Copertina
Autore Giuseppe Marcenaro
Titolo Libri
SottotitoloStorie di passioni, manie e infamie
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2010, , pag. 2016, ill., cop.fle., dim. 14,6x21x1,4 cm , Isbn 978-88-6159-392-3
LettoreRenato di Stefano, 2011
Classe libri , storia letteraria
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


   1  Introibo ad altare Dei

  17  L'ordine dei libri

  51  Sacralità della prima edizione

  67  Storie di certi rari

  81  Clandestini

  99  Amphiorama

 109  Dai libri d'altri

 129  Paradisi artificiali

 143  Bibliofilia

 151  Bibliomania

 161  Enfer

 171  Index librorum prohibitorum

 185  Roghi

 197  Olympia

 203  Il primo libro

 211  I would prefer not to


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 1

Introibo ad altare Dei



Il 16 giugno è il compleanno della mia biblioteca. Come un accorto potrebbe maliziosamente supporre, è il medesimo del Bloomsday, il giorno in cui si svolge, nel 1904, per l'intera giornata, l' Ulysses di James Joyce. L'anniversario dei miei libri non è scelto a mezz'aria tra il cult e lo snob. Neppure fissato proditoriamente come una specie di catarsi libresca in omaggio malcelato a uno dei più celebri libri del Novecento, secolo nel quale la maggior parte della mia biblioteca si è formata. L'indicazione del 16 giugno potrebbe essere una scelta casuale per poter cominciare in qualche maniera un libro sui miei libri. Con una giustificazione, più allusa che reale. Il giorno genetliaco potrebbe anche essere riferito realmente all' Ulysses joyciano per una irruzione erratica della mente, assunto come casuale simbolo, rappresentando un'odissea il periplo di una biblioteca. Viaggio tra i libri affidati a me dalla sorte per un certo numero di anni e da me custoditi, per il tot di tempo concessomi. E perciò, in questo lasso d'esistenza mia, col diritto assoluto di parlarne.

Nella scelta del 16 giugno, lo comprendo, sta un'infiammata di vanità. Considero il libro, nella sua entità astratta e forsennatamente concreta, un oggetto usuale al limite dell'assurdità, con tuttavia una forte aura sacrale. L'autoidentificazione con Buck Mulligan, solenne e paffuto personaggio all'incipit dell' Ulysses, può fare il resto. In una immaginaria «mite aria mattutina» accedendo alla mia biblioteca, mi consento la medesima invocazione di Mulligan: Introibo ad altare Dei. E a sua imitazione posso affrontare, dalle otto del mattino alle due di notte, diciotto ore fitte fitte in cui, nella vita e tra i libri, può succedere tutto e niente. Giustificazione marginale e magari non convincente per lo sconosciuto hypocrite lecteur, mon semblable, che stia scorrendo queste righe con ragionevole perplessità.

In uno dei tanti 16 giugno susseguitisi da quando sono bibliotecario di me stesso, non mi pare d'aver compiuto qualche atto sostanzialmente "storico" in rapporto ai libri che ho in custodia. Il loro trasferimento da una casa all'altra, mettiamo. La risistemazione di alcune edizioni. Possibile. E non credo fosse proprio un 16 giugno, quando in una moltitudine di volumi inesplorati individuai, con un tuffo al cuore, una rarità ignorata fin a quel momento. Una delle pietre angolari di qualsiasi inebriante raccolta di libri rari. Uno di quei libri su cui può poggiare idealmente una biblioteca considerata come controtipo di un vagheggiabile ineffabile universo. L'unica immensità possibile su cui possa pensare di dominare un uomo immaginandosene il demiurgo.


Nessuno lo aveva predetto, ma fu un 16 giugno a segnare il mio mutamento. Bucando la crisalide passai dallo stadio di ingordo lettore e acquirente perplesso di libri a quello di custode di biblioteca. Il 16 giugno 1966 è il giorno in cui mi capitò tra le mani un'edizione del 1627 che mutò il corso della mia esistenza in rapporto ai libri. Un'opera determinante. Si trattava di Advis pour dresser une bibliothèque di Gabriel Naudé.

Rinvenni il volume, un esemplare un po' stanco – eufemismo di sbertucciato, secondo la definizione dei mercanti di libri – sulla bancarella che sta sotto il fornice del palazzo dei Mercanti, a pochi passi da piazza del Duomo, a Milano. Lo comprai con l'istinto di chi, ignorante dell'argomento, voglia un manuale per tenere in ordine i propri libri. Già allora ne possedevo un certo numero e non avevo ancora compreso a pieno una formidabile regola: si possono custodire libri senza leggerli. Sembra che l'unico fine del libro sia quello d'essere letto. Non è sempre così. Risvegliato dispensa talvolta saggezza, produce gioia, inonda di terrore, singulta orrori e dilemmi. Anche scempiaggini, scambiate per esaltazioni. Un volume può sussistere intonso in biblioteca come discreta presenza. Una protezione? A me basta sapere che certi libri esistono nel mio cono d'ombra per sentirmi sicuro. Nel caso...


Fino al 16 giugno 1966 non immaginavo che una raccolta di libri potesse essere un sistema, una macchina capace di produrre, volume con volume, una formidabile energia. Costruire una biblioteca è sfidare le leggi universali, le norme sancite, stabilendo con il groviglio dei libri altri ordini proiettati nelle dimensioni impercettibili della sensibilità. Un altro da sé in cui ci si possa riconoscere. Insomma produrre un clone della propria esistenza; anche un'autobiografia parassitando le autobiografie degli altri.

I vari capitoli che Naudé elenca in una Tavola dei punti principali, vere e proprie Avvertenze, mutano l'opera sua in un manuale di negromanzia con formule assimilabili a una summa del come si possa dresser una biblioteca. Già quel dresser reca in sé un gioco sottile e ambiguo nei suoi significati: sta per rizzare, drizzare, innalzare, elevare, erigere, montare; ma anche preparare, predisporre, redigere, stendere, delineare, compilare, addestrare, ammaestrare e poi ergersi, insorgere. Insorgere contro l'invasore, insorgere contro l'ingiustizia... E di più, nel mio immaginario, mi pare si possa associare la costruzione di una biblioteca all'arte di bâtir un vascello, la qual cosa richiama un altro gran manuale pubblicato nel 1719, conosciuto come l'Allard Français e la cui fisionomia più precisa è Witsen, Van Eyk, Allard, L'art de bâtir des vaisseaux, et d'en perfectionner la construction; de les garnir de leurs apparaux, les mettre en funin, les manceuvrer ecc. ecc.

Dresser e bâtir atti che si possono compiere apprestandosi un viaggio. Levando le vele.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 14

Una biblioteca però è anche una gran perdita di tempo. Sublime. Bisogna tenerla in ordine. Per abitudine e convinzione, per necessità professionale, cerco di tenere i libri dominati, anche se tentano di sfuggire al controllo, nascondendosi e rendendosi introvabili. Dedico tempo alla suddivisione, inventando disposizioni nuove e catalogazioni fittizie, fuori dai canonici ranghi. Mi illudo così di costruire un ordine diverso dell'universo da cui libri e carte provengono. Non credo vi sia una regola che organizzi una biblioteca, giacché il suo ordine è determinato dal caso. Una raccolta di libri non è che l'incidentale controtipo del caos. Il disordine del mondo.

L'inquietudine degli "oggetti di carta" stratificati in ordini ideali crea l'impressione di una biblioteca, di un luogo ove l'affollarsi del tempo ha stracquato i segnali della follia e gli incroci della memoria. La biblioteca come accumulo della sperimentazione umana è il segnale perentorio della più incredibile e inutile invenzione dell'uomo: la memoria di se stesso.

Sono il testimone dei padroni della mia biblioteca i quali in diverse forme hanno consentito, aiutati dalla sorte, a convogliare i loro libri verso di me. Giorno dopo giorno mi accorgo però del turbamento dei libri.

Mi illudo vi sia ancora tempo, ma verrà il momento in cui anch'io dovrò trasformarmi nel padrone occulto o palese della biblioteca di qualcun altro. Ignoto a me stesso.

Davanti alla biblioteca cerco di non farmi ancora prendere dallo sgomento. Talvolta sono assalito da ondate di angoscia. Ho la responsabilità di dare un destino ai libri di David Katz, dello zio ostinato e della mia amica Lucia. E poi anche di quelli che ho accumulato io. Mi piacerebbe sapere se il futuro padrone dei miei libri è già nato e se, senza conoscere il suo destino cartaceo, si stia preparando. Ci riconosceremo nel silenzio di un libro. Il medesimo silenzio che avevo scelto da ragazzo per timore della mia voce mutata.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 67

Storie di certi rari



Il 2.2.22, compiendo quarant'anni, James Joyce si fece il regalo di compleanno. Presso la libreria "Shakespeare and Company", al 12 di rue de l'Odéon, a Parigi, condotta da Sylvia Beach, una intraprendente americana emigrata in Francia, uscì Ulysses, il più drammatico, farsesco, parodistico, sentimentale, pedante, commovente, polifonico e caotico libro del Novecento. Opera come fotografia della immensa futilità e anarchia della contemporaneità. Ulysses è storia di un solo giorno: il 16 giugno 1904. Non una giornata particolare. Implosione dell'universo raccontata in tutte le lingue del mondo. Il 16 giugno giorno in cui, nella sua "vita reale", Joyce incontra Nora Bernacle e con lei decide di fuggire. Scappano da Dublino e approdano a Trieste, città di "eterni ritorni". James insegna alla Berlitz School, completa i racconti dei Dubliners – all'inizio respinto da un editore per timore della censura – incontra e diventa amicissimo di Italo Svevo la cui moglie sarà il modello di Anna Livia Plurabelle nel Finnegan's Wake. Ma più tardi.

A Trieste James ci si trova. Nasce suo figlio Giorgio. Passa furiosamente da una bettola all'altra. Ubriacone. A notte, davanti a casa, sbraita in dialetto con voce impastata «No go la ciave del porton». Il giorno dopo tiene conferenze di letteratura all'Università Popolare. Nora protesta. Non sa ancora di essere Molly, la Penelope nel letto, da cui evapora il lungo soliloquio che chiude l' Ulysses, il capitolo senza punti e senza virgole scandalo dei saputi, che ne deprecheranno i virtuosismi formali. Molly nel tepore del dormiveglia. Sospetta il marito d'essere andato al casino. Fischio di treno lontano. Gente e ombre, il bel giovane ufficiale che non ha mai avuto, l'invidiata bellezza della figlia... fino allo scivolamento nel gorgo. Pensa alla richiesta che le ha fatto il marito. Di portargli la colazione a letto il mattino dopo.

Ulysses era stato pensato come un racconto dei Dubliners. Abortì. Inconcluso. Materia non ancora risvegliata. Intanto Joyce era diventato amico di Ezra Pound, il mitico "miglior fabbro" delle lettere del tempo. Glielo aveva presentato Yeats. Nel 1914, in marzo, a Trieste, Joyce mise mano all' Ulysses. Lo terminerà sette anni dopo, nell'ottobre 1921. Il capolavoro andò facendosi mentre il mondo era travolto dalla bufera del primo grande conflitto del XX secolo. Joyce andò alla deriva. Non più persona. Personaggio dell'opera che stava compiendo. A un tempo Bloom e il suo speculare Stephen Dedalus. Scriveva ed era pensato. Joyce scritto da un altro se stesso. L'opera si articola in diciotto capitoli, ognuno dei quali ha delle caratteristiche peculiari nello stile, occupa una particolare ora della giornata ed è un parallelo con l' Odissea, come i personaggi, che restano comunque delle parodie dell'epica omerica. Ad ogni capitolo sono associati un colore, un'arte, una scienza, una parte del corpo. La visione circolare dell'essere. Joyce scriveva liberando il flusso di coscienza: lasciava la mente erratica "vedere" i pensieri nel loro fluire. La trama dell' Ulysses è di una banalità disarmante: la giornata e i rimuginamenti di un agente pubblicitario irlandese, Leopold Bloom, ciarliero, bonario, godereccio e insulsamente complessato, nei suoi giri senza storia per Dublino, della quale Joyce riesce a dare una precisa descrizione toponomastica e topografica, soffermandosi soprattutto sullo squallore e sulla monotonia. «Voglio dare un'immagine di Dublino così completa che se la città dovesse un giorno scomparire improvvisamente dalla faccia della terra sarà possibile ricostruirla dal mio libro».

Prima d'arrivare al suo compimento, a partire dal 1918, suscitando scandalo per l'erotismo esibito, parti dell' Ulysses erano già apparse a New York, sulle pagine di "The Little Review". Virginia Woolf lo giudicò «una memorabile catastrofe, immensa nel suo disegno, terribile nella sua realizzazione». La prima edizione dell'opera, in mille copie, pubblicata sotto l'ala di Sylvia Beach, sulle cui bozze Joyce si accecò, uscì con centinaia di refusi. Buona parte aggiunti dalle dattilografe che avevano ricopiato il manoscritto. Aumentarono la dose i compositori, contribuendo a trasformare le invenzioni linguistiche di Joyce in uno stupendo, casuale e collettivo calembour. Il fenomeno si amplificò nelle edizioni "pirata" che si succedettero in America. Si era diffusa la pruriginosa curiosità per le pagine contenute nell'opera e ogni voyeur voleva "vedere". Malcapitati loro. A ogni ristampa Ulysses cambiava ancora: erano le avventizie interpretazioni di anonimi redattori. Per quanti, in Francia, non riuscivano a leggere la chiacchierata opera, arrampicandosi sulla stupenda muraglia costruita da Joyce in un inglese declinato su decine di lingue e gerghi, si mise mano alla versione in francese che uscì nel 1930, otto anni dopo l' exploit. Neppure molti, date le vertiginose difficoltà affrontate dal traduttore, il temerario Auguste Morel assistito da Stuart Gilbert con la supervisione di Valéry Larbaud e dello stesso Joyce. La versione francese uscì sotto l'insegna editoriale dell'amicale "controaltare" di Sylvia Beach, Adrienne Monnier, proprietaria della "Maison des amis des livres", al 7 di rue de l'Odéon, vis-à-vis "Shakespeare and Company". Tutto si svolse in una strada parigina del quartiere di Saint-Germain-des-Prés. La definitiva standard edition, «appositamente riveduta», apparve nel 1932 presso The Odyssey Press. Non avrebbe potuto essere altrimenti. La traduzione italiana è del 1960. Al di là di conclamati restauri filologici, visto l'anchilosato cammino del superbo testo, resta un insano dubbio. Se ciò che oggi possiamo leggere, nel moltiplicarsi delle edizioni, sia proprio quello che Joyce avrebbe voluto.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 73

Il 23 giugno 1932, per conto dell'editore Mondadori, la tipografia terminò la stampa di Colloqui con Mussolini, di Emil Ludwig.

Già dagli anni venti Ludwig aveva conseguito fama internazionale per le sue biografie in cui declinava realtà storica con introspezione psicologica. Era nato nel 1881, a Breslau. Emil Cohn il suo vero nome. Iniziata la carriera come giornalista, aveva scritto testi teatrali e racconti, ma il suo talento eccelse nelle biografie: Goethe, Napoleone, Bismarck, Lincoln... Anche una Vita di Gesù. Visse a Vienna e a Istanbul. Nel 1932 si stabilì in Svizzera. Proprio in quell'anno era arrivato in Italia proveniente da Mosca dove, incontrato Stalin, su di lui aveva scritto un libro. Interessato ormai a personaggi viventi, ai demiurghi europei, voleva incontrare Mussolini, attratto dall'ombrosa personalità del dittatore che amava e temeva ad un tempo ogni forma di pubblicità sulla sua persona. Di Mussolini sapeva che aveva fatto ritirare dalle librerie la biografia Dux, a lui dedicata nel 1926 da Margherita Sarfatti, dichiarando: «Detesto coloro che mi prendono a soggetto dei loro scritti. Bene o male che essi mi trattino, non importa. Li detesto egualmente. L'uomo pubblico nasce pubblico. È un connotato morale. L'uomo pubblico è come il poeta: nasce con quella maledizione. Io sono perfettamente rassegnato alla mia sorte di uomo pubblico. Quando si è di tutti, non si è di nessuno. Tanto meno del supposto biografo. Può darsi che l'avvenire alteri le mie imprese, le riduca o le aumenti. Ma di ciò si occuperà il mio biografo di domani».

L'editore Mondadori chiese per Emil Ludwig un incontro con Mussolini. Sollecitava l'autorizzazione per una biografia vera e propria. E l'opportunità di alcuni colloqui per concretare il materiale per l'eventuale libro. Mussolini fu irremovibile. Fece dire: «La mia vita non dovrà essere scritta che post mortem». Poi, consigliato forse da qualcuno del suo entourage, considerata la notorietà internazionale dell'autore che avrebbe scritto il volume, cambiò idea. Accettò di incontrare Ludwig per alcuni colloqui che si svolsero a Palazzo Venezia. Ludwig raccontò in seguito che Mussolini era perfettamente al corrente di incontrare un uomo che non sarebbe mai stato fascista. «Entrai dunque nel vasto salone da avversario». Il biografo voleva stanare Mussolini «che non si rese conto del mio scopo recondito». Ludwig propose una serie di domande alle quali il duce in parte rispose, altre eluse. «Perché imbavaglia la stampa? Perché riempie le prigioni di avversari politici? Perché ispira più timore che amore?». Tendeva piuttosto ad aumentare il suo prestigio con l'esposizione delle proprie doti di pensatore e di «dialettico improvvisatore». A Ludwig, a tratti, apparve più intelligente dei suoi seguaci. Mussolini dichiarò di non poter essere amico di nessuno, svelò l'arte di ingannare le masse del cui consenso aveva bisogno, parlò degli stratagemmi di minacciare senza colpire, di guadagnare la fiducia del mondo con furbizia e malizia, giocandolo. «Il bello era – disse Ludwig – che non s'accorgeva di essere lui giocato». Durante le conversazioni Mussolini si era difeso contro se stesso, giustificò il proprio trasformismo come necessario. Il biografo solleticava maliziosamente l'orgoglio e il vacuo narcisismo del potente.

Chiuso il ciclo dei colloqui Ludwig si ritirò a Moscia, presso Ascona, e lavorò per un mese intero alla stesura del volume. Scrisse in tedesco. E questa stesura fu subito sottoposta a Mussolini, che si limitò ad alcune insignificanti modifiche. Forse aveva letto velocemente, magari non comprendendo perfettamente le insidie nascoste nel testo in tedesco, che pretendeva conoscere perfettamente. Tradotto in italiano da Tomaso Gnoli, le bozze furono recapitate a Palazzo Venezia. Due giorni dopo Mondadori fu convocato da Mussolini. «Com'era sua consuetudine – raccontò l'editore – non alzò la testa che quando mi trovai a qualche passo da lui. Solo allora mi squadrò da capo a piedi e agitando le bozze del volume di Ludwig che teneva fra due dita, esplose: "Il vostro Ludwig è un somaro. Ha travisato le mie parole perché non mi sono mai sognato di affermare che ogni forma di misticismo mi fosse estranea... Io non sono avvezzo a dire sciocchezze: o non mi ha capito o mi ha inteso male"». Chiese quante copie sarebbero state stampate. Ne erano previste ventimila. Mondadori era autorizzato a mettere in vendita l'edizione. Non una copia di più. Non vi sarebbero state ristampe. Mussolini consegnò le bozze emendate di suo pugno: le parti sottolineate in rosso dovevano essere cancellate; le correzioni in blu assolutamente apportate. Continuava a fare il maestro di scuola. Come d'altra parte non rinunciò mai alla sua vocazione giornalistica. Controllava il paese come un redattore capo. Durante la seconda guerra mondiale un giornalista, Alfredo Miotti, coniò una battuta diventata celebre: «Mussolini non fa la guerra, la impagina».

Consegnate le bozze "corrette", inviò un telegramma al prefetto di Milano: «Avverta anzi diffidi formalmente l'editore Mondadori a non ristampare, esaurita la prima edizione, una sola copia del libro di Ludwig senza che io l'abbia ritradotto in comprensibile lingua italiana, poiché quella del testo attuale sarà tedesca, croata, greca, giudaica, ostrogota ma non italiana. Siamo intesi e mi informi. Mussolini».

Il volume, scritto in ostrogoto-giudaico, appena uscito andò a ruba. Le richieste furono così numerose che il prezzo salì: da venticinque lire, prezzo di copertina, a mille. Divenne quasi una rarità bibliografica.

Gli eventi impedirono a Mussolini di ritrascrivere il libro come avrebbe voluto lui. Nel dopoguerra venne più volte ristampato, nella versione originale di Ludwig, senza le mende censorie del duce.

Nell'archivio della casa editrice erano rimaste le bozze originali, con le correzioni autografe. Nel febbraio 1950 furono pubblicate sotto il titolo: Colloqui con Mussolini. Riproduzione delle bozze della prima edizione con le correzioni autografe del duce.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 99

Amphiorama



Il 28 marzo 1869, giorno dedicato a san Sisto III papa, nella temperie astrologica dello schema zodiacale con l'Ariete in ascesa, secondo le cronache più accreditate, al mondo non successe nulla. Nell'ineffabile procedere della naturale ruota, immaginabili i consueti nati e i soliti morti della specie homo sapiens. E d'altre affini moltitudini mortali. Un seme di astrantia major si sarà certamente aperto con silenzioso fragore al bordo di una radura mentre, in altre contrade, avvenivano concepimenti per via naturale o estrinseca. Prosciugata una fonte, da una polla misteriosa ne sarà passabilmente sgorgata un'altra. Per il resto, sulla terra, il solito avanzare e ritirarsi dei deserti, il montare e il decrescere delle maree. Un naufragio catastrofico, di cui non si saprà mai nulla, avvenuto in acque inesplorate. Era insomma il normal battito dell'incessante universo, sistole e diastole, che respira, in una accezione temporale immisurabile, tra l'originario big bang e un futuro imprevedibile, ma certo, nell'imperturbabile distrazione della celeste desolazione. Nel futuro non immaginato, il sole del nostro sistema planetario avrà esito in un collasso: slargandosi per autoilluminazione d'immenso passerà allo stato di supernova trovando la sua sorte siderale in un buco nero. E lì finiranno tutti i giorni della storia. Compreso il 28 marzo 1869, insensato quanto inutile riferimento, le cui ore passarono sopra la contemplazione di una sovrana e unica visione del mondo da parte di tal François W.C. Trafford, uno scienziato di cui non si sa nulla, salvo quanto gli successe quel giorno e che egli si preoccupò di documentare con un'esile memoria scritta. Si suppone che Trafford fosse uno svizzero di Zurigo, poiché l'opera sua risulta stampata nella capitale del cioccolato e dei cucù.

L'eccellente e precisissimo professor Giovanni Capellini, celeberrimo geologo, paleontologo e archeologo, si occupò di Trafford nel 1919, "recensendolo" nelle "Memorie della Società Lunigianese", gli autorevoli e noti atti del rispettabilissimo istituto spezzino, votato al culto e all'inventariazione delle rilevanti menzioni patrie. Capellini, da invitto studioso, rigorosamente positivista qual era, calatosi su Trafford, lo trattò comunque alla stregua di una curiosità laterale, una scheggia bizzarra al cospetto del severo mondo degli studi accademici. Gli badò con blanda e bonaria ironia, quel tanto naturalmente consentita in un severo volume di Atti, altamente eruditi, e si limitò, il Capellini, così dal testo suo si evince, a comunicare come tal signore di nome F.W.C. Trafford, nel 1874, in Zurigo, presso la libreria Orell Füssli, avesse dato alle stampe un originale quanto inaspettato studio, aulicamente intitolato Amphiorama ou la Vue du Monde des Montagnes de la Spezia. Phénomène inconnu, pour la première fois observé et decrit, avec une Carte du Continent polaire. Un volumetto in-8° di 36 pagine.

Riporto quanto enunciò l'esimio studioso: «L'interessante curiosa narrazione stampata cinque anni dopo la strana visione è corredata da una bella carta del Continente polare artico, come l'autore rivela di averlo contemplato dal monte della Castellana il 28 marzo 1869. Trascorso quasi mezzo secolo, senza che mi sia occorso di trovare quella Memoria ricordata anche semplicemente come curiosità bibliografica, ho pensato di farne cenno alla Società Lunigianense, con la speranza che, a qualche collega, possa servire di incitamento a visitare il monte Castellana ove gli uomini dell'età della pietra fabbricarono frecce di selce».

Il fatidico 28 marzo Trafford era asceso fino al culmine dei 496 metri sulla sommità della Castellana, una delle ultime propaggini montagnose che, verso Portovenere, chiudono la baia della Spezia.

Per ordine di Napoleone I imperatore, tra il 1809 e il 1811, a fini strategici, il capitano Pierre Antoine Clerc, anche quale primo esperimento dei nuovi metodi topografici, aveva compiuto il rilievo di una parte di quel golfo. Il monte della Castellana divenne meta di scienziati. Il culmine dell'altura è intersecato da un meridiano che passa proprio in quel punto. Un tal luogo geodetico, nella sua aerea vertigine, doveva dare agli scienziati l'illusione di percorrere il meridiano medesimo camminandovi sopra come avventizi funamboli.

Nessuno poteva però immaginare cosa sarebbe successo a Trafford: quel tal "incidente" della percezione che gli avrebbe permesso di disegnare una Carta polare artica vista dal montarozzo che spettacola sul golfo della Spezia.

Nella sua relazione, in incipit, Trafford, per spiegare il fenomeno di cui era stato protagonista, ricorda che lo sguardo può facilmente ingannare la curvatura della terra. Sostiene infatti che, in particolari condizioni atmosferiche, da Alessandria d'Egitto il giorno prima del loro arrivo si vedono le navi provenienti da Malta. E sostiene – vista la posizione geografica da cui discettava – che delle due riviere di Genova, dalla Spezia a Ventimiglia, in giorni particolarissimi per limpidità atmosferica, dai 496 metri della Castellana, si possano sorprendere anche gli abitanti, intenti nelle quotidiane attività. Ciò imponeva tuttavia si verificasse un fenomeno che Trafford chiamò Telorama.

Ma quel 28 marzo 1869 risultò eccezionale. A similitudine di un immaginario quanto possibile monte Tabor, Trafford, da quell'altura, vide il mondo, scrutò l'universo, vide gli sterminati deserti, mandrie in fuga, vide i poli. E dietro ai poli altri continenti e sui continenti le città; poi le città sulla coste e dentro ai porti vide le navi e altre navi che solcavano gli oceani e poi ancora foreste, savane, catene montuose... In un istante vide il bacino del Mediterraneo, la Corsica, la Sardegna e la Spagna. Della Groenlandia, che Trafford vide dai 496 metri della Castellana sovrastante il golfo della Spezia, descrisse la natura delle rocce e le distese ghiacciate. In Siberia non rivelò tracce di neve. L'occhio suo vagò poi sull'Australia, la Nuova Zelanda, Panama e Capo Horn, la Cordigliera delle Ande, il Rio della Plata e quello delle Amazzoni.

«Emerveillé, accablé de ravissement, je ne restai plus long temps à contempler. Je ramenai mes jeux que mon âme extasiée ne pouvait suivre: ils avaient vu le tour du monde, tout l'équateur et les deux cercles polaires.»

Un Trafford prostrato da tanta meraviglia, la mente come un geyser, schiantato dalla visione, per definire la contemplazione di tutta «la Sphère en méme temps», coniò una parola: Amphiorama.

«Se la mia visione – Amphiorama, il vedere da ogni parte intorno – sarà considerata una allucinazione durata ben cinque ore, e fu la sola della mia vita, per la sua curiosità potrebbe essere inserita negli Annali di Medicina. Per contro se sarà confermata l'esattezza del mio rapporto saranno gli scienziati a dover stabilire un Osservatorio Metodologico alla Spezia.»

Gli sembrò fors'anche d'essere l'emulo scientifico di un Jean Paul in mongolfiera nel Des Luftschiffers Giannozzo Seebuch: «La vasta terra fuggiva via tremilacinquecento piedi sotto di me – io credevo di star fermo in aria – e mi veniva incontro il suo grande piatto sul quale erano ammassate montagne, boscaglie, conventi, battelli mercantili, torri, rovine false e rovine vere... Su quella distesa che da ogni lato sconfinava nell'infinito, tutti i vari teatri della vita erano contemporaneamente in attività e a sipario alzato...».


Epoca strepitosa di panorami fittizi. Una gran moda divaricante il modo di guardare il mondo. E non soltanto nelle fiere dove dentro a baracconi circensi apparivano le mirabilie dei diorama che attiravano creduloni pronti a contemplare illusioni come realtà palpabili. Certe guide, al di là di testi maniacali per descrizione, si producevano in spericolate visioni anamorfiche di luoghi impraticabili, facendo volare la mente dello stupito lettore davanti a una tavola d'invenzione che mostrava porzioni di mondo che non esistevano, rese reali da visioni circolari immaginarie. Era la fantascienza del paesaggio terrestre. Culminata nella visionarietà incontenibile di Trafford. Emblema di questa vocazione a inventare un mondo parallelo con un libro la sorprendente Guide des voyageurs sur le Mont-Righi depuis sa base jusqu'à la sommité la plus élevée dite le Kulm; pour servir d'explication au Panorama ou Vue Circulaire dessinée par le colonel Louis Pfyffer de Wyher, Lucerne, chez Xavier Meyer, imprimeur-libraire, 1823.

Il giorno della contemplazione del mondo intero da parte di Trafford, dal culmine della Castellana, doveva essere limpidissimo: una di quelle mattinate ghiacciate e incandescenti – rara congiunzione atmosferica – ripulita da uno di quegli squassanti, epici e meravigliosi fortunali notturni che, a primavera, investono il golfo della Spezia. Dopo il temporale l'aria è sgombra da ogni minimo disturbo, con un cielo lenticolarmente azzurrissimo trasformato in un enorme specchio parabolico che consente allo sguardo, ma anche al corpo e alla mente, una percezione estraniante: sentirsi inscritti in una sfera universale. E i fremiti provati con i sensi alti, capaci di raddoppiare vista e percezione. Insomma uno di quei momenti magici e sommi in cui – come ha inteso spiegare Paul Valéry – ogni poro del corpo muta in un occhio.

Grazie alla singolarità dello stato atmosferico, grazie al luogo fulminato di bellezza, con ai piedi il golfo brillante e le isole slanciate verso l'infinito del mare, e grazie allo stato psicologico trafitto da tanta calma e fremente pulsione, dalla Castellana Trafford vedendo tutto il mondo percepì il respiro della terra.

[...]

In quell'ineffabile 28 marzo 1869 Trafford aveva scrutato un Aleph a grandezza naturale, scoprendolo un secolo prima che Jorge Luis Borges lo descrivesse in uno dei suoi più strepitosi racconti, dopo averlo rinvenuto, come sfera luminescente di pochi centimetri di diametro, in una implosione dello sguardo, fra il terzo e il quarto gradino della scala di una cantina in una casa del quartiere Palermo, a Buenos Aires. L'Aleph, il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli. L'Aleph, la prima lettera dell'alfabeto sacro; e come Borges informa, per la Cabala, anche l'En Soph, la pura e illimitata divinità; ma anche una figura umana che indichi il cielo e la terra.

«Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. Dapprima credetti ruotasse; poi compresi che quel movimento era un'illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva... Vidi il popoloso mare, vidi l'alba e la sera, vidi le moltitudini d'America, vidi un'argentea ragnatela al centro d'una piramide... vidi infiniti occhi che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta e nessuno mi rifletté... vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell'amore e la modificazione della morte, vidi l'Aleph, da tutti i punti, e nell'Aleph la terra... vidi il mio volto e provai vertigine e piansi perché i miei occhi avevano visto l'oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l'inconcepibile universo».


Il 26 novembre 1999, altro giorno poco interessante per la storia. A Londra. La timorosa memoria, che a stento abbraccia il ricordo, mi riporta alla gran sala di lettura della British Library. Un gentilissimo bibliotecario, di cui non ricordo il nome e che per comodità chiamerò Mr. Book, dopo avermi fatto cortesemente contemplare — ho ancora sentore della lussuriosa emozione – alcuni manoscritti italiani di Byron, cui era accorpata una dolorosa busta contenente le ceneri di Shelley raccolte dopo la sua cremazione sulla spiaggia di Viareggio, e che mi suggerirono inquietanti analogie, si offrì di accompagnarmi in una visita alla biblioteca. Mr. Book parlava uno splendido italiano con una leggera cadenza toscana. Dopo scalinate soffuse senza esito e silenziosi ascensori, sbucammo infine, privilegio riservato a pochi — come sottolineò Mr. Book — a una altana sospesa sopra la gran sala di lettura della biblioteca. Vi si accedeva da una piccola porta mimetizzata, quasi impossibile a individuare. L'altana, un balcone aereo sul paesaggio, un palco a teatro, stava agganciata come un nido di rondine alla grondaia sotto l'ampio lucernario da cui filtrava, nella luminescenza opalina, una nevicata di chiarore impalpabile che si adagiava nell'ampia cavea sottostante dove regnava un silenzio sovrano. Assordante nel suo assoluto. Era una immobilità disturbata dall'usuale e avventizia onda delle pagine voltate in dissonanza, che emettevano una musica stanca e atonale. In tutto questo non vi era nulla di memorabile. La silenziosa voce dei libri risvegliati evaporò d'un tratto nel bisbiglio del mondo. Percepii allora in me un confuso malessere che volli attribuire all'altezza dell'altana. Fui preso da una strana rigidità come di chi stia cadendo per effetto della vertigine. Chiusi gli occhi. Li riaprii e, nel mio goffo principio d'illusoria estraniante estasi, ebbi una visione paragonabile a quella di Trafford. Non più la gran sala di lettura della British Library, ma vidi nettamente... vidi la luce che si effondeva, inondando... vidi il mondo, scrutai l'universo, vidi gli sterminati deserti, mandrie in fuga, vidi i poli. E dietro ai poli altri continenti e sui continenti le città; poi le città sulle coste e, dentro ai porti, vidi le navi e altre navi che solcavano gli oceani, poi ancora foreste, savane, catene montuose... e per un attimo percepii l'inconcepibile segreto, il cui nome usurpano gli uomini.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 130

Non sono un collezionista né uno specialista di incunaboli, né di Cinquecentine. Mi accontento di alcune venerande tracce. Impossibile d'altra parte pretendere di più dalla sorte senza privarmi di sognare l'impossibile sogno che ogni amatore di libri sogna, almeno una volta. E destandosi dal sogno sente d'aver perduto una cosa infinita. Posseduta per un attimo dormendo. Impossibile riaverla perché la macchina del mondo è troppo complessa per la semplicità degli uomini. Anche per il sagace candore di un bibliofilo.

Un'opera che è impossibile aggiungere alla propria biblioteca, a meno di disporre di un'enorme somma – e non è la sola condizione – è un mitico volume celebrato con una sigla: B42, stampato a Magonza attorno al 1450. È la Bibbia di Gutenberg o delle 42 linee, dal numero di righe di ogni pagina. Considerato il primo libro stampato fu realizzato dalla collaborazione tra Johann Gänsfleisch zur Laden zum Gutenberg, il finanziere Johann Fust e dal calligrafo Peter Schöffer. In nessun foglio reca l'indicazione del tipografo o della data di stampa.

Della B42 furono "edite" 154 copie, alcuni sostengono 180. Se ne conoscono 49. Fu impressa con i 299 caratteri mobili fusi da Gutenberg nell'officina di Magonza. Riproduce la versione latina della Bibbia stabilita da san Gerolamo nel IV secolo, accettata e diffusa in tutto il mondo con il nome di Vulgata. La storia di quest'opera è una vicenda da specialisti e al bibliofilo sognatore che spererebbe di trovarne una copia in qualche anfratto del mondo ancora inesplorato, resta la contemplazione di una lusinga idealizzata. E nell'impossibilità di possedere la B42 nella sacrale interità qualcuno si accontenta di una "reliquia". Nel 1921, il libraio G. Wells di New York, smembrato un esemplare incompleto, ne rilegò in marocchino blu ogni singolo foglio vendendolo come A Noble Fragment. Analoga efferatezza da feticisti fu compiuta nel 1954 dal libraio Scribner. Nel 1990 la Jonathan Hill di New York vendette un foglio a 17500 dollari. A un'asta del 1978 un esemplare difettoso dalla B42 è arrivato a 2 milioni di dollari. L'ultima copia completa apparsa sul mercato è stata acquistata nel 1987 da un pool di librai giapponesi per 5390000 dollari.


Riaffiorato dall'immersione sull'imprendibile e incomparabile B42, per un amatore di libri in contemplazione della propria biblioteca la realtà è ben amara. Può tuttavia consolarsi con librarie stranezze che, di mano in mano, di biblioteca in biblioteca, hanno avuto la costanza di sopravvivere a se stesse. Mi diletta, scoperta con un libro, l'assoluta quanto improbabile visione del luogo da cui si origina, così si dice, la nostra ragione d'essere. Un territorio la cui fisionomia è vagheggiata nel Trattato della situazione del Paradiso terrestre, di Pietro Daniello Uezio, nato a Caen nel 1630.

Uezio, soi-disant, conosceva ogni angolo di mondo, si intendeva in tutte le lingue note e disquisiva in quelle meno note, congetturava d'ogni genere letterario. Ed era riconosciuto come poeta, matematico, fisico, geografo. Tale la sua fama che, nel 1670, venne chiamato alla corte di Luigi XIV e nominato sottoprefetto del Delfino. Era prete ma ricusò sempre l'abito talare. In tre giorni aveva ricevuto gli ordini. Quando fu nominato vescovo di Soifibus, non prese possesso di quella cattedra.

Si distraeva dal mondo del quotidiano, fosse civile o religioso, dedicando tutto se stesso, e con ansia inimmaginabile, a trovare la giusta collocazione del paradiso terrestre di cui, come Atlantide inabissata, Uezio sosteneva esistesse in qualche angolo dell'universo inesplorato. A ondate successive lo individuò nel Terzo Cielo, nel Quarto e in quello della luna, nella mediana regione dell'aria, fuori, sopra e sotto la terra. Lo indicò sotto il Polo Artico, nel paese dei Tartari, nella conca in seguito allagatasi e occupata dal mar Caspio. Fin nella Terra del Fuoco e poi sulle sponde del Gange, facendo derivare il nome India da Eden. Poi mutò ancora luogo, pensando alla Cina, e all'impensabile foresta amazzonica; lo collocò sotto il filo dell'Equatore, sui monti della Luna dove scaturisce il Nilo, in Armenia, in Siria, in Palestina... Fissò infine il suo paradiso terrestre in Asia Minore, tra Iraq e Arabia felix. Sostenne poi che il fiume paradisiaco era il Nilo, non immaginandolo, benedetto dall'universale bontà, mutato nei tempi nostri in fogna a cielo aperto.

Uezio inventò un Baedeker dell'immaginario implodendolo nel suo Trattato il quale, per effervescenza, porta ogni ordinata mente fuori sesto. Impinguò le sue abbaglianti pagine coi nomi di tutte le possibili geografie, inconsciamente teorizzando un sublime metodo: l'eccesso della citazione, che avvolge con le spire di un trip disequilibrante. Nessuno, al tempo suo, osò contraddirlo. Giganteggiando con la sua cultura ogni sapiente era portato a onorarlo come un fenomeno eccezionale, come dono ineffabile. Tutti gli credettero perché nessuno potesse credere. Le sue teorie poggiavano sui saperi antichi e sui saperi che sarebbero venuti dopo di lui. I riferimenti aggrovigliati, simili a un cruciverba senza schema, trattati in greco e in ebraico, provenivano direttamente dalle Scritture. Qualche contemporaneo scambiò l'opera di Uezio per una macchina del tempo. Alla fine, come ogni eccelso, trovando anch'egli la propria catarsi, sentenziò: «La questione del sito del Paradiso Terrestre non ispetta in modo alcuno alla Fede. Intorno ad esso sito sta il vero e il falso senza verun pericolo d'Eresia». Morì a Parigi, nella casa del Gesuiti dove si era rifugiato, accolto con l'onore dovuto a un grande. Le sue ultime parole furono: «Vedo i prati degli asfodeli».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 135

Nell'immaginario di Montaigne la biblioteca è totalità. Non un luogo fisico, una stanza privilegiata ove, su cinque ripiani sovrapposti, adagia i volumi in orizzontale. Allora il libro non aveva ancora trovato la sua "moderna" giacitura: la comodità nella scomodità della sua postura in costa.

Sulle travi di sostegno del tetto Montaigne fece incidere moniti. Quegli individuali comandamenti che, sorpresi in un libro, mutano in folgorazioni per chi legge. Effemeridi dell'esistenza. Ogni uomo può trovare il personale Sinai sulle pagine di un libro. Ciascuno diventa ciò che legge. Le tavole sapienziali Montaigne le trascrisse sul soffitto della biblioteca. Sentenze come architravi dello spirito. Le travi come taccuino. A Montaigne era sufficiente alzare lo sguardo per avvolgersi in una ragnatela di saggezza, che immaginava dovesse guidare la propria esistenza. «Tutto ciò che è sotto il sole ha eguale fortuna e legge», proclama l' Ecclesiaste, il libro che dalla notte dei tempi minaccia e consola. Vita e morte si alternano con ritmo pervicace e monotono, mentre la terra, nella sua indifferenza, mostra sempre il suo costante aspetto, nel continuo succedersi delle vicende umane e dei fenomeni della natura. La siderale magnificenza letteraria dell' Ecclesiaste è di autore ignoto. Un ignoto progenitore dell'umanità di nome Qohèlet. Qohèlet? Chi era costui? Il libro svela senza svelare: «Parole di Qohèlet, figlio di David, re di Gerusalemme».

La voce di Qohèlet vagava nella biblioteca di Montaigne. Le forti travi recano più d'una citazione dall'enigmatico libro che pone le mille domande sul senso ultimo della gioia e del dolore, della saggezza e della follia, della vita e della morte. Qohèlet dichiara tutto inconsistente come il fumo e non si abbandona alla illusoria speranza di un compenso ultraterreno. «C'è un tempo per nascere e un tempo per morire».

Dall' Ecclesiaste sono tratte il maggior numero delle cinquantasette sentenze che si organizzano sulle travi della biblioteca di Montaigne. Altre provengono dagli autori prediletti del padrone dei loro libri. Frasi gonfie di dubbi, di cautela, di scettica sapienza. Sofocle: «Certo la vita più dolce è di non pensare a niente»; Sesto Empirico: «Non è più questo che quello, e neanche uno dei due»; Lucrezio: «O infelici menti degli uomini! O cuori ciechi! In quali tenebre della vita e in quanti pericoli scorre questo poco tempo che abbiamo!»... E poi ancora Euripide, Platone, Paolo di Tarso, Erodoto, Marziale, Senofonte, Omero, Luciano, Michel de l'Hospital, Plinio, Menandro, Epitteto, Orazio...

Le sentenze proiettavano sulla volta il duplicato della biblioteca mentre i libri dormivano sui cinque ripiani della parete est della torre. Montaigne poteva risvegliarli soltanto alzando lo sguardo. Poteva sfogliarli sulle travi del soffitto senza disturbarne il loro vigile sonno.

Montaigne è esplicito nel suo rapporto con i libri. I suoi avevano autori dai nomi «tanto famosi e antichi che mi sembra si raccomandino abbastanza senza di me». Tra le pagine si procurava un po' di piacere con un onesto passatempo «o se studio, vi cerco solo la scienza che tratti della conoscenza di me stesso che mi insegni a morir bene e a viver bene». A similitudine d'alcuni che, dopo una vita di letture, ormai vecchi, non ambiscono più a supplementi di illuminazione. Si augurano semplicemente trovare tra le pagine di un libro conferma del cammino compiuto.

Montaigne spesso non legge. Sfoglia. Ostenta di ignorare libri e autori. «Se avete scambiato uno Scipione per l'altro, che cosa vi resta da dire che abbia valore?» È immune dall'eroico moralismo inculcato da bravi e ostinati maestri. Non si deve mai lasciare a metà un libro. Senza rossore, se un libro non gli piace lo lascia tranquillamente per un altro. «Se qualcuno mi dice che è un avvilire le Muse il servirmene di gioco e di passatempo, egli non sa, come me, quanto vale il piacere, il gioco e il passatempo... Studiai da giovane per ostentazione, poi un po' per istruirmi; ora, per divertirmi».

L'uomo in biblioteca è libero del suo tempo, dei suoi svaghi e dei suoi studi: «Sfoglio ora un libro ora un altro, senza ordine e senza programma, qua e là; un momento fantastico, un momento annoto...», con la presenza e il senso dell'intimità consentito dalla familiarità con i libri posseduti, percorsi, preferiti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 153

Il pingue Beccaria che si lamentava irridendo le biblioteche dei bibliomani dove c'era tutto in un mescolio mal conosciuto, in realtà non declamava nulla di originale. Faceva soltanto il controcanto ad altrettanti non eccelsi versi di un gesuita mantovano, Saverio Bettinelli, che qualche anno prima aveva ironizzato sulle sfarzose e inutili biblioteche dei presunti intellettuali. Punture da iconoclasta e blandi sarcasmi:

    Quanti libri di quelli eran non tocchi
    O letti solo nelle prime carte.

I due poeti in erba dovevano aver sbirciato nella grande Encyclopédie di Diderot e d'Alembert. L'epoca giusta per mettere alla berlina i supposti amateurs del libro. Lo stesso d'Alembert, in persona, aveva redatto l'infamante voce Bibliomanie, definendo subito la tendenza a possedere e ramazzare libri un impunito vizio. Il furore dei libri. Malattia implacabile. Il bibliomane non cerca libri per leggerli, punta all'ardore di possederli. Non importa la natura di un libro. D'altra parte, insiste d'Alembert, sono tante e tali le persone «mediocri e sciocche» che scrivono e pubblicano, da mutare l'amore per il libro in una delle passioni più ridicole.

Originali quanto sovrani gli esemplari umani che, attraversati i secoli, hanno costruito biblioteche senza senso. Il celebre medico Camille Falconet quando mori nel 1762 lasciò cinquantamila volumi che nessuno volle. «Questa non è una biblioteca – avrebbe potuto dire il presidente Bouhier, bibliofilo riconosciuto – è un magazzino per curiosi».

Qui si crea però una frattura. Al bibliomane interessano libri rari e curiosi. Anche il bibliofilo tende a possedere, quale linea di guida, rarità e curiosità libresche. Il bibliofilo tuttavia si difende sostenendo che per lui il libro deve essere utile. Contraddizione incontrovertibile perché viene da Petrarca – bibliomane impenitente – che in una lettera celeberrima da Valchiusa, nel 1346, scriveva al domenicano Giovanni Anchiseo, confessando il vizio: «E sì che ne possiedo un numero superiore al necessario. Ma succede coi libri come con le altre cose: la fortuna nel cercarli è sprone a una maggiore avidità nel possederne».


Mi appassiona, nelle more del discorso, la rilettura di De la mode, un racconto del 1694 di La Bruyère. Un racconto acido. Il personaggio di La Bruyère, chissà chi sarà stato mai il modello a ispirarlo, è un tipo che possiede una ricca biblioteca. La Bruyère intigna dando della "conceria" alla biblioteca del suo personaggio. Tutti i libri, assolutamente tutti, sono rilegati in pelle nera, con filettature oro. Certo una conceria per via della pelle, ma del resto un autentico apparato funebre. Immaginiamola. Inutile dire che il proprietario del tesoro libresco, pur al corrente delle edizioni rare, non ha mai aperto un libro. Questo non è il culmine. Semmai l'eccesso si tocca aguzzando lo sguardo in questa sontuosa sala le cui pareti risultano fittamente ricoperte di libri. I libri autentici stanno in stretti scaffali mentre in una specie di horror vacui gli altri che appaiono alla vista altro non sono che un rabescante trompe-l'œil di dorsi, dipinti tutti identici: neri, filettati in oro. Una sala di passionacce alla Histoire d'O o alla "Midi-minuit, fantastique".


Bibliomania o bibliofilia, dilemma eterno. Ritrovo un'altra scheggia della per altro inutile querelle in un testo nientemeno che di Leopoldo Cicognara, il ben celebre storico dell'arte, custode di una biblioteca dall'incalcolabile numero di volumi, di cui fu fatto un catalogo in ben sette tomi, il quale se la prendeva con Giuseppe Bossi, dandogli del bibliomaniaco. Questo nel 1807 quando, presso la tipografia Bretoni di Brescia, Cicognara curò la ristampa del Breve compendio della vita e morte di san Lazzaro monaco et insigne pittore, la cui prima edizione è del 1681, e vi antepose un testo, Osservazioni sulla bibliomania, dedicato a Bossi e alla sua irrefrenata passione di portare libri a casa. Disturbo del quale Cicognara non era del tutto immune. Eppure si scagliava contro «quella insaziabilità che è il preciso contrassegno della malattia dello spirito, fomentata pur troppo dalla eccessiva quantità di libri che inondan la terra». Più che una censura all'amico si trattava di una confessione in pubblico e di far perciò ammenda del pernicioso suo collezionismo e di come ogni accumulatore mostri l'insaziabilità, la maniacalità del raccogliere, non importa se siano testi preziosi o importanti mischiati impunemente a «librucci e libracci che formano la collezione più degli errori che delle virtù degli uomini». Cicognara si fa cattivo quando, e forse giustamente – ma forse parlava in autobiografia – sostiene che il bibliomane avrebbe una conoscenza soltanto bibliologica del libro: «le biblioteche, i titoli, i frontespizi, gli stampatori, le date, le controversie, il numero delle pagine, i prezzi, i cataloghi e altre simili miserabili notizie che escludono ogni altro studio». Che sarebbe poi la sola e perversa maniacale erudizione da studio bibliografico come declamano per nobilitare le loro botteghe i mercanti di libri antichi e rari.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 156

Charles Emmanuel Nodier, dichiarando senza nessun infingimento «Après le plaisir de posseder des livres, il n'y a guère de plus doux que celui d'en parler», pubblicò nel 1831 un racconto dolente, Le bibliomane, storia del povero Théodore afflitto dal tifo del libro, ponendovi in incipit come distico alcuni celeberrimi versi di Robert Pons de Verdun:

Ah, je la tiens, que je suis aise!
C'est bien la bonne édition
Car voilà, pages quinze et seize,
Les deux fautes d'impression
Qui ne sont pas dans la mauvaise.

Nodier, il più celebre dei bibliotecari della Bibliothèque de 1'Arsenal, sapeva mettere in evidenza come «l'innocente e deliziosa febbre del bibliofilo è nel bibliomane una malattia spinta fino al delirio. Dal sublime al ridicolo non c'è che un passo. Il bibliofilo diviene spesso bibliomane quando il suo spirito declina o quando la sua fortuna cresce, due gravi inconvenienti ai quali anche gli uomini onesti sono esposti: ma il primo è più comune dell'altro». Cui faceva eco nel 1858 Niccolò Tommaseo che da par suo, sprezzante, aveva definito la bibliofilia «amore più cupido che intelligente, del possedere libri che hanno fama di rari, anziché valore di buoni, e smania dell'acquistarli sbagliando nel prezzo non che nel pregio».

È però la letteratura francese a delineare splendidi e spesso strazianti ritratti di maniaci del libro: Bibliomanie di un giovanissimo Gustave Flaubert, Le crime de Sylvestre Bonnard di Anatole France, per chiudere il secolo con la feroce vicenda de L'heritage Sigismond di Albert Robida, l'anarchico e visionario sfortunato rivale di Jules Verne, che reca quale sottotitolo Lotte omeriche di un autentico bibliofolle.


Il vertice conosciuto del furore bibliofilo fu raggiunto da Antoine-Marie-Henry Boulard, notaio, deputato, letterato e anche discreto traduttore. Al suo tempo, tra Settecento e Ottocento, si era guadagnato una originale celebrità. Comprava i libri a metro, servendosi di un bastone da passeggio graduato appositamente predisposto. In casa sua entravano libri a metro cubo, non importava cosa fossero. Lo conoscevano tutti e ogni giorno riceveva offerte di libri che acquistava regolarmente, misurandoli. La biblioteca di Boulard finì per occupare cinque edifici e si poteva valutare attorno agli ottocentomila volumi. Questo bibliofolle che non conosceva assolutamente la fisionomia e il carattere della sua biblioteca morì nel 1825.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 171

Index librorum prohibitorum



Mai mi prenderei l'incomodo coniugandolo a una perdita di tempo. Non vi dedicherei un minimo di tempo neppure in una di quelle tali giornate estive, calde e insulse, nella cui controra assale la cacagna e quando una benefica e minima distrazione è acqua nel deserto. Per nessuna ragione al mondo controllerei quanti e quali libri, secondo uno scellerato Index librorum prohibitorum conclamato da qualsiasi potere, abbiano rifugio nella mia biblioteca. Fortunatamente non esistono libri proibibili. Semmai opere somme e insulse. Anche se, le stesse insulse, possono avere un minimo di naturale utilità. Sublime il gesto di farle fuori.

I rifugiati, sfuggiti alle persecuzioni d'ogni natura e all'occhiuto controllo di supremi reggitori la cui autorità ne decretava la pericolosità per la pubblica decenza e salute, sembra non interessino più a nessuno. Soltanto uno schizzinoso, con sorpresa postuma, scorrendo le ingrigite pagine con l'elenco di libri dichiarati pericolosi per decreto, può scandalizzarsi di trovare tra moltitudini di ignoti, accecati dal tempo, pericolosi come un Alberto Magno, diviso in tre libri: nel primo si tratta della virtù delle erbe, nel secondo della virtù delle pietre, nel terzo della virtù di alcuni animali. Condannato all'ignominia il 10 aprile 1666. Esclusi dalla lettura anche il De Monarchia di Alighierus Dantes, l' Opera omnia di Pietro Aretino, un' Apocalisse di san Giovanni, impressa a Lugano nel 1781, le Satire di Lodovico Ariosto, Il Decamerone di Giovanni Boccaccio, ovviamente l' Opera omnia di Jordanus Brunus, condannata il 7 agosto 1603... e poi tutto un prosieguo di indegni della lettura a prendere, in su e in giù, da tipi come Erasmus Desiderius Roterdamus... elencati in corpo sei, per 285 pagine, con appendici d'aggiornamento.

Qualche volta con lo spirito di esplorare un catalogo o un elenco del telefono, in uno di quei giorni oppressi da conduerna, preso dal mal nero e vaghezza oscura di me stesso contro me stesso, ho girato le pagine di un Index librorum prohibitorum. Nella mia biblioteca se ne può trovare uno, emanato nel 1787 dal Sanctissimi D.N. Pii Sexti, Pontificis Maximi. Dalla prima edizione del 1559 di codesti eminentissimi almanacchi contro libri non condivisibili, il succedersi delle ristampe nei secoli non ha fatto che aggiornarsi, sommandovi titoli d'opere da non leggere. Nello spirito sono ammonizioni e obblighi tutti uguali, aumentati nel numero di pagine, inequivoco segnale che la perniciosità delle follie compiute a mezzo stampa si moltiplicavano nel tempo fin agli anni cinquanta del Novecento, quando dell' Index librorum prohibitorum progressivamente non si parlò più, facendo finta non fosse mai esistito. Finirono nel non detto quattro secoli di sgridate e proibizioni.


Nell' Index librorum prohibitorum, quello originale del 1559, la cui struttura si perpetuò negli Indici successivi, tre classi pericolose vennero censite per reprimere l'eresia. La prima comprendeva gli autori dei quali si vietava la lettura di tutte le opere. La seconda le opere anonime, una lista di Bibbie bandite e un elenco di tipografie la cui produzione era interamente proibita. La terza metteva in guardia da intere categorie di libri senza luogo e data di stampa o con subdola indicatio e opere di astrologia e magia.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 211

I would prefer not to



È proprio perché allora ero folle che oggi sono saggio. O lettore che vedi solo ciò che è immediato, come è corta la tua vista! Il tuo occhio non è fatto per seguire il lavoro sotterraneo delle passioni. Madame Goethe (da Stendhal, Il Rosso e il Nero)


La mia vita dentro alla biblioteca è un sobrillo di specchi. Proiezioni che si sono fatte più forti e mutevoli con il progredire del tempo. Mi sono reso conto tuttavia che vivere in mezzo ai libri non è sintomo di una malattia perniciosa, né di un turbamento dell'anima. Semmai una metafora dentro a una metafora dovuta alla forsennata passione di leggere, vissuta in parallelo alla successione degli anni, dall'infanzia alla giovinezza e oltre. Da anni ho compreso di far parte anch'io dell'ineffabilità del gran gioco universale, e di non poter frapporre alcuna resistenza al progredire del tempo. L'ostinato volgere dei giorni. Impossibile fermarsi a una certa età.

Non mi è rimasto che fuggire dentro ai libri per vivere altri tempi, altri mondi, altre dimensioni. Una competizione tra me stesso e il mio doppio. Partecipare a una gara estraniante il cui palio è comunque l'incertezza. Col timore, inoltre, che il trip dalla lettura possa portare alla pazzia.

Ho trovato consolazione nel meraviglioso hidalgo don Chisciotte che, nella sua lucidità ombrata di follia, voleva mettere a posto le cose del mondo perché non andavano. Mi è sempre spiaciuto che l'adorato don Chisciotte, cavaliere dalla triste figura, nell'universo suo e anche da parte dei pochissimi che gli volevano bene, fosse considerato un tipo manicomiabile, da compatire appunto, perché possedeva una biblioteca e, peggio, leggeva i libri. Il meraviglioso hidalgo era stato uno che, trabalzando da una pagina all'altra, aveva però finito col dare i numeri. E quel che è peggio si era impallato d'emulare, rivivendone atteggiamenti e situazioni, i personaggi che, incontrati nei libri, l'avevano catturato nelle loro spire. Il leggere avrebbe finito per rovinare anche me. Infatti, pagina dopo pagina, venivano sollecitandosi variabili immaginarie, inducendomi a vagheggiare su chi avrei voluto emulare di quella folla di buoni e perfidi, bellissimi o sciancati, amatori e ladri che ripullulavano nella mente sollecitati dall'insaziabile ingordigia di libri. E in più, indotto a cercare nel "mondo reale" i controtipi e i caratteri di quanti guizzavano nelle pagine che non mi sono mai stancato di girare.

| << |  <  |