Autore Frans de Waal
Titolo Siamo così intelligenti da capire l'intelligenza degli animali?
EdizioneCortina, Milano, 2016, Scienza e idee 270 , pag. 398, ill., cop.fle., dim. 14x22,5x2,6 cm , Isbn 978-88-6030-836-8
OriginaleAre We Smart Enough to Know How Smart Animals Are? [2016]
TraduttoreLibero Sosio
LettoreCorrado Leonardo, 2017
Classe evoluzione , etologia , scienze naturali , psicologia












 

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Indice


Prologo                                                  11


1. Fonti magiche                                         19

2. Le due scuole                                         45

3. Ripercussioni cognitive                               87

4. Parlami                                              127

5. La misura di tutte le cose                           155

6. Abilità sociali                                      211

7. Lo dirà il tempo                                     259

8. Specchi e barattoli di vetro a chiusura ermetica     297

9. Cognizione evoluzionistica                           333


Bibliografia                                            347
Glossario                                               373
Ringraziamenti                                          379
Indice analitico                                        381


 

 

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Pagina 11

PROLOGO



                                    Non c'è dubbio che la differenza fra la
                                    mente dell'uomo e quella degli animali
                                    superiori sia certamente, per quanto grande,
                                    di grado e non di genere.
                                                                  CHARLES DARWIN



Una mattina di novembre, quando le giornate iniziavano a diventare più fredde, notai che Franje, una femmina di scimpanzé, stava raccogliendo tutta la paglia del suo giaciglio. Se la mise sotto braccio e uscì dirigendosi verso la grande isola del Burgers' Zoo, nella città olandese di Arnhem. Il suo comportamento mi sorprese. Per prima cosa, fino ad allora non aveva mai fatto niente di simile, né avevamo mai visto altri scimpanzé portare fuori della paglia. In secondo luogo, se lo scopo di Franje fosse stato quello di stare al caldo durante il giorno, come sospettavamo, era strano che raccogliesse la paglia all'interno di un edificio riscaldato a una temperatura confortevole. Invece di reagire al freddo, si stava preparando ad affrontare una temperatura che in realtà non poteva sentire. La spiegazione più ragionevole era che avesse previsto che la giornata sarebbe stata fredda basandosi sulla rigidità di quella precedente. In ogni caso, più tardi si godette un bel calduccio insieme al figlio Fons nel nido di paglia che aveva costruito.

Non smetto mai di pormi domande sul livello mentale a cui operano gli animali, anche se so benissimo che una singola storia non basta da sola per trarre conclusioni. Queste storie ispirano però osservazioni ed esperimenti che aiutano a capire che cosa stia accadendo. Lo scrittore di fantascienza Isaac Asimov pare abbia detto una volta: "La frase più emozionante che si può udire nella scienza, quella che annuncia nuove scoperte, non è 'Eureka!', bensì 'Strano!'". Lo so anche troppo bene. Noi affrontiamo un lungo processo in cui osserviamo i nostri animali, siamo incuriositi e non di rado sorpresi dalle loro azioni, esaminiamo sistematicamente le idee che fanno sorgere in noi e discutiamo con i nostri colleghi su quale sia il reale significato dei loro comportamenti. Perciò siamo piuttosto lenti ad accettare conclusioni, e i dissensi saltano fuori da ogni parte. Anche da un'osservazione iniziale semplice (per esempio, una scimmia che raccoglie un fascio di paglia) possono derivare ripercussioni enormi. Oggi la scienza è molto interessata a capire se gli animali facciano piani per il futuro, come sembrava fare Franje. Gli specialisti parlano di viaggi mentali nel tempo, di cronestesia e di autonoesi, ma io eviterò questa terminologia arcana e cercherò di tradurre il tutto in un linguaggio comune. Presenterò storie di uso quotidiano dell'intelligenza animale e offrirò prove concrete di esperimenti controllati. Le prime ci dicono quali fini perseguano le capacità cognitive, mentre le seconde ci aiutano a escludere spiegazioni alternative. Io valuto in egual misura entrambe le cose, anche se mi rendo conto che le storie sono di più facile lettura che gli esperimenti.

[...]

Ma che cosa possiamo dire degli scettici convinti che gli animali siano per definizione intrappolati nel presente e che soltanto gli esseri umani possano prendere in considerazione il futuro? Stanno facendo un assunto ragionevole oppure non vedono con chiarezza ciò di cui gli animali sono capaci? E perché l'umanità è così incline a sottovalutare l'intelligenza animale? Dí solito neghiamo agli animali capacità che diamo per scontate in noi stessi. Che cosa c'è dietro tutto questo? Nel tentativo di trovare a quale livello mentale operino altre specie, la vera sfida non ci viene solo dagli animali, ma anche da dentro di noi. Gli atteggiamenti, la creatività e l'immaginazione umani costituiscono una grande parte di questa storia. Prima di domandarci se gli animali posseggano o meno un certo tipo di intelligenza, specialmente quella che noi tanto apprezziamo in noi stessi, dobbiamo superare la nostra resistenza interna anche solo a considerare questa possibilità. Di qui la domanda centrale che ci poniamo in questo libro: "Siamo così intelligenti da capire l'intelligenza degli animali?".

La risposta breve è: "Sì, ma chi avrebbe potuto immaginarlo?". Per gran parte del secolo scorso, la scienza è stata estremamente cauta e scettica rispetto all'intelligenza degli animali. L'attribuzione ad animali di intenzioni ed emozioni era vista come un'ingenua assurdità "popolare". Noi scienziati, però, la sapevamo più lunga! Noi non saremmo mai incappati in frasi come "Il mio cane è geloso", o "La mia gatta sa quello che vuole", figuriamoci in cose più complicate, come la capacità degli animali di riflettere sul passato o di sentire empaticamente in modo reciproco le loro sofferenze. Gli studiosi del comportamento animale o non si curavano della cognizione o le si opponevano attivamente, manifestando verso di essa un profondo dissenso. Per fortuna c'erano delle eccezioni – e farò in modo di parlarne diffusamente, dal momento che amo la storia del mio campo di studio –, ma le due scuole di pensiero dominanti consideravano gli animali o come macchine stimolo-risposta in grado di ottenere gratificazioni o di evitare punizioni, o come robot dotati geneticamente di istinti utili. Benché ognuna di queste due scuole combattesse l'altra e la ritenesse troppo limitata, esse condividevano un punto di vista fondamentalmente meccanicistico: non c'era alcun bisogno di preoccuparsi della vita interiore degli animali, e chiunque lo facesse veniva accusato di antropomorfismo o di romanticismo, se non addirittura di essere fuori della scienza.

Si doveva passare necessariamente per un periodo così deprimente? In precedenza il pensiero era stato notevolmente più libero. Darwin aveva scritto estesamente sulle emozioni umane e animali, e più di uno scienziato nell'Ottocento si era sforzato di trovare negli animali forme di intelligenza superiore. Rimane un mistero perché questi sforzi fossero stati temporaneamente sospesi, e perché si sia volontariamente appesa una pietra da macina al collo della biologia – espressione con cui il grande evoluzionista Ernst Mayr descrisse la visione cartesiana degli animali come automi muti. Ma i tempi stanno cambiando. Tutti avranno notato la valanga di informazioni che negli ultimi decenni si sono diffuse rapidamente su Internet. Quasi tutte le settimane c'è una nuova scoperta che riguarda livelli complessi di cognizione animale, spesso con videoriprese a confermarli. Sentiamo dire che i ratti possono pentirsi di aver preso certe decisioni, che le cornacchie si costruiscono degli strumenti, che i polpi riconoscono le facce umane e che speciali neuroni permettono alle scimmie di imparare le une dagli errori delle altre. Noi parliamo apertamente di cultura negli animali, così come della loro empatia e delle loro amicizie. Ormai non si esclude più niente, nemmeno quella razionalità che una volta era considerata il marchio distintivo dell'umanità.

In tutto questo, amiamo mettere a confronto e a contrasto l'intelligenza animale e quella umana, prendendo noi stessi come pietra di paragone. È bene, però, rendersi conto che questo è un modo un po' antiquato di presentare le cose. Il confronto non è fra gli esseri umani e gli animali, ma fra una specie animale – la nostra – e una grande varietà di altre. Anche se per lo più adotterò il termine "animali" in riferimento a quelli che siamo soliti chiamare in tal modo, è innegabile che anche gli esseri umani siano propriamente animali. Non stiamo perciò confrontando due categorie separate di intelligenza bensì variazioni all'interno di una singola categoria. Io considero la cognizione umana una varietà della cognizione animale. Non è chiaro nemmeno in che modo sia speciale la nostra cognizione rispetto a una cognizione distribuita su otto arti mobili indipendenti, ognuno dei quali dotato di un proprio apparato neurale, o a una cognizione che permette a un organismo volante di catturare prede mobili captando gli echi dei propri gridi.

È evidente che noi attribuiamo una grandissima importanza al pensiero astratto e al linguaggio (una tendenza che non intendo certo negare proprio mentre sto scrivendo un libro!), ma nel grande quadro generale questo è soltanto uno dei modi per affrontare il problema della sopravvivenza. Se consideriamo il problema solo in relazione al numero degli individui e della biomassa, formiche e termiti potrebbero essersela cavata molto meglio di noi, concentrandosi su una stretta coordinazione fra i membri di una colonia piuttosto che sul pensiero individuale. Ogni società opera come una mente autorganizzata, anche se sgambetta su migliaia di piccoli piedi. Esistono molti modi per elaborare, organizzare e diffondere informazioni, e solo da poco tempo la scienza ha raggiunto un'apertura mentale sufficiente per trattare tutti questi metodi diversi con stupore e ammirazione anziché con rifiuto e negazione.

È vero, quindi, che siamo così intelligenti da apprezzare altre specie, ma ciò ha richiesto che martellassimo costantemente la nostra testa dura con centinaia di fatti che all'inizio erano disdegnati dalla scienza. Vale la pena di riflettere su come e perché siamo diventati meno antropocentrici e ci siamo liberati da molti pregiudizi mentre consideriamo tutto ciò che abbiamo appreso nel frattempo. Nel ripercorrere questi sviluppi, introdurrò inevitabilmente la mia opinione, che sottolinea la continuità dell'evoluzione a scapito dei dualismi tradizionali. I dualismi fra corpo e mente, fra uomo e animale, fra ragione ed emozione possono sembrare utili, ma ci distraggono seriamente dalla visione più ampia. La mia formazione di biologo e di etologo mi ha lasciato poca pazienza per lo scetticismo paralizzante del passato. Dubito che valesse la pena di sprecare il mare d'inchiostro che noi tutti, me compreso, abbiamo versato su questo argomento.

Scrivendo questo libro non cercherò di fornire una rassegna generale e sistematica del campo della cognizione evoluzionistica. I lettori potranno trovare rassegne del genere in altri libri, più tecnici. Farò invece una selezione fra molte scoperte, specie e scienziati in modo da trasmettere le emozioni maggiori degli ultimi vent'anni. Il mio campo di specializzazione è il comportamento e la cognizione dei primati, un'area che ha molto influito su altre aree di studio perché è stata all'avanguardia nelle scoperte. Avendo fatto parte di questo campo a partire dagli anni Settanta, ho conosciuto in prima persona molti protagonisti – tanto umani quanto animali –, cosa che mi permette di aggiungere un tocco personale a quanto racconto. C'è storia in abbondanza su cui vale la pena di soffermarsi. La crescita di questo campo è stata un'avventura – qualcuno direbbe un giro sulle montagne russe –, ma rimane affascinante, visto che il comportamento, come suggerì l'etologo austriaco Konrad Lorenz , è l'aspetto più vivace di tutto ciò che vive.

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FONTI MAGICHE



                                        Ciò che osserviamo non è la natura in
                                        se stessa ma la natura esposta ai nostri
                                        metodi d'indagine.
                                                        WERNER HEISENBERG (1959)



COME SI DIVENTA UNO SCARAFAGGIO



Aprendo gli occhi al risveglio, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Dotato di un duro esoscheletro, quel "mostruoso essere" si nascondeva sotto il sofà, camminava su e giù sulle pareti e sul soffitto, e gli piacevano i cibi andati a male. La trasformazione del povero Gregor sconvolse e disgustò la famiglia al punto che la sua morte venne accolta come un sollievo.

Il racconto di Franz Kafka , La metamorfosi, edito nel 1915, si apriva in un modo molto strano, salvo che per un mondo meno antropocentrico. Avendo scelto un essere repellente per conferirgli un effetto metaforico, l'autore ci ha costretti fin dalla prima pagina a immaginare che cosa significhi essere simili a un immondo scarafaggio. Pressappoco nello stesso periodo il biologo tedesco Jakob von Uexküll richiamò l'attenzione sul punto di vista degli animali, che definì introducendo il termine Umwelt. Per illustrare questo nuovo concetto (in tedesco Umwelt significa "mondo circostante, ambiente"), Uexküll ci guidò in un percorso attraverso vari mondi. Ogni organismo, disse Uexküll, percepisce l'ambiente nel suo modo proprio. La zecca, priva di occhi, si arrampica su uno stelo d'erba in attesa di percepire l'odore dell'acido butirrico emanato dalla pelle dei mammiferi. Poiché gli esperimenti hanno mostrato che questo acaro può rimanere per diciotto anni senza cibo, la zecca ha abbondanza di tempo per incontrare un mammifero, lasciarsi cadere sulla sua vittima e rimpinzarsi di sangue caldo, dopo di che è pronta a deporre le uova e morire. Noi possiamo capire l' Umwelt della zecca? Questo ambiente sembra incredibilmente impoverito rispetto al nostro, ma Uexküll vide nella sua semplicità un punto di forza: l'ambiente della zecca è ben definito e questo acaro si imbatte raramente in distrazioni.

Uexküll passò in rassegna altri esempi, mostrando che un singolo ambiente offre centinaia di realtà peculiari a ogni specie. La nozione di Umwelt è del tutto diversa da quella di nicchia ecologica, la quale concerne l'habitat di cui un organismo ha bisogno per sopravvivere. L' Umwelt definisce invece il mondo autocentrico, soggettivo, di un organismo, che rappresenta solo una piccola parte di tutti i mondi disponibili. Secondo Uexküll le varie parti non sono mai "comprese né discernibili" da tutte le specie che vi vivono. Alcuni animali, per esempio, percepiscono la luce ultravioletta, mentre altri vivono in un mondo di odori o, come la talpa dal muso stellato, sono in grado di orientarsi sottoterra. Alcuni dormono sui rami di una quercia, altri vivono sotto la sua corteccia, mentre una famiglia di volpi si scava una tana fra le sue radici. Ogni specie animale percepisce lo stesso albero in un modo differente.

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Pagina 23

Quest'onore era stato assegnato, e giustamente, a Donald Griffin. Con l'aiuto di attrezzature in grado di scoprire onde sonore al di sopra della gamma di 20 kHz (la massima udibile dall'orecchio umano normale), questo etologo americano aveva condotto gli esperimenti più convincenti, i quali mostrarono inoltre che l'ecolocazione non è solo un sistema di allarme contro il rischio di collisioni. Gli ultrasuoni servono a individuare e inseguire prede, da grandi falene a piccoli insetti volanti. I pipistrelli possiedono un'arma per la caccia incredibilmente versatile.

Non sorprende che Griffin sia diventato uno fra i primi fautori della cognizione animale – un termine che venne considerato un ossimoro fino agli anni Ottanta avanzati – perché che cos'è la cognizione se non elaborazione dell'informazione? La cognizione è la trasformazione mentale dell'input sensoriale in conoscenza dell'ambiente e l'applicazione flessibile di questa conoscenza. Mentre il termine cognizione si riferisce a questo processo, l' intelligenza insiste di più sulla capacità di applicarlo con successo. Il pipistrello lavora su un immenso apporto di dati sensoriali, anche se ci rimangono estranei. La sua corteccia uditiva valuta i suoni che rimbalzano sugli oggetti, dopo di che usa questa informazione per calcolare la propria distanza dal bersaglio, nonché il movimento e la velocità del bersaglio stesso. Come se questo non fosse un compito abbastanza complesso, il pipistrello corregge inoltre la sua traiettoria e distingue le sue vocalizzazioni da quelle dei pipistrelli vicini: una forma di autoriconoscimento.

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Pagina 36

La lezione che se ne deve trarre è che prima di sottoporre a test un qualsiasi animale occorre conoscerne il comportamento naturale. Non è in discussione il potere del condizionamento; il fatto è che i primi ricercatori avevano trascurato totalmente un elemento di cruciale importanza ignorando la raccomandazione di Lorenz a considerare l'organismo nella sua interezza. Gli animali presentano molte risposte incondizionate, ossia comportamenti che si sviluppano naturalmente in tutti i membri della specie. Premi e punizioni possono incidere su tali comportamenti ma non possono crearli. La ragione per cui tutti i gatti rispondevano nello stesso modo dipendeva dalla naturale comunicazione dei felini più che da un condizionamento operante.

Gli studi sulla cognizione evoluzionistica richiedono di considerare ogni specie nel suo complesso. Sia che studiamo l'anatomia della mano, la multifunzionalità del tronco, la percezione delle facce o i rituali di saluto, dobbiamo conoscere tutti gli aspetti dell'animale e della sua storia naturale prima di spingerci a capire quale sia il suo livello cognitivo. Invece di sottoporre a test animali su abilità nelle quali noi siamo particolarmente capaci — sulle fonti magiche della nostra specie, come il linguaggio —, perché non dovremmo valutarli sulla base delle loro specializzazioni? Così facendo, non appiattiremmo la scala naturae di Aristotele, ma la trasformeremmo in un cespuglio con molti rami. Questo cambiamento di prospettiva ci mostra che non dobbiamo ricercare forme di vita intelligente soltanto ai confini dello spazio e con grande dispendio di denaro ed energie. La vita intelligente abbonda infatti qui sulla Terra, proprio sotto i nostri nasi non prensili.




ANTROPODINIEGO



Gli antichi Greci credevano che il centro dell'universo fosse proprio dove vivevano loro. Quale luogo migliore della Grecia poteva permettere agli scienziati moderni di comprendere il posto dell'umanità nell'universo? In una giornata di sole del 1996 un gruppo internazionale di accademici visitò l' omphalos (l'ombelico) del mondo: una grande pietra a forma di alveare fra le rovine del tempio sul Monte Parnaso. Davanti a questa pietra, non potei resistere alla tentazione di darle delle pacche come a un amico perduto da molto tempo. Proprio vicino a me c'era il "batman" Don Griffin, scopritore dell'ecolocazione e autore del libro L'animale consapevole, in cui si lamentava dell'errata percezione che tutto nel mondo ruoti intorno a noi e che noi siamo gli unici esseri coscienti.

Per una curiosa ironia, uno dei temi principali del nostro seminario era il principio antropico, secondo il quale l'universo è una creazione adatta unicamente a esseri intelligenti, ossia a noi. A volte sembrava che i filosofi antropici credessero che il mondo fosse fatto per noi, e non viceversa. Il pianeta Terra si trova esattamente alla giusta distanza dal Sole per produrre la giusta temperatura per la vita umana e la sua atmosfera ha il livello ideale di ossigeno. Che fortuna! Invece di pensare che il mondo è fatto per noi, ogni biologo capovolge la connessione causale e fa notare che siamo noi a essere adattati alle caratteristiche del pianeta. Ecco spiegato come il mondo sia perfetto per noi. Le profondità degli oceani, con i loro ambienti vulcanici, sono un ambiente ottimale per i batteri che prosperano in prossimità dei caldissimi materiali solforici da essi eruttati, ma nessuno sostiene che queste bocche vulcaniche siano state create a beneficio dei batteri termofili. Piuttosto, noi comprendiamo bene come la selezione naturale abbia prodotto batteri in grado di sopravvivere vicino ai vulcani.

La logica retrograda di questi filosofi mi ricordò un creazionista che una volta, sbucciando una banana in televisione, spiegava che il frutto è incurvato in modo tale da essere angolato convenientemente verso la nostra bocca quando lo teniamo in mano. La banana, dunque, era perfettamente adatta alla nostra bocca. Ovviamente quel filosofo pensava che fosse stato Dio a dare alla banana la sua forma human-friendly, dimenticando che teneva in mano un frutto domestico, coltivato dall'uomo per l'uomo.

Durante alcune di queste discussioni, Don Griffin e io osservavamo le rondini dei fienili che entravano e uscivano in volo dalla finestra aperta della sala delle conferenze portando bocconi di fango per i loro nidi. Griffin era più vecchio di me di almeno tre decenni e aveva una cultura impressionante: sapeva citare i nomi latini degli uccelli e descrivere dettagli dei loro periodi di incubazione. Al seminario presentò la sua visione della coscienza: ossia che dev'essere parte integrante di tutti i processi cognitivi, compresi quelli degli animali. La mia posizione è leggermente diversa. Preferisco non fare affermazioni così risolute su qualcosa di così scarsamente definito come la coscienza. Pare che nessuno sappia che cosa sia la coscienza. Per la stessa ragione, però, mi affretto ad aggiungere che non l'avrei mai negata ad alcuna specie. Per quanto ne so, anche una rana potrebbe essere cosciente. Griffin assunse un atteggiamento più positivo dicendo che, poiché in molti animali sono osservabili azioni intenzionali, intelligenti, e poiché nella nostra specie esse si accompagnano a consapevolezza, è ragionevole supporre che stati mentali simili esistano anche in altre specie.

Che uno scienziato così altamente rispettato e preparato avesse potuto fare un'affermazione così decisa ebbe un effetto potentemente liberatorio. Anche se Griffin venne fortemente osteggiato per avere fatto affermazioni che non poteva confermare con dati empirici, molti critici si lasciarono sfuggire il punto cruciale, ossia che l'assunto che gli animali sono "stupidi" altro non è che un'affermazione priva di supporto oggettivo. È molto più logico supporre che ci sia una continuità, disse Griffin, riecheggiando la ben nota osservazione di Charles Darwin secondo cui la differenza mentale fra gli esseri umani e gli altri animali sia di grado e non di genere.

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La proposta di Griffin di prendere sul serio la cognizione animale condusse a una nuova definizione di questo campo: l' etologia cognitiva. È un'etichetta importante e io, essendo un etologo, so esattamente che cosa egli intendeva. Purtroppo, il termine etologia non ha attecchito universalmente e i correttori ortografici continuano ancora a emendarlo regolarmente in etnologia, etiologia o eziologia, o addirittura in teologia. Non sorprende che oggi molti etologi chiamino se stessi biologi del comportamento (behavioral biologists). Altre etichette esistenti per l'etologia cognitiva sono la cognizione animale e la cognizione comparata. Ma anche questi termini hanno delle carenze. La cognizione animale non include gli esseri umani, cosicché finisce col perpetuare non intenzionalmente l'idea di una distanza fra gli esseri umani e gli altri animali. L'etichetta comparata, d'altra parte, rimane agnostica sul come e il perché noi facciamo comparazioni. Essa non accenna ad alcuno schema per interpretare somiglianze e differenze, e meno che mai una somiglianza o una differenza evoluzionistica. Anche all'interno di questa disciplina ci sono state discussioni per la sua carenza teorica oltre che per la sua abitudine di dividere gli animali in forme "superiori" e "inferiori". L'etichetta deriva dalla psicologia comparata, il nome di una disciplina che ha tradizionalmente considerato gli animali come controfigure degli esseri umani: una scimmia è un essere umano semplificato, un ratto è una scimmia semplificata, e via dicendo. Poiché si pensava che l'apprendimento associativo spiegasse il comportamento in tutte le specie, uno dei fondatori del behaviorismo, Burrhus F. Skinner pensò che non avesse molta importanza su quale tipo di animale si lavorasse. Per dimostrare questo punto egli intitolò un libro dedicato interamente a ratti albini e piccioni, The Behavior of Organisms.

Per queste ragioni Lorenz disse una volta per scherzo che non c'era niente di comparato nella psicologia comparata. Sapeva di che cosa stava parlando avendo appena pubblicato uno studio molto influente sui modelli di corteggiamento di venti diverse specie di anatra. La sua sensibilità per le minime differenze fra specie era del tutto opposta al modo in cui gli psicologi comparati raccoglievano insieme gli animali come "modelli non umani di comportamento umano".

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La differenza fra behaviorismo ed etologia è sempre stata una differenza fra comportamenti controllati dall'uomo e comportamenti naturali. I behavioristi cercavano di imporre dei comportamenti agli animali chiudendoli in ambienti vuoti in cui essi potevano fare ben poche altre cose oltre a ciò che voleva lo sperimentatore: se non lo facevano, il loro comportamento veniva definito "sbagliato". Per esempio, è quasi impossibile addestrare procioni o orsetti lavatori a mettere delle monete in un salvadanaio, perché preferiscono averle sempre disponibili per toccarle di continuo, un comportamento perfettamente normale per animali abituati ad andare continuamente in giro alla ricerca di cibo nell'intento di formarne delle scorte per la stagione fredda. Skinner non aveva alcun interesse per quelle propensioni naturali e preferiva un linguaggio di controllo e di dominio. Parlava di ingegneria comportamentale e di manipolazione, e non solo in relazione agli animali. Più tardi nel corso della vita tentò di trasformare degli esseri umani in cittadini felici, produttivi ed "efficaci in modo massimale". Benché non ci sia dubbio che il condizionamento operante sia un'idea solida e valida, e un modificatore potente del comportamento, il grande errore del behaviorismo è stato quello di considerarlo l'unica forza in gioco.

Gli etologi, d'altra parte, sono più interessati al comportamento spontaneo. I primi furono alcuni francesi del Settecento che usavano già l'etichetta etologia, derivata dalla parola greca ethos (comportamento, norma, carattere), in riferimento allo studio di caratteristiche tipiche di una specie. Nel 1902 il grande naturalista americano William Morton Wheeler rese popolare il termine ethology, inteso come lo "studio delle abitudini e degli istinti". Gli etologi facevano esperimenti e non avevano nulla in contrario a lavorare con animali in cattività, ma c'era ancora un mondo di differenza fra Lorenz che chiamava le sue taccole dal cielo o che veniva seguito in terra da un branco di papere e Skinner che stava in piedi davanti a file di gabbie nelle quali erano alloggiati singoli piccioni e che chiudeva saldamente le mani intorno alle ali di uno di essi.

L'etologia sviluppò il suo linguaggio specializzato sugli istinti, fissò modelli di azione (i comportamenti specifici di una specie, come lo scodinzolamento del cane), gli evocatori innati (stimoli che evocano un comportamento specifico, come il pallino rosso sul becco di un gabbiano, che induce i piccoli affamati a beccarlo), attività di spostamento (azioni apparentemente irrilevanti risultanti da tendenze conflittuali, come grattarsi prima di prendere una decisione), e via dicendo. Senza entrare nei dettagli della sua cornice classica, l'interesse centrale dell'etologia si concentrava sul comportamento che si sviluppa naturalmente in tutti i membri di una data specie. Un questione centrale era il fine a cui poteva servire un comportamento. Inizialmente il grande architetto dell'etologia fu Lorenz, ma dopo il suo incontro con Tinbergen nel 1936 fu quest'ultimo a mettere a punto le idee e a sviluppare i test critici. Tinbergen fu il ricercatore più analitico ed empirico dei due, con un occhio eccellente per le domande che si celavano dietro il comportamento osservabile; egli condusse esperimenti sul campo su vespe scavatrici (sfecidi), spinarelli e gabbiani per definirne le funzioni comportamentali.

I due stabilirono una relazione e un'amicizia complementari, relazione che fu messa alla prova dalla Seconda guerra mondiale, nella quale si trovarono in campi opposti. Lorenz servì come ufficiale medico e simpatizzò opportunisticamente con la dottrina nazista. Tinbergen venne imprigionato per due anni dagli occupanti tedeschi dell'Olanda per essersi unito a una protesta sul modo in cui venivano trattati all'università i suoi colleghi ebrei. Cosa notevole, i due scienziati si rappacificarono dopo la guerra grazie alla passione condivisa per il comportamento animale. Lorenz era il pensatore carismatico, grandioso — che non realizzò mai un'analisi statistica nella sua vita — mentre Tinbergen fece il lavoro paziente e noioso della raccolta dei dati. Io ho assistito a discorsi fatti da entrambi e posso confermarne la differenza. Tinbergen si presentava come un accademico asciutto e ponderato, mentre Lorenz affascinava il pubblico con il suo entusiasmo e la sua intima conoscenza degli animali. Desmond Morris , un allievo di Tinbergen famoso per avere scritto La scimmia nuda e altri libri molto popolari, fu sorpreso assai piacevolmente dalle grandi lodi elargitegli da Lorenz, riconoscendo che lo scienziato austriaco capiva gli animali meglio di chiunque altro lui avesse mai conosciuto.

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Pagina 66

Kluger Hans

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Per capire in che modo l'evoluzione operi la sua magia nelle sue diverse ramificazioni, invochiamo spesso i concetti gemelli dell' omologia e dell' analogia. L'omologia si riferisce ai tratti condivisi derivati da un progenitore comune. Così la mano umana è omologa all'ala di un pipistrello, dal momento che derivano entrambe da un arto anteriore ancestrale e hanno esattamente lo stesso numero di ossa a dimostrarlo. Le analogie, invece, si verificano quando animali lontani sull'albero genealogico si evolvono in una medesima direzione (evoluzione convergente). La cura parentale del pesce disco è analoga all'allattamento dei mammiferi, ma certamente non omologa, dal momento che pesci e mammiferi non condividono un comune progenitore che facesse la stessa cosa. Un altro esempio è il fatto che i delfini, gli ittiosauri (rettili marini estinti) e i pesci hanno forme sorprendentemente simili, dovute a un ambiente in cui un corpo idrodinamico con pinne favorisce velocità e manovrabilità. Poiché delfini, ittiosauri e pesci non condividono un antenato acquatico, le loro forme non sono omologhe bensì analoghe. La predisposizione al riconoscimento delle facce nelle vespe e nei primati ebbe origine indipendentemente, come una sorprendente analogia, fondata sul bisogno di riconoscere singoli compagni di gruppo.

L'evoluzione convergente è incredibilmente potente. Essa ha dotato pipistrelli e balene dell'ecolocazione, ha dato ali sia agli insetti sia agli uccelli, e un pollice opponibile sia ai primati sia agli opossum. Ha prodotto anche specie spettacolarmente simili in regioni geografiche lontane fra loro, come i corpi dotati di corazza di armadilli e pangolini, le difese spinose di ricci e porcospini, e l'armamentario predatorio della tigre della Tasmania e del coyote. C'è persino un primate, la proscimmia Chyromis madascariensis (nota anche come aye-aye o chiromio), che assomiglia a E.T., con il dito medio estremamente allungato (per trovare punti caldi ed estrarre vermi dal legno), un carattere che condivide con un piccolo marsupiale, il triok dalla grande coda (Dactylopsila megalura) della Nuova Guinea. Queste specie vivono in territori lontanissimi fra loro, eppure hanno sviluppato la medesima soluzione funzionale. Non dovremmo perciò sorprenderci di trovare tratti cognitivi e comportamentali simili in specie diverse anche in tempi e continenti molto lontani fra loro. Le ripercussioni cognitive sono comuni proprio perché non sono legate all'albero dell'evoluzione: una stessa capacità può saltar fuori in qualsiasi posto in cui sia necessaria. Invece di valutare queste considerazioni come un argomento contro l'evoluzione cognitiva, come hanno fatto alcuni, si può osservare che essa si adatta perfettamente al modo in cui l'evoluzione opera o attraverso una comune discendenza o attraverso adattamenti a circostanze simili.

Un primo esempio di evoluzione convergente è l'uso di utensili.

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Il primatologo giapponese Tetsuro Matsuzawa esaminò lo sviluppo di questa capacità nella "fabbrica", uno spazio aperto in cui le scimmie portano le loro noci per aprirle su pietre che fungono da incudini, diffondendo nella foresta un ritmo costante di rumori da percussione. I piccoli girano intorno agli adulti impegnati nel lavoro, rubacchiando ogni tanto dei gherigli alle loro madri. In questo modo imparano a conoscere il sapore delle noci come pure la connessione con le pietre. Essi fanno moltissimi tentativi infruttuosi, colpendo le noci con pietre tenute con le mani e i piedi, e a volte spingono noci e pietre disordinatamente in tutte le direzioni. Il fatto che essi tuttavia imparino questa abilità è un grande dimostrazione dell'irrilevanza del rinforzo, poiché nessuna di queste attività viene mai premiata fino a quando, intorno ai tre anni di età, questi scimpanzé immaturi hanno acquisito una coordinazione sufficiente per aprire di quando in quando, accidentalmente, una noce. Solo all'età di sei o sette anni la loro abilità raggiunge il livello di quella dell'adulto.

Quando si affronta il tema dell'impiego degli utensili, gli scimpanzé amano sempre essere al centro della scena, ma ci sono altre tre grandi scimmie antropomorfe — i bonobo, i gorilla e gli oranghi — che, insieme agli scimpanzé, a noi e ai gibboni, formano la famiglia degli ominoidi. Gli ominoidi, che non devono essere confusi con le scimmie minori, sono grandi primati che hanno il torace piatto e sono privi di coda. All'interno di questa famiglia noi siamo la specie più vicina agli scimpanzé e ai bonobo, che sono geneticamente quasi identici a noi. Naturalmente c'è una controversia infuocata su che cosa possa significare esattamente la minuscola differenza dell'1,2 per cento che c'è fra il nostro DNA e il loro, ma non c'è dubbio che queste tre specie formino una stretta famiglia. In cattività l'orango è un maestro assoluto nell'uso degli strumenti, abbastanza abile a fare nodi con stringhe per scarpe e a costruire strumenti. Un giovane maschio fu visto unire tre bastoni, da lui precedentemente appuntiti, innestandoli in due tubi per costruire un lungo bastone in cinque sezioni, da usare per far cadere a terra cibi che erano stati appesi più in alto. Gli oranghi, che sono stati protagonisti di evasioni famose, possono smontare le loro gabbie così pazientemente, di giorno in giorno e di settimana in settimana, conservando viti e bulloni in ordine in luoghi sottratti alla vista, che i sorveglianti non riescono a capire che cosa stanno facendo finché non è troppo tardi. Di contro, fino a poco tempo fa tutto quello che sapevamo sugli oranghi selvatici era che a volte si grattavano il sedere con un bastone oppure che quando pioveva si mettevano un ramo con molte foglie sulla testa. Come poteva una specie così ricca di talento in cattività dare così poche prove delle sua abilità nell'uso degli strumenti quando viveva allo stato di natura? Questa contraddizione fu risolta quando, nel 1999, si scoprì in una torbiera, la tecnologia degli utensili degli oranghi a Sumatra. Questi oranghi estraggono miele dagli alveari con ramoscelli e usano bastoni corti per liberare i semi, di cui si nutrono, dalla cuticola dei peli pungenti dei frutti di Neesia.

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La predisposizione naturale delle cappuccine a battere con costanza su oggetti le predispone ad aprire noci sul campo, in prossimità degli alberi. Il primo naturalista a riferire di questo fenomeno fu, cinque secoli fa, uno spagnolo; più recentemente, un gruppo internazionale di scienziati trovò decine di siti in cui c'era un'intensa attività di apertura di noci nei pressi del luogo della loro caduta dagli alberi all'interno del Parco ecologico di Tietê, nello stato brasiliano di San Paolo. In un determinato sito, le scimmie cappuccine mangiano la polpa di un grande frutto, dopo di che gettano i semi sul terreno. Un paio di giorni dopo tornano per raccoglierli, trovando che nel frattempo si sono asciugati e sono spesso infestati da larve, di cui le scimmie sono ghiotte. Spostandosi con i semi in mano, in bocca e nella coda prensile, alla ricerca di una superficie dura, come per esempio una grande roccia, le scimmie prendevano un sasso più piccolo con il quale battere i semi. Mentre questi sassi sono pressappoco come quelli usati dagli scimpanzé, le scimmie cappuccine sono grandi quanto un gatto di piccole dimensioni, cosicché il martello da loro usato pesa circa un terzo del loro corpo! Agendo letteralmente come operatori di attrezzature pesanti, sollevano il martello ben alto sopra la loro testa per assestare un bel colpo. Una volta aperti i duri semi, le larve sono subito disponibili per il banchetto delle cappuccine.

L'apertura delle noci da parte delle scimmie cappuccine sconvolge profondamente il racconto evoluzionistico tradizionale, che è stato intessuto attorno agli esseri umani e alle scimmie antropomorfe. Secondo questo resoconto, noi non siamo stati gli unici a conoscere un'Età della pietra: i nostri parenti più stretti vivono ancora in essa. Per sottolineare il punto, in una foresta tropicale della Costa d'Avorio è stato riportato in luce, attraverso degli scavi, un sito della tecnologia della pietra usata per percussione (comprendente cumuli di pietre e resti di noci rotte), dove gli scimpanzé devono avere aperto noci usando la percussione con pietre per almeno quattromila anni. Queste scoperte condussero a una storia della cultura litica umano-scimmiesca che regge abbastanza bene, collegandoci ai nostri parenti stretti.

Ecco perché la scoperta di un comportamento simile in un parente più lontano, come la scimmia cappuccina – dotata di una coda prensile! – venne accolta con sorpresa e iniziale scontentezza. Le scimmie minori non si conciliavano con quell'immagine. Quanto più imparavamo, però, tanto più l'apertura delle noci da parte delle scimmie cappuccine in Brasile cominciò ad assomigliare all'apertura di quella delle noci africane da parte degli scimpanzé nell'Africa Occidentale. Eppure, le cappuccine appartengono alle piccole scimmie neotropicali, un gruppo lontano che si staccò trenta o quaranta milioni di anni fa dal resto dell'ordine dei primati. Forse l'uso simile degli utensili fu un caso di evoluzione convergente, dal momento che tanto gli scimpanzé quanto le scimmie cappuccine sono raccoglitori estrattivi. Essi rompono per aprire, distruggono il guscio esterno, e riducono il contenuto in polpa per poterlo mangiare: questo potrebbe essere il contesto in cui si è evoluta la loro elevata intelligenza. D'altra parte, poiché le scimmie cappuccine e gli scimpanzé sono due specie di primati dal cervello grande, dotati della visione binoculare e di mani manipolatrici, esiste innegabilmente fra loro una connessione evolutiva. La distinzione fra omologia e analogia non è sempre così netta come vorremmo che fosse.

A complicare le cose, l'impiego degli utensili fra scimmie cappuccine e scimpanzé potrebbe non essere cognitivamente allo stesso livello. Nel corso di molti anni di lavoro con entrambe le specie, mi sono formato una distinta impressione di come cappuccine e scimpanzé gestiscano la loro attività, che per migliore comprensione del lettore descriverò qui con un linguaggio molto semplice. Gli scimpanzé, come tutte le scimmie, pensano prima di agire. La scimmia antropomorfa forse più consapevole delle sue azioni è l'orango, ma anche gli scimpanzé e i bonobo, nonostante la loro eccitabilità emozionale, giudicano una situazione prima di affrontarla, valutando quale potrà essere il peso delle loro azioni. Spesso trovano le soluzioni nella loro testa, senza bisogno di sperimentare le varie ipotesi. A volte vediamo una combinazione di entrambe le cose, come quando cominciano ad agire secondo un piano prima che esso sia completamente formato, cosa che ovviamente non è insolita nemmeno nella nostra specie. Di contro, la scimmia cappuccina è una macchina che opera freneticamente sulla base del metodo per prove ed errori. Queste scimmie sono iperattive, ipermanipolatrici e non hanno paura di niente. Sperimentano una grande varietà di manipolazioni e possibilità e, una volta scoperta una cosa che funziona, ne imparano subito la lezione. Non si preoccupano di fare tonnellate di errori e raramente rinunciano a un loro piano. Dietro il loro comportamento non c'è molto da ponderare e da pensare; sono spinte più che altro all'azione. Anche se queste scimmie minori finiscono con il trovare le stesse soluzioni delle scimmie antropomorfe, sembrano pervenirvi in un modo diverso.

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Non mi sentirete dire spesso cose come queste, ma io ritengo che l'uomo sia l'unica specie linguistica. Sinceramente non abbiamo prove di una comunicazione simbolica ricca e multifunzionale come la nostra al di fuori della nostra specie. Questa sembrerebbe essere la nostra fonte magica, quella da cui scaturisce qualcosa in cui siamo eccezionalmente bravi. Altre specie sono molto abili nel comunicare i loro processi interiori, come emozioni e intenzioni, o di coordinare azioni e piani tramite segnali non verbali, ma la loro comunicazione non è traducibile in simboli né infinitamente flessibile come il linguaggio. Da un lato è ristretta quasi per intero al qui e ora. Uno scimpanzé può scoprire le emozioni di un altro in reazione a una particolare situazione in corso, ma non può comunicare nemmeno le più semplici informazioni su eventi dislocati nello spazio e nel tempo.

[...]

Ma, come nel caso di moltissimi fenomeni umani maggiori, una volta che li suddividiamo in parti più piccole, potremo trovarne alcune anche altrove. Questo è un procedimento che ho applicato io stesso in alcuni dei miei famosi libri sulla politica, la cultura e persino la morale fra i primati. Elementi di importanza cruciale, come alleanze di potere (in politica) e diffusione di abitudini (cultura), nonché empatia ed equità (moralità), si possono scoprire anche fuori della nostra specie. Lo stesso vale per capacità sottostanti al linguaggio. Le api, per esempio, segnalano con precisione all'alveare l'ubicazione di fonti lontane di nettare e le scimmie minori sono in grado di emettere richiami in sequenze prevedibili che possono assomigliare a una sintassi rudimentale. Il parallelo più curioso è forse la segnalazione referenziale. I cercopitechi delle pianure del Kenya hanno richiami d'allarme distinti per segnalare la presenza di leopardi, di aquile o di serpenti. Questi richiami specifici riguardo ai predatori possono costituire un sistema di comunicazione salvavita poiché pericoli diversi richiedono risposte differenti. Per esempio, la risposta corretta a un segnale d'allarme che annunci la presenza di serpenti è quella di alzarsi in piedi nell'erba alta e guardarsi intorno, risposta che sarebbe invece suicida nel caso di un leopardo in agguato nell'erba. Invece di servirsi di richiami speciali, alcune altre specie di scimmie combinano gli stessi richiami in modi differenti a seconda delle circostanze.

Dopo gli studi sui primati, la solita ripercussione ha fatto aggiungere gli uccelli all'elenco dei segnalatori referenziali. Le cinciallegre, per esempio, hanno un richiamo unico per segnalare la presenza di serpenti, che rappresentano una grave minaccia quando scivolano nei nidi per ingoiare i piccoli. Ma mentre questi tipi di studi hanno contribuito a elevare il profilo della comunicazione animale, sono stati sollevati anche seri dubbi, e i paralleli linguistici sono stati chiamati "specchietti per le allodole", ovvero, una falsa pista. I richiami animali non significano necessariamente ciò che noi pensiamo che significhino: una parte determinante del loro funzionamento consiste nel modo in cui li interpretano coloro che li ascoltano. Soprattutto, è bene tenere a mente che la maggior parte degli animali non impara i richiami così come gli esseri umani imparano le parole: questi sono innati in loro. Per quanto possa essere raffinata la comunicazione naturale negli animali, manca della qualità simbolica e della sintassi aperta che consentono al linguaggio umano la sua infinita versatilità.

[...]

Ciò significa dunque che tutti i tentativi di trovare qualità di tipo vagamente linguistico nella comunicazione animale sono stati uno spreco di tempo, compresi i progetti di addestramento come quelli messi in atto con Ake, Koko, Washoe, Kanzi e altri? Dopo l'articolo di Terrace, i linguisti desiderosi di liberare il loro territorio dagli intrusi pelosi o pennuti, fecero della sterilità delle ricerche sul linguaggio degli animali il loro mantra. Divennero così sprezzanti in materia che in una conferenza del 1980 — che conteneva nel titolo le parole Clever Hans (l'intelligente Hans) — chiesero un bando ufficiale per qualsiasi tentativo di insegnare il linguaggio agli animali. Questa mossa infruttuosa ricordava gli antidarwinisti dell'Ottocento, per i quali il linguaggio era l'unica barriera fra i bruti e l'uomo, compresa la Société Linguistique di Parigi che nel 1866 proibì lo studio delle origini delle lingue. Tali misure riflettono timore intellettuale più che curiosità. Di che cosa hanno paura i linguisti? Avrebbero fatto meglio a tirare fuori la testa dalla sabbia poiché nessun carattere, nemmeno la nostra amata abilità linguistica, viene mai dal nulla. Nulla si evolve tutto d'un tratto, senza antecedenti. Ogni nuovo tratto si inserisce in strutture e processi esistenti. Così l'area di Wernicke, una parte del cervello centrale per il pensiero umano, è riconoscibile nelle grandi scimmie, nelle quali è ingrandita nel lato sinistro, come nell'uomo. Tale fatto solleva ovviamente il problema di quale funzione svolgesse nei nostri progenitori questa particolare regione cerebrale, prima di essere reclutata per il linguaggio. Le connessioni simili sono molte, compreso il gene FoxP2 che influisce sia sul linguaggio umano articolato sia sul fine controllo motorio del canto degli uccelli. La scienza considera sempre più il linguaggio umano e il canto degli uccelli come prodotti di un'evoluzione convergente, dato che gli uccelli canori e gli esseri umani condividono almeno cinquanta geni specificamente connessi all'apprendimento vocale. Nessuno studioso serio dell'evoluzione del linguaggio sarà mai in grado di evitare il confronto con gli animali.

[...]

Gli sforzi immensi che abbiamo compiuto per trovare forme di linguaggio fuori della nostra specie ci hanno condotto, ironicamente, a un maggiore apprezzamento di quanto sia speciale la capacità linguistica. Essa è alimentata dagli specifici meccanismi di apprendimento che permettono a un bambino piccolo di superare ogni altro animale addestrato linguisticamente. Questo è in effetti un esempio eccellente di un apprendimento biologicamente preparato nella nostra specie. Eppure, questa presa di coscienza non invalida affatto le rivelazioni che dobbiamo alle ricerche sul linguaggio animale. Sarebbe come gettare via il bambino con l'acqua sporca. Le ricerche sul linguaggio animale ci hanno infatti dato Alex, Washoe, Kanzi e altri prodigi che hanno aiutato a definire il posto spettante alla cognizione animale nella mappa del sapere. Questi animali hanno convinto gli scettici e insieme il pubblico in genere che nel loro comportamento c'è molto più di un semplice apprendimento mnemonico. Non si può osservare un pappagallo contare mentalmente una quantità di oggetti e poi continuare a credere che questi uccelli sappiano solo pappagallare.

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L'EVOLUZIONE SI FERMA ALLA TESTA UMANA



Dato che la posizione di discontinuità è essenzialmente pre-evoluzionistica, lasciatemi parlar chiaro, e lasciatemela chiamare Neocreazionismo. Il Neocreazionismo non va confuso con il "Disegno intelligente", che è semplicemente il vecchio creazionismo in una nuova veste. Il Neocreazionismo è più sottile, nel senso che accetta l'evoluzione solo a metà. Il suo dogma centrale è che noi discendiamo dalle scimmie antropomorfe per il corpo ma non per la mente. Senza dirlo esplicitamente, suppone che l'evoluzione si sia fermata alla testa umana. Quest'idea rimane prevalente in gran parte delle scienze sociali, in filosofia e negli studi umanistici. Essa considera la nostra mente così originale che non vale la pena di confrontarla con altre menti salvo che per confermare il suo status eccezionale. Perché mai dovremmo preoccuparci di ciò che possono fare altre menti, se non è letteralmente possibile alcun confronto con ciò che possiamo fare noi? Questa visione saltazionistica si fonda sulla convinzione che qualcosa di importante debba essere accaduto dopo che noi ci siamo separati dalle scimmie: un brusco cambiamento negli ultimi milioni di anni o forse ancora dopo. Benché questo evento miracoloso rimanga avvolto nel mistero, è onorato con un termine esclusivo – ominazione – che rimanda a una sorta di scintilla. Chiaramente nessuno studioso attuale oserebbe menzionare una scintilla divina, o tanto meno una creazione speciale, ma lo sfondo religioso di questa concezione è difficile da negare.

In biologia la nozione secondo cui "l'evoluzione si ferma alla testa" è nota come il "problema di Wallace". Alfred Russel Wallace fu un grande naturalista inglese che visse al tempo di Charles Darwin ed è considerato colui che concepì contemporaneamente a lui l'evoluzione per selezione naturale. Questa idea è nota in effetti anche come teoria di Darwin e Wallace. Anche se Wallace non aveva decisamente alcuna difficoltà con la nozione di evoluzione, tracciò però una linea di demarcazione in prossimità della mente umana. Egli era così impressionato da quella che chiamava la dignità umana da non poter sopportare i confronti con le scimmie. Darwin credeva che tutti i caratteri di un animale fossero utilitaristici, che fossero buoni solo in quanto strettamente necessari per la sopravvivenza, mentre Wallace pensava che dovesse esserci un'eccezione a questa regola: la mente umana appunto. Perché persone che vivono una vita ordinaria dovrebbero avere bisogno di un cervello capace di comporre sinfonie o di sviluppare teorie matematiche? "La selezione naturale", scrisse, "avrebbe potuto dotare i selvaggi di un cervello anche solo leggermente superiore a quello di una scimmia, mentre in realtà esso è solo di poco inferiore a quello di un membro medio delle nostre società colte". Durante i suoi viaggi nel Sud Est asiatico, Wallace aveva concepito un grande rispetto per le persone non alfabetizzate, cosicché il fatto di definirle "solo di pochissimo inferiori" fu un grande passo avanti rispetto alle concezioni razziste prevalenti al suo tempo, secondo le quali l'intelletto dei "selvaggi" sarebbe stato intermedio fra quello di una scimmia antropomorfa e quello di un uomo occidentale. Pur non essendo religioso, Wallace attribuiva il surplus del potere cerebrale dell'umanità all'"universo invisibile dello spirito". Nulla di meno sarebbe stato sufficiente per spiegare l'anima umana. Darwin fu profondamente disturbato nel vedere il suo rispettato collega invocare la mano di Dio, per quanto in un modo così camuffato. Non c'era assolutamente alcun bisogno di una spiegazione soprannaturale. Tuttavia il problema di Wallace ha ancora un grande rilievo negli ambienti accademici desiderosi di mantenere la mente umana fuori delle grinfie della biologia.

Io ho avuto recentemente occasione di seguire una conferenza di un importante filosofo che ci affascinò con la sua interpretazione della coscienza, fino a quando aggiunse, quasi per un ripensamento, che "ovviamente" gli esseri umani ne hanno infinitamente di più di qualsiasi altra specie. Mi grattai la testa – che nei primati è un segno di un conflitto interiore – perché fino ad allora aveva dato l'impressione di cercare una spiegazione evoluzionistica. Aveva menzionato l'esistenza di un'immensa interconnettività nel cervello, dicendo che la coscienza deriva dal numero e dalla complessità delle connessioni neurali. Ho sentito spiegazioni simili da esperti di robot, i quali pensano che, se si connette a un computer un numero sufficiente di microchip, ne sorgerà necessariamente la coscienza. Sono disposto a crederci, anche se nessuno sembra sapere in che modo l'interconnettività produca la coscienza e nemmeno che cosa la coscienza esattamente sia.

L'insistenza sulle connessioni neurali mi ha indotto, però, a domandarmi come dobbiamo valutare gli animali che hanno un cervello più grande del nostro, il cui peso si aggira intorno a 1,35 chili. Che cosa possiamo dire del cervello di un delfino, che pesa un chilo e mezzo circa, di quello dell'elefante, di 4 chili, o di quello del capodoglio, di 8 chili? Questi animali sono forse più coscienti di noi? Oppure dipende dal numero di neuroni? Sotto questo aspetto il quadro è meno chiaro. Per molto tempo si è pensato che il nostro cervello contenesse più neuroni di qualsiasi altro sul pianeta, a prescindere dalla sua grandezza, ma oggi sappiamo che il cervello dell'elefante ne ha un numero triplo: 257 miliardi per la precisione. I neuroni sono però distribuiti diversamente: la maggior parte di quelli dell'elefante, per esempio, sono nel suo cervelletto. Si è congetturato pure che l'elefante, in ragione della sua mole, abbia molte connessioni fra aree lontane fra loro, una specie di gigantesco sistema di autostrade, cosa che aggiunge complessità. Nel nostro cervello, tendiamo a sottolineare l'importanza dei lobi frontali – considerati la sede della razionalità – ma secondo le ultime relazioni anatomiche non sarebbero veramente eccezionali. Il cervello umano è stato definito un cervello da primate proporzionato alla sua scala, nel senso che non comprende aree sproporzionatamente grandi. Nell'insieme, pare che le differenze neurali siano insufficienti a fare dell'unicità umana una conclusione scontata. Se mai troveremo un modo di misurarla, la coscienza potrebbe risultare un fenomeno diffuso. Fino ad allora, però, alcune delle idee di Darwin resteranno solo un po' troppo "pericolose".

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[...] Come si fa a sottoporre a un test del quoziente d'intelligenza uno scimpanzé – o un elefante, o un polpo, o un cavallo? Potrebbe sembrare l'inizio di una battuta scherzosa, ma in realtà è una delle questioni più spinose che la scienza possa affrontare. Il QI umano può essere controverso, specialmente quando confrontiamo gruppi culturali o etnici, ma quando si passa a specie diverse i problemi diventano di maggior portata.

Io sono disposto a credere a uno studio recente, che ha trovato che gli amanti dei gatti sono più intelligenti degli amanti dei cani, ma questo confronto non è nulla rispetto a un confronto più generale che metta a confronto i caratteri di cani e di gatti. Le due specie sono così diverse che sarebbe difficile progettare un test d'intelligenza che gli uni e gli altri possano percepire e affrontare in modo simile. In gioco non c'è, però, soltanto il modo in cui due specie animali si confrontano direttamente, ma anche il modo in cui si confrontano con noi. E sotto questo rispetto, spesso abbandoniamo ogni senso critico. Esattamente come la scienza è critica nei confronti di qualsiasi nuova scoperta nella cognizione animale, è spesso ugualmente acritica rispetto ad asserzioni sulla nostra intelligenza. Essa si beve qualsiasi cosa, specialmente se – diversamente dalle grandi prestazioni della memoria di Ayumu di cui ci siamo occupati in precedenza – i risultati che otteniamo sull'intelligenza umana sono nella direzione che ci attendiamo. Frattanto il pubblico generico resta sconcertato, perché inevitabilmente tali tesi provocano studi che le contestano. La divergenza nei risultati è spesso collegata a una questione di metodologia, che molti considerano noiosa ma che è al cuore della questione se noi siamo abbastanza intelligenti per capire quanto siano intelligenti gli animali.

La metodologia è tutto ciò che abbiamo come scienziati, cosicché dobbiamo dedicarle una grande attenzione.

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Mi tornò in mente questa storia quando la cognizione dei cani emerse come problema molto sentito. I cani venivano descritti come più intelligenti delle volpi, forse addirittura delle scimmie antropomorfe, in quanto dedicavano più attenzione ai gesti umani che indicavano la direzione di qualcosa. Quando una persona indicava uno di due secchielli, il cane andava a prenderlo per ricevere una ricompensa. Gli scienziati conclusero che la domesticazione aveva dato ai cani un'intelligenza extra rispetto ai loro progenitori. Ma che cosa significa il fatto che i lupi non riescano a seguire le indicazioni di direzione date dagli esseri umani? Scommetto che un lupo, avendo un cervello più grande di un terzo di quello di un cane, potrebbe superare sempre in intelligenza le sue controparti addomesticate; eppure, tutto ciò che ci interessa è in che modo i lupi reagiscano a noi. E chi può dire che la differenza nelle reazioni sia innata, che sia una conseguenza della domesticazione, e non sia invece basata sulla familiarità con specie capaci di indicare una direzione? Questo è il vecchio dilemma fra natura e cultura (o eredità e ambiente). L'unico modo per determinare quanta parte di un carattere sia prodotta dai geni e quanta dall'ambiente è tenere ferma una di queste due costanti per vedere la differenza che fa l'altra. È un problema complesso che non è mai stato risolto completamente. Nel confronto fra cane e lupo, ciò significherebbe allevare i lupi come cani in un ambiente domestico. Se fra cani e lupi permane una distinzione, potrebbe essere in gioco come causa la genetica.

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Per trovare in che modo i corpi interagiscono con la cognizione, abbiamo un materiale incredibilmente ricco su cui lavorare. L'aggiunta di animali a questa combinazione serve a stimolare il campo promettente della "cognizione incarnata", la quale postula che la cognizione rifletta le interazioni del corpo con il mondo. Finora questo campo è rimasto piuttosto concentrato sull'uomo, tralasciando di trarre vantaggio dal fatto che il corpo umano è solo uno dei molti corpi animali.

Consideriamo l'elefante. Esso combina un corpo molto diverso dal nostro con la potenzialità cerebrale di conseguire un'elevata cognizione. Che uso fa il più grande mammifero terrestre dei suoi neuroni, che sono tre volte più numerosi di quelli della nostra specie? Si potrebbe sminuire l'importanza di questo numero, sostenendo che esso debba essere corretto in funzione della massa corporea, ma tali correzioni sono più pertinenti quando si valuta il peso del cervello che non il numero dei neuroni. In effetti è stato proposto che il numero assoluto dei neuroni sia in grado di predire nel modo migliore il livello mentale di una specie, a prescindere dalle dimensioni del cervello o del corpo. In questo caso faremmo meglio a dedicare maggiore attenzione a una specie che ha molti più neuroni di noi. Poiché la maggior parte di questi neuroni risiede nel cervelletto dell'elefante, c'è chi pensa che essi incidano di meno e che si debba prendere in considerazione soltanto la corteccia prefrontale. Ma perché dobbiamo pensare che il nostro cervello sia organizzato come la misura di tutte le cose e guardare dall'alto al basso le aree subcorticali? Da un lato, sappiamo che durante l'evoluzione degli ominoidi il nostro cervelletto si espanse ancora di più della neocorteccia. Questo fa pensare che il cervelletto abbia un'importanza critica anche per la nostra specie. Sta ora a noi scoprire come il numero notevole dei neuroni del cervello dell'elefante serva alla sua intelligenza.

La proboscide è un organo olfattivo, prensile e tattile estremamente sensibile, che si dice contenga quarantamila muscoli coordinati da un unico nervo proboscideo che decorre lungo tutta la sua lunghezza. Essa ha sulla punta due "dita sensibili" con le quali può raccogliere oggetti piccoli come un filo d'erba, ma può anche aspirare otto litri d'acqua o convincere ad allontanarsi un ippopotamo che sta dando fastidio. È vero che la cognizione associata a questa appendice è specializzata, ma chi sa quanta parte della nostra cognizione è connessa a specificità del nostro corpo, come le nostre mani? Avremmo sviluppato le stesse abilità tecniche e lo stesso tipo di intelligenza se non avessimo avuto queste appendici estremamente versatili? Alcune teorie dell'evoluzione del linguaggio ne postulano l'origine in gesti manuali e in strutture neurali per il lancio di pietre e lance. Nello stesso modo in cui gli esseri umani hanno un'intelligenza connessa alla mano, che condividono con altri primati, gli elefanti possono avere un'intelligenza legata alla proboscide.

C'è poi anche il problema della prosecuzione dell'evoluzione. È un errore diffuso quello di credere che l'uomo continui a evolversi mentre i nostri parenti più stretti si sarebbero fermati. L'unico che si è fermato è l' anello mancante: l'ultimo progenitore comune dell'uomo e delle scimmie antropomorfe, così chiamato perché si è estinto molto tempo fa. Questo anello resterà mancante per sempre, a meno che non ci accada di riportarne in luce qualche resto fossile. Io ho chiamato il mio centro di ricerca Living Links (anelli viventi), facendo un gioco di parole con anelli mancanti, dal momento che noi studiamo scimpanzé e bonobo come anelli viventi con il passato. Il nome ha attecchito, visto che oggi ci sono alcuni altri Living Links nel mondo. I caratteri condivisi in tutt'e tre le specie – gli scimpanzé, i bonobo e noi stessi – hanno probabilmente le medesime radici evolutive.

Ma, a parte i tratti comuni, le tre specie si evolsero in modi distinti. Poiché nell'evoluzione non ci sono soste, tutt'e tre cambiarono probabilmente in modo sostanziale.

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Ma forse l'illustrazione più bella, su una dozzina che potrei offrire, è quella fornita da un bonobo femmina di nome Lisala, che vive a Lola ya Bonobo, una riserva nella foresta nei pressi di Kinshasa dove stavamo compiendo degli studi sull'empatia. L'osservazione in questione non era connessa a questo argomento e fu fatta dalla mia collaboratrice Zanna Clay quando vide inaspettatamente Lisala raccogliere una pietra molto grande di quasi sette chili e mettersela sul dorso.

Lisala trasportò questo carico sulle spalle, mentre il suo piccolo si aggrappava alla parte più bassa della sua schiena. La situazione appariva ovviamente un po' ridicola, dal momento che la impacciava nel camminare e le richiedeva un dispendio piuttosto grande di energia. Zanna accese la telecamera e seguì Lisala per vedere per che cosa potesse servirle quella pietra. Come ogni vero esperto di scimmie antropomorfe, Zanna suppose immediatamente che Lisala avesse in mente un obiettivo, poiché, come aveva notato Köhler, il comportamento delle scimmie antropomorfe è "fermamente intenzionale". Lo stesso vale per il comportamento umano. Se noi vediamo un uomo che cammina in una strada con una scala, supponiamo automaticamente che egli non trasporterebbe quell'oggetto pesante senza una ragione.

Zanna filmò il cammino di Lisala per mezzo chilometro circa, interrompendosi solo una volta, quando Lisala si tolse la pietra dalle spalle e raccolse a terra alcune piccole cose difficili da decifrare. Poi si rimise la pietra sulle spalle e proseguì per la sua strada. Camminò per quasi dieci minuti prima di raggiungere la sua destinazione, che era una grande lastra di dura roccia. La ripulì dei detriti che la ricoprivano passandovi sopra alcune volte la mano, dopo di che depose la pietra che aveva trasportato fin lì, e mise giù il piccolo e gli oggetti che aveva raccolto, che risultarono essere un pugno di noci di palma. Lisala cominciò a rompere i gusci di queste noci estremamente dure, dopo averle collocate sulla enorme incudine, battendo su di esse la grande pietra di sette chili e mezzo usata come martello. Proseguì quest'attività per un quarto d'ora circa, dopo di che abbandonò l'utensile. È difficile immaginare che Lisala si fosse presa tutto questo disturbo senza avere un piano, che doveva avere concepito già molto tempo prima di raccogliere le noci di palma. Probabilmente sapeva dove trovarle, e quindi aveva progettato il suo cammino, considerando di includere il punto in cui sapeva che avrebbe trovato una superficie abbastanza dura per rompervi il guscio delle noci. In breve Lisala soddisfece tutti i criteri di Tulving: raccolse un utensile da usare in un luogo ancora lontano, per procurarsi del cibo che poteva solo avere immaginato.

[...]

Questi casi meritano attenzione, in quanto mostrano che le scimmie antropomorfe non devono essere stimolate da condizioni sperimentali escogitate da esseri umani per pianificare il futuro. Spesso le scimmie lo fanno per decisione propria. Le loro attività sono assai diverse dal modo in cui molti altri animali si orientano verso eventi futuri. Noi tutti sappiamo che gli scoiattoli raccolgono noci in autunno e le nascondono per ritrovarle in inverno e in primavera. Il loro accumulo è innescato dall'accorciamento della durata del giorno e dalla presenza di noci, indipendentemente dal fatto che gli animali sappiano o no che cosa sia l'inverno. Gli scoiattoli nati da poco tempo, che non conoscono ancora bene le stagioni, fanno esattamente la stessa cosa. Benché quest'attività serva a bisogni futuri e richieda qualche cognizione su quali tipi di frutti accumulare per l'inverno relativamente alla possibilità di conservarli e poi ritrovarli, è improbabile che le preparazioni stagionali degli scoiattoli riflettano una reale pianíficazione. È una tendenza evoluta che si trova in tutti i membri della loro specie ed è limitata a un solo contesto.

La pianificazione delle scimmie antropomorfe, di contro, si adatta alle circostanze e si esprime nel modo più flessibile in migliaia di modi. È però difficile mostrare sulla base della sola osservazione che essa si fonda sull'apprendimento e sulla comprensione. Questa richiede che le scimmie antropomorfe vengano sottoposte a condizioni nelle quali non si sono mai imbattute prima. Che cosa accade, per esempio, se creiamo una situazione in cui il fatto di portare con sé un cucchiaio diventa in seguito vantaggioso?

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Pagina 280

Gli animali sono descritti tradizionalmente come schiavi delle loro emozioni. Tutto risale alla dicotomia fra gli animali, "selvaggi", e gli uomini, "civilizzati". Lo stato selvaggio implica indisciplina, addirittura follia, assenza di autocontrollo. Lo stato civilizzato, di contro, si riferisce all'esercizio dell'autocontrollo e delle buone maniere di cui gli esseri umani sono capaci in circostanze favorevoli. Questa dicotomia si cela dietro quasi tutte le discussioni su ciò che ci rende umani, tant'è vero che, ogni volta che degli esseri umani si comportano male, li chiamiamo "animali".

Una volta Desmond Morris mi raccontò una storia divertente a conferma di tutto ciò. A quel tempo Desmond stava lavorando allo Zoo di Londra, che teneva ancora dei tea parties nella casa delle scimmie antropomorfe, con il pubblico che guardava. Sedute su sedie intorno a un tavolo, le scimmie erano state addestrate a usare scodelle, cucchiai, tazze e teiera. Naturalmente questi oggetti non pongono alcun problema a questi animali abituati a servirsi di utensili. Purtroppo nel corso del tempo le scimmie divennero troppo educate e la loro esibizione troppo perfetta per il pubblico inglese, per il quale l' high tea, il pasto consumato intorno alle sei del pomeriggio in sostituzione della cena, costituisce il picco della civiltà. Quando i tea parties pubblici cominciarono a minacciare l' ego umano, si dovette fare qualcosa. Le scimmie vennero "rieducate" a rovesciare íl tè, a lanciare cibo in giro, a bere dal becco della teiera e a mettere le tazze nel catino appena il custode si voltava da un'altra parte. Tutto questo piaceva molto al pubblico! Le scimmie erano selvagge e maleducate, e così dovevano essere.

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Pagina 288

SI SA QUELLO CHE SI SA



La tesi che soltanto gli esseri umani possano saltare mentalmente sul treno del tempo, lasciando tutte le altre specie bloccate sulla banchina, è connessa al fatto che noi accediamo coscientemente al passato e al futuro. Qualsiasi cosa abbia qualche connessione con la coscienza è stata difficile da accettare per altre specie. Questa riluttanza è problematica, non perché noi sappiamo molto di più sulla coscienza, ma perché oggi abbiamo prove crescenti dell'esistenza in altre specie della memoria episodica, della pianificazione del futuro e della remunerazione ritardata. O abbandoniamo l'idea che queste capacità richiedano la coscienza, o ammettiamo che ce l'abbiano anche gli animali.

Il quarto raggio su questa ruota è la metacognizione, che è letteralmente la cognizione sulla cognizione, nota anche come il "pensiero sul pensiero". Quando ai concorrenti di un gioco televisivo viene permesso di scegliersi un argomento, essi scelgono ovviamente quello con cui hanno maggiore familiarità. Questa è metacognizione in azione, in quanto significa che sanno che cosa sanno. Nello stesso modo, posso rispondere a una domanda dicendo: "Aspetta! Ce l'ho sulla punta della lingua". In altri termini, penso di sapere la risposta, anche se mi serve un po' di tempo per ricordarla. Anche una studentessa che in classe alza la mano in risposta a una domanda si basa sulla metacognizione, in quanto solo lei sa se pensa di sapere la soluzione. La metacognizione si fonda su un funzione esecutiva nel cervello che permette a una persona di controllare la propria memoria. Di nuovo, noi associamo questi processi alla coscienza: per questo stesso motivo anche la metacognizione è parsa appartenere unicamente alla nostra specie.

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Pagina 294

LA COSCIENZA



Quando, nel 2012, un gruppo di eminenti scienziati propose la Cambridge Declaration on Consciousness, io rimasi scettico. I media descrissero questa dichiarazione dicendo che affermava una volta per tutte che gli animali non umani sono esseri coscienti. Come la maggior parte degli scienziati che studiavano il comportamento animale, io in realtà non sapevo che cosa dire in proposito. Non essendo la coscienza ancora oggi molto ben definita, non è qualcosa che si possa affermare con un voto di maggioranza o con un plebiscito popolare fondato su sentimenti soggettivi del tipo: "È chiaro che siamo coscienti, altrimenti non potremmo guardarci negli occhi". La scienza si basa su prove solide.

Leggendo il testo effettivo della dichiarazione di Cambridge, però, mi calmai, perché in verità è un documento ragionevole. Esso non sostiene che esista effettivamente una coscienza animale, qualunque cosa essa sia, ma che, date le somiglianze del comportamento e del sistema nervoso fra esseri umani e altre specie dal cervello grande, non c'è ragione di abbarbicarsi alla nozione che solo gli esseri umani siano coscienti. Come dice il documento: "Le prove disponibili indicano che gli esseri umani non sono gli unici a possedere i sostrati neurologici che generano la coscienza". Tanto può bastarmi. Come risulta da questo capitolo, è ben provato che processi mentali associati nell'uomo alla coscienza, come quando noi ci riferiamo al passato e al futuro, sono presenti anche in altre specie. A rigore, ciò non dimostra l'esistenza di una coscienza, ma la scienza sta sempre più favorendo la continuità a svantaggio della discontinuità. Questo è certamente vero per i confronti fra l'uomo e altri primati; ma si estende ad altri mammiferi e anche a uccelli, tanto più che il cervello degli uccelli risulta assomigliare a quello dei mammiferi più di quanto si pensasse in precedenza. Tutti i cervelli dei vertebrati sono omologhi.

Anche se noi non possiamo misurare direttamente la coscienza, altre specie presentano precisamente le capacità tradizionalmente considerate come suoi indicatori. Se si sostenesse che posseggono tali capacità senza avere la coscienza, si introdurrebbe una dicotomia non necessaria. Tale tesi suggerirebbe che esse fanno le cose che facciamo noi ma in modi fondamentalmente diversi. Da un punto di vista evoluzionistico sarebbe un'affermazione illogica. E la logica è una di quelle capacità di cui noi ci gloriamo.

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Pagina 310

Il più intelligente del gruppo è il polpo, che è un cefalopode dal corpo molle. Il termine cefalopode deriva dall'unione di due parole greche che significano "testa" e "piede": un nome appropriato dal momento che il corpo molle di questi invertebrati è formato da una testa che è unita direttamente a otto braccia o tentacoli, mentre il corpo (il mantello) è situato dietro la testa. I cefalopodi sono una classe assai antica che ha avuto origine molto tempo prima dei vertebrati terrestri, ma il gruppo a cui appartiene il polpo è una propaggine relativamente moderna. Parrebbe che noi non abbiamo quasi niente in comune con loro, né anatomicamente né mentalmente. Eppure è stato riferito che sono in grado di aprire un recipiente di vetro con un coperchio a vite di sicurezza non apribile da bambini. Poiché questa condizione richiede che per aprire un coperchio di questo genere lo si prema verso il basso e contemporaneamente lo si sviti, questo compito richiede abilità, intelligenza e persistenza. Qualche acquario pubblico spettacolarizzò l'intelligenza dei polpi ponendo uno di questi molluschi dentro un grosso barattolo di vetro a chiusura ermetica. Come un vero Houdini, il polpo impiegò meno di un minuto a svitare il coperchio dall'interno, aderendo a esso con l'aiuto delle sue ventose, e a evadere subito dopo.

[...]

Il polpo ha il cervello più grande e più complesso fra tutti gli invertebrati, ma la spiegazione delle sue straordinarie abilità potrebbe trovarsi altrove. Questi animali pensano letteralmente fuori del cervello. Ogni polpo ha circa duemila ventose, ognuna delle quali ha un proprio ganglio con mezzo milione di neuroni, che si vanno ad aggiungere a un cervello dotato di 65 milioni di neuroni. Inoltre ha una catena di gangli lungo le braccia. Il cervello si connette con tutti questi "minicervelli", che sono anche collegati fra loro. Invece di un singolo comando centrale, come nella nostra specie, il sistema nervoso dei cefalopodi è più simile a Internet, dove c'è un esteso controllo locale. Un braccio mozzato può nuotare da sé e addirittura raccogliere cibo. Similmente un gamberetto o un piccolo granchio possono essere trasmessi da una ventosa all'altra come su un nastro trasportatore, in direzione della bocca. Quando questi animali cambiano colore della pelle per autodifesa, la decisione può venire dal comando centrale, ma potrebbe forse essere coinvolta anche la pelle, poiché la pelle dei cefalopodi potrebbe percepire la luce. La cosa suona un po' incredibile: un organismo con pelle capace di vedere e otto braccia in grado di pensare in modo indipendente!

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9
COGNIZIONE EVOLUZIONISTICA



Data la facilità con cui mettiamo assieme le parole cognizione e animale, come se non ci fosse alcun ostacolo da superare – come se queste parole potessero essere addirittura inscindibili! –, è difficile immaginare le lotte che abbiamo dovuto affrontare per arrivare a questo punto. Alcuni animali erano ritenuti capaci di apprendere o di trovare soluzioni intelligenti, ma la parola cognizione fu a lungo considerata troppo impegnativa per descrivere i risultati da loro ottenuti. Anche se per molte persone l'intelligenza animale è ovvia, la scienza non dà mai nulla per scontato. Noi vogliamo prove, e queste per quanto concerne la cognizione animale sono diventate oggi inoppugnabili, tanto che rischiamo di dimenticare l'immensa resistenza che abbiamo dovuto superare.

[...]

Ogni organismo ha un'ecologia e uno stile di vita propri, un proprio Umwelt che gli impone che cosa deve conoscere per poter sopravvivere. Non c'è una singola specie che possa essere presa a modello per tutte le altre, e sicuramente non ce n'è alcuna che abbia un cervello piccolo quanto quello di un piccione. I piccioni sono molto intelligenti, ma la grandezza ha la sua importanza. Il cervello è l'organo più "costoso" che esista. Esso assorbe venti volte più calorie per unità del tessuto muscolare. Menzel poté semplicemente rispondere che, poiché il cervello delle scimmie antropomorfe è varie centinaia di volte più pesante di quello dei piccioni, e quindi brucia molta più energia, è ragionevole pensare che le scimmie antropomorfe affrontino sfide cognitive maggiori. Se così non fosse, la natura avrebbe compiuto uno spreco inconcepibile. Nella concezione utilitaristica della biologia, gli animali hanno il cervello di cui hanno bisogno, né più né meno. Anche all'interno di una specie, il cervello può cambiare in base al suo utilizzo, esattamente come, nel cervello degli uccelli canterini, le aree connesse al canto si espandono e si contraggono a seconda delle stagioni. I cervelli, come la cognizione, si adattano alle richieste dell'ecologia.

[...]

Quanto più rinfrancante era David Hume, il filosofo scozzese che teneva gli animali in così alta considerazione da scrivere che "nessuna verità mi appare più evidente del fatto che le bestie sono dotate di pensiero e ragione come gli uomini". In linea con la posizione da me tenuta in tutto questo libro, Hume compendiò la sua opinione nel seguente principio:

È dalla somiglianza delle azioni esterne degli animali a quelle che compiamo noi stessi che giudichiamo che anche quelle interne debbano assomigliare alle nostre; e lo stesso principio di ragionamento, portato un passo più avanti, ci farà concludere che, dal momento che le nostre azioni interne si assomigliano tra loro, anche le cause da cui sono derivate devono essere simili. Perciò, quando si formula una qualsiasi ipotesi per spiegare un'operazione mentale che sia comune agli uomini e alle bestie, dobbiamo applicarla sia agli uni sia alle altre.

Formulata nel 1739, più di un secolo prima che vedesse la luce la teoria di Darwin, la "pietra di paragone" di Hume offre un perfetto punto di partenza per la cognizione evoluzionistica. L'assunto più parsimonioso che possiamo fare sulle somiglianze comportamentali e cognitive fra specie imparentate è che riflettono processi mentali condivisi. La continuità dovrebbe essere la posizione di base almeno per tutti i mammiferi, e forse anche per gli uccelli e gli altri vertebrati.

[...]

La cognizione può addirittura spingere l'evoluzione fisica in una particolare direzione, come avviene nel caso dell'uso da parte delle cornacchie della Nuova Caledonia di utensili costruiti con foglie e ramoscelli. Queste cornacchie hanno un becco più diritto di quello di altri corvidi e occhi maggiormente rivolti in avanti. La forma del becco li aiuta ad avere una presa più stabile sui loro attrezzi, mentre la visione binoculare permette loro di vedere più in profondità nelle spaccature del terreno da cui estraggono larve. La cognizione non è quindi semplicemente il prodotto dei sensi di un animale, della sua anatomia e della sua intelligenza, la relazione funziona anche nella direzione opposta. I caratteri fisici si adattano alle specializzazioni cognitive di un animale. La mano umana può costituire un altro esempio: il pollice perfettamente opponibile e la sua notevole versatilità le hanno permesso di adattare la nostra ingegnosità a strumenti raffinati, dalle asce a mano agli attuali smartphone. Ecco perché l'espressione cognizione evoluzionistica è una così perfetta etichetta per il nostro campo di lavoro: perché solo la teoria dell'evoluzione può dare un senso simultaneamente alla sopravvivenza, all'ecologia, all'anatomia e alla cognizione. Invece di cercare una teoria generale che comprenda ogni forma di cognizione sull'intero pianeta, tratta ogni specie come un caso a sé. Ovviamente alcuni principi cognitivi sono comuni a tutti gli organismi, ma non intendiamo minimizzare la variazione fra specie con stili di vita, ecologie e Umwelten così diversi come quelli, diciamo, di un delfino e di un dingo o di un pappagallo ara e di un cercopiteco. Ogni specie deve affrontare le proprie sfide cognitive specifiche.

Quando gli psicologi comparati cominciarono ad apprezzare il fatto che ogni specie ha in sé qualcosa di speciale e che l'apprendimento è dettato dalla biologia, cominciarono a entrare gradualmente nell'ovile della cognizione evoluzionistica. La loro disciplina diede un grande contributo a questo progresso con la sua lunga storia di esperimenti controllati con cura e i suoi vari scienziati con tendenze cognitive. Benché questi scienziati lavorassero per lo più all'insaputa di tutti e fossero costretti a pubblicare in riviste di secondo livello, descrissero "processi mentali superiori" che a loro giudizio escludevano l'apprendimento. Data l'assoluta egemonia del behaviorismo a quel tempo, aveva senso definire la cognizione in opposizione all'apprendimento, ma ciò mi colpisce sempre come un errore. Tale dicotomia è altrettanto falsa quanto la contrapposizione tra natura e cultura. La ragione per cui noi oggi solo raramente parliamo ancora di istinti è che non esiste nulla di puramente genetico (natura): l'ambiente (cultura) svolge sempre un suo ruolo. Nello stesso modo, la cognizione pura è un parto dell'immaginazione. Dove sarebbe la cognizione senza l'apprendimento? Qualche tipo di raccolta di informazione ne fa sempre parte. Persino gli scimpanzé di Köhler, che inaugurarono lo studio della cognizione animale, avevano un'esperienza precedente di scatole e bastoni. Piuttosto che considerare la rivoluzione cognitiva come un colpo inferto alla teoria dell'apprendimento, si dovrebbe pensare a una sorta di connubio. La relazione ha avuto i suoi alti e bassi, ma alla fine la teoria dell'apprendimento sopravvivrà entro la cornice della cognizione evoluzionistica. Di fatto ne sarà una parte essenziale.

[...]

Tuttavia mi sembra che siamo spesso troppo ossessionati dai pinnacoli della cognizione, come la teoria della mente, dell'autoconsapevolezza, del linguaggio e via dicendo, quasi che fare affermazioni grandiose su questi argomenti fosse tutto ciò che importa. Per il nostro campo è giunto il momento di abbandonare le competizioni vanagloriose fra specie diverse ("le mie cornacchie sono più intelligenti delle tue scimmie") e il pensiero dicotomico che esse generano. E se la teoria della mente non si fondasse su una grande capacità bensì su un insieme di capacità minori? E se l'autoconsapevolezza si presentasse per gradi? Spesso gli scettici ci incalzano a scomporre concetti mentali maggiori chiedendoci che cosa intendiamo dire esattamente. Se intendiamo meno di quanto sosteniamo, si domandano perché non usiamo una descrizione più ridotta, più terra terra, del fenomeno.

Devo concordare con loro. Dovremmo cominciare a concentrarci sui processi che stanno dietro alle capacità più elevate. Essi si basano spesso su una vasta gamma di meccanismi cognitivi, alcuni dei quali possono essere condivisi da molte specie, mentre altri possono essere alquanto circoscritti. Noi abbiamo esaminato tutto questo discutendo della reciprocità sociale, che inizialmente era concepita come il ricordo, da parte di alcuni animali, di favori specifici ricevuti per poterli contraccambiare. Molti scienziati non erano disposti a supporre che delle scimmie non antropomorfe, per non parlare dei ratti, registrassero ogni interazione sociale. Oggi ci rendiamo conto che questa non è una richiesta di quid pro quo, e che non solo gli animali ma anche gli esseri umani spesso si scambiano favori a un livello più elementare, automatico, connesso a legami sociali a lungo termine. Noi aiutiamo i nostri amici, e i nostri amici aiutano noi, ma non stiamo necessariamente facendo calcoli. Per ironia della sorte, lo studio della cognizione animale non solo aumenta la considerazione in cui teniamo altre specie, ma ci insegna anche a non sopravvalutare la nostra complessità mentale.

Abbiamo bisogno con urgenza di una visione dal basso verso l'alto che si concentri sui mattoncini della cognizione. Questo approccio dovrà includere anche le emozioni: un argomento che ho appena sfiorato, ma che mi sta a cuore e che ha un uguale bisogno di attenzione. La scomposizione delle capacità mentali in tutti i loro elementi può condurre a titoli meno spettacolari, però avrà il pregio di risultare più realistica ed esplicativa. Sarà necessario anche un maggiore coinvolgimento delle neuroscienze, il cui ruolo è attualmente piuttosto limitato. Le neuroscienze possono dirci dove accadono le cose nel cervello; difficilmente, però, questo ci aiuterà a formulare nuove teorie o a progettare test intelligenti. Ma, sebbene le ricerche più interessanti nel campo della cognizione evoluzionistica siano ancora per lo più comportamentali, sono sicuro che le cose cambieranno. Le neuroscienze hanno finora solo scalfito la superficie. Nei decenni a venire diventeranno inevitabilmente meno descrittive e più teoricamente rilevanti per la nostra disciplina. Con il tempo, un libro come questo conterrà un'enorme quantità di informazioni tratte dalle neuroscienze, per spiegare quali meccanismi cerebrali sono responsabili del comportamento osservato.

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