuto, dalla radioattività estrema.

Ciò catturò l'interesse di Pierre che, abbandonando le proprie ricerche personali, si affiancò alla moglie. I due iniziarono a ridurre in polvere una manciata di pechblenda per poi dissolverla grazie a reagenti chimici, così da poter isolare progressivamente i componenti più radioattivi; nel giro di due mesi ottennero un prodotto 300 volte più radioattivo dell'uranio. Notarono che parte della radioattività era dovuta al bario presente nel campione e parte a un altro elemento, il bismuto; tre settimane dopo, però, si convinsero che ci doveva essere un qualche nuovo elemento che imitava la chimica del bismuto, dato che normalmente quest'ultimo non era radioattivo. I Curie avevano già scelto il nome «polonio» in onore dell'amata patria di Marie (che, una volta, si era anche vestita da «Polonia» durante un ritrovo di espatriati a Parigi) e, il 13 luglio 1898, Pierre poté infine scrivere sul registro di laboratorio le lettere «Po». Tuttavia, la loro incapacità di separare l'elemento dal bismuto era fonte di frustrazione, in particolare per Marie, che avrebbe voluto poter stringere il polonio fra le mani.

Nel frattempo, la coppia continuò a dar la caccia alla specie radioattiva legata al bario usando un nuovo campione di pechblenda; la trovarono poco prima di Natale, ottenendo la prova inequivocabile dell'esistenza di un altro nuovo elemento, ancora più radioattivo del polonio, a cui diedero il nome di radio. I sali del bario e del radio sono più solubili di quelli del bismuto e del polonio. Un modo intelligente per cercare di isolare il radio consisteva nel far bollire più e più volte le soluzioni saline e quindi farle raffreddare lentamente, così che il puro cloruro di radio, un po' meno solubile del cloruro di bario, potesse cristallizzarsi per primo. Marie iniziò a dedicarsi a questa lunga sfida nel 1899. Si procurò 10 tonnellate di residuo di pechblenda, già più radioattivo del minerale di base, che le venne portato in sacchi di polvere marrone mescolata con aghi di pino. Trattando il materiale in lotti di 20 chili per volta, trasformò il rudimentale «hangar» di un laboratorio in una fabbrica piena di calderoni di liquido radioattivo bollente, a diversi stadi di preparazione. Pur trattandosi di un lavoro fisicamente estenuante, c'era sempre l'eccitazione della caccia e, nel 1902, Marie ebbe infine la prova tangibile del nuovo elemento, una decina di grammi di puro cloruro di radio.

Che cosa prova un chimico quando scopre un elemento? Anche se le sensazioni sono spesso dissipate dai lunghi sforzi, ci sono comunque momenti di intenso piacere e, con i loro due elementi e i loro due premi Nobel, i Curie sperimentarono questi momenti più di quanto non abbia mai potuto farlo la maggior parte degli scienziati. Certo, non erano innamorati del frastuono ufficiale che accompagnò il loro successo e non considerarono mai della massima importanza nemmeno la partecipazione alle loro stesse cerimonie di premiazione (cosa comprensibile nel caso di Marie, quando sembrava che i riconoscimenti venissero assegnati un po' a malincuore: all'inizio, per esempio, non era stata neppure inserita fra i candidati al Nobel quando il nome di Pierre era stato fatto assieme a quello di Henri Becquerel, lo scopritore dell'uranio). E la pubblicità che ne seguiva non era nient'altro che una seccatura.

Ma l'aspetto materiale delle scoperte li elettrizzava. Il sospetto che la pechblenda nascondesse qualcosa si era presto trasformato in una certezza; dopo non molto, si erano resi conto di essere sulle tracce di nuovi elementi e avevano già pronti i nomi. Nei loro articoli scientifici annunciarono le scoperte con una comprensibile baldanza; proposero questi nomi senza finta modestia, ma furono comunque generosi nel riconoscere i contributi degli altri. Marie, in particolare, si sentiva orgogliosa dei «nostri nuovi metalli» ed era frustrata per il fatto di non poter ancora toccare con mano quel radio e quel polonio dei quali conosceva ormai l'esistenza. Avevano sperato di vedere dei sali colorati, ma rimasero deliziati di fronte alla luce inattesa che splendeva dal materiale impuro. A volte, dopo cena, tornavano furtivamente nel laboratorio per vedere i campioni che rilucevano, uno spettacolo che non cessò mai di suscitare in loro «emozione e incanto».

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Nel piombo è scritto il destino dell'umanità intera. Le sue applicazioni tradizionali (in molte delle quali è stato oggi sostituito per ragioni di salute) echeggiano il ruolo ambiguo che questo elemento riveste nel mito. Due dei suoi usi più antichi – i proiettili dei soldati e i caratteri dei tipografi – mostrano come il piombo abbracci l'intero spettro della creatività e della distruttività umane. L'impiego delle palle di piombo risale già all'antichità, quando venivano lanciate con la fionda, ma fu solo nel XIV secolo, con la scoperta che la polvere da sparo – fino ad allora sconosciuta in Europa – poteva essere utilizzata per scagliare una palla da un tubo, che il cannone divenne un'arma da guerra. Questo strumento, in principio grossolano, venne via via perfezionato in un'ampia gamma di armi da fuoco che richiedevano altrettanti tipi di palle e proiettili di piombo. All'inizio la colatura del piombo presentava alcune difficoltà, ma col tempo si cominciò a seguire un metodo analogo a quello che abbiamo descritto a proposito della predizione del futuro, sfruttando cioè la forza di gravità all'interno di torri progettate per questo specifico scopo; a differenza del Bleigiessen, però, qui si faceva molta attenzione a lasciar fuori ogni intrusione del caso. Il piombo fuso viene versato da un'altezza sufficiente a permettere che si formino, durante la caduta, gocce di una determinata dimensione che, giunte in fondo, si raffreddano in una vasca d'acqua. Decido di andare a Crane Park, alla periferia ovest di Londra, dove c'è ancora uno di questi edifici, una torre affusolata a pianta rotonda, costruita nel 1823 per la Hounslow Gunpowder Mills. Restaurata di recente, si staglia in modo pittoresco ai margini di un bosco, con i parrocchetti che entrano ed escono cinguettando dalla cupola. L'acqua viene presa da un piccolo torrente che scorre lì accanto. Stando in piedi in una delle sei gallerie circolari che cingono l'interno della torre, realizzato in nudi mattoni, è facile immaginare il piombo fuso che cade al centro e sfrigola nell'acqua sottostante. Una lunga caduta (le torri più alte avevano anche più di venti piani) assicura che ogni goccia di metallo sia quasi sferica quando tocca l'acqua, ma alla fine serve comunque del lavoro per smistare e classificare i pallini. Anche per fare questo, però, è possibile sfruttare la forza di gravità, ponendo le piccole sfere su un piano inclinato che termina con una specie di salto: quelle che rotolano bene sono in grado di saltare la barriera, mentre quelle troppo grosse o malformate non ce la fanno e vengono raccolte per essere rifuse. (Il fattore fortuna ritorna in gioco quando i proiettili vengono sparati per uccidere: anche se ne sono stati fabbricati e sparati miliardi, infatti, le vittime sono state soltanto milioni. E oggi questa bassa percentuale di colpi andati a segno si sta ulteriormente abbassando, dicono gli esperti, per la semplice ragione che i progressi tecnologici nel design delle armi da fuoco fanno sì che premere un grilletto sia sempre più facile.)


Una delle innovazioni introdotte da Johannes Gutenberg che ci porta a considerarlo il padre della stampa, fu la sua adozione del piombo per i caratteri tipografici. Gutenberg aveva fatto un po' di tirocinio come orefice ed era un abile metallurgista quando – attorno al 1440, mentre viveva a Strasburgo — iniziò a concentrarsi sul problema della stampa. Pensò che le presse che venivano usate per la produzione del vino avrebbero potuto essere riadattate per imprimere le lettere sulla carta, ma affinché i caratteri fossero intercambiabili (così da poter stampare testi differenti) occorreva un materiale dalle proprietà particolari: doveva essere facilmente modellabile per poter assumere le forme complesse delle lettere, ma anche abbastanza durevole da resistere ai ripetuti impatti sulla carta. Per avere caratteri mobili, poi, era necessario che le singole lettere potessero essere tolte dal modello usato per stampare una pagina e ridisposte così da formare un nuovo testo. La soluzione ideata da Gutenberg (che, più o meno nello stesso periodo, venne messa a punto in modo indipendente anche in Corea) fu quella di usare una lega di piombo e stagno con un po' di antimonio; in questo modo il metallo era meno viscoso mentre era fuso ma formava caratteri più duri quando diventava solido. Nettamente superiore rispetto al bronzo (con cui era più difficile lavorare) o a materiali tradizionali come il legno e l'argilla (che erano meno durevoli), questa lega di piombo dominò la stampa fino alla metà del XX secolo, accelerando moltissimo la diffusione della conoscenza attribuendo alla letteratura un ruolo di importanza primaria.

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Nell'architettura lo zinco ha trovato un mercato ma, forse, non ancora un ruolo; a Berlino, tuttavia, c'è un interessante edificio che potrebbe cambiare la situazione.

La gara d'appalto per un nuovo museo ebraico nella capitale tedesca (quello precedente aveva aperto i battenti nel 1933, tre mesi prima che Hitler salisse al potere) venne vinta nel 1989 da Daniel Libeskind. Dei 165 progetti in competizione, quello del giovane americano – ispirato alla musica frammentata di Schφnberg, agli scritti di Walter Benjamin e ad alcune idee mutuate da altri intellettuali ebrei che hanno arricchito la vita culturale tedesca – fece colpo sulla giuria come il più brillante e il più complesso, anche se forse irrealizzabile. Si dimostrò invece perfettamente fattibile e quando venne completato, nel 1999, la struttura fu giudicata così sorprendente che venne aperta al pubblico ancor prima che vi venisse installata una qualunque esposizione: i visitatori pagavano per vedere le aree vuote simili a tunnel, e gli spazi contorti e sfuggenti che davano l'impressione di manipolare la prospettiva se non la gravità stessa, producendo gli effetti più disorientanti che un qualunque spazio fisico è in grado di generare.

L'esterno del museo non è meno sconcertante. La pianta dell'edificio segue una linea frastagliata con mura lisce interamente rivestite di parallelogrammi di zinco. Le file di finestre tagliano in diagonale la facciata e si intersecano fra loro ad angoli apparentemente casuali, tracciando quella che potrebbe essere una stella di David decostruita, oppure un sentiero a zigzag che simboleggia il vagare e il perdersi.

Libeskind ha spiegato di aver scelto lo zinco in risposta all'appello di Schinkel e per cercare un'armonizzazione con l'adiacente Berlin Museum, le cui finestre montano cornici realizzate in questo metallo. C'è però un simbolismo più profondo che rende particolarmente appropriato l'uso dello zinco in questa sede: ho infatti scoperto che nelle interpretazioni dei sogni lo zinco è associato all'emigrazione e, pertanto, costituisce una scelta naturale per un edificio che celebra un gruppo di cittadini caratterizzati da una storia di migrazioni. Questo simbolismo trova forse spiegazione nel fatto che lo zinco è stato scoperto troppo tardi per trovare un partner in quella danza alchimistica che aveva accoppiato i diversi metalli ai corpi celesti del sistema solare: il rame, il ferro, lo stagno e il piombo erano associati ciascuno a uno specifico pianeta (con qualche distinzione, a seconda della tradizione di riferimento), mentre lo zinco era rimasto a ballare da solo. Si dice inoltre che lo zinco simboleggi il procedere verso un obiettivo, cosa che sembra appropriata per una struttura architettonica che, nelle parole di Libeskind, è «sempre in divenire».

Più scoperto è il rapporto dello zinco con le cerimonie di preservazione e sepoltura. Quando William Deedes, il giornalista preso a modello per il protagonista di Scoop di Evelyn Waugh, venne mandato a fare un reportage sulla guerra in Abissinia, viaggiò custodendo i suoi oggetti in una cassa di cedro rivestita di zinco per non farvi penetrare le formiche. Il metallo viene spesso usato anche per rivestire internamente le bare, come un'alternativa sicura e relativamente economica al piombo. Il mio amico chimico Andrea Sella ha ancora impresso nella memoria il ricordo di quando, da ragazzo, viveva in Italia e i preparativi dei funerali erano accompagnati dal rumore della saldatrice usata per sigillare lo zinco della bara prima di chiuderne il coperchio. In alcune sue opere, l'artista tedesco Joseph Beuys ha utilizzato casse di zinco come contenitori per il grasso; l'attenzione della critica si è concentrata perlopiù su questo materiale, caratteristico del lavoro di Beuys, ma è significativo anche il ruolo dello zinco, scelto non ultimo per la sua rappresentatività degli opposti: come veleno e balsamo, come un sigillo che alla fine si sgretola. Visto in questo contesto, l'edificio di Libeskind diventa un enorme sarcofago, un contenitore metaforico dei corpi dei 6 milioni di ebrei uccisi nell'Olocausto e, al contempo, un mezzo per preservare la loro memoria.

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Il materiale più ricercato nella scultura e nell'architettura, indicate assieme come le arti monumentali, è sempre stato il marmo, la forma più pura e più bianca di carbonato di calcio disponibile per lo scalpello degli artisti. L'antica Grecia e Roma raggiunsero il loro splendore anche grazie alla vicinanza di grosse cave di marmo. Per innalzare il Partenone, Fidia usò il marmo pentelico delle montagne nei pressi di Atene, un esperimento di lavorazione della pietra dove la robustezza delle colonne doriche riflette la cautela nell'adattare le tradizionali costruzioni in legno. Il marmo pario, dalla grana un po' più grossa, proveniva invece dall'isola di Paros e venne impiegato in siti lontani dall'Attica, come Delfi, Corinto e capo Sounion.

I monumenti romani, dal Pantheon alla Colonna Traiana, vennero costruiti con il marmo delle famose cave di Carrara, sulla costa toscana. La struttura della cattedrale di Sant'Andrea, a Carrara, è interamente fatta di marmo, una decisione forse inevitabile ma che ha comunque avuto la spiacevole conseguenza di produrre un interno lugubre come una caverna. Altre grandi cattedrali si sono invece servite in modo più artistico della celebre pietra, come per esempio il Duomo di Siena, con le sue strisce di marmo bianco e verde scuro che corrono attorno all'esterno e all'interno della costruzione duecentesca. La mia cattedrale italiana preferita, però, è quella che si erge come un portagioielli sulla collina di Orvieto. Vista da una strada laterale, incorniciata dalle case civili, la sua facciata occidentale risplende di una tenue luce bianca che ha qualcosa di celestiale; da questa prospettiva, gli ornamenti dei suoi pinnacoli gotici si raggruppano assieme come i grattacieli di una grande metropoli, una città degli smeraldi, una Gerusalemme celeste. All'interno, le finestre lungo le navate non sono invetriate ma rifinite con sottili fogli dello stesso marmo e lasciano entrare una luce soffusa che non produce ombre.

Michelangelo scelse il marmo di Carrara per molte delle sue opere più importanti come il David e si recava spesso alle cave per scegliere di persona i blocchi più bianchi; queste visite gli offrivano anche un temporaneo rifugio dalle irragionevoli richieste che, all'epoca, gli venivano non di rado avanzate dai papi. Quando le cose andavano bene, però, Michelangelo lavorava a Roma e il marmo gli veniva mandato dal suo scalpellino di fiducia, Domenico (detto Topolino), che non di rado, suscitando invariabilmente l'ilarità del grande artista, gli inviava anche qualche sua creazione scultorea.

Uno dei progetti in cui Michelangelo si sentì più personalmente coinvolto fu la tomba di Giulio II, iniziata l'anno della morte del papa (1513) e portata avanti, in modo discontinuo, durante i cinque pontificati successivi. L'opera non venne mai completata secondo il piano originale, ma le diverse statue di cui è ornata mostrano l'artista al meglio delle sue capacità tecniche. Giorgio Vasari, apprendista e biografo di Michelangelo (nonché scultore della sua tomba), trovava la figura di Mosè così bella e realistica che «pare che mentre lo guardi abbia voglia di chiedergli il velo per coprirgli la faccia, tanto splendida e tanto lucida appare altrui. Et ha sì bene ritratto nel marmo la divinità che Dio aveva messo nel santissimo volto di quello [...] che Moisè può più oggi che mai chiamarsi amico di Dio, poiché tanto innanzi agli altri ha voluto mettere insieme e preparargli il corpo per la sua ressurrezione, per le mani di Michelagnolo».

La più grande creazione marmorea del Rinascimento — questa portata pienamente a termine — è un'altra opera sepolcrale: la cappella contenente le tombe dei Medici, iniziata da Michelangelo e completata da Vasari. Θ il prototipo del «cubo bianco» dell'arte moderna, lo spazio neutro in cui la pura luce rivela la verità della visione dell'artista.

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Dall'altra parte del mondo, la lucentezza delle macchine cromate è un indice della crescente presenza americana nella Shanghai prebellica di L'impero del sole, di J.G. Ballard. L'alleanza della Cina con l'America è indicata dalla bandierina del Kuomintang che sventola sull'asticella cromata di una limousine Chrysler; e quando, verso la fine del libro, un misterioso «eurasiatico» compare per liberare il giovane Jim (il personaggio centrale – autobiografico – del romanzo) dallo stadio in cui è stato rinchiuso assieme a centinaia di prigionieri di guerra, l'autore sottolinea che questo personaggio «parlava con un forte accento americano che sembrava però acquisito da poco e che, secondo Jim, aveva appreso durante gli interrogatori degli aviatori americani catturati. Portava un orologio cromato [...]». L'americanità, come l'orologio trofeo, è qualcosa che si può mettere e togliere.

Col passare del tempo, i significati del cromo sono diventati più numerosi e più ambigui, ma i designer hanno scelto di sfruttare il metallo soprattutto per trasmettere un senso di velocità (talvolta anche per oggetti che non andavano da nessuna parte, come i temperamatite meccanici). Gli stilisti di Harley Earl dotavano le Buick e le Cadillac di fulgenti carenature e di elaborate pieghe orizzontali allo scopo di catturare la luce e rifletterla negli occhi degli osservatori estasiati. Anche la montatura a forma di missile dei fanali anteriori e gli alettoni erano cromati, con linee che intendevano chiaramente alludere non solo alla velocità ma anche a un'aggressività virile. Si trattava di macchine «per l'uomo di successo», come recitava una pubblicità della Buíck degli anni Cinquanta. (Gli ornamenti maschili foggiati in cromo avevano però la loro controparte femminile nelle curve verniciate della carrozzeria, cosa che trasformava queste vetture in macchine ermafrodite.)

A quanto pare, tra la lucentezza metallica e la velocità corre un legame permanente. Stando al mito narrato da Ovidio nelle Metamorfosi, il figlio di Apollo, Fetonte, pregò suo padre di lasciargli guidare il carro del Sole, ma ne perse subito il controllo, schiantandosi:

    Era d'oro l'asse e il timone,
    e il cerchio delle ruote, d'argento i raggi.

Con una scelta quantomeno inopportuna, una delle Cord del 1937 venne chiamata Supercharged Phaeton, «Fetonte sovralimentata».

Questa tendenza raggiunge un'apoteosi esplosiva in Crash , l'inquietante romanzo di J.G. Ballard in cui gli scontri automobilistici – immaginati e reali – sono l'oggetto di una perversione sessuale. Il cromo fa da stimolo in ogni momento, fornendo prima il prisma attraverso cui balenano le visioni erotiche – «Nel portacenere cromato ho visto la tetta sinistra della ragazza, con il capezzolo dritto [...] Le sue tette a punta si sono riflesse per un attimo sul cromo e i vetri dell'auto che prendeva velocità» — e quindi l'arma in un succedersi di scene sempre più violente e terribili, dove il duro metallo colpisce la carne e la penetra generando sensazioni di intensità sessuale. La chiave è costituita dalla lucentezza violenta del metallo: Ballard immagina «lance scintillanti» di luce pomeridiana riflesse dai pannelli cromati che lacerano la pelle, per poi passare alle «mammoplastiche parziali di vecchie casalinghe [...] eseguite dalle stecche cromate dell'intelaiatura del parabrezza», e alle «guance di belle ragazze giovani strappate sui saliscendi cromati dei finestrini».

In questa critica del nostro irragionevole amore per la tecnologia pericolosa, il cromo è soltanto la superficie che eccita per prima la nostra concupiscenza. Crash venne pubblicato nel 1973, ai tempi della prima crisi petrolifera, quando la passione della gente per le cromature delle macchine si stava già affievolendo. Il metallo, però, aveva ormai diffuso la sua influenza ben oltre Parigi, Weimar e Detroit, per diventare un potente simbolo del consumismo universale.

Un anno o due dopo che Philip Johnson aveva fatto togliere le cromature dalla sua Buick, un gruppo di artisti e scrittori si incontrarono all'Institute of Contemporary Art di Mayfair e presero la decisione di guardare senza vergogna quel genere di cose che davano tanto fastidio al curatore del museo americano. Il «Gruppo indipendente», come divenne noto, contava fra i suoi fondatori gli artisti Richard Hamilton ed Eduardo Paolozzi e il critico Reyner Banham; i suoi membri assunsero una prospettiva più indulgente sulla tecnologia e la fiorente cultura del consumismo, celebrando quella letteratura popolare, quei film, quelle pubblicità e quei prodotti fatti in serie che l'establishment artistico aveva scelto di ignorare. Cercavano oggetti che possedessero quello che definivano come «contenuto simbolico», mossi dall'idea che fosse questa, e non il buon gusto patrizio, la chiave per realizzare cose di fatto apprezzate dalla gente. Durante un incontro, Banham elogiò in modo esplicito lo stile proveniente da Detroit; in seguito, trasferitosi a Los Angeles, fu necessariamente obbligato a imparare a guidare, un'esperienza che paragonò a quella di imparare l'italiano per poter leggere Dante in lingua originale.

Richard Hamilton, uno dei progenitori della Pop Art, mostrava periodicamente agli altri membri del gruppo i suoi nuovi dipinti, simili a collage, che iniziarono presto a incorporare le forme di alcuni di questi scintillanti beni di consumo. Le auto americane vennero esplicitamente rappresentate in opere come Hommage à Chrysler Corp, del 1957, dove il mélange rosa e cromo di parti della macchina e immagini erotiche non faceva altro che accentuare quel simbolismo che già era evidente nelle pubblicità automobilistiche dell'epoca. Riproducendo la lucentezza del cromo nella pittura a olio, Hamilton si ricollegava idealmente agli artisti che nel corso dei secoli avevano dipinto oggetti di metallo nelle loro nature morte per dimostrare la propria padronanza dell'ottica e della tecnica del colore. Per Hamilton però, questo era un paradosso, perché quanto più accurato fosse stato il realismo, tanto più la scelta attenta delle sfumature di colore avrebbe conferito profondità e solidità all'oggetto. Così, nelle opere in cui più gli premeva ricordare all'osservatore l'essenziale superficialità delle cromature, egli rendeva superficiali anche i propri ritocchi conclusivi, incollando pezzi di fogli metallici.

Con i loro paralleli fra il profilo del corpo femminile e le curve di oggetti d'uso domestico come i tostapane, questi dipinti potrebbero anche essere letti come una sorta di attacco cripto-femminista alla società del benessere. Hamilton, però, sembra offrire un'interpretazione più ambigua: il cromo, specialmente sulle automobili, aveva acquistato un fascino virile che persiste ancora oggi, in particolare sulle motociclette e i camion americani, ma anche le donne non erano insensibili al suo potere di fascinazione, come avrebbe mostrato il suo successivo grande dipinto. L'opera si intitola $he e mostra, in forma semi-astratta, una parte del busto di una donna, un grembiule, lo sportello rosa di un frigorifero aperto e, in primo piano, un elettrodomestico cromato che sembra un incrocio fra un tostapane e un aspirapolvere. «Questo rapporto fra la donna e gli elettrodomestici è un tema fondamentale della nostra cultura,» dichiarò Hamilton parlando dell'opera «tanto ossessivo e archetipico quanto i duelli con le pistole nei film western.» Qualunque cosa pensassero di questi dipinti, le donne non tardarono a comprendere che la bianca lucentezza del cromo rappresentava un netto miglioramento rispetto ai vecchi metalli usati per gli utensili domestici, il rame e il peltro, che dovevano essere lucidati di frequente: «Mi sembra che nessun altro metallo offra una risposta completa come quella del cromo alle preghiere delle casalinghe» scrisse l'autorevole commentatrice sociale americana Emily Post, che lo trovava «non solo piacevole a vedersi, ma anche molto pratico».

In breve tempo, però, il cromo sembrò trasformarsi da elemento depositario di una sorta di fascino universale a materiale troppo appariscente, addirittura pacchiano. Gli scrittori furono i primi a vedere oltre il luccichio. Un critico culturale osservò che «quasi tutto ciò che c'è di sbagliato nelle auto americane è sbagliato anche nel popolo americano», invertendo il motto del presidente della General Motors secondo cui «ciò che va bene per il Paese va bene anche per la General Motors, e viceversa». Vladimir Nabokov descrive la «cucina così scintillante da risultare deprimente» della madre di Lolita , «con le sue lucenti cromature, il calendario dell'Hardware & Co. e il grazioso angolino della colazione», una delle molte immagini presentate dagli scrittori di quel posto che, nel suo lungo romanzo Underworld , Don DeLillo identifica come la «malinconica America cromata».

Il cromo aveva perso la sua presa sull'immaginazione di chi nutriva ambizioni sociali e la sua reputazione venne presto a cadere. L'aspetto feticistico del cromo tirato a lucido venne sfruttato nell'arte erotica, dove il corpo femminile nudo era mostrato come una macchina scintillante; «Chrome» («la sua graziosa faccia da bambina liscia come l'acciaio») è il nome di una prostituta nella novella omonima di William Gibson, scritta nel 1982.

Gli artisti post-modernisti come Jeff Koons impressero al metallo un'altra spinta sulla via del declino, ricreando su scala monumentale, in acciaio inossidabile cromato, uno di quei gingilli senza valore che si vedono ogni tanto penzolare dagli specchietti retrovisori, e gustandosi l'ironia di vedere simboli metallici di estremo cattivo gusto — con nomi come Rabbit, Candy Heart e Balloon Dog — venduti all'asta per milioni di dollari. Al contempo, le stesse superfici «cromate» apparivano ora più fasulle che mai, dato che era ormai diventato possibile rivestire di lucide finiture metalliche persino la plastica.

A un altro passo di distanza dalla verità materiale, la simulazione visiva del cromo — difficile da ottenere, perché l'occhio è molto sensibile alle irregolarità nelle superfici tirate a lucido — divenne un banco di prova per il realismo nella grafica computerizzata, resa celebre da film come Il tagliaerbe e Terminator 2. Tuttavia, anche i maghi della computer graphics hanno iniziato a guardare al di là della superficie: dopo la realizzazione di quei film, nei primi anni Novanta, hanno infatti cominciato a usare il termine «cromo» come un insulto, per riferirsi a quelle opere che insistono troppo sugli effetti speciali.

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Rocce svedesi


All'inizio della mia odissea chimica avevo tracciato una mappa del mondo mettendo un punto su ogni luogo dov'era stato scoperto un elemento. Ne era uscita una mappa molto curiosa: a parte quelli corrispondenti allo zinco e al platino, scoperti senza l'aiuto della scienza occidentale, rispettivamente in India e nelle Americhe, tutti i punti relativi agli elementi naturali si trovavano in Europa. Un gruppo di puntini a Berkeley, in California, stavano a rappresentare la maggior parte degli elementi più pesanti dell'uranio prodotti artificialmente in seguito alla scoperta della fissione nucleare; un altro gruppo simile, in coincidenza con Dubna (a nord di Mosca), mostrava dove erano stati sintetizzati alcuni dei più recenti elementi radioattivi.

L'Europa vantava quattro grossi punti nevralgici a indicare gli scenari di scoperte più antiche: Londra – che si fregiava dei molteplici successi di Davy e Ramsay – e Parigi potevano rivendicare circa una dozzina di elementi a testa. Anche Berlino, Ginevra ed Edimburgo si piazzavano bene, ma subito dopo Londra e Parigi i due raggruppamenti più corposi si trovavano entrambi in Svezia, uno presso la vecchia città universitaria di Uppsala e l'altro nella capitale, Stoccolma. La scienza svedese poteva vantare la scoperta di almeno 19 elementi, pari a più di un quinto di quelli che si ritrovano in natura; molti di essi, di fatto, celebrano nei loro stessi nomi i luoghi dove sono stati trovati (l'ittrio, l'erbio, il terbio e l'itterbio hanno preso il nome dalla cava di Ytterby, l'olmio dalla stessa città di Stoccolma) o concezioni più o meno romantiche della Scandinavia (scandio, tulio).

Nella vecchia Europa è capitato spesso che gli elementi abbiano preso il nome dai luoghi associati alla loro scoperta: lo stronzio, per esempio, è l'unico elemento battezzato in onore di una località delle isole britanniche, Strontian, in Scozia. Negli Stati Uniti è più frequente la situazione opposta, ovvero sono spesso gli elementi ad aver dato il nome ai luoghi: lì, infatti, le conoscenze chimiche hanno preceduto — e in parte anche guidato — l'espansione verso ovest e la corsa alle ricchezze nascoste nelle nuove terre selvagge. Le «Colline dell'oro» e i «Laghi dell'argento» non erano vane allusioni poetiche, bensì nomi strettamente collegati alla terra in cui gli avventurieri piantavano le loro tende, nella speranza — poi realizzata o meno — di potervi trovare questi metalli preziosi. Oltre all'oro e all'argento, ci sono un'altra dozzina di elementi che compaiono in modo esplicito in nomi di città americane, dalle scontate Iron (in Missouri e Utah), Leadville (Colorado) e Copper Center (Alaska), alle più sorprendenti Sulphur (Oklahoma), Cobalt (Idaho), Antimony (Utah) e Boron (California).

A che cosa è dovuta l'importanza della Svezia nella storia degli elementi? Nel corso di questo libro ho cercato di trasmettere l'idea che la nostra familiarità con gli elementi abbia attinenza con la dimensione culturale, senza passare per un laboratorio: conosciamo il neon e il sodio per le loro luci, lo iodio per la sua tintura marrone, il cromo per la lucentezza dei suoi rivestimenti a buon mercato. Altri elementi — come lo zolfo, l'arsenico e il plutonio — ci sono invece noti, in genere, per la loro reputazione piuttosto che per uso diretto. Stando a questi criteri, le scoperte svedesi sono perlopiù oscure: includono metalli come il manganese e il molibdeno, oltre a una buona parte delle cosiddette «terre rare», un gruppo che comprende tutti quegli elementi che hanno preso direttamente il nome da località svedesi. Essi non hanno lasciato un segno, nel senso che non sono stati associati a sensazioni umane, sgradevoli o piacevoli che siano; anch'essi, tuttavia, hanno una connessione culturale, una connessione che, come suggerisce la loro toponimia, scende in profondità. Parigi e Londra rivelarono al mondo nuovi elementi perché erano grandi centri di vita intellettuale; Berkeley e Dubna furono i siti scelti per l'installazione delle sofisticate apparecchiature necessarie per creare gli elementi più pesanti, che nella tavola periodica si collocano oltre l'uranio. Questa logica non può però essere applicata al caso della Svezia, i cui elementi scaturirono dalla terra stessa del Paese.

Al fine di imparare qualcosa di più su questo fertile grembo di elementi — e sugli uomini di scienza che erano lì, pronti a fare da levatrici — ho deciso di visitare la Svezia di persona per capire come sia stato possibile che due città ai margini dell'Europa (una poco più grande di una cittadina di provincia) abbiano mantenuto per più di un secolo e mezzo un vantaggio su Parigi e Londra in questa corsa alle scoperte. Durante la prima metà del XVII secolo, la Svezia divenne per breve tempo la nuova superpotenza dell'Europa settentrionale, invadendo la Norvegia, la Finlandia, parte della Russia, della Germania del Nord e l'area oggi occupata dagli Stati Baltici. Alla base di questa espansione c'erano le enormi riserve svedesi di ferro e di rame, che le fornivano la necessaria potenza militare ed economica. Col tempo queste ambizioni imperiali vennero soppiantate da una nuova idea, più attraente, quella della Scandinavia, ma le attività minerarie proseguirono, e fu proprio grazie a queste miniere, durante gli anni del lento declino della Svezia, che essa diede il suo generoso contributo alla tavola periodica. Mentre il mio aereo sorvola laghi e foreste dirigendosi verso Stoccolma, medito su questa storia e su come si rifletta negli elementi svedesi, i cui nomi divennero via via sempre meno legati al territorio a ogni successiva scoperta, da quella dell'ittrio nel 1794 a quella dello scandio nel 1879.

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Il cerio venne scoperto dal più grande di tutti i chimici svedesi, Jφns Jacob Berzelius. A differenza di alcuni suoi compatrioti più ritrosi, egli aveva l'abitudine di pubblicare con tempestività i risultati a cui era giunto, teneva una vivace corrispondenza con i suoi colleghi sparsi per il mondo e riceveva le visite dei chimici nel suo laboratorio. Se oggi il suo nome non compare nei testi di storia della scienza più diffusi, la colpa va imputata soltanto ai pregiudizi occidentali.

Il mondo minerale non fu il primo amore di Berzelius. Nato nel 1779, diventò maggiorenne in un'epoca in cui i giorni gloriosi della scienza svedese sembravano ormai appartenere al passato: l'ingegnoso farmacista Scheele era morto, così come i mineralogisti Brandt e Gahn — che avevano identificato nuovi metalli simili al ferro nei minerali delle miniere reali — e come Carl Linnaeus , il botanico di fama mondiale che aveva osato pensare che l'uomo potesse classificare l'intera natura, partendo nel migliore dei modi, con l'introduzione della sua nomenclatura binomiale.

Berzelius, che aveva studiato fisica ed era affascinato, come molti scienziati dell'epoca, dagli effetti della corrente elettrica sugli organismi viventi, voleva comprendere il segreto della vita. A tal fine, avrebbe dovuto innanzitutto confutare le teorie del vitalismo, allora di moda, e offrire una spiegazione più razionale della fisiologia animale e umana. Un primo, utile passo in avanti consisteva nell'indicare questo campo con l'espressione «chimica animale». Per un breve periodo, all'inizio del XIX secolo, l'argomento divenne un tema scottante nel dibattito scientifico: un «Club della chimica animale», costituitosi come speciale gruppo di interesse all'interno della Royal Society di Londra, annoverava fra i suoi frequentatori regolari Humphry Davy e aveva lo stesso Berzelius come membro onorario attivo. I problemi scientifici sottesi a questi temi, però, si dimostrarono in gran parte insormontabili. In ogni caso, le sfide poste dalla chimica della vita affinarono comunque il talento di Berzelius come chimico analitico ed egli riuscì a guadagnarsi l'appoggio di un ricco imprenditore minerario, Wilhelm Hisinger; nonostante la sua dichiarata antipatia per la chimica inorganica, anche Berzelius, come molti altri scienziati svedesi prima di lui, non poté far altro che rispondere alla chiamata della terra.

A Berzelius dobbiamo l'introduzione di diversi attrezzi di laboratorio oggi familiari, come i tubi di gomma e la carta filtrante; tuttavia, a differenza di Bunsen col suo becco o di Davy con la sua lampada di sicurezza per i minatori, egli non riuscì a dare a questi oggetti il proprio nome. Alcuni termini e concetti da lui ideati si sono dimostrati talmente utili da non poter essere confinati al solo lessico scientifico: «catalisi» e «proteina», per esempio, sono due suoi neologismi. Il prezioso lavoro da lui svolto sulle proporzioni in cui gli elementi e i loro composti si combinano gli uni con gli altri sostenne la teoria degli atomi avanzata dal quacchero inglese John Dalton e, per la prima volta, diede alla chimica una solida base quantitativa. Fu sempre Berzelius ad accorgersi della necessità di una notazione abbreviata per indicare gli elementi e fu lui a inventare i simboli chimici moderni: il suo sistema, con un codice di una o due lettere spesso tratte dal nome latino dell'elemento, è diventato un'icona il cui valore va ben oltre i confini della disciplina della chimica. Mettendo assieme queste due ultime idee — la definizione di un simbolo per ciascun elemento e la comprensione di come essi si combinino fra loro in proporzioni fisse — giungiamo inevitabilmente alle prime formule, quelle concatenazioni di lettere e numeri con cui i chimici sono in grado di esprimere ogni cosa e che ai profani sembrano del tutto casuali («Ah, H2SO4, professore!» è il saluto fra due scienziati nella satira di Flanders e Swann sulla polemica di C.P. Snow concernente la separazione fra le «due culture» , quella umanistica e quella scientifica).

Questo sistema di notazione ci sembra oggi familiare e, al contempo, alienante; la sua comparsa nel 1811, però, fu una rivelazione grafica che ebbe conseguenze di vasta portata per la comprensione scientifica della materia. Nei loro laboratori moderni, dopo aver voltato per sempre le spalle alle ricerche alchimistiche, gli scienziati illuministi avevano iniziato a dimostrare di essere in grado di sintetizzare composti semplici che si ritrovano in natura: Lavoisier, per esempio, aveva combinato due gas, l'idrogeno e l'ossigeno, per produrre l'acqua, e gli esotici metalli infiammabili isolati da Davy potevano essere bruciati per ricreare gli ossidi presenti in minerali naturali. Ora, il sistema di Berzelius veniva a cancellare definitivamente ogni possibile distinzione fra l'essenza di un materiale ottenuto da fonti naturali e quella dello stesso materiale prodotto in laboratorio: una volta che una sostanza come l'ammoniaca, per fare un esempio, è stata identificata come «NH3» anziché come «spirito di corno di cervo», risulta subito chiaro che la sua origine — naturale o artificiale che sia — diventa del tutto irrilevante per la definizione della sua essenza.

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