Copertina
Autore Angelo d'Orsi
Titolo L'Italia delle idee
SottotitoloIl pensiero politico in un secolo e mezzo di storia
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2011, saggi , pag. X+422, cop.fle., dim. 14,7x21x2,7 cm , Isbn 978-88-6159-497-5
LettoreGiorgia Pezzali, 2011
Classe storia contemporanea d'Italia , storia letteraria , politica , paesi: Italia: 1800 , paesi: Italia: 1900 , paesi: Italia: 1920 , paesi: Italia: 1940 , paesi: Italia: 1990 , paesi: Italia: 2000
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Indice


VII      Premessa

  1  1.  1861-1878. Moderato, ma non troppo

 21  2.  1878-1896. La nazione di tutti

 51  3.  1896-1908. Contro «la sentimentalità democratica»

 87  4.  1908-1911. Miti guerrieri

113  5.  1911-1918. Da Tripoli a Vittorio Veneto

151  6.  1918-1922. Rivoluzione e controrivoluzione

185  7.  1922-1929. Disarmate idee e armi senza idee

209  8.  1929-1939. La modernizzazione dell'oppressione

233  9.  1925-1939. Il pensiero in carcere e in esilio

259  10. 1939-1945. Estremo fascismo e guerre civili

283  11. 1945-1956. Ricostruzioni, restaurazioni, rivoluzioni (mancate)

311  12. 1956-1991. I sommersi e i salvati

347      Epilogo
         1991-2011. Postdemocrazia all'italiana


363      Cronologia delle opere
375      Bibliografia
407      Indice dei nomi


 

 

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Pagina VII

Premessa


Benché esca nell'anno del centocinquantesimo anniversario dell'Unità, questo non è un libro d'occasione: è stato pensato una quindicina d'anni fa, ma la sua realizzazione è stata sempre procrastinata.

L'incontro con Mariarosa Bricchi – direttore editoriale della Bruno Mondadori –, pur con lunghe esitazioni che non l'hanno scoraggiata, mi ha infine indotto a riprendere quel progetto, e la ricorrenza imminente (allora) del centocinquantenario ha suggerito a editore e autore di retrodatare il termine a quo del tragitto storico che qui si propone. Che ora, infatti, copre l'intero arco storico postunitario. Ma chi si aspetti di trovarvi "tutto" e "tutti" sarà deluso: non si tratta di un manuale, anche se il testo è stato scritto avendo in mente un destinatario non specialistico (o meglio: non soltanto). Tale dichiarazione, tuttavia, so che non mi assolve dalle tante lacune o dalle scelte, sicuramente discutibili, compiute in relazione a temi, persone, movimenti. Il gioco del "c'è"/"manca" è usuale, e forse inevitabile, in un'opera di sintesi e quindi sono pronto a ricevere le critiche del caso: perché ho parlato a lungo di certuni, e poco di certi altri? C'entrano, naturalmente, le competenze (e le incompetenze), che in un'opera come questa pesano molto: è ovvio che chi scrive tende a privilegiare gli autori meglio conosciuti, le tematiche più note, i problemi più sviscerati. Ma nelle scelte entrano altresì – difficile negarlo – "simpatie" e "antipatie": e qui c'è ben poco da aggiungere. E tuttavia, non si tratta neppure di un saggio che dia corso, semplicemente, a umori, amori, idiosincrasie, innamoramenti; ci sono, i sentimenti, ma c'è anche l'informazione, e mi auguro che i primi non soffochino la seconda e che questa, a sua volta, non sia troppo pedante e noiosa.

In ogni caso, il libro, al di là dei suoi limiti e degli eventuali meriti, attraversa questi 150 anni, seguendo idee, autori – uomini, prevalentemente, in quanto maschile è stata la cultura politica dominante –, istituzioni, movimenti alla ricerca delle ricorrenze, delle continuità, del riproporsi o riprodursi, magari passando da tragedia a farsa, di concetti e parole, spesso rovesciate di senso, nei cambiamenti di stagioni politiche. E dietro le parole e i concetti, compaiono gli individui, con le loro vicende, talora eroiche, talaltra maramaldesche, e in qualche caso vicende da "zona grigia": ci sono i pensatori e i rivoluzionari, gli attendisti e gli estremisti, i realisti e gli utopisti, in un mosaico che mi auguro di essere riuscito a rendere nella sua variegata complessità, pur con le mie innegabili preferenze, che i lettori scopriranno facilmente.

Insomma, ho cercato di conciliare etica della convinzione ed etica della responsabilità, sia nella scelta di filoni e autori, sia nella loro trattazione. Un percorso soggettivo, che, ossimoricamente, si misura con l'oggettività, ossia che tenta di dare conto di tutti i temi politici, fra teoria e prassi, più significativi del dibattito pubblico, dal 1861 ai nostri giorni.

E tutto ciò a che fine? Non meramente conoscitivo, lo dichiaro subito, come si capirà ancor meglio dall' Epilogo, in cui l'autore lascia andare i freni inibitori dello storico professionale, e rivela a chiare lettere le sue passioni, che fino a quel punto, seguendo l'insegnamento di Gaetano Salvemini , ha cercato di tenere a bada, pur dichiarandole. Non meramente conoscitivo, in quanto ritengo che l'ufficio dello storico, per citare quel sovversivo di Benedetto Croce , sia «eminentemente un ufficio civile». E, aggiungo, nel momento in cui il mio paese, che è quello di Salvemini, Croce, Gramsci, attraversa una delle crisi più gravi della sua storia: e ciò accade in una sorta di torpore generale, come se tutto comunque si dovesse, miracolosamente, aggiustare. Se non ci pensa "il governo", insomma – sembra essere questo il senso comune – ci pensa "la Madonna". No, non ci pensa il governo (per fortuna), e alla Madonna credo poco; anzi, per niente. Ci devono pensare le persone, singolarmente e, meglio, organizzate in gruppi, associazioni, movimentí, partiti, ricostruendo la propria dimensione di cittadinanza, reclamando diritti, avanzando proposte, smascherando le menzogne dei potenti.

A ciò, la storia serve: a fornire materiali preziosi la cui conoscenza è essenziale per vivere il presente e lasciare alle generazioni seguenti un futuro per il quale sia valsa la pena di vivere; per capire il primo e per disegnare il secondo, insomma.

Questo ci insegnano tanti "eroi" che si affacciano tra le pagine del libro, impegnati, da un'epoca all'altra, a edificare, migliorare, rifare, difendere la nazione Italia, per la quale altri, o loro stessi, avevano combattuto: non soltanto i nomi, più o meno celebrati, dei padri della Patria, o dei suoi politici, o dei suoi maξtres à penser; ma i nomi di tanti militanti delle buone (talora delle cattive) cause, che per esse hanno diffuso e propagandato idee che altri si incaricavano di creare o sistematizzare. Idee da cui sono nati movimenti pratici, che hanno contribuito a disegnare il volto del paese, bene o, ahinoi, male; come questa Italia odierna, che non mi piace, e che so dispiacere a un enorme numero di miei concittadini. Eppure anche questa Italia, che pare giunta da mondi alieni, sorge da scaturigini lontane, e gran parte del pensiero politico che vi ha oggi cittadinanza ne reca le tracce. Ripercorrerle, annodando fili spezzati, suggerendo connessioni, scoprendo qualche personaggio minore, ridimensionando qualche maggiore: l'obiettivo che mi sono prefisso, ribadisco, non era un repertorio, bensì un tragitto orientato dal pensiero di alcuni autori, a cominciare dal mio amato Antonio Gramsci , bussola intellettuale e morale, ma riferimento anche di metodo (per il quale guardo tuttavia anche a correnti recenti della storiografia delle idee, dette "contestualiste") e di merito, essendosi egli posto, con particolare attenzione, a riflettere sulla «formazione dello spirito pubblico in Italia» (come scriveva alla cognata Tania Schucht il 19 marzo 1927), ossia «sugli intellettuali italiani, le loro origini, i loro raggruppamenti secondo le correnti della loro cultura, i diversi modi di pensare ecc. ecc.».

Questa non è un'ennesima "antistoria", sia ben chiaro, bensì una storia articolata, critica e multiversa, che tenta di restituire l'identità e le diversità, anche geografiche, di questa Italia centocinquantenaria: un paese di (pochi) liberali ridotti a «far all'amore coi comunisti» (Luigi Einaudi a proposito di Gobetti, il 31 ottobre 1922) per carenza di liberalismo autentico tra i (troppi) sedicenti liberali; di rivoluzioni (mancate) e controrivoluzioni (vittoriose); di socialismo incerto fra bagatelle ultrariformistiche e sogni di palingenesi rivoluzionarie; di un nazionalismo deteriore e al contempo incapace di tutelare la dignità della nazione; di un cattolicesimo egemone e pervasivo, e di un perdurante uso politico della religione (ma, in qualche caso, anche di religione provvista di carica rivoluzionaria). Un paese nel quale alcune tra le più grandi figure, portatrici dell'etica dell'impegno pubblico, sono state assassinate come Gramsci – i Rosselli, Matteotti, don Minzoni, Giovanni Amendola, Gobetti, Ginzburg, Pasolini –, in patria, o all'estero, per mano di italiani o su loro commissione, direttamente o indirettamente... «Che paese è mai quello in cui si uccidono i poeti?» – l'angosciosa domanda di Alberto Moravia, a seguito dell'assassinio dell'amico Pier Paolo Pasolini (2 novembre 1975), era una denuncia, un disperato grido di sdegno, che non poteva trovare risposta, e non ne ha trovata.

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Pagina 1

1. 1861-1878. Moderato, ma non troppo


«... Roma, e Roma sola deve essere la capitale d'Italia». E se l'idea di Roma è temuta dal papa della cattolicità come una sottrazione dei diritti della religione, Cavour – sua è la frase, proferita alla Camera nel marzo 1861, pochi giorni dopo la proclamazione del Regno d'Italia – invitava a far comprendere al «Santo Padre» che ciò non sarebbe accaduto: mai l'autorità civile avrebbe esercitato il suo potere su quella religiosa; nel contempo, non doveva accadere neppure il contrario. E quella stentorea conclusiva sentenza, diventata una specie di motto dei laici, «Libera Chiesa, in libero Stato», doveva essere il lasciapassare per una nuova fase dei rapporti tra la Santa Sede e il potere politico.

Cominciò allora, dunque nell'immediato indomani dell'Unità, un dibattito che – fin troppo facile notarlo – non è mai cessato, e ha attraversato fasi diverse, fra tensioni che in qualche caso sono giunte a momenti di scontro, dopo la guerra lampo del settembre 1870, conclusasi con Porta Pia, il giorno 20. Si sarebbe giunti a un assestamento con il Concordato del 1929, rinnovato, con modifiche, nel 1984: proprio Cavour, nei discorsi del marzo '61, al proposito, invitava il papa a rinunciare alla politica dei concordati, fondata su concessioni di privilegi. La vicenda storica successiva avrebbe tradito il padre della patria italiana, almeno su questo aspetto (e non solo su esso), e la battaglia delle idee sarebbe rimasta impigliata anche troppo sovente nella rete del laicismo versus clericalismo. In fondo questo dibattito avrebbe spesso allontanato la società politica e il ceto dei colti dall'analisi autentica di problemi reali a carattere strutturale, come quel divario tra il nord e il sud che era emerso da subito, con l'arrivo dei "piemontesi" nei territori appartenuti al Regno delle Due Sicilie.

Nasceva immediatamente un razzismo settentrionale, che avrebbe trovato discutibili appigli in ancor più discutibili teorie di ideologi travestiti da antropologi. Sul fronte meridionale la risposta fu, com'è noto, il brigantaggio: una rivolta sociale che, per quanto sostenuta dai residui del regime borbonico sconfitti dai garibaldini, intercettava un bisogno reale, una insoddisfazione profonda, una speranza tradita, e anche un timore di uno Stato che improvvisamente, rudemente, si presentava con tasse e servizio militare. Si trattò di una vera guerra sociale, dal carattere «disperato e barbarico», come notò Giuseppe Massari, che tenne la relazione a porte chiuse alla Camera dei deputati, esito della Commissione d'inchiesta, incaricata di svolgere un'indagine su quel «doloroso fatto»: il contadino meridionale era «il vero nullatenente». Eppure Massari, giornalista, redattore e direttore di varie testate, uno dei tanti intellettuali del sud esuli in Piemonte, che seppe cogliere molti tratti anche di lunga durata del fenomeno, chiedeva leggi eccezionali, che realizzassero una «punizione pronta ed esemplare dei colpevoli»: egli vedeva complici dappertutto, in libertà, e i colpevoli occupare le patrie galere. A brigante, brigante e mezzo, si potrebbe sintetizzare: questa la linea del "moderato" Massari – già segretario di Cavour, e poi suo primo biografo – che fu ipso facto tradotta in legge da un Parlamento ansioso di chiudere i battenti per l'urgere delle ferie estive (la legge Pica, datata 15 agosto 1863): l'effetto fu quello di trasformare la repressione, ferocissima, da eccezione a regola «sanzionata dal diritto»; fra le tante guerre civili del Risorgimento, questa fu «la più crudele, la più lunga, la più costosa». Gli italiani in divisa – 120 000 uomini inviati a "pacificare" quelle zone – apparvero agli italiani del Mezzogiorno null'altro che stranieri occupanti, gli odiati "piemontesi". Un giovane che dalla natia Sardegna si era portato a Torino, avrebbe scritto, decenni più tardi, dando sfogo a una rabbiosa solidarietà verso quelle popolazioni che dopo i lunghi patimenti sofferti sotto il regime borbonico avevano dovuto subire l'invasione e la repressione settentrionale:

Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti?

Stupisce la disinvoltura con cui il ceto intellettuale sostenne la classe politica nell'approvazione di una prima legislazione emergenziale: un precedente di cui nessuno colse la pericolosità, e che in effetti si sarebbe ripresentato nel corso dei decenni sulla scena politica, senza suscitare particolare scandalo in larga parte dei commentatori, accademici o militanti.

La rivolta dei contadini nullatenenti meridionali sarebbe costata enormemente in termini umani, finanziari e di fiducia: del sud verso il nord, dei meridionali verso i piemontesi, di popolazioni abituate all'anomia verso un sistema rigido di leggi, norme e regolamenti; ma altresì, per converso, del settentrione verso il meridione, che cominciò ad essere dipinto, quasi parallelamente alle oleografie selvaggistiche o al più folcloriche, di stampo razzistico, come una terra irredimibile, se non con il ferro e il fuoco. Era insomma, l'emergere di quella «questione meridionale» che avrebbe costituito un punctum dolens della cultura politica italiana – quella della prassi, e quella della riflessione storiografica, sociologica e politologica – fino ai nostri giorni, tra analisi, polemiche, investimenti, disinvestimenti, corruzione, sprechi, inchieste giudiziarie, e morti ammazzati. Ci ritorneremo.

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Pagina 13

Che fossero Garibaldi, Mazzini, Cattaneo o altri i numi tutelari, i giovani che animarono quella rivista o altre testate dell'epoca erano innanzi tutto mossi dal desiderio e dal bisogno di fare, di agire, di compiere scelte nette, rifuggendo dall'attendismo di coloro che l'apostolo di Staglieno aveva chiamato «i tiepidi, gli uomini che per volontà di cuore e grettezza di mente tentennano tra le due vie». Una perorazione del coraggio e della coerenza che sembra anticipare il famoso grido di guerra di Antonio Gramsci, contro gli Indifferenti. Ciò non toglie che in quelle scelte talora l'interclassismo solidaristico avesse la meglio su un orientamento decisamente a favore delle classi lavoratrici, e che al conflitto sociale si anteponesse un astratto ideale di naturale composizione degli interessi nella società grazie allo stesso sviluppo economico: «La questione sociale va sciogliendosi da sé naturalmente collo svolgersi della civiltà», scriveva Gabriele Rosa nel 1874, fallacemente fiducioso; ma anche un moderato come lui insisteva sulla necessità di tenere la questione religiosa lontana dalla sfera pubblica: un tratto che avrebbe fortemente caratterizzato tutto il pensiero liberale, democratico, radicale, socialista fino alla Grande guerra, e che poi si sarebbe affievolito fino ad essere rimosso dal fascismo con i suoi Patti del Laterano del 1929.

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Pagina 21

2. 1878-1896. La nazione di tutti


La scomparsa del "re galantuomo" (9 gennaio 1878), il padre della patria Vittorio Emanuele che volle rimanere II pur essendo il primo re d'Italia, anticipò di poco la sconfitta diplomatica italiana al Congresso di Berlino (giugno-luglio 1878), dove per impotenza, ma in fondo anche con realismo, fu dichiarata la politica delle «mani nette», al cospetto di potenze imperialistiche che si spartivano quel che rimaneva del mondo extraeuropeo. Fu, dopo le disfatte militari di dodici anni prima, una nuova stazione della Via Crucis che avrebbe condotto il paese recalcitrante, ma sospinto da ideologi del tutto privi di etica della responsabilità, alla Prima guerra mondiale. Si trattava di una sostanziale sconfitta diplomatica, più che di un beau geste dei nostri rappresentanti; o, piuttosto, di una franca ammissione di impotenza fra tante potenze. Quattro anni più tardi, l'Italia cominciava a disegnare una vera politica estera; si stipulava infatti, nel 1882, il trattato detto della Triplice Alleanza con l'Austria e la Germania; gesto impopolare: l'impiccagione, sotto l'accusa infamante di tradimento, di Guglielmo Oberdan, il 20 dicembre – a sei mesi dalla morte di Garibaldi, quasi a suggellare la fine dell'epopea eroica del Risorgimento – non accrebbe certo la popolarità austriaca. Anzi, da quel momento l'irredentismo ebbe nuova linfa, e fu cavalcato dalla sinistra più che dalla destra.

Nello stesso anno '82, si realizzò la prima riforma elettorale, allargando il corpo dei votanti dall'1,9 al 6,9 per cento della popolazione. Tanto bastò per suscitare proteste e malumori. Ne fu interprete soprattutto un giovane esponente dell'intellettualità meridionale, Gaetano Mosca, palermitano, proveniente dalla piccola borghesia impiegatizia: giunto a Roma vincitore di concorso come funzionario della Camera dei Deputati, fu uomo provvisto di notevoli ambizioni intellettuali, decisamente conservatore, ma non reazionario.

A ridosso della riforma, nel 1884, egli diede alle stampe un'opera «rozza e incondita» – stando al giudizio aspro, ma non del tutto immotivato di Antonio Gramsci alcuni decenni più tardi. In quel testo, un po' pomposamente intitolato Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare, il funzionario della Camera, paradossalmente, forniva un robusto contributo alla campagna di discredito delle istituzioni parlamentari, campagna peraltro in corso da anni sulla scena europea; ma, tra una pagina e l'altra, andando oltre la polemica, Mosca mette a punto la sua dottrina della classe politica, tanto che oggi si considera quell'opera come uno dei testi canonici dell'«antiparlamentarismo», ma si tratta di una semplificazione che non rende giustizia al suo autore, anche se politicamente lo identifica.

Il termine parlamentarismo, di ascendenza preunitaria, avrebbe avuto fortuna, in accezione fortemente e progressivamente negativa, nei decenni seguenti, fino all'avvento mussoliniano, che per tanti versi ne segnò il punto più alto. L'antiparlamentarismo da iniziale critica alla degenerazione del sistema parlamentare avviata sostanzialmente con la «rivoluzione parlamentare» del 1876, si trasformò via via in una ripulsa della stessa istituzione parlamentare e, sullo sfondo, dello Stato liberale, corrotti dall'avanzata delle masse a loro volta contaminate dalla tabe socialista, agitate dallo «straccio rosso», come si disse sovente, alludendo a quello stendardo vermiglio divenuto l'emblema della riscossa proletaria.

Prima di Mosca, altri teorici, quali Rocco De Zerbi, Giorgio Arcoleo, Camillo De Meis, si distinguono in affondi contro parlamenti e parlamentari, e dunque, contro il parlamentarismo, magari riprendendo le prime invettive del simpatico reazionario Petruccelli della Gattina che, con I moribondi di Palazzo Carignano, all'indornani dell'Unità, quando ancora la capitale del Regno d'Italia era la stessa dei Ducato di Savoia, aveva fornito se non un modello, certo un eccellente impulso ad ogni futura polemica contro il poltronismo e la fannullaggine dei «rappresentanti del popolo». Non si parla di «casta», all'epoca, ma il livore contro i privilegiati, i «fannulloni», i «chiacchieroni», diventa merce corrente, nel discorso pubblico; e nasce anche una produzione letteraria in cui si condensano «umori deprecatori» del Parlamento. Nihil sub sole novi, si sarebbe tentati di aggiungere, sfogliando i giornali di oggi.

Ma torniamo a Gaetano Mosca, che non può comunque essere liquidato in poche battute. Con quell'opera del 1884, il palermitano fonda (o meglio tenta di fondare) la scienza politica come disciplina autonoma, provvista di un metodo proprio. Alle spalle si staglia una lunga, nobile tradizione scientifica e intellettuale, che risale almeno al realismo politico di Machiavelli – per limitarsi al nume tutelare più autorevole –, per mezzo del quale Mosca concede status scientifico a una verità effettuale della politica, nascosta dalle astratte classificazioni del diritto, che parrebbe quasi strumento di occultamento della realtà della politica: la separazione fra la minoranza al governo e la massa governata. Nella realtà, chiarisce Mosca, non sussiste vincolo alcuno tra la volontà dei votanti e la volontà degli eletti e in ogni epoca, sotto qualsiasi forma di governo vi è in ogni Stato una «classe politica» che si erge al potere, grazie alla sua capacità di organizzazione, al numero ristretto di componenti, che, comunque, l'autore ritiene essere formata da oi aristoi, i migliori. Insomma, come precisò ancor più nitidamente dodici anni dopo, dovunque è ed è stata al potere una minoranza (i governanti, o classe politica) che ha tenuto sotto di sé le maggioranze (i governati). E ciò a prescindere dagli effettivi orientamenti politici, dalle ideologie che li definiscono (le «formule politiche», scrive Mosca), dalle epoche e dalle latitudini. Sempre così fu, sempre così sarà. In sostanza, un'ideologia politica – l'elitismo – veniva presentata in termini scientifici: ciò la avvalorava e nel contempo la neutralizzava sul piano politico: così è perché così è sempre stato, e non può che essere così. Il realismo politico, sempre messo in primo piano quando si parla di questi teorici del tardo Ottocento e del primo Novecento, si rivelava un'ideologia della conservazione, pure opportunamente presentata.

La stessa disciplina da Mosca "inventata", sulla scorta delle grandi teorizzazioni classiche, da Aristotele a Machiavelli, ossia la scienza politica, appariva intrisa di elementi valutativi, che correggevano (o, se si preferisce, inquinavano) l'attitudine puramente empirica; la scienza descrittiva si rovesciava in ideologia prescrittiva; l'osservazione in valutazione. Vero è che il palermitano da conservatore – che si oppose all'allargamento del suffragio ai maschi adulti anche se analfabeti (la "rivoluzione" operata da Giolitti alcuni decenni più tardi, nel 1913) – «si teneva distante sia dall'ottimismo degli agitatori sia dal pessimismo dei reazionari»; e la sua scienza politica poté essere impiegata tanto dalla destra quanto dalla sinistra, prescindendo cioè dagli orientamenti dell'autore, trovando un certo credito anche tra liberaldemocratici, radicali e persino socialisti, quali lo storico Guglielmo Ferrero, il filosofo Giuseppe Rensi (che si sarebbe spostato successivamente su posizioni filonazionaliste per poi fare macchina indietro) e, punto terminale del cosiddetto elitismo democratico, Piero Gobetti. Del resto, Mosca, nella sua apologetica dei "migliori", promuove un ruolo nuovo per gli intellettuali, aprendo la strada a quel sogno del partito intellettuale che sarebbe circolato lungamente, erraticamente, nel secolo seguente, dai Vociani al Partito d'Azione. Gli intellettuali, a suo avviso una vera classe sociale, sono «la terza forza che s'impone unicamente per il sapere», e grazie a ciò in grado di svolgere una funzione mediatrice nel conflitto tra le classi sociali.

Liberalconservatore, liberista, ma attento al necessario ruolo della collettività organizzata, Mosca respingendo un ideale di Stato neutro, assegna ai governi funzioni di restrizioni della proprietà, e di (moderata) perequazione sociale. Soprattutto, però, la teoria moschiana ha un ambito squisitamente politico-istituzionale: non a caso egli è un giurista, innanzi tutto, e la sua ricetta si basa su due elementi, uno effettivamente descrittivo (lo scadimento della classe politica), l'altro normativo: l'esigenza di una sua ricostituzione su basi più nobili. Egli pone, in definitiva, un problema di selezione del ceto politico: e, appunto, ciò significa promuovere gli intellettuali a posti di responsabilità politica, in una diversa ingegneria costituzionale. Di qui la stessa proposta di riforma contenuta nel saggio su Le Costituzioni moderne (1887), che coglieva umori nell'aria che, dieci anni dopo, sarebbero divenuti una sorta di manifesto ideologico con Sidney Sonnino – toscano, il quale fece robusta carriera politica –, in un articolo (Torniamo allo Statuto) che tradusse su un piano di facile comunicazione politica la più faticosa e complessa teorizzazione moschiana. Essa riabilitava il potere del Re e ampliava quello del Senato, contro la Camera: curiosamente la decadenza era attribuita soltanto a questo organo, a cagione – questo in fondo non si osava sostenerlo apertis verbis – dell'allargamento del suffragio. La nazione era da costruire e già si parlava di ricostruzione, insomma; il Parlamento italiano era operante da un venticinquennio appena, dopo secoli in cui eravamo stati «calpesti e derisi» (così un verso della poesia di Goffredo Mameli, musicata, alla fine del 1847, da Michele Novaro, adottato nel 1946 come inno nazionale italiano), ma i pensatori politici avvertivano l'esigenza di riformare, e riformare in senso antistorico, ossia riportando il baricentro verso il monarca e la camera alta, quella di nomina regia, appunto. Accanto alla figura del sovrano, Mosca poteva tutt'al più concedere un Consiglio della Corona (a carattere privato!), con potere consultivo. Ciò sarebbe stato sufficiente a prevenire gli intrighi parlamentari e il potere delle camarille (come venivano chiamate, con termine spagnolo che indica la piccola camera, le consorterie, oggi si direbbe le lobbies). In vero, Mosca finiva per confondere le asserite degenerazioni dell'organo con le funzioni dell'organo in se stesso. Con la Teorica, che se non altro per mole, si lasciava alle spalle la panflettistica, e attirava sull'autore attenzioni del mondo politico ma anche di quello accademico, si apriva la strada alla delegittimazione dell'istituzione parlamentare, e più in generale dello stesso Stato liberale e del suo tentativo di aprirsi in senso democratico. Il fascismo avrebbe raccolto e fatto fruttare, naturalmente ben al di là della volontà di Mosca, questo lavorio che durò un trentennio.

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Fu ostile al parlamentarismo, considerato strumento e insieme frutto di malaffare, anche Cesare Lombroso, psichiatra da poco divenuto titolare di cattedra nel prestigioso Ateneo di Torino, nel 1876, l'anno stesso in cui pubblicava il libro che gli diede immediata fama, L'uomo delinquente (presto aumentato di mole, mentre crescevano edizioni e traduzioni in varie lingue). A Torino, dove non fu il solo veronese a stabilirsi (si pensi a un Emilio Salgari, per fare un solo nome), avrebbe inventato l'antropologia criminale come disciplina accademica, facendo della propria dimora un ideale punto di ritrovo per l' intelligencija locale e quella esterna di passaggio: progressista, anche Lombroso, come il De Amicis, e partecipe del socialismo professorale, nella sua polemica antiparlamentaristica, si era sovente mosso prendendo spunto da episodi di corruzione politica. Con lui alcuni allievi, come Scipio Sighele e Guglielmo Ferrero, si erano avventurati sul terreno dell'analisi delle folle – di provenienza soprattutto francese, tra Tarde e Le Bon – ossia di aggregati «disomogenei» e «inorganici», tra i quali rientravano anche le istituzioni, i parlamenti, le assemblee politiche.

Diffusi sentimenti di scontentezza dunque, sui diversi piani della nostra vita di italiani uniti, dall'assetto istituzionale allo sviluppo dell'economia, dalla fisionomia della società alla stasi della cultura; a nessuno, parrebbe, stava bene quella Italia, ancor così fragile e già così contestata dall'interno: un vizio ben noto ai lettori odierni, che dunque ha radici antiche. Fra gli scontenti autorevoli un altro intellettuale siciliano, stavolta un letterato, Giovanni Verga, che apre il decennio degli ottanta con I Malavoglia (1881) e lo chiude con Mastro don Gesualdo (1889): un conservatore scontento del presente, che nondimeno si rivela un analista sociale di eccezionale capacità; coglie debolezze e vizi (l'avidità e l'egoismo in primis) dei ceti possidenti, gestori di «una società prigioniera degli istinti più bassi ed elementari e di spietate norme utilitaristiche», ma finisce per santificare l'ordine sociale esistente. Il verismo in fondo coincide con il realismo politico; e la descrizione diviene prescrizione; una chiave squisitamente conservatrice, mossa dalla paura delle masse che cominciavano a far percepire la propria presenza, animate specialmente da intellettuali, agitatori, e organizzatori che si riconoscevano più in Bakunin che in Marx: insomma, i temutissimi e un po' misteriosi anarchici, peraltro allora ancora largamente incrociati ai socialisti. Il clima sociale era tutt'altro che riconciliato, una volta debellato il brigantaggio nel Mezzogiorno; nell'anno dell'avvento al trono di Umberto I, si produssero eventi come l'uccisione di Davide Lazzaretti, da parte dei Carabinieri, che spararono su una processione guidata dal "Profeta dell'Amiata". Questi, da eretico benvisto dalla Chiesa cattolica, benché si fosse proclamato «Unto del Signore» (appellativo che anche in tempi recenti è stato usato da politici, che volentieri parlano di miracoli in relazione alla propria attività), si trasformò in rivoluzionario sociale, ammiratore della Comune di Parigi, sostenitore della Repubblica. Contro questo «Cristo della povera gente», ipso facto, si realizzò una inedita alleanza Chiesa-Stato, e mentre dalla prima giungevano le punizioni spirituali, con la scomunica, dal secondo non si tardò a porre in essere punizioni materiali, immediatamente tradotte nell'attacco armato delle "forze dell'ordine". Fu come è stato definito «un delitto di Stato», che colpiva il singolo e ancora più il movimento che dalle sue parole era nato e si stava diffondendo, con propaggini addirittura fuori i confini italiani, verso la Francia. I lazzarettisti – uno degli ultimi (allora, poi sono rinati qua e là in epoca recente, sia pure sottotono) esempi di millenarismo – cantavano versi come «Andiam per la fede / La patria a salvare / Evviva la Repubblica / Iddio e la libertà». Era la perfetta fusione di ispirazione religiosa e aspirazione politica, prodotta in un territorio, la Toscana meridionale, profondamente depressa sul piano economico e in un momento storico di gravi tensioni sociali, per l'appunto.

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Epilogo

1991-2011. Postdemocrazia all'italiana


Il secolo e il millennio si sono chiusi. L'accelerazione del tempo storico, cui accennavo, è diventata frenetica, e guardare indietro verso il primo ventennio della cosiddetta Seconda Repubblica (precisando e ribadendo che si tratta di mera etichetta giornalistica, entrata nell'uso, ma priva di un vero fondamento storico) produce già un effetto di spiazzamento temporale: possibile che tanti eventi si siano succeduti in soli due decenni? Non li percorreremo, anche per il timore di rimanere invischiati in una ragnatela di parole, vicende, personaggi. Del resto interessa qui essenzialmente rintracciare le idee, i loro creatori e riproduttori, ai diversi livelli. Il terremoto internazionale del biennio 1989-91, che travolse il sistema sovietico, in realtà ebbe effetti altrettanto forti, anche se meno evidenti, nel mondo capitalistico. Non soltanto il socialismo/comunismo fu espulso dal mercato politico, ma il pensiero marxista – a partire dalla teoria marxiana – fu rimosso sul piano ideologico e culturale: un sintomo fu la scomparsa, dai cataloghi degli editori, dei titoli di Marx, e dei grandi e meno grandi pensatori marxisti e dell'intero mondo rivoluzionario, che nei decenni precedenti avevano dominato sugli scaffali delle librerie. Eppure paradossalmente, uno degli homines novi della politica italiana, anzi "l'uomo nuovo" per antonomasia, l'imprenditore Silvio Berlusconi, divenuto ideologo in proprio (sebbene provvisto dei suoi ghostwriters), prima che attore politico, costruì il suo tragitto verso il potere politico precisamente sull'anticomunismo. Negli ultimi mesi del '93, incalzato dagli eventi – la prospettiva di una vittoria elettorale della sinistra, la minacciata revisione della legge che gli aveva consentito di avere tre reti televisive, voci di inchieste giudiziarie a suo carico – egli operò per organizzare una sua forza politica: un movimento di cui fosse non solo ispiratore e leader, ma proprietario. La medesima concezione proprietaria dello Stato egli rivelò quando, pochi mesi dopo, nella primavera '94, vinse le elezioni giungendo alla guida del governo della nazione, dopo aver annunciato, nel gennaio, la sua "discesa in campo". Per vincere, e per continuare a vincere, o comunque a tenere l'elettorato sotto pressione, rimise in circolazione la paura del comunismo, con una identificazione tra la versione italiana e quella internazionale, non soltanto russo-sovietica, ma altresì cinese, o, la più terribile di tutte, quella cambogiana dei famigerati Khmer Rossi, di Pol Pot.

Al di là della spregiudicatezza del personaggio (che si sarebbe posto in luce come il più straordinario mercante di sogni della storia patria), «il venditore» , come fu tempestivamente definito (già nel 1994), Berlusconi, mostrando una indubbia abilità, seppe convincere una cittadinanza trasformata in pubblico, pubblico di spettatori, ascoltatori, e, soprattutto, compratori. Un lessico nuovo venne introdotto, tratto dalla pubblicità, bacino al quale, del resto, si attinse per costruire la classe dirigente del suo partito; gli stessi attivisti, provenienti inizialmente tutti dalle società del Gruppo Fininvest e in specie dal suo ramo pubblicitario (Publitalia), furono chiamati «promotori». Un altro filone lessicale fu quello sportivo, prevalentemente calcistico: non v'è da stupirsi, essendo l'imprenditore lombardo divenuto proprietario (anche) di un football club. E il "miracolo" che egli aveva compiuto per il "suo" Milan, che arrancava addirittura in serie B, o in fondo alle classifiche della serie A, portandolo ai massimi vertici del calcio mondiale, costituì il più efficace dei biglietti da visita: la sua (o dei suoi esperti di marketing) trovata migliore, d'altronde, fu la stessa denominazione del partito: Forza Italia, tratto dal grido di incitamento alla Nazionale di calcio negli stadi. I successi mercantili costituirono la "prova" delle doti eccezionali, anzi sovrumane di quel signore, che prometteva analoghi miracoli per "salvare" l'Italia dal pericolo rosso, che non era presentato nei termini della propaganda DC degli anni cinquanta, ma come sinonimo di arretratezza, di rifiuto della modernità, di professionismo politico. Si insisté sul contrasto e sul rifiuto della «vecchia politica di palazzo»: anche Pasolini, insomma, veniva impunemente saccheggiato. L'antipolitica procedeva a larghi passi.

Come in altre stagioni della nostra storia un numero (non enorme, ma neppure irrilevante) di intellettuali fu pronto a aderire, per vanità, per denaro, per ambizione politica prima di allora frustrata. Tutti erano accomunati da due forme di furore, sovente legato al proprio vissuto: quello anticomunista (e antitogliattiano in primo luogo: molti di costoro provenivano dal Pci, come Lucio Colletti, Piero Melograni, Saverio Vertone, Giuliano Ferrara...) e quello "modernizzatore". Erano, questi «critici tardi», generalmente gli orfani di Craxi, che si erano lasciati irretire da quella mistura di modernismo e decisionismo, ma anche dalla prospettiva di sottrarre agli "eredi di Togliatti e Gramsci" il monopolio della sinistra culturale. Si segnala in particolare il curioso caso di Gianni Baget Bozzo, sacerdote, ammiratore di Augusto Del Noce, sospeso a divinis e poi riammesso all'abito talare, folgorato come tanti in via del Corso (sede della Direzione del Psi, che con il crollo del partito nel '92, fu lestamente abbandonata, insieme con i tanti conti da pagare).

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La Padania, dunque! Nessuno ha saputo spiegare questo oggetto considerato autoevidente, e invece misterioso. Se Berlusconi e i suoi dovettero procedere alla classica riscrittura della storia, Bossi e i leghisti si mossero nel solco della canonica «invenzione della tradizione», parlando di popolo padano, di diritti padani, di identità padana, che faceva riferimento a pretese ascendenze celtiche, addirittura ricorrendo a miti e riti fra il tribale e il religioso, sia pure di una fasulla e grottesca religiosità pagana: paradosso estremo è che proprio la Lega (che peraltro non mancò di attaccare il papa in più di un'occasione) si fece paladina della cosiddetta identità cristiana dell'Europa, in pura funzione elettoralistica, definendo il proprio ruolo in chiave identitaria anti-islamica e antiaraba, ma, all'occorrenza, anche antislava, pur essendo gli slavi come si sa, cristiani...

Come Mussolini, dal suo inveterato anticlericalismo, si dové convertire politicamente al Vaticano (mentré invano il suo sodale Marinetti, come s'è visto, intimava lo «svaticanamento» d'Italia) così Bossi, pur continuando le comiche esibizioni rituali al "Dio Po", recandosi alle sorgenti del fiume, dové dare forma di croce alla spada di Alberto da Giussano, e proclamarsi defensor fidei. L'anti-islamismo, in relazione ai flussi migratori dal Maghreb e dal Medio Oriente, con le paure suscitate ad arte, e in parte spontanee nelle classi meno acculturate, divenne una delle carte vincenti sul piano ideologico. E la Lega fu, oltre che il partito del Nord, il partito delle classi medie proprietarie, imprenditrici, ma anche dei ceti infimo-borghesi, dai camionisti agli agricoltori: tutti coloro che ritenevano e ritengono che lo Stato sia cosa estranea e nemica, da cui pretendere, ma a cui non dare. Coloro che respingevano, opportunamente insufflati dai flauti dei propagandisti, ogni principio di solidarietà tanto interna quanto internazionale; se buoni sentimenti s'avevano da esprimere, andavano riservati ai padani, dai padani: insomma, tra i padani. Era populismo territoriale, materiale, carnale, mentre quello berlusconiano appariva populismo mediatico, fondato sulla logica del marketing, del televoto, del talk show, del sondaggio. Il sondaggismo è divenuto una delle manifestazioni della postdemocrazia, e non solo in Italia; una delle sue tante forme patologiche. Impunità del potente, appello alla piazza (mediatica, ma non soltanto); legislazione ad personam, e ad classem; confusione tra spazio pubblico e spazio privato; concezione proprietaria dello Stato; controllo ossessivo dell'informazione e monopolio pressoché totale della comunicazione; smantellamento delle garanzie del welfare State; perdita di importanza delle elezioni; eliminazione o forte riduzione del potere (di scelta dei rappresentanti e di controllo del loro operare) dei cittadini; svuotamento delle istituzioni parlamentari a vantaggio dell'Esecutivo e della "terza Camera", quella televisiva; selezione del ceto politico in base a criteri di pura clientela, anche nel senso più volgare, di clientela sessuale a pagamento; corruzione endemica tollerata e praticata ai più alti vertici; crollo di ogni valore morale, per i potenti, mentre ai subalterni si tenta di inculcare la morale cattolica più rigida e angusta, anche, naturalmente, per ottenere il sostegno di una Santa Sede tentata dalla teocrazia. Ecco la postdemocrazia all'italiana, che nel venir meno dei partiti tradizionali, nell'eutanasia della sinistra, nel dilagare dell'indifferenza, in una crisi sociale spaventosa, toglie speranza alle giovani generazioni e getta nella pattumiera cassintegrati, licenziati, delocalizzati, cancella il ruolo formativo della scuola pubblica, fa la faccia feroce con i deboli e si piega ai forti, rovescia la politica nell'antipolitica.

Vi sono stati contravveleni in questa Italia videocratica, iperconsumistica, postdemocratica e troppo prona ai dettami vaticani? Vi sono stati, e vi sono: certamente un nucleo importante, forse il principale, fu, ancora una volta, collocato sotto la Mole, terreno fecondato dal liberalismo, dal cattolicesimo sociale, dall'azionismo, dal gramscismo. Norberto Bobbio , innanzi tutto, pur negli ultimi suoi anni. Grande sistematizzatore, eccellente analista, seppe, con tutti i suoi limiti – teoretici e legati ai comportamenti politici – cogliere quasi sempre il punto decisivo delle questioni filosofico-politiche, mentre il versante giuridico andò lungo i decenni riducendosi, pur senza venir meno. Il che se da un lato lo aiutò nel fare chiarezza, dall'altro poté talora indurre ad errori di giudizio che ebbe, quasi sempre, l'onestà di ammettere, ex post. Così, i suoi giudizi sulle guerre del mondo post-bipolare, a cominciare dalla prima, quella del Golfo, dell'inizio del 1991, definita improvvidamente «giusta», o quella della Nato (del '99), contro la Repubblica Jugoslava, etichettata addirittura come «etica». Bobbio, d'altronde, non fu un esponente del pacifismo, ideologia che in Italia non ha avuto grande fortuna, ma aveva dimostrato apertura e sensibilità alla tematica, sia grazie a rapporti umani e politici, per esempio con Aldo Capitini (a cui ho fatto riferimento), sia per incontri intellettuali, come quello con Gόnther Anders , che gli fece scoprire, nei primi anni sessanta, la «coscienza atomica», e per cui scrisse la Prefazione all'edizione italiana di quel bellissimo diario di viaggio nelle città giapponesi martiri della "bomba".

Altrettanto intenso, e più convincente, il dialogo di Bobbio con la politica interna, e totale la sua ripulsa delle nuove (o presentate come tali) ideologie, espresse in individui e movimenti, presto trasformatisi in partiti. Con sobrietà, che a qualcuno poteva sembrare esitazione, Bobbio monitorò criticamente l'Italia degli anni novanta, ultimo suo decennio di vita, mentre portava avanti una dolente riflessione sulla vecchiezza. E in parallelo all'inesorabile avanzare dell'età, alla perdita di amici e familiari, si definiva il sentimento di crescente estraneità a quella Repubblica, che, accanto a tanti altri, intellettuali e politici, militanti e combattenti, egli aveva contribuito a costruire. Quell'Italia accesa dalle grandi speranze resistenziali, e poi l'Italia della ricostruzione, quella che scopriva il significato della gramsciana «riforma intellettuale e morale», nel corso dei decenni, pur tra un incessante succedersi di illusioni e disillusioni, agli occhi del vecchio filosofo appariva trasformata nel suo contrario: l'Italia del malaffare giunta, trionfalmente, al potere, dopo che, per un momento, era parsa sconfitta e messa alla gogna davanti a una pubblica opinione infine ridestata da un lungo sonno... Questa Italia angosciò l'estrema vecchiezza di Norberto Bobbio, contribuendo a togliergli la voglia stessa di far udire ancora la sua voce, resa più flebile e stanca dal carico degli anni. Soprattutto quella sensazione che egli aveva riassunto nell'espressione «straniero in Patria», di certo alleviò Bobbio nell'abbandono della scena: l'Italia impersonata dal cavalier Berlusconi, non era l'Italia del professor Bobbio; un'Italia, lontana incommensurabilmente dalla sua rimpianta e forse sognata «Italia civile», che era ormai un paese a cui egli si sentiva profondamente estraneo e dal quale non dové dispiacergli troppo uscire per l'estremo viaggio.

Accanto a Bobbio, non pochi furono coloro che tentarono di evitare al popolo italiano di cadere nelle trappole del neopopulismo, sia territoriale leghista, sia mediatico berlusconiano; a cominciare da Indro Montanelli, che negli ultimi suoi anni divenne uno dei più temerari alfieri della critica al potere dell'autocrate, a Enzo Biagi, per indicare due giornalisti-scrittori liberali che dissentirono pubblicamente dall'autocrate, e furono variamente puniti. Ed altri ancora, da Luigi Pintor a Edoardo Sanguineti, da Eugenio Scalfari a Franco Cordero, da Stefano Rodotà a Barbara Spinelli, da Luciano Canfora a Massimo Salvadori, da Gustavo Zagrebelsky a Luciano Gallino, da Giorgio Bocca a Paolo Flores d'Arcais, da Alberto Asor Rosa a Rossana Rossanda e, infine (ma ben più lungo sarebbe l'elenco), da Michele Serra a Marco Travaglio... Tuttavia essi, e con loro le tante voci critiche dell'Italia tra la fine del XX e il principio del XXI secolo, non governano la televisione, anche quando vi sono ospitati; non sono in grado di essere opinion leader paragonabili a personaggi di ben inferiore calibro, che nondimeno finiscono per creare senso comune. Dunque, gli studiosi seri, i giornalisti coraggiosi, i commentatori liberi, sono sconfitti in partenza, o lo sono stati fino a qualche tempo fa: oggi, mi pare, grazie a loro, ma grazie anche a tanti minori, e maggiori personaggi dell'universo intellettuale, a tanti ragazzi e ragazze dell'università e della scuola, a tanti insegnanti e precari della ricerca, a tanti operai e operaie, e anche impiegati, galvanizzati dalla resistenza di Pomigliano e di Mirafiori, nuove idee circolano. Sono idee non solo di resistenza («Resistere, resistere, resistere, come su una irrinunciabile linea del Piave», sentenziò, amaro e tuttavia pugnace, chiudendo il suo discorso inaugurale per l'anno giudiziario il 12 gennaio 2002, Francesco Saverio Borrelli, il padre nobilissimo di Mani Pulite, a dieci anni da quel vibrante momento della storia patria), ma di attacco. Idee che arrivano nelle piazze, come la straordinaria manifestazione del 13 febbraio 2011, delle donne, per le donne, ma anche degli uomini, per gli uomini: contro la volgarità governante di Silvio Berlusconi, la sua reificata concezione della femmina di cui, per riprendere le proverbiali parole del suo intelligentissimo avvocato difensore (uno dei tanti), egli si pone come «utilizzatore finale». Se, come scrive Marx nei Manoscritti del 1844, la civiltà di una società si misura dal rapporto uomo-donna, la civiltà dell'Italia del Cavalier B. si è rovesciata in inciviltà: la rivolta spontanea delle donne, e dei loro compagni, figli, genitori, amici, è stata una dimostrazione che ogni idea, anche la più nefanda, ne può generare una opposta e contraria, capace di contrastarla e sconfiggerla.

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