Autore James Gleick
Titolo Viaggi nel tempo
EdizioneCodice, Torino, 2018 , pag. 258, ill., cop.fle., dim. 13,6x20x2 cm , Isbn 978-88-7578-739-4
OriginaleTime Travel. A History [2016]
TraduttoreLaura Servidei
LettoreMargherita Cena, 2018
Classe viaggi , fantascienza , fisica , filosofia , storia letteraria , storia della scienza , inizio-fine












 

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Indice


  3   Capitolo  1   La macchina

 15   Capitolo  2   Fin de Siècle

 33   Capitolo  3   Filosofi e giornaletti

 53   Capitolo  4   Luce antica

 67   Capitolo  5   Un gran bel futuro

 81   Capitolo  6   La freccia del tempo

 91   Capitolo  7   Un fiume, un sentiero, un labirinto

107   Capitolo  8   Eternità

123   Capitolo  9   Tempo sepolto

141   Capitolo 10   All'indietro

163   Capitolo 11   I paradossi

183   Capitolo 12   Cos'è il tempo?

201   Capitolo 13   L'unica barca

217   Capitolo 14   Il presente


233   Bibliografia

249   Crediti delle illustrazioni

251   Indice dei nomi e delle opere


 

 

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Pagina 3

Capitolo 1

La macchina




Da giovane ero scettico sul futuro, lo vedevo come mera potenzialità, uno stato di cose che avrebbe potuto forse accadere, ma probabilmente non sarebbe accaduto mai. John Banville


Siamo nel diciannovesimo secolo. Un uomo, in fondo a un corridoio pieno di spifferi, alla luce fioca di una lampada a petrolio, esamina una macchina fatta di nichel e avorio, con barre di ottone e aste di quarzo. Un aggeggio tozzo, sgraziato, per il lettore quasi sfocato, difficile da visualizzare nonostante l'elenco di parti e materiali. Il nostro eroe stringe delle viti, aggiunge una goccia d'olio, si mette in sella e afferra una leva con entrambe le mani. Sta partendo per un viaggio. Ah, quasi dimenticavo: anche noi stiamo partendo. Tira la leva e scioglie le briglie del tempo.

La descrizione dell'uomo non è precisa: sappiamo che ha gli «occhi grigi» ed è «pallido». Non ha nemmeno un nome; per noi è solo il Viaggiatore nel Tempo: «Sarà opportuno chiamarlo così». Tempo e viaggio: nessuno ha mai pensato di collegare queste due parole, prima d'ora. E la macchina? È solo una strana bicicletta, con sella e manubrio. Si tratta dell'invenzione di un giovane entusiasta di nome Wells , che usa solo le iniziali del suo nome, H.G., perché pensa che abbiano un suono più autorevole di Herbert. In famiglia però lo chiamano Bertie. Vorrebbe tanto fare lo scrittore. È un uomo moderno, che crede nel socialismo, nell'amore libero e nelle biciclette. Fiero membro del Touring Club dei ciclisti, va su e giù per la valle del Tamigi su una bici pesante, con struttura tubolare e pneumatici, godendosi la pedalata: «I muscoli trattengono la memoria del movimento, e sembrano continuare a pedalare». A un certo punto vede la pubblicità di un congegno chiamato "bicicletta da casa", marca Hacker: una bici stazionaria, con ruote di gomma, per fare esercizio pedalando senza andare da nessuna parte. O meglio, in nessun luogo: le ruote girano, ma il tempo passa.

Il ventesimo secolo stava arrivando. Il 1900, una data dall'eco apocalittica. Albert Einstein era un ragazzino che frequentava il ginnasio a Monaco di Baviera. Solo nel 1908 il matematico Hermann Minkowski avrebbe annunciato la sua rivoluzionaria idea: «D'ora in poi lo spazio isolatamente considerato, e il tempo isolatamente considerato, sono destinati a dissolversi in mere ombre, e solo una sorta di unione fra i due può conservare una realtà indipendente». Wells ci era già arrivato, ma al contrario di Minkowski non stava cercando di descrivere l'universo; voleva solo mettere insieme qualcosa che giustificasse la trama di una storia fantastica.

Oggigiorno viaggiamo nel tempo con facilità, nei sogni e nell'arte. Questo particolare tipo di viaggi sembra una tradizione consolidata, radicata nella mitologia, vecchia come gli dei e i draghi, ma non è così. Gli antichi immaginavano l'immortalità, la reincarnazione e il regno dei morti: le macchine del tempo erano al di là della loro comprensione. I viaggi nel tempo sono una fantasia dell'era moderna. Quando Wells nella sua stanza illuminata a petrolio pensa a una macchina del tempo, sta anche inventando un nuovo modo di pensare.

Perché non era mai successo prima? Perché proprio in quel momento?


Il Viaggiatore inizia con una lezione di scienze (o sono solo baggianate?). Raduna i suoi amici davanti al camino, in salotto, e spiega che tutto ciò che pensano di sapere sul tempo è sbagliato. Sono personaggi stereotipati, poco più che macchiette: il Medico, lo Psicologo, il Redattore, il Giornalista, il Silenzioso, il Giovine, il Sindaco di Campagna. E poi l'immancabile "spalla", «un tipo dai capelli rossi che amava polemizzare» di nome Filby.

«Seguitemi con attenzione» dice il Viaggiatore nel Tempo «perché sto per mettere in discussione un paio di idee quasi universalmente accettate. Per esempio, la geometria che avete imparato a scuola si basa su una concezione sbagliata». La geometria scolastica (euclidea) prevede tre dimensioni, quelle visibili: lunghezza, larghezza e altezza.

Naturalmente il pubblico è dubbioso. Il Viaggiatore procede con metodo socratico: li attacca a colpi di logica. Si difendono debolmente.


«Sapete senza dubbio che una linea matematica, una linea di spessore nihil, non esiste nella realtà: questo ve l'hanno insegnato, no? Neppure un "piano matematico" esiste nella realtà. Sono soltanto semplici astrazioni».

«Fin qui ci siamo...» annuì lo Psicologo.

«Per la stessa ragione, neppure un cubo avente soltanto una lunghezza, una larghezza e un'altezza esiste nella realtà».

«Ecco, no... Io qui la penso diversamente» lo interruppe Filby. «Un corpo solido esiste. Ogni cosa reale...»

«Quasi tutti la pensano così, infatti; ma aspettate un momento: secondo voi può esistere un cubo istantaneo?».

«Non riesco a seguirla...» osservò Filby (poveretto].

«Un cubo che non duri neppure un secondo, può esistere nella realtà?».

Filby sembrava immerso in profonde riflessioni. «È chiaro», continua il Viaggiatore nel Tempo, «che ogni corpo reale deve estendersi in quattro dimensioni: deve avere cioè una lunghezza, un'altezza, una larghezza e... una durata».


Ah, la quarta dimensione. Alcuni matematici, in Europa, già discutevano di come le tre dimensioni euclidee non rappresentassero tutta la faccenda. C'era August Möbius , la cui famosa "striscia" bidimensionale si attorcigliava nella terza dimensione, e Felix Klein , la cui "bottiglia" si estendeva nella quarta. C'erano Gauss , Riemann e Lobacevskij , tutti pensatori fuori dagli schemi. Per gli studiosi di geometria la quarta dimensione era una direzione sconosciuta, ortogonale a tutte le direzioni conosciute. Si può visualizzare? In che direzione? Già nel diciassettesimo secolo il matematico inglese John Wallis aveva riconosciuto la possibilità algebrica di dimensioni superiori, che chiamò «un mostro della natura, meno possibile di una chimera o di un centauro». Eppure i matematici trovavano sempre più utili concetti che non avessero un significato fisico, costrutti teorici che svolgevano la loro funzione in un mondo astratto, senza necessariamente descrivere caratteristiche del mondo reale.

Influenzato da questi studiosi di geometria, un pedagogo di nome Edwin Abbott pubblicò un romanzetto, nel 1884, in cui creature a due dimensioni si arrovellavano nel tentativo di capire la terza. Nel 1888 Charles Howard Hinton , genero del logico George Boole , coniò la parola tesseratto per l'analogo quadridimensionale del cubo. Lo spazio a quattro dimensioni racchiuso da questo oggetto si chiama ipervolume. Hinton lo popolò di iperconi, iperpiramidi e ipersfere. Intitolò il suo libro, peccando forse di poca modestia, Una nuova era del pensiero, e suggerì che questa misteriosa, invisibile quarta dimensione potesse fornire una risposta al mistero della coscienza. «Evidentemente siamo creature a quattro dimensioni, o non saremmo in grado di immaginare la quarta dimensione» argomentava. Per costruirci modelli mentali del mondo e di noi stessi, dobbiamo avere molecole speciali nel cervello: «Potrebbe essere che queste molecole cerebrali abbiano il potere di muoversi nella quarta dimensione, e formare strutture a quattro dimensioni».

Per un certo periodo di tempo, nell'Inghilterra vittoriana, la quarta dimensione diventò una sorta di contenitore, il nascondiglio per ogni cosa misteriosa, invisibile, spirituale: qualunque cosa che sembrasse nascondersi appena fuori dalla nostra portata. Magari il paradiso era nella quarta dimensione; dopo tutto gli astronomi non riuscivano a vederlo con i loro telescopi. La quarta dimensione era uno scomparto segreto usato dai visionari e dagli occultisti. «Siamo alla vigilia della Quarta Dimensione, ecco dove siamo!» dichiarò William T. Stead, un giornalista scandalistico, sulla "Pall Mall Gazette", nel 1893. Spiegò che questa si poteva esprimere con formule matematiche, e si poteva immaginare («con molta fantasia»), ma non si poteva vedere, perlomeno non da «uomini mortali». Era un luogo «di cui si intravvede fugacemente qualcosa in quei fenomeni completamente inspiegabili dalle leggi dello spazio tridimensionale». Per esempio, la chiaroveggenza, o la telepatia. Mandò il suo lavoro alla Psychical Research Society perché continuassero a indagare. Diciannove anni più tardi si imbarcò sul Titanic e morì.

In confronto Wells è sobrio, e semplice: non c'è alcun misticismo, per lui. La quarta dimensione non è un mondo fantastico, non è né il paradiso né l'inferno. È il tempo.

Ma cos'è il tempo? Un'altra direzione, ortogonale a tutto il resto. Tutto qui. È solo che non si è mai riusciti a vederlo, almeno fino a ora, fino al Viaggiatore nel Tempo. «Per la naturale imperfezione dei sensi umani [...] noi siamo inclini a sorvolare su quest'ultimo presupposto» spiega con freddezza. «Non vi è differenza alcuna fra il tempo e una qualsiasi delle tre dimensioni dello spazio, senonché è solo il nostro inconscio che si muove lungo il tempo».

In un periodo di tempo sorprendentemente breve questo concetto sarebbe diventato parte integrante dell'ortodossia della fisica teorica.

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Pagina 28

La fin de siècle stava arrivando. Preparandosi ai festeggiamenti per l'anno 1900 a Lione, Armand Gervais, un produttore di giocattoli a cui piacevano le novità e gli automi, commissionò cinquanta stampe a colori a un artista di nome Jean-Marc Côté. Queste immagini evocavano un mondo di meraviglie che sarebbero potute esistere nell'anno 2000: persone che si spostano con minuscoli aeroplani personali, che fanno la guerra con i dirigibili, che giocano a croquet sott'acqua. Forse la migliore è la scuola, dove bambini coi calzoni corti siedono con le mani sul banco, mentre l'insegnante inserisce libri in un enorme macinino, azionato da una manovella. I libri vengono polverizzati in pura informazione, trasferita poi per mezzo di cavi su per il muro, attraverso il soffitto e giù nelle orecchie degli alunni mediante cuffie acustiche.

Le illustrazioni di Côté hanno una storia curiosa. Non furono mai pubblicate, al tempo della loro creazione; qualche serie fu stampata nella cantina della fabbrica di Gervais nel 1899 dopo la sua morte. La fabbrica fu chiusa, e il contenuto della cantina rimase nascosto per circa venticinque anni. Un antiquario parigino si imbatté nell'inventario di Gervais negli anni venti e comprò tutto, incluse le prove di stampa delle cartoline di Côté, in condizioni eccellenti. Le tenne per cinquant'anni, poi le vendette nel 1978 a Christopher Hyde, uno scrittore canadese che capitò nel suo negozio in rue de l'Ancienne-Comédie. Hyde, da parte sua, le mostrò a Isaac Asimov , il famoso scienziato di origine russa e scrittore di fantascienza, autore o editore, fino a quel momento, di 343 libri. Asimov trasformò le cartoline En l'an 2000 nel suo 344esimo libro. Vide qualcosa di speciale in quelle illustrazioni, qualcosa di veramente nuovo negli annali delle profezie.

La profezia è un'arte molto antica. Il mestiere di "prevedere" il futuro esiste da quando esiste la Storia. La preveggenza, la profezia, la divinazione sono tra le professioni più venerabili, se non tra le più accreditate. Nell'antica Cina c'era Il libro dei mutamenti (I Ching); le sibille e gli oracoli facevano grossi affari in Grecia; gli aeromanti, i chiromanti e i cristallomanti vedevano il futuro nella forma delle nuvole, sul palmo della mano o nei cristalli. Come riporta Cicerone, il severo Catone si stupiva che un aruspice non scoppiasse a ridere, quando ne incontrava un altro per strada.

Tuttavia il futuro previsto dai chiromanti rimane una faccenda personale. Gli indovini scrutavano disegni mistici e studiavano i tarocchi per prevedere le sorti di singoli individui: malattia o salute, felicità o disperazione, nuovi incontri; il futuro del mondo, in generale, non cambiava un granché. Per gran parte della Storia, il mondo in cui ci si immaginava avrebbero vissuto i propri figli era lo stesso ereditato dai genitori: ogni generazione era uguale alla precedente. Nessuno chiedeva all'oracolo di prevedere come sarebbe stata la vita quotidiana in anni futuri.

«Supponiamo di mettere da parte la divinazione» dice Asimov. «Supponiamo di abbandonare anche le previsioni apocalittiche ispirate dalla divinità. Cosa ci resta?».

Il Futurismo, ridefinito da Asimov stesso. Wells parlava della futurità al volgere del secolo; poi della parola futurismo si appropriò, in Italia, un'avanguardia artistica. Filippo Tommaso Marinetti pubblicò il Manifesto futurista nell'inverno del 1909, autoproclamando sé stesso e i suoi accoliti, finalmente, liberi dal passato.

Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti, poiché ci sentivamo soli, in quell'ora, ad esser desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle avanzate, di fronte all'esercito delle stelle nemiche [...] «Andiamo,» diss'io, «andiamo, amici!» [...] E noi, come giovani leoni, inseguivamo la Morte.

Il manifesto include undici punti. Numero uno: «Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo». Il numero quattro riguarda le automobili: «Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un'automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo». I futuristi crearono uno dei tanti movimenti del ventesimo secolo che si definivano orgogliosamente avant-garde: lo sguardo in avanti, sfuggendo il passato e avanzando a grandi passi nel futuro.

Quando Asimov usò questa parola, la intese in senso molto più basilare: un senso di futuro come luogo immaginario, diverso, profondamente diverso, da tutto ciò che è venuto prima. Durante la storia dell'umanità, non si riusciva a vedere il futuro in questo modo. Le religioni non proponevano grandi ipotesi: parlavano di rinascita, o di eternità, una nuova vita dopo la morte, un'esistenza avulsa dal tempo. Poi, finalmente, l'umanità divenne cosciente: si iniziò a percepire che c'era qualcosa di nuovo sotto il Sole. Spiega Asimov:

Per arrivare al futurismo, dobbiamo prima riconoscere l'esistenza del futuro come stato significativamente diverso dal presente e dal passato. Può sembrare che l'esistenza di un tale futuro sia ovvia, ma non è stato così, fino a tempi relativamente recenti.

Ma quando è successo? Il vero inizio è stato l'invenzione della stampa di Gutenberg, che permise la conservazione della memoria culturale in forma visibile, tangibile e condivisibile. Questo processo raggiunse la velocità critica con la Rivoluzione industriale e l'avvento delle macchine (telai, mulini, fornaci, carbone, ferro e vapore) che crearono, tra l'altro, un'immediata nostalgia per lo stile di vita agricolo, apparentemente in dissoluzione. I poeti erano all'avanguardia: «Ascoltate la voce del Bardo!» implorava William Blake , «che vede Presente, Passato e Futuro». Alcuni amavano il progresso più di Blake, che chiamava le macchine industriali «oscuri mulini di Satana», ma, in ogni modo, prima della nascita del futurismo si poteva ancora credere o non credere nel progresso. I cambiamenti tecnologici non erano sempre sembrati una strada a senso unico: ora sì. I figli della Rivoluzione industriale erano testimoni di grandi trasformazioni durante la loro vita; non c'era modo di tornare al passato.

Circondato da macchinari sempre più avanzati, Blake incolpava, più di ogni altro, Isaac Newton , l'ottuso razionalista che imponeva il nuovo ordine. Ma lo stesso Newton non credeva nel progresso: aveva studiato a lungo la Storia, soprattutto biblica, e semmai pensava che la sua epoca rappresentasse una caduta dallo stato di grazia, un rimasuglio di glorie passate. Quando creava dal nulla pagine e pagine di matematica nuova, pensava di stare riscoprendo segreti ben noti agli antichi, e dimenticati. In lui, l'idea di tempo assoluto non sovvertiva la fede nel tempo eterno della Cristianità. Gli storici che studiano il concetto moderno di progresso hanno osservato che questo iniziò a svilupparsi nel diciottesimo secolo, insieme con l'idea moderna di Storia. Ora diamo per scontato il senso della Storia, il senso di "tempo storico"; la storica Dorothy Ross lo definisce come «la dottrina secondo cui tutti i fenomeni storici si possono interpretare storicamente, e tutti gli eventi nel tempo storico si possono spiegare mediante gli eventi che li hanno preceduti nel tempo». Lo chiama «un traguardo complesso, e tardivo, della cultura occidentale». Sembra così ovvio, oggi: si costruisce a partire dal passato.

Così, mentre il Rinascimento declinava, qualche scrittore iniziò a immaginare il futuro. Oltre a Madden con le sue Memorie del ventesimo secolo, e Mercier con il suo sogno sull'anno 2440, altri tentarono di scrivere storie su società di là da venire che, a posteriori, si possono definire "futuristiche", sebbene la parola non appaia nella lingua inglese fino al 1915. Erano sfide ad Aristotele, che scrisse «nissuno narra circa le cose da venire; e se pur ci interviene sarà delle cose passate, acciocché rammemorandole si consulti meglio delle future».

Il primo vero futurista è stato Jules Verne. Negli anni sessanta dell'Ottocento, mentre le locomotive sbuffavano nella campagna e le navi a vapore sostituivano i velieri, Verne immaginava veicoli in grado di viaggiare sotto il mare, in cielo, al centro della Terra, sulla Luna. Potremmo definirlo un precursore: aveva una sensibilità e una consapevolezza tipiche di tempi più vicini a noi. Anche Edgar Allan Poe precorreva i tempi, e così pure il matematico vittoriano Charles Babbage e la sua collaboratrice Ada Lovelace , pionieri dell'informatica moderna. Jules Verne era così avanti da non riuscire a trovare un editore che pubblicasse il suo libro più futuristico, sulla Parigi del secolo ventesimo, una distopia popolata da automobili a gas, «boulevard illuminati a giorno» e macchine da guerra. Il romanzo, scritto a mano su un quaderno giallo, tornò alla luce nel 1989, quando un fabbro aprì una vecchia cassaforte di famiglia.

Il più grande futurista a seguire fu Wells stesso.

Oggi, siamo tutti futuristi.

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«Sia chiaro» scrisse Gernsback in un breve trattato per aspiranti scrittori, «che una storia di fantascienza dev'essere l'esposizione di un tema scientifico, e dev'essere anche una storia [...]. Dev'essere ragionevole e logica, e basata su principi scientifici noti». Nel primo numero di "Amazing Stories" ristampò Verne, Wells e Poe, insieme con La fuga del grattacielo di Murray Leinster. Nel secondo anno ristampò l'intera Macchina del tempo. Naturalmente non si curò mai di pagare i diritti per queste ristampe. Offriva agli scrittori venticinque dollari per le storie originali, ma spesso quei soldi non arrivavano. Nel suo instancabile sforzo di promuovere il genere, Gernsback fondò un'organizzazione di sostenitori, la Lega della Fantascienza, con sedi in tre paesi.

L'idea della fantascienza come genere distinto dalla narrativa, e presumibilmente inferiore, nacque qui, in questi giornaletti da quattro soldi, a malapena distinguibili dai fumetti o dalle riviste porno. Tuttavia con la fantascienza nasceva anche una forma culturale, un modo di pensare che ben presto non fu possibile ignorare come spazzatura. «Posso solo suggerire» scrisse Kingsley Amis qualche anno dopo «che mentre nel 1930 chi scriveva fantascienza era probabilmente uno svitato, o un dilettante, arrivati al 1940 poteva benissimo essere un normale giovane all'inizio della propria carriera, membro della prima generazione nata e cresciuta con il genere già esistente». Nelle pagine dei giornaletti-spazzatura, la teoria e la prassi dei viaggi nel tempo iniziarono a prendere forma. Al di là delle storie c'erano le lettere dei lettori curiosi e le note dei redattori: si scoprivano paradossi e li si cercava di descrivere (non senza qualche difficoltà).

«E come la mettiamo con questa macchina del tempo?» scriveva un certo T.J.D. nel luglio del 1927. Proviamo a considerare altre possibilità. E se il nostro inventore tornasse fino ai suoi giorni di scuola? Il suo orologio va avanti, mentre quello sul muro del laboratorio va all'indietro». E se incontrasse sé stesso bambino? «Andrebbe a stringere la mano al suo alter ego? Ci sarebbero due persone identiche ma fisicamente distinte [...] Porca miseria! Chiamate Einstein!»

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Al di là delle convinzioni religiose, la motivazione di Newton era la matematica: aveva bisogno del tempo assoluto, così come dello spazio assoluto, per definire i suoi termini ed esprimere le sue leggi. Il moto è definito come un cambiamento nello spazio e nel tempo; l'accelerazione è il cambiamento della velocità nel tempo. Sullo sfondo di un tempo matematico vero e assoluto, Newton è riuscito a costruire un'intera cosmologia, un Sistema del Mondo. Era un'astrazione, una convenienza, una struttura utile a fare i calcoli, ma per lui era anche la dichiarazione della sua visione del mondo. Ci si può credere oppure no.

Einstein per esempio ci credeva, ma fino a un certo punto. Credeva in un edificio di leggi e di calcoli che, da spoglia chiesetta, era diventato un'imponente cattedrale barocca, sostenuta da colonnate e contrafforti, con strati di bassorilievi e intrecci decorativi; tuttavia un cantiere ancora aperto, con cripte nascoste e cappelle in rovina. In questo edificio, il tempo t giocava un ruolo fondamentale: nessuno riusciva a comprendere l'intera struttura, ma Einstein ne capiva più di altri, e aveva incontrato un problema, una contraddizione interna. Il grande trionfo della fisica dell'ultimo secolo, a opera di James Clerk Maxwell , era stata la connessione tra elettricità, magnetismo e luce: il successo era talmente evidente che l'intero mondo si stava ricoprendo di fili. La corrente elettrica, i campi magnetici, le onde radio e le onde luminose erano una cosa sola.

Le equazioni di Maxwell rendevano per la prima volta possibile calcolare la velocità della luce, ma non si armonizzavano perfettamente con le leggi della meccanica. Quelle onde luminose, per esempio, erano chiaramente onde dal punto di vista matematico, ma onde di cosa? Il suono ha bisogno dell'aria, o dell'acqua, o di altre sostanze per propagare la vibrazione; le onde di luce, allo stesso modo, implicavano necessariamente l'esistenza di un mezzo invisibile, il cosiddetto etere luminifero. Naturalmente, gli scienziati cercarono di rilevare la presenza di questo etere, ma senza successo. Albert Michelson ed Edward Morley escogitarono un ingegnoso esperimento, nel 1887, per misurare la differenza tra la velocità della luce in direzione del moto della Terra e in direzione perpendicolare, ma non trovarono alcuna discrepanza tra i valori. C'era proprio bisogno dell'etere? O si poteva pensare all'elettrodinamica dei corpi in movimento attraverso lo spazio vuoto?

Oggi sappiamo che la velocità della luce nello spazio vuoto è costante: 299.792.458 metri al secondo. Nessun'astronave potrà mai "sorpassare" un raggio di luce, o ridurre quel numero anche di un briciolo. Einstein arrancava (parlava di «tensione psichica» e «ogni sorta di conflitto nervoso») nel dare un senso a tutto ciò: liberarsi dell'etere luminifero, accettare che la velocità della luce fosse assoluta. Era necessario il crollo di qualche altra certezza. Un giorno a Berna (come egli stesso raccontò in seguito) ne discusse con l'amico Michele Besso. «Il giorno dopo arrivai da lui e dissi, senza nemmeno dargli il buongiorno: "Grazie. Ho completamente risolto il problema"». La soluzione stava nel concetto di tempo: se la velocità della luce è assoluta, allora il tempo non può esserlo. Dobbiamo abbandonare la fede nel concetto di simultaneità, l'ipotesi secondo cui si può parlare di due eventi che accadono nello stesso istante; ogni osservatore ha esperienza del proprio presente. «Il tempo non si può definire in modo assoluto» secondo Einstein; o, meglio, gli si può dare una definizione, ma questa non può essere assoluta, «e c'è una relazione inseparabile tra il tempo e la velocità del segnale».

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Pagina 65

Cos'è la memoria, per un viaggiatore nel tempo? Un mistero. Diciamo che la memoria «ci riporta indietro». Virginia Woolf chiamava la memoria «la cucitrice», una cucitrice «capricciosa» per di più. («La Memoria fa correre l'ago su e giù, a dritta e a manca, di qua e di là. Non sappiamo mai quel che viene, né quel che segue poi».)

«Non posso ricordare le cose prima che avvengano» dice Alice, e la regina risponde: «Che miserabile razza di memoria è quella che lavora solo all'indietro!». La memoria è e non è il nostro passato; non viene "incisa" una volta per tutte, come a volte crediamo: è costruita, e continuamente ricostruita. Se il viaggiatore nel tempo incontra sé stesso, chi ricorderà cosa, e quando?

Nel ventunesimo secolo i paradossi della memoria diverranno più familiari e Steven Wright potrà osservare: «In questo momento ho un'amnesia e un déjà vu al tempo stesso, ma temo di essermene già dimenticato».

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Pagina 71

Cos'è l'io? Ecco una domanda per il ventesimo secolo, da Freud a Hofstadter a Dennett passando per Lacan. I viaggi nel tempo forniscono alcune tra le più profonde variazioni sul tema. Abbiamo personalità multiple e un florilegio di alter ego; abbiamo imparato a dubitare se siamo veramente i noi stessi più giovani, se saremo la stessa persona, quando ci guarderemo di nuovo. La letteratura dei viaggi temporali (sebbene Bob Heinlein , nel 1941, non si sarebbe mai sognato di definirla letteratura) offre un modo di affrontare questioni che, altrimenti, sarebbero appannaggio esclusivo della filosofia. Le guarda visceralmente e ingenuamente, mettendole a nudo.

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Capitolo 6

La freccia del tempo




Il bello del tempo è che va avanti. Ma questo è un aspetto che i fisici a volte tendono a ignorare. Arthur Eddington


Adesso siamo liberi di saltare avanti e indietro nel tempo (tutta questa esperienza, che ci è costata tanta fatica, dovrà pur servire a qualcosa), ma posizioniamo di nuovo la lancetta sul 1941. Due giovani fisici, a Princeton, arrivano in una casa rivestita di assi di legno bianche, al 112 di Mercer Street, dove vengono introdotti nello studio del professor Einstein. L'illustre scienziato veste un maglione senza camicia e scarpe senza calze. Con cortesia, li ascolta descrivere la teoria che stavano elaborando per spiegare le interazioni tra le particelle. Era non convenzionale, piena di paradossi: diceva che le particelle esercitano la loro influenza su altre particelle non solo in avanti nel tempo, ma anche all'indietro.

II trentenne John Archibald (Johnny) Wheeler era arrivato a Princeton nel 1928, dopo aver lavorato con Niels Bohr a Copenhagen, la patria della nuova meccanica quantistica. Bohr era volato oltreoceano e ora Wheeler lavorava di nuovo con lui, questa volta sulla possibilità della fissione nucleare nell'atomo di uranio. Richard (Dick) Feynman , di ventidue anni, era lo studente di dottorato preferito da Wheeler, un newyorkese brillante e sfacciato. Johnny e Dick sono nervosi, ma Einstein mostra un atteggiamento comprensivo e li incoraggia. Il paradosso occasionale non lo turba più di tanto: anche lui aveva esplorato una teoria simile, nel 1909.

La fisica è fatta di matematica e parole, sempre parole e matematica; se le parole rappresentino entità "reali" non è sempre una domanda sensata. Infatti, i fisici di solito la ignorano. Le onde luminose sono "reali"? E il campo gravitazionale? Il continuo spaziotemporale? Lasciamo queste cose ai teologi. Un giorno l'idea di "campo" sembra indispensabile (te la senti nelle ossa: vedi la limatura di ferro sistemarsi attorno al magnete), il giorno dopo ti chiedi se ci si possa liberare dei campi e ricominciare da capo. Così stavano facendo Feynman e Wheeler. Il campo magnetico, e quello elettrico, cioè il campo elettromagnetico, non aveva più di cent'anni, inventato (o meglio scoperto) da Faraday e Maxwell. I campi riempiono l'universo: abbiamo campi gravitazionali, campi bosonici, campi di Yang-Mills. Un campo è una quantità che varia nello spazio e nel tempo, ed esprime le variazioni di una forza: la Terra percepisce il campo gravitazionale del Sole, che si estende nello spazio. La mela che pende dall'albero è una manifestazione del campo gravitazionale della Terra. Senza campi, bisognerebbe credere alla magia: azioni a distanza, attraverso il vuoto, senza leve e senza fili.

Le equazioni di Maxwell per il campo elettromagnetico funzionavano molto bene, ma poi, tra il 1930 e il 1940, i fisici che si avventurarono nel regno quantistico cominciavano ad avere qualche problema. Avevano ben chiaro quali fossero le equazioni che legano l'energia dell'elettrone al suo raggio, dunque potevano calcolarne con grande precisione la dimensione. Solo che nella meccanica quantistica sembra che l'elettrone non abbia alcun raggio: è una particella puntiforme, zero-dimensionale, non occupa spazio. Sfortunatamente, in matematica, questa descrizione porta a degli infiniti: il risultato di una divisione per zero. Per Feynman molti di questi infiniti nascevano da un effetto circolare dell'elettrone su sé stesso, la sua autoenergia. Per eliminarli, ebbe l'idea di impedire all'elettrone di agire su sé stesso. Questo significava eliminare il campo: le particelle avrebbero potuto solo interagire con altre particelle, direttamente. Ma non istantaneamente: bisognava obbedire alla relatività; le interazioni avvenivano alla velocità della luce. Ed ecco quindi cosa è la luce: interazione tra elettroni.

A Stoccolma, in occasione del conferimento del premio Nobel, Feynman spiegò:

Era solo che, quando si faceva vibrare una carica, un'altra vibrava più tardi. C'era un'interazione diretta tra le cariche, sebbene con un ritardo. La legge della forza che collega il movimento di una carica con un'altra comportava solo di aggiungere un ritardo. Si dà un colpetto a questa, e quell'altra vibra più tardi. L'atomo nel Sole vibra, l'elettrone nel mio occhio vibra otto minuti più tardi, a causa di un'interazione diretta tra loro.

Il problema (se di problema si trattava) era che le regole per l'interazione funzionavano all'indietro come in avanti nel tempo: erano simmetriche. Questo è il tipo di cose che succedono nel mondo di Minkowski, dove passato e futuro sono geometricamente identici. Anche prima della relatività era ben noto che le equazioni di Maxwell per l'elettromagnetismo e, prima ancora, quelle di Newton per la meccanica erano simmetriche rispetto al tempo. Wheeler aveva considerato l'ipotesi che il positrone (antiparticella dell'elettrone) fosse un elettrone che va indietro nel tempo; quindi Johnny e Dick si buttarono a capofitto in una teoria in cui gli elettroni sembravano brillare sia verso il futuro sia verso il passato. «Già allora non ero quel tipo di fisico» continua Feynman «che dice "Oh mio dio! Come può essere?" Oggi tutti i fisici sanno, dopo aver studiato Einstein e Bohr, che a volte un'idea che sembra completamente paradossale all'inizio, se poi si analizza nei particolari e in situazioni sperimentali può risultare, in effetti, niente affatto paradossale».

Alla fine, le idee paradossali risultarono non necessarie per la teoria dell'elettrodinamica quantistica. Come Feynman ben sapeva, queste teorie sono modelli: mai completi, mai perfetti, mai da confondere con la realtà, che rimane al di fuori della nostra portata.

Trovo sempre molto strano che le leggi fondamentali della fisica, quando vengono scoperte, possano apparire in così tante forme, che non sono identiche a prima vista; eppure, con un po' di magheggi matematici si può dimostrarne la relazione [...] C'è sempre un altro modo di dire la stessa cosa, che non assomiglia per niente al modo in cui l'avevamo detta prima [...] Molte idee fisiche diverse possono esprimere la stessa realtà fisica.


Un altro problema stava acquattato, minaccioso, nell'ombra. La termodinamica, la scienza del calore, offriva una versione diversa del tempo.

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Pagina 87

Per un fisico c'è una lacuna preoccupante tra le leggi microscopiche, dove il tempo non ha direzione privilegiata, e il mondo macroscopico, dove la freccia del tempo punta dal passato verso il futuro. Alcuni si accontentano di dire che i processi fondamentali sono reversibili, mentre i processi macroscopici sono pura statistica. Questa lacuna però è una disconnessione, una mancanza di spiegazione. Come si passa da una situazione all'altra? La lacuna ha perfino un nome: il dilemma della freccia nel tempo, o paradosso di Loschmidt.

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Pagina 88

L'universo tende a uno stato di massima entropia, la condizione di estremo disordine, da cui non c'è ritorno. Le uova saranno tutte strapazzate, i castelli di sabbia crollati, il sole e le stelle spenti nell'uniformità dello spazio. Wells sapeva dell'entropia e della morte fredda: è il destino a cui si avvicina il Viaggiatore nel Tempo quando abbandona Weena nell'anno 802.701, lasciando indietro i primitivi Eloi, i bovini Morlocchi, il palazzo di porcellana verde in rovina, la sua galleria di paleontologia deserta da tempo e la sua biblioteca (ormai un ammasso di carta al macero), e punta la sua macchina in avanti, vibrando e curvando attraverso milioni di anni di grigiore, fino a un minaccioso crepuscolo finale sulla Terra. Se si legge La macchina del tempo da giovani, questo è ciò che più rimane nella memoria, o nei sogni: l'immagine finale dove non succede niente. In una delle bozze, Wells la chiamò la visione ulteriore. Se l'Eden è l'alfa, questo è l'omega. Escatologia per gli illuminati. Nessun inferno, nessuna apocalisse; nessuno schianto, solo un lamento.

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Pagina 91

Capitolo 7

Un fiume, un sentiero, un labirinto




Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Jorge Luis Borges


Il tempo è un fiume. Questa ovvietà necessita forse di spiegazioni?

Nel 1850 sì. Caso in questione: un romanzo americano intitolato The Mistake of a Life-Time; or, The Robber of the Rhine Valley. A Story of the Mysteries of the Shore, and the Vicissitudes of the Sea (L'errore di una vita; o il ladro della valle del Reno. Una storia di misteri della riva, e di vicissitudini del mare). L'autore, Waldo Howard, promette «un'accurata rassegna di eventi appartenenti a un periodo entusiasmante e romantico».

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Pagina 95

[...] Le parole dei filosofi alludono alle parole dei filosofi precedenti; le parole dei fisici erano speciali, più precise e definite, e comunque erano quasi tutti numeri. I fisici in genere non chiamano il tempo fiume, non parlano per metafore, o perlomeno non lo ammettono. Perfino "la freccia del tempo" non è tanto una metafora, quanto un tormentone.

Nel ventesimo secolo i fisici hanno preso in mano, moralmente (ne avevano il potere), la situazione, e i filosofi in generale hanno reagito, o resistito. Una volta passato il messaggio di Einstein, i metafisici iniziarono a dire senza vergogna che il tempo e lo spazio hanno la stessa «levatura ontologica», che esistono «nello stesso modo». Come nel caso dei poeti, vivevano nello stesso mondo, tiravano fuori le stesse pedine dal sacchetto, ed erano abbastanza smaliziati da non fidarsi di tutte le parole. Proust era alla ricerca del tempo perduto; Woolf lo stiracchiava e lo torceva; Joyce interiorizzava le notizie che arrivavano dalla frontiera con la scienza. «Temporale o spaziale» scrive Joyce, «l'immagine estetica è dapprima percepita chiaramente come un insieme, limitato e contenuto in sé, sullo sfondo incommensurabile dello spazio o del tempo che non è quest'immagine». No, non lo è. Più tardi diede vita all' Ulisse , il libro di un giorno solo, esodo e ritorno. «Un'equazione insoddisfacente tra un esodo e un ritorno nel tempo attraverso lo spazio reversibile e un esodo e un ritorno nello spazio attraverso il tempo irreversibile», Leopold Bloom si preoccupa del magnetismo e del tempo, del sole e delle stelle, che attraggono e sono attratti: «Stranissimo che l'orologio. Gli orologi a polso non vanno mai bene». C'era senza dubbio una certa agitazione.

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Pagina 106

Se abbiamo solo un universo (se l'universo è tutto ciò che abbiamo) allora il tempo uccide le possibilità; elimina le vite che potremmo aver avuto. Borges sapeva che stava giocando con la fantasia. Eppure, quando Hugh Everett era un ragazzino di dieci anni, Borges aveva già anticipato l'interpretazione a molti mondi con parole precise: «El tiempo se bifurca perpetuamente hacia innumerables futuros».

Il tempo si biforca perpetuamente verso innumerevoli futuri.

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Pagina 107

Ursula K. Le Guin va oltre, nella sua raccolta di racconti. Qui i viaggiatori obbediscono alle leggi della fisica così come le conosciamo noi newtoniani ed einsteiniani. La loro astronave va quasi alla velocità della luce: per fare un viaggio di quattro anni-luce ci vogliono poco più di quattro anni. Rispetto alle persone rimaste sulla Terra, i viaggiatori non invecchiano quasi per niente. Se fanno inversione e tornano subito indietro, sembrerà che abbiano viaggiato otto anni nel futuro. E questo che sensazione dà?

«Del viaggio stesso» scrive Hideo dopo la sua prima esperienza, «non ho alcun ricordo. Mi pare di ricordare quando sono entrato nell'astronave, ma senza alcun particolare, né visuale né di movimento; non riesco a ricordare affatto di essere stato sull'astronave. Il mio ricordo della partenza è una soverchiante sensazione fisica, di vertigine. Traballavo e avevo la nausea».

Ma il secondo viaggio è diverso, è un'esperienza più "normale". È come se il tempo si fermasse, come se non ci fosse. Il viaggio è un momento (un periodo? un intervallo?) in cui il tempo non esiste:

[...] uno snervante interludio in cui non si può pensare consecutivamente, leggere le ore su un orologio o seguire una storia. Parlare e muoversi diventa difficilissimo, se non impossibile. Gli altri sembrano presenze irreali, inesplicabilmente presenti e assenti. Non avevo allucinazioni, ma tutto sembrava un'allucinazione. È come la febbre alta: crea confusione, ci si annoia miseramente, non finisce mai, eppure è difficile da ricordare una volta passata, come se fosse un episodio incapsulato, al di fuori della vita reale.


Abbiamo lasciato il realismo scientifico a bordo strada. Secondo la relatività, quando ci si muove a una velocità vicina a quella della luce, il tempo dovrebbe sembrare normale (se mai esiste una "normalità" della sensazione temporale). Le Guin sta cercando di esprimere qualcos'altro, qualcosa di inimmaginabile: l'assenza del tempo. Una volta Richard Feynman incontrò un gruppo di scolari, uno di questi gli chiese che ora fosse e lui rispose con un'altra domanda: «E se il tempo non esistesse?».

Dio solo lo sa. In teoria, Lui è fuori dal tempo. È eterno.




Un uomo sale su una macchina del tempo, e ora non c'è più bisogno di alcuna spiegazione. La macchina, che viene definita «veicolo temporale», ha sbarre, quadranti e una leva; sembra un ascensore più che una bicicletta. L'uomo percepisce un luccichio, un «grigiore indistinto, solido al tatto e tuttavia immateriale». Sente un «lggero senso di nausea, una vertigine (psicosomatica?)». Il veicolo parte in verticale. Quindi sta andando verso l'alto? Ovviamente no: «Né a sinistra né a destra, né in alto né in basso», sta andando nel tempo.

A proposito: di nuovo un uomo? Mai una donna? Regola: i viaggiatori nel tempo sono radicati nel tempo dei loro autori. Quando il nostro eroe, un tecnico di nome Andrew Harlan, entra nel veicolo temporale, pensa di essere un abitante del novantacinquesimo secolo, ma noi lo riconosciamo come uomo del 1955, anno in cui Isaac Asimov pubblicò il suo dodicesimo romanzo. Leggendolo oggi, possiamo fare una serie di deduzioni riguardo a quel momento storico:


* Nonostante l'eredità di Wells e tre decenni di giornaletti pulp, il viaggio nel tempo rimane un concetto poco familiare. (Il "New York Times" prese una cantonata, intitolando la sua recensione Nel regno dell'astronauta (astronauta era un concetto più noto). Il critico Villiers Gerson fece una domanda che credeva originale: «Se un viaggiatore nel tempo riuscisse ad andare nel 1915 e causare la morte di Adolf Hitler in combattimento durante la prima guerra mondiale, il nostro presente cambierebbe?». (Non sarebbe stato né il primo né l'ultimo a interrogarsi sulla questione.)

* Un Calcolatore è una persona che fa i calcoli, un ragioniere, un matematico. Una macchina che fa i calcoli si chiama macchina calcolatrice, «computaplex» in questa storia, capace di «sommare migliaia e migliaia di variabili». Il computaplex riceve istruzioni e produce risultati sotto forma di fogli perforati.

* Le donne servono a fare i bambini. E anche a sedurre gli uomini.

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Pagina 136

Nel costruire capsule del tempo, gli entusiasti del futuro trascurano un fatto cruciale riguardo alla storia dell'umanità. Nei millenni - lentamente all'inizio, e poi sempre più velocemente - abbiamo sviluppato una metodologia collettiva per conservare informazioni sulla nostra vita, e sulla nostra epoca, e per trasmetterle alle generazioni future: si chiama cultura.

All'inizio c'erano le canzoni, le ciotole di terracotta, i disegni sui muri delle caverne; poi tavolette e rotoli di pergamena, disegni e libri. Oppure nodi su fili di alpaca, che riportavano il calendario degli Incas e le ricevute delle tasse. Si tratta di memorie esterne, estensioni del nostro involucro biologico, protesi mentali. Poi arrivarono "magazzini" per la conservazione di tutto questo: biblioteche, monasteri, musei; e anche compagnie teatrali e orchestre. La loro missione si può considerare l'intrattenimento, o la pratica spirituale, o la celebrazione della bellezza, ma nel frattempo trasmettono la nostra memoria simbolica attraverso le generazioni. Queste istituzioni culturali si possono considerare un sistema distribuito di immagazzinaggio e recupero di informazioni. L'apparato non è affidabile: è disorganizzato e discontinuo, soggetto ad avarie e omissioni; usa un codice, dev'essere decifrato. Del resto, sia che si usi la pietra, la carta, o il silicio, la tecnologia della cultura ha una durabilità che gli originali biologici non si sognano nemmeno. Questo è il modo in cui raccontiamo ai nostri discendenti chi eravamo. In confronto, il recente proliferare di capsule del tempo è uno strambo evento marginale.

I sotterratori di capsule pensano sia ingenuo fidarsi di istituzioni umane rischiose e transitorie come musei e biblioteche; ancora di più in quest'epoca di microprocessori e memoria distribuita. Come faremo a usare Wikipedia, o perfino il museo Metropolitan a New York, quando si spegnerà la luce? Pensano di vederci lungo. Le civiltà sorgono e decadono, soprattutto decadono. Dalle civiltà minoica e micenea dell'età del bronzo alla moderna civiltà in cui viviamo non c'è stata influenza diretta, nessuna continuità o memoria collettiva: si tratta di isole in un oceano di tempo. Quindi ci basiamo su punte di freccia, ossa, e pezzi di vasellame recuperati dai luoghi di sepoltura. Hanno costruito palazzi, dipinto affreschi, e poi sono svaniti nell'oscurità. Noi dissotterriamo i loro resti, ma i pezzetti scoperti dagli archeologi sono accidentali. A Pompei ci volle un cataclisma per congelare tragiche, vivide immagini di vita quotidiana per il nostro futuro godimento, e i sotterratori di capsule del tempo preferiscono non aspettare che scendano cenere e pomice dal cielo.

Con il passare dei millenni, tuttavia, gli esseri umani si sono evoluti dalle creature amnesiche, prive di lingua scritta, abitanti di quei villaggi sparpagliati. Ora siamo accumulatori compulsivi di informazione, collegati da una rete mondiale: ci sono molti più cimeli nei musei, che nelle prime pietre degli edifici. E molti altri sono conservati dai collezionisti di monete e accumulatori seriali a caso. Per conservare le automobili, i garage dei collezionisti sono decisamente più efficienti di volte di cemento sotto terra. Giocattoli? Bottiglie di birra? Ci sono musei specializzati anche in queste cose.

E per quanto riguarda la conoscenza in sé, è il nostro ferro del mestiere. Quando la biblioteca di Alessandria bruciò, era l'unico esemplare; ora ce ne sono centinaia di migliaia, e sono stipate fino all'orlo. Abbiamo sviluppato una memoria della specie: lasciamo tracce ovunque. L'apocalisse verrà (la nostra tecnocrazia compiaciuta naufragherà senza dubbio in una pandemia, o nell'olocausto nucleare, o nella rovina auto-inflitta all'ecosistema globale) e, quando verrà, le nostre rovine saranno stupefacenti.

Quando gli entusiasti riempiono le capsule del tempo, stanno cercando di fermare l'orologio: fanno il punto della situazione, congelano l'attimo, fermano l'incessante scomposta corsa verso il futuro. Il passato appare fissato, ma la memoria, il processo della memoria, è sempre in movimento. Questo si applica alla nostra memoria globale prostetica, come alla versione originale biologica. Quando la biblioteca del Congresso promette di archiviare ogni tweet, crea in tempo reale un paradosso degno di Borges, o una gigantesca camera ardente?


«Una storia non dura che nella cenere» ha scritto Eugenio Montale , «e persistenza è solo l'estinzione».

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Pagina 154

Il fatto che Hitler sia la vittima preferita degli assassini in viaggio nel tempo ha come conseguenza che continua a ritornare in vita. Eccolo nella giungla amazzonica, a novant'anni, nel romanzo di George Steiner Il processo di San Cristobal, oppure vivo e vegeto a Berlino, ancora Führer del Großgermanisches Reich, dopo aver vinto la seconda guerra mondiale nel romanzo di Robert Harris Fatherland. O ancora sifilitico e rimbambito ne L'uomo nell'alto castello, di Philip K. Dick (la Germania ha vinto la guerra, perché in questa versione è stato Franklin D. Roosevelt a venire assassinato prima di poter mettere la sua saggia mano sul timone della Storia). Le variazioni sul tema si moltiplicano. Come genere letterario, queste narrative controfattuali si chiamano storia alternativa, o ucronia, o allostoria, o fantastoria. Le etichette sono nate solo nella seconda metà del ventesimo secolo, quando il genere iniziò a esplodere, alimentato dai viaggi nel tempo e dagli universi paralleli, ma già nel 1930 James Thurber scrisse una satira preveggente sul "New Yorker", in un racconto breve intitolato Se Grant fosse stato brillo ad Appomattox (identificato quale seguito di Se Booth avesse mancato Lincoln, Se Lee avesse vinto la battaglia di Gettysburg, e Se Napoleone fosse scappato in America). I professionisti si fanno domande simili, oggigiorno. L'umorismo lambisce la storiografia accademica: è possibile diventare ossessionati con i casi della Storia. In uno studio comprensivo intitolato Il mondo che Hitler non costruì, Gavriel D. Rosenfeld analizzò tutte le varianti che riuscì a individuare per trovare quante arrivassero a una versione della Storia «uguale o peggiore, senza Hitler, invece di migliore». Ci sono poche storie a lieto fine, scoprì. Spesso sono gli scrittori di fantascienza, o letteratura fantastica, che ci danno non solo le più strane, ma anche le più rigorose analisi dei meccanismi storici.

Tutto avrebbe potuto essere diverso: «Per un punto, Martin perse la cappa». Il rimpianto è il carburante del viaggiatore nel tempo: «Se solo... qualcosa». Ogni scrittore oggi conosce l'effetto farfalla: il minimo palpito può alterare il corso di grandi eventi. Una decina d'anni prima che Edward Lorenz , meteorologo e teorico del caos, scegliesse la farfalla per illustrare il concetto, Ray Bradbury usò una farfalla per cambiare la Storia nel suo racconto del 1952, Rombo di tuono. Qui la macchina del tempo («La Macchina» una vaga accozzaglia di «metallo argenteo» e «luce roboante») porta spettatori paganti in safari temporali nell'età dei dinosauri. A parte l'aggiunta di elmetti con ossigeno e interfono, il viaggio è Wells allo stato puro: «La Macchina ululò. Il tempo era come un film proiettato all'indietro. I Soli volavano, inseguiti da dieci milioni di Lune [...] La Macchina rallentò, il suo urlo si smorzò in un mormorio». Gli operatori del safari cercano con cautela di lasciare tutto inalterato, preoccupati per la Storia.

Un piccolo errore qui si moltiplicherebbe in sessanta milioni di anni, fuori da ogni proporzione [...]. Un topo morto qui che provoca uno squilibrio tra insetti là, una sproporzione di popolazione più tardi, un cattivo raccolto ancora più in là, una depressione, una carestia [...]. Basta forse un respiro appena accennato, un sussurro, un capello, del polline nell'aria, un cambiamento così lieve, così lieve che se non si guarda attentamente non lo si coglie neanche. Chissà.

Durante il safari, un turista maldestro calpesta una farfalla: «Una piccola cosa che poteva sconvolgere gli equilibri e abbattere una fila di piccole tessere del domino, e poi di più grandi, e poi di gigantesche, giù, giù per gli anni attraverso il Tempo».

L'effetto farfalla, però, è solo una questione in potenza. Non tutti i refoli di vento lasciano il loro segno nei secoli: la gran parte svanisce nel nulla, attenuata dalla viscosità. Questa era l'ipotesi di Asimov in La fine dell'eternità: gli effetti della manomissione della Storia tendono a estinguersi col passare dei secoli, le perturbazioni vengono eliminate dall'attrito o dissipate. Il suo Tecnico spiega, con sicurezza: «La realtà ha la tendenza a tornare nella sua posizione originale». Ma Bradbury aveva ragione, e Asimov torto. Se la Storia è un sistema dinamico, è sicuramente non lineare: l'effetto farfalla deve sussistere. In certi luoghi, in certi tempi, una piccola divergenza può trasformare la Storia. Sono momenti critici, punti nodali; sono quelli dove vogliamo puntare la nostra leva. La Storia (quella reale, intendo) dev'essere piena di questi momenti, o persone, se solo riuscissimo a identificarli. Noi pensiamo di riuscirci: nascite, omicidi, vittorie e sconfitte militari, ci concentriamo sugli individui, eroi e anti-eroi con un'influenza sproporzionata. Da qui viene l'ossessione per Hitler. "Se si potesse uccidere una sola persona..." In generale, però, i creatori di queste storie fantastiche sono stati abbastanza saggi da burlarsi della hybris che sostiene le loro fantasie. «Si può cambiare il destino?» si chiede Philip K. Dick ne L'uomo nell'alto castello. «Tutti noi messi insieme [...] o una figura di rilievo [...] o qualcuno che occupi una posizione strategica, che si trovi casualmente al posto giusto. Un caso. Un incidente. E le nostre vite, il nostro mondo, che dipendono da tutto ciò». Senza dubbio certe persone, certi eventi, certe decisioni sono più importanti di altre. Devono esistere punti nodali, ma non necessariamente dove pensiamo noi. Incatenati al nostro tempo, la gran parte di noi non sta cercando di fare la Storia, e tantomeno di cambiarla; prendiamo i giorni uno alla volta, e la Storia si svolge. Clive James disse che i grandi poeti non aspirano a cambiare la storia letteraria, ma solo ad arricchirla. Un'altra ragione a sostegno dell'ossessione per Hitler è che lui giocava a fare Dio. «Il Führer era diverso» dice Ursula Todd, nel libro di Kate Atkinson «era cosciente di stare costruendo la Storia per il futuro. Solo un vero narcisista può pensare una cosa del genere». Diffidiamo dei politici che vogliono scrivere la Storia; Ursula stessa considera in molti momenti, una vita dopo l'altra, «il futuro un mistero tanto quanto il passato».

Non possiamo sfuggire alle realtà alternative, le varianti infinite.

L' Oxford English Dictionary alla parola multiverse (multiverso) spiega con cura che il termine era originariamente proprio della fantascienza, ma ora appartiene alla fisica: «La grande collezione di universi nell'interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica [...] secondo cui esistono tanti universi paralleli quanti sono i possibili risultati». Allo stesso tempo, in maniera completamente estranea alla meccanica quantistica, abbiamo scoperto il piacere e la sofferenza dei mondi virtuali, sul computer, il che ci costringe a considerare la possibilità di essere personaggi nella realtà virtuale di qualcun altro. O di noi stessi. Oggigiorno, quando si parla del "mondo reale" è difficile trattenersi dall'usare virgolette ironiche. Abitiamo mondi virtuali con la stessa familiarità e avidità di quello reale, e nella realtà virtuale il viaggio nel tempo non potrebbe essere più facile.

Seguitemi nella tana del Bianconiglio, nei cunicoli spaziotemporali ciclici. William Gibson sarà il nostro Virgilio.

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Pagina 163

Capitolo 11

I paradossi




Questo sembra un paradosso. Ma non bisogna pensare male dei paradossi, perché il paradosso è la passione del pensiero e il pensiero senza paradosso è come l'amante senza passione: un mediocre compagno. Seren Kierkegaard


Il viaggio nel tempo è impossibile, perché un viaggiatore potrebbe tornare indietro e uccidere suo nonno; nel qual caso lui, l'omicida, non sarebbe mai nato... e così via.

Ci siamo già passati. Siamo nel regno della logica, che è — ricordiamolo — un luogo distinto dal regno della realtà. I suoi abitanti parlano un dialetto tutto loro, che ricorda il linguaggio naturale, e spesso è perfettamente comprensibile, ma pieno di trappole. Una cosa può essere logicamente possibile ma empiricamente impossibile. Se i logici ci dessero il permesso di fare una macchina del tempo, potremmo lo stesso non riuscire a costruirla.

Dubito che un altro fenomeno, reale o immaginario, abbia ispirato analisi filosofiche più sconcertanti, contorte, e alla fin fine futili, dei viaggi nel tempo. (Alcuni possibili concorrenti, il determinismo e il libero arbitrio, sono comunque collegati ai ragionamenti sui viaggi nel tempo.) Il dibattito già infuriava con Wells ancora vivo, che osservava divertito.

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«Il recente rinascimento, nella fisica, dei tunnel spaziotemporali ha portato a un'osservazione molto inquietante» scrisse nel 1944 Matt Visser, matematico e cosmologo neozelandese, sulla rivista "Nuclear Physics B" (la rivista derivata da "Nuclear Physics" dedicata alla «fisica teorica, fenomenologica e sperimentale delle alte energie, la teoria quantistica dei campi e i sistemi statistici»). Evidentemente il "rinascimento" della fisica dei tunnel spaziotemporali era una cosa evidente, sebbene questi ipotetici tunnel rimanessero (e rimangono) completamente ipotetici. L'osservazione inquietante era questa: «Se esistono tunnel spaziotemporali attraversabili, allora sembra abbastanza facile trasformarli in macchine del tempo». Non era solo inquietante, era estremamente inquietante: «Questo stato di cose estremamente inquietante ha portato Hawking a formulare la sua congettura di protezione cronologica».

Hawking, naturalmente, è Stephen Hawking , il fisico di Cambridge che a quel punto era diventato lo scienziato vivente più famoso al mondo, in parte a causa della sua battaglia di decenni contro la malattia del motoneurone che lo stava inesorabilmente paralizzando, e in parte a causa della sua attitudine a divulgare i problemi più complessi di cosmologia. Non stupisce che fosse affascinato dai viaggi nel tempo.

Congettura di protezione cronologica era il titolo di un articolo che scrisse nel 1991. Spiegò la motivazione come segue: «È stato suggerito che in una civiltà sufficientemente avanzata si potrebbe sviluppare la tecnologia necessaria a distorcere lo spaziotempo così che appaiano curve chiuse di tipo tempo, rendendo possibile il viaggio nel passato». Suggerito da chi? Un esercito di scrittori di fantascienza, naturalmente, ma Hawking cita il fisico Kip Thorne (un altro pupillo di Wheeler) del California Institute of Technology, che aveva lavorato con i suoi studenti di dottorato su «tunnel spaziotemporali e macchine del tempo».

A un certo punto l'espressione civiltà sufficientemente avanzata divenne un tropo. Tipo: «Se noi umani non ci riusciamo, forse una civiltà sufficientemente avanzata ci potrebbe riuscire?». Questo non è solo utile agli scrittori di fantascienza, ma anche ai fisici. Dunque, Thorne, Mike Morris e Ulvi Yurtsever scrissero: «Iniziamo chiedendoci se le leggi della fisica potrebbero permettere a una civiltà sufficientemente avanzata di costruire e mantenere tunnel spaziotemporali per i viaggi interstellari».Ventisei anni dopo, Thorne fu produttore esecutivo e consulente scientifico per il film Interstellar del 2014, e non fu una coincidenza. «Si può immaginare una civiltà avanzata che tira fuori un tunnel spaziotemporale dalla schiuma quantistica» scrissero nel loro articolo del 1988, e inclusero un'illustrazione con didascalia che diceva: «Diagramma per la conversione di un tunnel spaziotemporale in una macchina del tempo». Stavano considerando tunnel con le bocche in movimento: un'astronave sarebbe potuta entrare in una bocca del tunnel e uscire da un'altra, nel passato. Opportunamente, conclusero con un paradosso, solo che questa volta non è il nonno a morire:

È possibile che un essere progredito possa misurare il gatto di Schrödinger e trovarlo vivo in un evento P (quindi "collassando la funzione d'onda" allo stato "vivo"), e poi tornare indietro nel tempo attraverso il tunnel e uccidere il gatto (collassando la funzione d'onda allo stato "morto") prima che si arrivi a P?

Lasciarono la domanda senza risposta.

Hawking entrò a gamba tesa. Analizzò la fisica dei tunnel spaziotemporali e anche i paradossi («ogni sorta di problema logico, se si riesce a cambiare la Storia»). Considerò la possibilità di evitare i paradossi «tramite qualche modifica del concetto di libero arbitrio», ma il libero arbitrio non è mai un argomento gradevole per i fisici, e Hawking vide un altro modo di affrontare la questione: quella che propose di chiamare, appunto, congettura di protezione cronologica. Ci volevano molti calcoli, e, una volta finiti, Hawking si convinse: le leggi della fisica avrebbero protetto la Storia dagli ipotetici viaggiatori nel tempo. Malgrado Kurt Gödel , le curve chiuse di tipo tempo devono essere proibite. «Sembra che ci sia un'agenzia di protezione cronologica» scrisse, con stile fantascientifico «che impedisce la comparsa di curve chiuse di tipo tempo, e quindi rende l'universo sicuro per gli storici». E concluse con un gesto plateale, cosa che a lui era permessa, nella rivista "Physical Review". Aveva più di una teoria. Aveva una dimostrazione:

Ci sono prove sperimentali convincenti in favore della congettura, date dal fatto che non siamo invasi da orde di turisti provenienti dal futuro.


Hawking è uno di quei fisici che sa che i viaggi nel tempo sono impossibili, ma che è anche molto divertente parlarne. Osserva che stiamo tutti viaggiando nel tempo, un secondo alla volta. Descrive i buchi neri come macchine del tempo, ricordandoci che la gravità rallenta localmente il passare del tempo, e spesso racconta la storia della festa che diede per i viaggiatori nel tempo, mandando gli inviti dopo la festa: «Sono stato lì per un bel po', e non è arrivato nessuno».

La congettura di protezione cronologica aleggiava da ben prima che Hawking le desse un nome. Ray Bradbury , per esempio, la usò nella sua storia del 1952 sui cacciatori di dinosauri provenienti dal futuro: «Il Tempo non permette questo tipo di pasticcio [...] un uomo che incontra sé stesso. Quando minaccia di verificarsi una cosa del genere, il Tempo si tira da parte. Come un aereo che incontra un vuoto d'aria». Osserviamo che il tempo qui è capace di azione: «non permette», e «si tira da parte». Douglas Adams offrì la sua versione: «I paradossi sono esattamente come il tessuto cicatriziale. Tempo e spazio vi si richiudono intorno e le persone ricordano una versione dei fatti che ha tanto senso quanto quelle gliene richiedono».

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Capitolo 12

Cos'è il tempo?




Perché è così difficile (e quanto è umiliante questa difficoltà) concentrare la mente sul concetto di Tempo, e analizzarlo? Che sforzo, che goffaggine, che fatica irritante! Vladimir Nabokov


Che cosa sia il tempo è una domanda ricorrente, come se la giusta combinazione di parole potesse aprire il lucchetto e rivelare la luce. Vogliamo una definizione da bacio Perugina, un epigramma perfetto. Il tempo è «il paesaggio dell'esperienza» dice Daniel Boorstin. «Il tempo non è che memoria in fieri» dice Nabokov. «Il tempo è quello che succede quando non succede nient'altro» (Dick Feynman). «Il tempo è il miglior modo che ha trovato la Natura per non far succedere tutte le cose tutte insieme» dice Johnny Wheeler, o forse Woody Allen. Martin Heidegger dice: «Il tempo non esiste».

Cos'è il tempo? Tempo è una parola, che si riferisce a una cosa, o a diverse cose, ma molto spesso la conversazione deraglia quando ci si dimentica se si sta discutendo delle parole o delle cose. Cinquecento anni di vocabolari hanno creato l'idea che ogni parola debba avere una definizione, quindi, cos'è il tempo? «Un continuo non spaziale in cui gli eventi avvengono in successione apparentemente irreversibile dal passato attraverso il presente verso il futuro» (American Heritage Dictionary of the English Language, quinta edizione). Un comitato di lessicografi ha sudato sette carnicie su queste parole, e devono aver discusso ferocemente su ognuna di esse. «Non spaziale»? Non c'è una definizione per questo nel dizionario, ma d'accordo, il tempo non è spazio. «Continuo»? Presumibilmente il tempo è continuo, ma ne siamo sicuri? «Apparentemente irreversibile» sembra una locuzione molto prudente: si ha la sensazione che stiano cercando di dirci qualcosa che sperano sappiamo già. Non stanno cercando di informarci, ma di offrire un minimo di disciplina e di attenzione.

Altre autorità offrono costruzioni completamente diverse, e nessuna è sbagliata. Cos'è il tempo? «Il termine generale per l'esperienza della durata» secondo l' Encyclopaedia Britannica. Nel primissimo dizionario della lingua inglese, quello di Robert Cawdrey, nel 1604, si evita il problema passando direttamente da thwite ("radere") a timerous ("pauroso, imbarazzato"). Samuel Johnson definì il tempo «la misura della durata». (E la durata? «Continuazione, misura del tempo».) In un libro per bambini del 1960 la definizione viene ridotta a una sola parola: «Il tempo è quando».

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Questo punto di vista è opinione corrente nella fisica moderna. Ciò non significa che è il punto di vista più comune: in questi giorni tumultuosi non si sa mai quale sia. Molti dei fisici più rispettati sostengono la seguente opinione:

* le equazioni della fisica non danno nessuna prova dello scorrere del tempo;

* le leggi scientifiche non distinguono tra il passato e il futuro;

* quindi (sillogismo?);

* il tempo non è reale.


L'osservatore (fisico o filosofo) sta al di fuori e guarda. L'esperienza umana del tempo è sospesa nelle osservazioni astratte. Passato, presente e futuro sono avvoltolati in un guscio di noce.

E la nostra costante impressione del contrario? Noi sentiamo il tempo nelle ossa, ricordiamo il passato, aspettiamo il futuro. Ma il fisico osserva che noi siamo organismi fallibili, facilmente ingannabili e di cui non ci si può fidare. I nostri antenati pre-scientifici avevano l'impressione che la Terra fosse piatta e il Sole ci girasse intorno: la nostra esperienza del tempo è altrettanto ingenua? Forse, ma gli scienziati alla fine devono sempre prendere in considerazione le prove che vengono dai nostri sensi, devono verificare i loro modelli usando l'esperienza.

«Quelli come noi, che credono nella fisica» disse Einstein «sanno che la distinzione tra passato, presente e futuro è solo un'ostinata, persistente illusione». Noi che crediamo nella fisica: c'è qualcosa di malinconico, in questa espressione. «Nella fisica» ripete Freeman Dyson «la divisione dello spaziotempo in passato, presente e futuro è un'illusione». Queste formulazioni contengono una certa dose di umiltà, che a volte si perde nelle citazioni. Einstein stava consolando un figlio e una sorella disperati, e forse stava anche pensando alla propria mortalità; Dyson stava esprimendo la speranza in un legame di fratellanza con gli esseri umani del passato e del futuro: «Sono i nostri vicini nell'universo». Sono pensieri ammirevoli, ma non erano stati pensati come asserzioni categoriche sulla natura della realtà. Come disse Einstein stesso in un'altra occasione: «Il tempo e lo spazio sono modi in cui pensiamo, e non condizioni in cui viviamo».

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I computer nel nostro esperimento ipotetico, se non proprio i computer che possediamo, sono deterministici perché sono stati programmati così. Allo stesso modo, le leggi della scienza sono deterministiche perché gli uomini le hanno scritte così. Hanno un ideale di perfezione che si può ottenere nel regno della mente, o in quello platonico, ma non nel mondo reale. L'equazione di Schrödinger, il cacciavite della fisica moderna, gestisce l'incertezza raggruppando le probabilità in un'unità, una funzione d'onda. La funzione d'onda è un fantasma, un oggetto astratto: un fisico la può scrivere, chiamarla Ψ e non preoccuparsi troppo di cosa contiene. «Da dove viene?» chiese Richard Feynman. «Da nessuna parte. Non è possibile derivarla da niente che conosciamo. Venne fuori dalla testa di Schrödinger». Era, ed è, efficiente in maniera impressionante. E una volta che c'è, l'equazione di Schrödinger riporta il determinismo nel processo, i calcoli sono deterministici. Con l'input giusto, i fisici quantistici riescono a calcolare il risultato con certezza, e andare avanti. L'unico problema si presenta quando, dalle equazioni idealizzate, si cerca di ritornare al mondo reale che tali equazioni cercano di descrivere. Alla fine dobbiamo paracadutare la matematica astratta di Platone nelle questioni sublunari, sui banchi dei laboratori. A quel punto, quando si richiede una misura, la funzione d'onda "collassa", come dicono i fisici. Il gatto di Schrödinger o è vivo o è morto. Secondo un limerick:
    Sbigottisce diverse persone
    che codesta bizzarra funzione
    non contenga il destino
    di quel triste felino
    ma la nostra miglior previsione.



Questo collasso della funzione d'onda è l'evento scatenante di un tipo speciale di ragionamento in fisica quantistica non sulla matematica, ma sulla filosofia sottostante. Cosa significa? Questo è il problema di base, e i vari modi di affrontarlo si chiamano interpretazioni. C'è l'interpretazione di Copenaghen, la prima tra molte. L'approccio di Copenaghen è trattare il collasso della funzione d'onda come una necessità poco elegante, una goffaggine che ci tocca sopportare. Lo slogan per questa interpretazione è: "Stai zitto e fai i conti". Ci sono l'interpretazione di Bohm, quella bayesiana, il collasso oggettivo e, ultima ma non meno importante, quella a molti mondi. «Vai a una riunione ed è come stare in una città santa in tumulto» dice il fisico Christopher Fuchs. «Si trovano tutte le religioni, con i gran sacerdoti di ognuna che si fanno la guerra».

L'interpretazione a molti mondi è una splendida fantasia, sostenuta da alcuni dei fisici più brillanti del nostro tempo. Sono gli eredi intellettuali di Hugh Everett, se non di Borges. «L'interpretazione a molti mondi è quella che raccoglie tutta la pubblicità e la gloria» ha scritto Philip Ball, lo scrittore di fantascienza (ex fisico) britannico, nel 2015. «Ci dice che ci sono molte copie di noi stessi, che vivono altre vite in altri universi, e forse stanno facendo tutte le cose che noi sogniamo ma non avremo mai il coraggio di fare. Come si fa a resistere?». (Lui sembra riuscirci.) I sostenitori dell'interpretazione a molti mondi sono come accumulatori seriali, incapaci di buttare via qualcosa; non ci sono strade che non vengono percorse. Tutto ciò che può succedere, succede. Tutte le possibilità sono realizzate, se non qui, in un altro universo. Gli universi abbondano anche nella cosmologia. Brian Greene ha battezzato nove diversi tipi di universi paralleli: patchwork, inflazionario, a brane, ciclico, a paesaggio, quantistico, olografico, simulato ed estremo. L'interpretazione a molti mondi non si può demolire a colpi di logica. Ha troppo fascino: qualunque ragionamento si possa imbastire è già stato considerato e (secondo loro) ricusato dai suoi brillanti sostenitori.

Credo che i fisici più efficienti siano quelli che mantengono un certo grado di modestia nei loro programmi. Bohr ha scritto: «Nella nostra descrizione della natura, lo scopo non è disvelare l'essenza reale dei fenomeni, ma solo descrivere, per quanto possibile, le relazioni tra i diversi aspetti della nostra esperienza». Questo invece è Feynman: «Io ho risposte approssimante, e possibilmente convinzioni con diversi gradi di certezza sulle cosa, ma non sono assolutamente sicuro di niente». I fisici creano modelli matematici, che sono generalizzazioni e semplificazioni, incompleti per definizione, estratti dalla ricchezza della realtà. I modelli mostrano schemi ricorrenti nella confusione, e li sfruttano; i modelli stessi sono senza tempo: esistono senza cambiare. Un grafico cartesiano che mostra il tempo e la distanza contiene il proprio passato e il futuro. L'immagine dello spaziotempo di Minkowski è eterna. La funzione d'onda è eterna. Questi modelli sono ideali, e fissati per sempre. Possiamo comprenderli all'interno del nostro cervello o dei nostri computer; il mondo, tuttavia, rimane pieno di sorprese.

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L'universo fa il suo. Noi percepiamo cambiamenti, movimento, e cerchiamo di dare un senso all'incessante brulicare confuso. Il problema più arduo, in altre parole, è la coscienza. Siamo al punto di partenza, con il Viaggiatore nel Tempo di Wells e la sua insistenza che l'unica differenza tra tempo e spazio è che «la nostra coscienza si muove attraverso di esso» appena prima che Einstein e Minkowski dicessero la stessa cosa. I fisici hanno sviluppato una relazione di amore-odio con il problema della coscienza. Da una parte, non sono affari loro: lasciamo la questione agli psicologi. D'altra parte, cercare di districare l'osservatore (il misuratore, l'accumulatore di informazioni) dalla fredda descrizione della natura si è dimostrata un'impresa impossibile. La nostra coscienza non è un magico osservatore: è parte dell'universo che cerca di contemplare.

La mente è ciò che percepiamo immediatamente, ed è ciò che compie l'atto del percepire: è soggetta alla freccia del tempo. Crea ricordi mentre va avanti; modella il mondo e confronta continuamente questi modelli con quelli precedenti. Qualunque cosa sia la coscienza, non è certo una torcia che si muove illuminando fettine successive del continuo spaziotemporale: è un sistema dinamico, che si dispiega nel tempo, si evolve, capace di assorbire informazioni dal passato e processarle, e capace anche di creare anticipazione per il futuro.

Agostino fin dall'inizio aveva ragione. Il filosofo moderno J.R. Lucas, nel suo Trattato sul tempo e lo spazio, ritorna sullo stesso punto: «Non possiamo dire cosa sia il tempo, perché lo sappiamo già, e le nostre parole non potranno mai descrivere quello che già sappiamo». Così era per il Buddha (tradotto da Borges): «L'uomo del momento passato è vissuto, ma non vive, né vivrà; l'uomo del momento futuro vivrà, ma non è vissuto e non vive; l'uomo del presente vive, ma non è vissuto né vivrà». Sappiamo che il passato è fuggito, finito, concluso, chiuso e consegnato. Il nostro accesso al passato è compromesso, limitato da ricordi e testimonianze fisiche: fossili, quadri in soffitta, mummie e vecchi libri contabili. Sappiamo che i testimoni oculari non sono affidabili e i documenti si possono contraffare, o fraintendere. Il passato non registrato non esiste più, eppure l'esperienza ci persuade che il passato è avvenuto, e continua ad avvenire. Il futuro è diverso: deve ancora venire, è aperto; non tutto può succedere, ma molte cose sì. Il mondo è ancora in costruzione.

Cos'è il tempo? Le cose cambiano, e il tempo è il nostro modo di accorgercene.

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Pagina 204

[...] Wells e Proust erano contemporanei, e mentre il primo inventava i viaggi nel tempo per mezzo di una macchina, il secondo pensava a un tipo di viaggio nel tempo senza macchinari (potremmo chiamarlo viaggio mentale nel tempo, espressione di cui si sono appropriati gli psicologi per i loro scopi).

Il viaggiatore nel tempo di Robert Heinlein, Bob Wilson, torna a visitare i vari sé stesso nel passato, conversando con loro e modificando la storia della sua vita, e a modo suo il narratore de La Recherche (che talvolta viene chiamato Marcel) fa lo stesso. Marcel (o Proust) ha un sospetto riguardo alla propria esistenza, forse un sospetto di mortalità: «Che io non fossi situato fuori dal Tempo, ma soggetto alle sue leggi, proprio come quei personaggi da romanzo che appunto per questo mi gettavano in una profonda tristezza, quando, a Combray, sprofondato nel mio capanno di vimini, leggevo la loro vita».

«Proust sconvolge tutta la logica della rappresentazione narrativa» scrive Gérard Genette , uno dei teorici della letteratura che cercarono di affrontare il problema creando un nuovo campo di studio chiamato narratologia. Un critico russo studioso di semiotica, Michail Bachtin , ideò il concetto di cronotopo (traduzione letterale dello spaziotempo di Einstein) negli anni trenta per esprimere l'inseparabilità di spazio e tempo in letteratura, l'influenza reciproca che esercitano l'uno sull'altro. «Il tempo, in un certo senso, s'ispessisce, prende corpo, diventa artisticamente visibile» scrive «allo stesso modo, lo spazio diventa carico e risponde ai movimenti del tempo, alla trama e alla storia». La differenza è che lo spaziotempo è quello che è, mentre i cronotopi ammettono tante possibilità quante ne può inventare la nostra immaginazione. Un universo può essere fatalista, un altro più libero. In uno, il tempo è lineare, nel successivo, il tempo è un cerchio, e tutte le nostre scoperte, e i nostri fallimenti, sono destinati a ripetersi. In uno, un uomo mantiene la sua bellezza giovanile mentre il suo ritratto invecchia in soffitta; in un altro, il nostro eroe cresce dalla vecchiaia all'infanzia. Una storia sarà governata dal tempo matematico, un'altra dal tempo psicologico. Quale tempo è quello vero? Tutti? O nessuno?

Borges ci ricorda che Schopenhauer asserì che la vita e i sogni sono pagine dello stesso libro: leggerle in ordine è vivere, sfogliarle a caso è sognare.

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Pagina 208

Qualunque libro, rilegato, con la copertina, con un inizio, uno svolgimento e una fine, ricorda l'universo rigido. Ha una finalità che manca nella vita vera, dove non possiamo aspettarci che tutti i nodi vengano al pettine. Il romanziere Ali Smith ha scritto che i libri sono «pezzi tangibili di tempo nelle nostre mani». Si possono tenere in mano, si può esperirli, ma non cambiarli. Io dico invece che si possono cambiare, e lo si fa: il libro è inerte, inutile, finché qualcuno non lo legge, poi anche il lettore diventa parte della storia. Leggere Proust mette in correlazione i nostri ricordi, i desideri, con quelli di Marcel. Smith ritraduce Eraclito: «Non si può entrare due volte nella stessa storia». Dovunque sia il lettore, su qualsiasi pagina, la storia ha un passato, che è andato, e un futuro, che non è ancora venuto.

Ma sicuramente il lettore è capace, la sua memoria è sufficientemente grande e affidabile da contenere un intero libro (un libro è solo qualche megabyte, dopo tutto). Non possiamo tenerlo in mente tutto insieme, passato, presente, futuro, tutto sotto il nostro controllo? Per Vladimir Nabokov sembra questo l'ideale della lettura: possedere un intero libro, memorizzato, invece di incontrarlo in uno stato di ignoranza, o innocenza, vivendolo pagina per pagina, parola per parola. «Un buon lettore» ha scritto «un gran lettore, un lettore attivo e creativo è un rilettore».

E vi spiego perché. Quando leggiamo un libro per la prima volta, il processo stesso di spostare faticosamente gli occhi da sinistra a destra, riga dopo riga, pagina dopo pagina, questo complicato lavoro fisico sul libro, il processo stesso di apprendere in termini di spazio e di tempo di che cosa si tratti, si frappone tra noi e la valutazione artistica.

Idealmente, un libro dovrebbe essere come un quadro, che noi comprendiamo (dice Nabokov) tutto insieme, fuori dal tempo. «Quando guardiamo un quadro, non dobbiamo muovere gli occhi in modo particolare, anche se il quadro, come un libro, contiene elementi da approfondire e sviluppare. L'elemento "tempo" non ha molto peso in un primo contatto con un quadro».

Ma si può veramente comprendere un libro intero, tutto insieme, al di fuori del tempo? Di certo un quadro non lo assorbiamo in un colpo solo. Gli occhi vagano, l'osservatore vede una cosa e poi un'altra. Come nel caso dei libri, giocano col tempo, così come fa anche la musica. Brillano di anticipazione, corteggiano le aspettative. Anche se si conosce un libro molto bene, anche se lo si può recitare a memoria, come Omero, non si può sperimentarlo come un oggetto senza tempo. Si possono apprezzare i suoi echi nella memoria, i suoi trucchi premonitori, ma quando si legge un libro si è una creatura che vive nel tempo.

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Pagina 226

Abbiamo già incontrato Gibson: il futurista che nega di scrivere del futuro. Fu Gibson a inventare la parola ciberspazio nel 1982, dopo aver osservato alcuni bambini giocare ai videogiochi, con gli occhi fissi sullo schermo, muovendo leve e pigiando bottoni per manipolare un universo che nessun altro poteva vedere. «Mi sembrava che quello che volevano fosse entrare all'interno del gioco, nello spazio immaginario della macchina» disse più tardi. «Il mondo reale era scomparso, aveva perso ogni importanza, erano in quello spazio immaginario». Il ciberspazio allora non esisteva, così come Gibson lo immaginava: «Un'allucinazione consensuale e collettiva sperimentata giornalmente da miliardi di utenti, in tutto il mondo». Lo spazio dietro a tutti i computer: «Linee di luce radunate nel non-spazio della mente, gruppi e costellazioni di dati». Capita a tutti di sentirsi così.

A un certo punto Gibson si accorse che stava raccontando una storia simile all' Aleph di Borges: un punto nello spazio che contiene tutti gli altri punti. Per vedere l'Aleph bisogna sdraiarsi immobili al buio, è indispensabile «un certo adattamento dell'occhio». Quello che si vede non può essere descritto a parole, scrive Borges,

il problema centrale è insolubile: l'enumerazione, sia pure parziale, di un insieme infinito. In quell'istante gigantesco, ho visto milioni di atti gradevoli o atroci; nessuno di essi mi stupì quanto il fatto che tutti occupassero lo stesso punto, senza sovrapposizione e senza trasparenza. Quel che videro i miei occhi fu simultaneo: ciò che trascriverò, successivo, perché tale è il linguaggio.


Lo "spazio" nel ciberspazio svanisce, collassa in una rete di collegamenti: come disse Lee Smolin , uno spazio a miliardi di dimensioni. L'interazione è tutto. E il cibertempo? Ogni collegamento ipertestuale è un portale temporale. Milioni di atti gradevoli o atroci (articoli, tweet, commenti, email, like, cuoricini, strizzatine d'occhio) appaiono contemporaneamente o successivamente. La velocità del segnale è la velocità della luce, i fusi orari si sovrappongono, e le marcature temporali si spostano come bruscolini in un raggio di sole. Il mondo virtuale è costruito sulla transtemporalità.

Gibson considerava il viaggio nel tempo una magia implausibile e lo evitò per dieci romanzi, scritti in trent'anni. In verità, quando i suoi futuri immaginati iniziarono ad accatastarsi sul nastro trasportatore del presente, rinunciò del tutto al futuro. «Futuri culturali, interamente immaginati, erano il lusso di un'altra epoca, un'epoca in cui l'oggi aveva una durata molto maggiore» dice Hubertus Bigend ne L'accademia dei sogni. «Non abbiamo futuro perché il nostro presente è troppo mutevole». Il futuro si regge sul presente, e il presente è fatto di sabbie mobili.

Tuttavia nell'undicesimo romanzo di Gibson, The Peripheral, c'è un nuovo ritorno al futuro. Un futuro vicino interagisce con un futuro lontano: il ciberspazio gli ha aperto la porta. Nuove regole dei viaggi nel tempo: la materia non può sfuggire al tempo, ma l'informazione sì. Il futuro scopre di riuscire a mandare email nel passato. Può addirittura telefonare. L'informazione va in entrambe le direzioni. Si spediscono istruzioni per stampe in 3D: elmetti, occhiali, joystick, in una fusione tra lo spostamento temporale e la presenza a distanza.

Per la gente del futuro, i cittadini del passato si possono assumere come polt (da poltergeist: «Fantasmi che muovono le cose, immagino».) Si può inviare o creare carta moneta (vincere alla lotteria, manipolare la Borsa). La finanza è già diventata virtuale, dopo tutto: le aziende sono gusci vuoti, fatti di documenti e conti correnti. È l'appalto a terzi, all'ennesima potenza. Vi fa girare la testa la manipolazione delle persone attraverso il tempo? «Non più del tipo di paradossi a cui siamo abituati, nella nostra cultura, quando parliamo di questioni transtemporali. In realtà è abbastanza semplice». D'altronde, sappiamo come il tempo si biforca, siamo aficionados degli universi che si ramificano. «L'atto di collegarsi produce una biforcazione nella causalità, e il nuovo ramo è causalmente unico. Un ceppo, come lo chiamiamo di solito».

Né i paradossi sono sconosciuti. A un certo punto un agente di polizia del futuro, un certo Ispettore Ainsley Lowbeer, spiega all'avatar di Flynne (un esoscheletro, un omuncolo, una periferica): «Mi dicono che causare la tua morte non è in alcun modo un crimine, qui, perché, secondo le più recenti opinioni legali, tu non sei reale». I nano-robot sono reali, i giochi di ruolo sono reali, i droni sono reali, ma la futurità è morta.


Perché abbiamo bisogno dei viaggi nel tempo? Tutte le risposte si riducono a una sola: per sfuggire alla morte.

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